Zaia e il terzo mandato. Perché non è una buona idea

Le ragioni e le disragioni del terzo mandato ai presidenti delle regioni sono state ampiamente discusse. Chi vuole abolire il limite, usa l’argomento del consenso: se il popolo vuole così, chi siamo noi per impedirglielo? Un modo superficiale e tendenzioso di intendere la democrazia: che non è una vaga espressione di volontà popolare, per come la interpreta il potente di turno (quello è il populismo: che può accontentarsi di distribuire qualche beneficio mirato, offrire un po’ di circenses, o trovare un qualche capro espiatorio, per mantenere il potere). Ma è fatta di cose scomode e indispensabili, come regole, bilanciamenti e controlli del potere. In cui il limite dei mandati gioca un ruolo eminente: non a caso è presente nei più diversi contesti. E non vale l’argomento che in altre cariche rappresentative, come parlamentari o consiglieri regionali, non c’è (anche se il fatto che se ne discuta, e che qualcuno saltuariamente lo applichi di sua sponte, fa emergere che il problema è sentito anche lì). Queste hanno un peso molto minore: il potere reale ce l’hanno le cariche istituzionali di governo. E il pericolo di periodi di governo troppo lunghi sta precisamente qui.
Il professionismo in politica ha i suoi vantaggi. E abbiamo visto in questi anni le catastrofi prodotte dai dilettanti allo sbaraglio: trovare un equilibrio non è semplice. Ma il continuismo produce concentrazioni di potere inamovibili, cerchie di cortigiani, incarichi ai soliti noti, consorterie, clientele, habitués, inerzie amministrative, rendite di posizione (dovute al fatto di esserci, non di fare), privilegi mai messi in discussione, scarsa circolazione di idee (bastano le routines), incapacità di produrre innovazione: indispensabile, dato che la società, invece, cambia. Prevale quella che Max Weber chiamava “l’autorità dell’eterno ieri”: si fa così perché si è sempre fatto così – e perché lo dice il capo, che è sempre lo stesso. È precisamente l’avere una scadenza che obbliga a mobilitare la società per rinnovare un consenso che altrimenti si erode, a formare nuove leadership o almeno a lasciare loro spazio, a elaborare idee, progetti, obiettivi, orizzonti, visioni: anche solo per evitare che il potere ce lo porti via qualcun altro, alleato o avversario. Il mero continuismo tutto questo non lo fa. E lo si è peraltro già visto: sempre le stesse persone, a fare le stesse cose, mai una scelta coraggiosa o un guizzo di originalità, in nome del principio (che non vale nemmeno nello sport, e ancora meno nell’impresa) che squadra che vince non si cambia. Le elite del potere del resto questo fanno, per mestiere: tendono a autoperpetuarsi, a procedere per cooptazione e non per sostituzione, a impedire ad altri (anche del proprio partito) di sottrarre loro il potere stesso, che corrisponde a rendite preziose, a evitare giudizi di merito e analisi critiche sul passato, e quindi l’emergere di alternative. Più lungo è il periodo di mantenimento del potere, e più il meccanismo si rafforza. E Zaia è presidente già da quindici anni: venti, se calcoliamo il periodo in cui è stato vice (salvo la breve parentesi da ministro). Se facesse anche il quarto mandato, il suo ‘regno’ durerebbe più del ventennio mussoliniano. Non un bellissimo segnale.
C’è una ragione ulteriore, tuttavia, per cambiare. La discussione sul terzo o quarto mandato è tristissima. Dal punto di vista della pubblica opinione, inguardabile. In un periodo storico di calo continuo della partecipazione al voto, e in cui alle prossime regionali si corre il concretissimo rischio che la quota di elettori scenda abbondantemente al di sotto della metà (ciò che mette in questione anche l’argomento stesso della volontà popolare), la discussione sul mantenere il potere in mano a una persona a dispetto di tutto, e anche a costo di cambiare le regole, manda ai cittadini un messaggio devastante: i politici si preoccupano solo di sé stessi, del proprio destino personale. La prova è che solo di questo si discute: non della situazione in cui viviamo, non dei problemi che toccano davvero la vita delle persone, non di dove vogliamo andare, quale progetto costruire, intorno a quali valori, ma solo con chi. Ed è un problema dell’intero ceto politico, maggioranza e opposizioni. Come si vuole che, in un paesaggio desolante come questo, poco coinvolgente nei contenuti, per nulla trascinante emotivamente, la partecipazione possa non diciamo risalire, ma almeno stabilizzarsi? Per cosa dovrebbe discutere, lottare e partecipare, un cittadino, un elettore, a maggior ragione un giovane: per il posto di qualcuno?

