La cultura dell’emergenza. E perché è un problema

La discussione sulla proroga dello stato di emergenza in Italia mostra quanto la cultura dell’eccezionalità sia ormai diventata pervasiva e potente, al punto che ci siamo sostanzialmente assuefatti ad essa.

Il presidente del consiglio butta lì, con sconfortante nonchalance, in una chiacchierata con la stampa, che chiederà la proroga dei suoi poteri fino al 31 dicembre – altri 5 mesi! – senza che nemmeno gli passi per la testa che dovrebbe doverosamente informare, prima, il parlamento. E i più si adeguano. I partiti sostenitori del governo, ovviamente, buona parte dei media, ma soprattutto dei cittadini. E si è lasciata la protesta in mano ai partiti di centro-destra e alla Lega (ironicamente, la stessa Lega che giusto un anno fa, senza nemmeno la plausibile motivazione del Covid, chiedeva i pieni poteri per il proprio uomo forte, e leader di tutto il centro-destra), come se la cosa non avesse alcuna rilevanza di metodo e di principio. E invece ce l’ha eccome.

È evidente che lo stato d’emergenza italiano non ha nulla a che fare con i golpe, gli Orban o le dittature sudamericane, e può avere una funzione in caso di recrudescenza della pandemia. È altrettanto evidente, tuttavia, che la sensibilità democratica conta. In Europa alcuni paesi non l’hanno mai introdotto, altri l’hanno introdotto con limiti cogenti, e quasi ovunque è terminato in aprile, in Spagna il premier Sanchez andava ogni 15 giorni a farselo rinnovare davanti al parlamento, giustificandone l’utilità finché è stato necessario. Solo da noi, tra i paesi civili, è ininterrottamente in vigore dall’inizio dell’emergenza e se ne chiede l’estensione fino a fine anno. Oltre tutto, trattandosi di un provvedimento che, volendo, potrebbe essere reintrodotto in un quarto d’ora di consiglio dei ministri, in caso di necessità.

Perché allora, da noi, questa vistosa eccezione? Per molti motivi. Cominciamo da quelli davvero funzionali: per abbreviare la catena di comando e aumentare la rapidità di decisione. Il che la dice lunga sulla fiducia che gli stessi governanti (i governati lo sanno per esperienza) hanno sulla loro capacità di gestire i processi: essendo abituati al fatto che la normalità non funziona, ci affidiamo all’eccezionalità (purtroppo, solo illusoriamente, come si è visto con l’incapacità dei commissari nazionali anche solo di procurarci delle mascherine, non parliamo di una efficace e generalizzata gestione di tracciamenti e tamponi). Le ragioni vere, di comodo, però sono altre: lo stato d’emergenza dà una vastissima vetrina a chi governa, una certa condiscendenza degli opinion leaders, e un consenso generalizzato da parte della pubblica opinione maggiormente impaurita; ecco perché, dichiarato esplicitamente o meno, ne hanno fatto grande uso i governanti sia a livello nazionale che regionale. In più, questo stato di cose silenzia sostanzialmente le opinioni contrarie, e soprattutto mette in ombra, sotto la visibilità delle grandi questioni (come è appunto lo stato di emergenza), i piccoli malfunzionamenti della macchina che l’emergenza dovrebbe gestirla: in Italia, senza riuscirci un granché. Tanto che potremmo dire che la situazione di emergenza sia anche conseguenza dell’incapacità di gestire l’emergenza: che produce la necessità di strumenti speciali come lo stato di emergenza. Stessa logica di chi, in altro ambito, non gestendo l’immigrazione fin dalla regolarità degli arrivi, produce irregolarità e di conseguenza insicurezza, cui risponde chiedendo consenso per leggi speciali e decreti sicurezza.

Infine, chi governa sa bene che la logica del nemico esterno funziona benissimo per convincere la polis ad unirsi sotto la guida dei governanti, contro la minaccia che viene da fuori (dal mondo minaccioso della foresta: i forestieri, i foresti, appunto). Da Tucidide a Carl Schmitt, passando per Machiavelli e Hobbes, questa logica è quella che, da che mondo è mondo, spinge a dichiarare una guerra per silenziare l’opposizione interna e guadagnare consenso tra i sudditi. Il fatto che il nemico esterno, oggi, non sia uno stato, un esercito straniero, una minoranza interna da usare come capro espiatorio, ma un virus, non cambia la sostanza e l’efficacia del meccanismo.

 

Emergenza infinita e democrazia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 14 luglio 2020, editoriale, p. 1

La retorica dell’autonomia

L’autonomia è tutto: la risposta ad ogni quesito, la soluzione per qualsiasi problema. Come certi medicinali miracolosi, rimedi universali, o panacee da mercato popolare. La virtù magica dell’autonomia consiste precisamente in questo: non solo serve per tutto, ma, addirittura, basta la parola – come un incantesimo. Solo che, a essere continuamente tirata in ballo, proprio come per i balsami buoni per ogni malanno, si rischia di scoprire che non servono, in realtà, a nulla, o a molto poco: niente più che un placebo – la cui definizione è quella di terapia o sostanza priva di principi attivi specifici, ma somministrata come se avesse davvero proprietà curative o farmacologiche. Una finzione, insomma: a fin di bene, ma pur sempre una finzione. Il paziente può anche migliorare, nella misura in cui ripone fiducia nel placebo: ma il miglioramento non è effetto del farmaco – solo della fiducia in esso. E sta meglio non grazie a, ma in un certo senso nonostante, esso. Quando il farmaco è somministrato in mala fede si tratta, invece, di una truffa.

Ecco: quando sentiamo rispuntare la parola a ogni piè sospinto, per giustificare la qualunque, l’effetto placebo fa immediatamente capolino; qualche volta accompagnato da un vago sentore di truffa, o almeno di fuffa. Come accade nel dibattito politico in vista delle prossime elezioni regionali.

In nessuna regione italiana si usa e abusa tanto la parola autonomia come in Veneto. Nemmeno in Lombardia, che ha dato i natali ai principali imprenditori politici del verbo autonomista – ci riferiamo alla Lega – se ne parla così tanto, per giustificare qualunque disegno. Come se fosse l’unica – sottolineo: l’unica – arma di cui si dispone: la panacea, appunto. Oggi torna d’attualità con la Lega che chiede a Fratelli d’Italia di firmare una specie di sacro giuramento scritto sul verbo autonomista (e FdI che risponde di crederci, ma di non volerlo giurare, o scambiandolo con un giuramento sul verbo presidenzialista), pena l’andare ad elezioni da separati in casa. Scontro peraltro prontamente rientrato: tutti pronti a firmare qualsiasi patto sull’autonomia, anche prima di leggerne i contenuti, e di fatto a prescindere da essi – tanto in Veneto su questo si è sempre andati d’accordo. Sappiamo quanto c’è di minuetto, di contrattazione pre-elettorale, di gioco, in questi meccanismi, che servono a nutrire la cronaca politica locale, appagare singoli narcisismi individuali, cercare visibilità per il proprio partito sulla stampa e le tv locali, e possibilmente nei cuori dell’elettorato. Tuttavia colpisce l’osservatore quanto tutto il meccanismo sia fondato su roboanti dichiarazioni, rigorosamente prive di contenuto empirico: anche perché, per fare politica in Veneto, l’adesione al verbo autonomista è praticamente obbligatoria, e largamente trasversale, da destra a sinistra, al massimo attraversata dal vaghissimo dubbio di un “sì” critico, qualunque cosa voglia dire l’espressione (anche nessuna).

Ciò che sorprende, nel dibattito, non è che se ne parli: la rivendicazione è legittima. Ma che se ne parli quasi sempre in astratto, vagamente, retoricamente – basta la parola, appunto. Mai o quasi mai che si dica “autonomia per fare cosa”, “gestita da quale leadership preparata allo scopo”, “con quali calcoli già fatti sulle conseguenze nei rispettivi settori”, magari con due tabelline di costi e benefici – vergate con numeri, non con vaghe parole – da accompagnare al dibattito.

Tutto questo mentre alcuni elementi importanti di autonomia o almeno valorizzazione della popolarità dei presidenti di regione si sono manifestate in questi mesi di emergenza sanitaria, di lockdown, e infine di tentativo di uscita dall’emergenza stessa, con margini di contrattazione sempre più allargati a favore delle regioni. Questo accade tuttavia anche nelle regioni che non fanno alcuna retorica dell’autonomia, non hanno celebrato referendum, e nemmeno fanno firmare dichiarazioni d’intenti sul tema alle forze politiche, ma semplicemente gestiscono quella che hanno, e acquisiscono margini maggiori, con almeno altrettanta – se non maggiore – efficienza, come in Emilia-Romagna. Tanto da far dubitare di quale sia il valore aggiunto reale della retorica autonomista di cui il Veneto fa uso a man bassa. Se non come strumento di consenso: ma quello era già noto.