Il “popolo” e il terzo mandato, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 14 gennaio 2025, editoriale, pp. 1-3

“Prima i veneti”. Ma, esattamente: perché?

Il problema dell’insieme di leggi regionali chiamate “Prima i veneti” – quelle che danno la priorità ai residenti nella regione da un certo numero di anni per un certo numero di graduatorie, a cominciare dagli alloggi popolari, ma coinvolgendo anche altri servizi di welfare – variamente approvate negli anni scorsi, è la loro apparente ragionevolezza: il loro sembrare, di primo acchito, di buonsenso. È questo l’argomento con il quale il presidente della regione, Zaia, le ha peraltro sempre difese: anche se il motivo politico forte per cui erano state approvate era quello di dare un segnale all’opinione pubblica anti-immigrati. Quella a cui era stato chiesto il voto precisamente per questo motivo, e a cui occorreva offrire in pasto un qualche risultato.
Che la ragionevolezza sia solo apparente, lo conferma il fatto che la Corte Costituzionale abbia bocciato il criterio territoriale, relativamente all’accesso alle graduatorie, già lo scorso anno. Ora il tribunale di Padova, per ragioni diverse, ha contestato anche il vantaggio dato nelle graduatorie stesse: non la possibilità di accedere, più grave, ma la posizione acquisita, i punti in più ottenuti, in sostanza.
Va detto che, più che per i numeri di persone coinvolte, tanto le leggi approvate, quanto le sentenze che ne minano la validità, hanno un valore simbolico importante, ma anche una ricaduta politica non irrilevante. Intanto, per l’impatto avuto, e per il segnale dato, non solo agli immigrati. Anzi, soprattutto agli italiani, tanto che all’epoca i primi a protestare furono i poliziotti provenienti da altre regioni. Mandati a lavorare in Veneto per proteggere i veneti, e perché pochi veneti fanno questo mestiere: ma impediti di ottenere gli stessi benefici rivolti ai veneti che proteggevano. In effetti, la ratio di questi provvedimenti è discutibile, e controdeduttiva. Nella pratica, perché mai un carabiniere di Avetrano, un muratore di Desio, un pizzaiolo di Latina, o un ricercatore di Ferrara, dovrebbero volere venire a vivere in una regione dove gli dicono che non sono benvenuti già a partire dalla normativa che li discrimina, e dove a parità di salario godranno di minori servizi rispetto agli autoctoni? È un segnale attrattivo o respingente? Certo, il sottinteso della legge era legato all’immigrazione dall’estero: ma è forse diverso per un operaio del Bangladesh, una badante moldava, un lavoratore dei campi indiano, un edile rumeno, un’infermiera peruviana o un ricercatore inglese? E infatti è il principio in sé (odioso, possiamo dirlo?) che è in questione: che, per nobilitarlo, potremmo chiamare burocraticamente principio di residenzialità, ma che nella realtà agisce come un principio di selezione per corporativismo localistico. E che, oltre tutto, è in essenza antimeritocratico: non ottieni un servizio perché sei migliore di altri, o semplicemente perché a parità di condizione con gli altri ne hai diritto, ma semplicemente perché sei “di qui”, e pure se hai minore titolo.
Un altro modo di capire la solo illusoria ragionevolezza e il discutibile buon senso della norma, è di immaginarla applicata a parti invertite. Se a subirne le conseguenze fossero i veneti che vanno a vivere e lavorare in un’altra regione o in un altro paese. C’è, lo sappiamo, una tentazione sciovinista anche altrove: e tuttavia la sua logica, perdente per tutti, è un po’ quella dei dazi. Il primo che li decide si sente più furbo degli altri e ha un temporaneo apparente vantaggio. Se li adottano tutti, il risultato sarà che le merci saranno più costose, l’economia meno sviluppata, e la vita più scomoda, per tutti: non a caso la costruzione europea nasce precisamente sul principio opposto – stessi diritti e pari opportunità per tutti. Alla fine, conviene di più che non differenziare e discriminare. Anche economicamente.
Oggi poi tali norme appaiono tafazziane (il riferimento è a un noto personaggio comico che passava il tempo a darsi bottigliate sugli zebedei), e quindi autolesioniste. Il Veneto, dato il suo drammatico andamento demografico, ha bisogno di attrarre persone, lavoratori, famiglie. Non è proprio il caso di insistere su normative che hanno l’effetto di risultare respingenti, né di ricorrere contro sentenze che le contrastano. È esattamente il contrario, quello che dovremmo fare. E sarebbe ora che la politica cominciasse a rendersene conto.