 

Autonomia, l’uso retorico della riforma, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 1 luglio 2020, editoriale, p.1

Elezioni Veneto 2020: luglio o ottobre cosa cambia?

Via il dente, via il dolore. Potremmo metterla anche così, la discussione sulla data delle elezioni in Veneto. Luglio o ottobre, probabilmente cambia poco. Certo, per ottobre i candidati dell’opposizione avrebbero più tempo per farsi conoscere, e far conoscere i loro programmi: e sarebbe democraticamente giusto. Continua a leggere

Covid-19. Quello che abbiamo il diritto di sapere e che la politica non sa dire

Saremmo anche stanchi di conferenze stampa quotidiane, di numeri spesso inservibili (come quelli – presuntissimi – sui contagiati, e persino sui morti, discutibili nelle modalità di rilevazione e totalmente inutili nelle comparazioni interne e internazionali) Continua a leggere

Perché è giusto rinviare le elezioni. E che effetti avrà.

Il rinvio delle elezioni regionali, insieme a quello del referendum sulla riduzione dei parlamentari, ormai è dato per acquisito. Se ne parlerà in autunno: e qualcuno pensa addirittura alla primavera prossima, con una proroga, del tutto eccezionale, di un anno. È giusto così. Anche riuscendo ad uscire dall’emergenza in qualche settimana – e purtroppo è più un auspicio che una previsione – le elezioni si sarebbero svolte in un contesto che avrebbe falsato la loro dinamica. Continua a leggere

Elezioni Veneto: l'opposizione che non c'è

Le elezioni regionali sono alle porte. Tutto tranne che impreviste: lo si sa da cinque anni. Ci si aspetterebbe che un partito, la cui principale attività è per l’appunto partecipare alle elezioni (sarebbe bello che facesse anche altro, ma siamo realisti), si preparasse per tempo. Che poi non sarebbe difficile: uno straccio di programma, un (o una) leader pronto a correre. Continua a leggere

Il termometro, la febbre, la malattia. Sulle elezioni in Emilia-Romagna

“Per chi è crocefisso alla sua razionalità straziante, / macerato dal puritanesimo, non ha più senso / che un’aristocratica, e ahi, impopolare opposizione”. Sono versi del più impegnato dei poeti civili, il più citato e il meno letto, Pier Paolo Pasolini. Per caso, o forse non del tutto, mi sono ricapitati tra le mani proprio nel giorno della conclusione della peggiore delle campagne elettorali possibili (e, lo so, mi sorprendo a dirlo dopo ogni campagna elettorale, ormai: a testimonianza del fatto che riusciamo sempre a migliorarci nel nostro peggiorare, raggiungendo abissi impensabili, dicendo cose che si pensavano indicibili, ascoltando parole che si pensavano inaudite e inudibili). Continua a leggere

Venetismo di bandiera

Non c’è dubbio che abbia ragione il Presidente della regione e abbia torto il Questore: il leone di San Marco non è un simbolo eversivo, ma istituzionale. Per la semplice ragione che una legge del 1975, modificata nel 1999 (togliendo la scritta Regione Veneto) ha voluto che lo fosse. E’ un fatto di legge, che come tale va rispettato: suona strano che un tutore della legge ne impedisca l’accesso in uno stadio (e ovunque). E forse, al di là della costituzionalità della norma, potrebbe essere ragionevole lasciar decidere alla regione di esporla quando e dove vuole, accanto alla bandiera italiana e magari a quella europea, visto che un cittadino veneto è parte di tutte e tre queste entità. In più, è ovvio, il gonfalone di San Marco, l’antica bandiera della Serenissima Repubblica di Venezia (ancorché opportunamente modificata per sostituire i sei sestieri di Venezia con le sette province del Veneto, a dimostrazione del fatto che i simboli hanno sempre un che di vagamente imperialistico, anche inintenzionalmente), ha una storia lunga e un peso simbolico significativo. E oggi identifica la regione, piaccia o non piaccia. E’ parte della sua strategia di branding, ed è perfino un souvenir locale. Per quel che vale, saremmo d’accordo sulla sua presenza e diffusione, e dunque esposizione, dove si vuole. Per semplice buon senso. Continua a leggere

Votare a 16 anni. Perché avrebbe senso, perché non si farà.