L’errore del “Prima i veneti”, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 10 gennaio 2025, editoriale, pp. 1-7

L’autonomia è finita. Per mancanza di autonomisti…

È un triangolo: il voto era europeo, il luogo il Veneto, ma le conseguenze nazionali. Che a loro volta influiranno sul destino del Veneto, in un complicato ma prevedibile effetto di feedback. Possiamo leggerlo così, il risultato che ci consegna la tornata elettorale per eleggere i parlamentari europei che spettano all’Italia.

La questione che principalmente balza all’occhio è il futuro dell’autonomia differenziata. Non si votava su questo, eppure le conseguenze saranno pesanti. La regione più autonomista d’Italia, quella che più di tutte ne ha fatto una bandiera, un simbolo, e spesso l’unica ragione di una offerta politica (al punto che per molti anni è bastata la parola per scaldare i cuori: anche quando era del tutto priva di contenuti concreti) ha votato con la percentuale più alta di tutte il partito più centralista che c’è, Fratelli d’Italia, con una maggioranza schiacciante, triplicando addirittura il risultato della Lega. Ma c’è di peggio. La Lega stessa mantiene un risultato appena decente solo perché si è affidata al fenomeno acchiappa voti (una scelta furba più che astuta) che si chiama generale Vannacci: un personaggio centralista nel midollo e nei messaggi veicolati, con l’anima ancorata al passato patriottico e tradizionalista (ricorrendo persino a quello repubblichino della X Mas), che si può stare certi non farà nulla per aiutare (semmai farà di tutto per contrastare) il sogno e il disegno autonomista teorizzato dal lighismo originario.

Non solo. È stato chiarissimo che i ceti produttivi, in passato alfieri dell’autonomia per sfuggire ai vincoli di Roma, hanno votato essi stessi il partito della premier. E la conseguenza è che Fratelli d’Italia prenoterà, con ottime probabilità di riuscita (sarebbe quasi un atto dovuto) la presidenza della regione, che non sarebbe più quindi a guida autonomista ma sovranista: e se non c’è un traino forte da parte della regione direttamente e maggiormente interessata, chi mai dovrebbe fare la fatica di spingere per un’autonomia che al massimo sarà utilizzata come merce di scambio, non solo rispetto al premierato? Possiamo prevederne già oggi il risultato: si farà prima o poi, ma senza fretta, un qualcosa che si possa definire un inizio di autonomia, per accontentare la Lega, ma saremo lontanissimi da quanto immaginato da Zaia quando lanciò il referendum sul tema, e dai cittadini veneti che lo votarono in massa con una fede quasi messianica, e come tale molto poco coi piedi per terra. Una magnifica illusione, insomma, oggi inesorabilmente al tramonto. Del resto, a picconarla non ci si è messa solo la maggioranza della maggioranza, ma anche la maggioranza dell’opposizione, dato che il Partito Democratico, con una scelta forse vincente nelle regioni del Sud, ma che pagherà in Veneto, ha deciso di mettersi alla testa di una dura battaglia contro ogni forma di autonomia differenziata: anche da parte di chi era a favore, ma dovrà adeguarsi per disciplina di partito. Di fatto non è neanche più “la Lega contro tutti” per l’autonomia, che sarebbe almeno uno slogan capace di coagulare consenso (e che piacerebbe a Salvini: in fondo ha una declinazione nostalgica nel “molti nemici molto onore” di mussoliniana memoria): ma “nessuno a favore, nemmeno la Lega”, come abbiamo visto. Almeno finché alla sua guida ci resterà Salvini. Ma Salvini, come noto, non ha alcuna intenzione di lasciare il comando, nonostante il disastro della sua leadership (che in passato, è vero, aveva salvato il partito: ma è destino dei leader quando credono troppo in sé stessi passare rapidamente dalle stelle alle stalle, basti pensare a Renzi). Un Salvini che non solo ha fatto oggi perdere voti, ma ha snaturato completamente la ragion d’essere della Lega, trascinandola all’opposto dei suoi ideali. Al punto che il suo fondatore, Umberto Bossi, ha votato Forza Italia, mentre la sua creatura politica, originariamente orgogliosamente antifascista, passava al fiancheggiamento aperto del peggio del neofascismo (e non ci riferiamo a Giorgia Meloni, ma agli ultras alla sua destra): ironicamente, per opera di un leader, Salvini appunto, che aveva cominciato la sua carriera nel consiglio comunale di Milano come leader dei “comunisti padani”, l’ala sinistra e progressista della Lega. Ma, si sa, è la politica. Di fronte alla quale non ci si può stupire che il partito principale sia quello del non voto.

 

Il partito snaturato. Le mutazioni della Lega, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 13 giugno 2024, editoriale, pp. 1-6

Vademecum per non sprecare il voto europeo

Bene fa Confindustria a incontrare i candidati alle elezioni europee: e pretendere una competenza adeguata dei medesimi. Male fanno tutti gli altri (categorie economiche, organizzazioni sociali, terzo settore, mondi religiosi, tutto quell’articolato mondo di socialità intermedie che costituisce il vero tessuto della società) a non fare altrettanto. E vale anche per gli individui e i singoli elettori: a cominciare dagli iscritti e militanti di partito sopravvissuti – i primi a essere umiliati dalle scelte che fanno le loro organizzazioni di riferimento.

Una vera pressione della società civile sarebbe utilissima a contenere le scelte inconcludenti e spesso avvilenti dei partiti. Purtroppo non ce n’è abbastanza. E le liste lo dimostrano. Come al solito, prevalgono (almeno tra coloro che hanno qualche possibilità di essere eletti) alcune figure specifiche: sempre quelle. I e le leader di partito, innanzitutto: che in Europa non ci andranno, ma mettono il loro nome per acchiappare il consenso generico di chi vota senza sapere perché – non distinguendo tra elezioni europee e nazionali. Certo, la colpa, in fondo, è di un elettorato impreparato, e inconsapevole del fatto che il suo voto di simpatia o di fedeltà sarà utilizzato per eleggere qualcun altro: tipicamente delle persone senza competenza (nemmeno quella di cercarsi le preferenze da soli), ma che poi obbediranno ciecamente alle direttive di partito – un comportamento, del resto, molto generosamente ricompensato. Ad evitarlo, basterebbe una norma di buon senso: per cui, se qualcuno si candida a qualcosa – qualunque cosa – e poi viene eletto, dovrebbe essere vincolato ad accettare la carica in questione dimettendosi da quella precedente. Ma naturalmente nessuno l’approverà mai.