Quello sul voto ai sedicenni è un dibattito che ha una sua ciclicità: ogni tanto qualcuno lo tira fuori, se ne parla per un po’, poi tutto finisce in nulla. Siamo pronti a scommettere che accadrà così anche stavolta. Ma, intanto, ri-poniamoci il problema. Che, oggi, effettivamente è più d’attualità che in passato. Non, come credono in molti, perché abbiamo visto i giovani manifestare. Quello è un effetto ottico, distorcente, dovuto alla vicinanza degli eventi. Li abbiamo visti oggi, ma non ieri, e non li vedremo necessariamente domani: anche il loro impegno è ciclico. Nemmeno perché, apparentemente, stavolta erano molti: la stragrande maggioranza dei loro coetanei, come sempre accade, non c’era, e non era interessata ad esserci. Ma perché i giovani sono sempre meno, soprattutto sono molti meno degli anziani: e questa è davvero una svolta senza precedenti storici, che deve farci riflettere sulle sue implicazioni. Sta qui la vera ragione di una riflessione seria sul voto ai più giovani.
Spesso il dibattito ruota sul livello di maturità e di consapevolezza dei sedicenni. Problema mal posto: soprattutto se andassimo a misurare la maturità degli ultra-sedicenni, e a maggior ragione degli anziani, il cui contatto col mondo è spesso mediato solo dalla televisione, che costituisce il piatto unico della dieta informativa di molti. Ne sanno più dei giovani, di politica? Hanno più mezzi per comprendere? In un paese dove gli analfabeti di ritorno sono un numero impressionante, e dove quasi la metà degli adulti non è in grado di comprendere una percentuale, forse puntare sugli individui in corso di alfabetizzazione potrebbe non essere così sciocco. Anche perché i sedicenni di oggi hanno comunque un livello di istruzione più elevato della media dei pensionati, in gran parte fermatisi alla terza media. Se il criterio è la “qualità” del voto, se votano i secondi, non si capisce perché non dovrebbero votare i primi.
Il dibattito sul voto ai sedicenni ne porta quindi con sé uno ulteriore, e più importante: quello del voto consapevole. E qui la determinante non è l’età: non a caso più d’uno ha proposto di consentire l’esercizio del diritto di voto solo a chi ha un minimo di conoscenze su ciò per cui vota. Una specie di minimale esame di educazione civica, di patente. Dibattito con un suo fondamento, e rilevante di principio, perché ha a che fare non solo con la democrazia formale, ma con la democrazia sostanziale: la capacità di “essere” e di “fare” democrazia, non solo l’esercizio del diritto di voto. Che, da solo, non garantisce la democrazia.
Un’altra implicazione di rilievo riguarda il collegamento con altri diritti e doveri, con i quali avrebbe senso ipotizzare una coerenza – o tutti a sedici o tutti a diciotto anni. Se a sedici anni si avesse la possibilità di votare, non si capisce perché non si dovrebbe essere pienamente responsabili del proprio comportamento dal punto di vista giuridico, sul piano civile e penale. Ciò che riguarda anche la possibilità di guidare, di acquistare alcolici, di aprire una partita Iva o donare i propri organi.
Quello più rilevante è comunque il problema del numero: che rischia di distorcere i fondamenti della democrazia. Con lo spettacolare allungamento dell’aspettativa di vita, e il contestuale crollo delle nascite, gli anziani dominano numericamente sui giovani. Avendo i partiti bisogno di consensi, è inevitabile che corteggino il voto anziano più di quello giovanile, e approvino leggi a favore degli anziani più che non dei giovani (le pensioni sono l’esempio più noto). Producendo crescenti diseguaglianze nei confronti della popolazione giovanile. Tanto che qualcuno si è spinto a proporre un voto ponderato: ovvero che quello dei giovani, che hanno più futuro davanti, valga proporzionalmente di più di quello degli anziani. Dibattito, anche questo, con un suo importante fondamento di principio: che potrebbe peraltro implicare anche un termine finale, non solo un limite iniziale, all’esercizio del diritto di voto. Ma, tanto, non se ne farà nulla. Fino al prossimo dibattito.
Sedicenni, il voto e i doveri, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” e “Corriere del Trentino”, 3 ottobre 2019, editoriale, p.1