I candidati bandiera sono un’altra figura tipica: persone messe in lista, spesso come capilista, non per le competenze che hanno, ma per quello che rappresentano. È un meccanismo in certa misura inevitabile, che qualche volta è stato persino usato bene: e tuttavia dovrebbe farci riflettere. Di solito si tratta di esterni ai partiti, e quindi potenzialmente più indipendenti e critici: ma spesso sono scelti tra impolitici, interessati quindi più all’avere che al dare. In passato sono stati in molti casi campioni di assenteismo, visto che il biglietto vincente della lotteria arriva solo una volta (una legislatura e poi via), e conviene massimizzare i vantaggi investendo il meno possibile. E il loro ruolo, anche nella tutela degli interessi nazionali, oltre che nel far progredire la costruzione dell’Europa, è quasi sempre nullo.

Gli amministratori sono una categoria molto gettonata, ma anche qui si opera una confusione: tra elezioni europee e locali. Non è detto che un sindaco, un assessore municipale o regionale, un consigliere, per quanto abbia operato decentemente (e una valutazione andrebbe pur fatta, sul passato: non sul fatto che c’eri, ma su quello che hai realmente prodotto) possa essere una figura altrettanto utile in un luogo, il parlamento europeo, dove i dossier – e le scale di grandezza – sono tutt’altri. E il minimo che dovremmo chiedere (a questa categoria come a tutte le altre), è di avere dimostrato un qualche interesse per i temi europei: sennò che ci si va a fare?

Infine, gli uscenti. Bene rieleggere chi già c’era, e conosce già gli ingranaggi: ma, anche in questo caso, basta esserci, o non dovremmo chiedere anche che cosa si è fatto nel concreto?

Non si pretende che siano i partiti a maturare una maggiore consapevolezza. Loro preferiscono, si sa, i fedeli alla linea alle voci critiche, i dilettanti rispetto ai professionisti, i ricattabili (se non fai quello che dico non ti metto in lista) agli indipendenti (che uno stipendio sono capaci di guadagnarselo anche da soli), i mediocri rispetto a chi può contestare la leadership e sostituirla. Ma dovrebbero farlo gli elettori: noi. Usando l’arma che abbiamo, la preferenza. Che non sarebbe spuntata, se la usassimo con discernimento. Subordinando le nostre scelte a dei criteri minimali: attività passata, competenze specifiche, conoscenza (almeno) dell’inglese. L’alternativa, del resto, non è incoraggiante: rassegnarsi al progressivo livellamento verso il basso del ceto politico, e quindi all’ininfluenza dei nostri rappresentanti – anche nel difendere i nostri legittimi interessi. Temiamo che una buona parte dell’astensionismo (rischiamo che anche in queste elezioni si rechi alle urne solo la metà del corpo elettorale) sia già motivato da queste ragioni.

 

Vademecum per il voto europeo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 16 maggio 2024, editoriale, pp. 1-6

Elezioni europee: le responsabilità degli elettori

Si avvicinano le elezioni europee, e il teatrino delle candidature mostra quanto queste vengano considerate, in Italia, una specie di varietà. È un paradosso autolesionistico, e molto indicativo, purtroppo, del livello del ceto politico, ma anche dell’elettorato.
Le elezioni europee sono infatti, per molti versi, persino più importanti di quelle italiane. Sempre più cose fondamentali si decidono a quel livello. Essere nelle commissioni, se possibile dirigerne i lavori e fare da relatori a progetti di legge (e capita solo se ti viene riconosciuta una qualche professionalità, o comunque hai una rete internazionale che ti sostiene, e a cui dovrai rispondere in termini di efficacia), è un modo prezioso e insostituibile di far progredire la collaborazione europea, ma anche di fare gli interessi italiani. E noi chi ci mandiamo, con una frequenza ottusa e sorprendente? Trombati alle elezioni; sconfitti ai congressi; rappresentanti uscenti da rieleggere (senza mai che si faccia un bilancio di quello che concretamente hanno fatto nella legislatura precedente: la rielezione è un diritto, che diamine!); nemici politici da ‘esiliare’ dove non possono disturbare il manovratore; yesmen e yeswomen incapaci della minima autonomia di pensiero ma fedeli alla linea; persone che non parlano alcuna lingua straniera (e con difficoltà, magari, quella italiana); sindaci di paesini da premiare per la loro fedeltà o semplicemente perché a fine mandato e bisognosi di una prebenda (con la scusa ufficiale che la vera politica si fa sul territorio, per cui se hai governato bene San Guidobrando sul Briscolo sarai perfetto per gestire i dossier economici o sull’intelligenza artificiale); figurine di facciata acchiappaclick che si trasformano rapidamente in assenteisti professionali (non essendo nemmeno militanti di partito, si accontentano di usarli come taxi all’incontrario – paga chi guida – per poi farsi abbondantemente i fatti propri); o semplicemente persone che dell’Europa non sanno e non interessa alcunché: magari perché, come è capitato anche a qualche leader di partito, sono addirittura contro la sua stessa esistenza, e quindi sembra loro un gesto eroico dileggiare quelle istituzioni le rare volte in cui ci vanno, incassandone tuttavia a tempo pieno le laute remunerazioni, senza dare nulla in cambio, o perché comunque, qualunque cosa dicano (o qualunque pietosa sceneggiata facciano: si è visto anche questo), si rivolgono sempre e solo al pubblico italiano. E se fosse per diffondere contenuti, o far vedere quanto hanno lavorato, passi, ma il più delle volte è per ripetere stancamente un messaggio ideologico inconcludente: siamo contro qualcuno, siamo a favore di qualcosa, ma in ogni caso non facciamo nulla.
Personaggi così ce ne sono anche in altri paesi. Ma, è onesto dire, in numero inferiore. Il che spiega perché altri paesi difendano meglio pure gli interessi nazionali, presidiando i dossier più importanti per la propria industria, agricoltura, società civile. Ricordiamocelo sempre: se l’Europa in qualche materia è su posizioni contro i nostri interessi, è spesso perché noi abbiamo mandato lì gente del tutto incompetente, che spesso nemmeno si accorgeva di quello che gli capitava sotto il naso. In più, abbiamo il fenomeno surreale di leader di partito o di regione che si candidano per raccattare voti purchessia a favore della lista, dicendo per giunta già prima che è tutto uno scherzo, tanto loro, lì, non ci andranno mai: e la preferenza da noi usata per simpatia sarà utilizzata per eleggere un ominicchio o un/a quaquaraquà, per usare l’indimenticabile terminologia di Sciascia, di cui ignoriamo persino il nome – e lo ignoreremo anche dopo.
Le percentuali di queste figure potranno essere differenti nell’una o nell’altra elezione, e riguardo questo o quel partito, ma è stata finora una costante. E dovrebbe interrogarci. Certo, ci sono stati nella storia anche casi di scelte lungimiranti da parte dei partiti e degli elettori: così clamorosi che risaltano per la loro stranezza. Ma la norma è l’anomalia. Alle europee non ci sono listini bloccati, ai quali abbiamo sempre dato la colpa del miserrimo livello del ceto politico nostrano. Il che significa che la colpa maggiore ce l’hanno gli elettori, che hanno l’arma della preferenza individuale, ma non la usano, o la usano malissimo. Butto lì uno spunto interpretativo: il livello di analfabetismo funzionale in Italia riguarda il 30% della popolazione, il doppio della media europea, che è del 15%; mentre il livello di “competenze adeguate o elevate” riguarda solo il 30% degli italiani, contro una media europea – più che doppia – del 65%. Con i giovani il gap si sta sempre più riducendo. Purtroppo, sia in cifra assoluta che in percentuale, votano di più gli anziani.

 

La qualità dei nostri politici, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 20 aprile 2024, editoriale, pp.1-2

Un tetto agli stranieri nelle scuole? Vediamo cosa significa

Il ministro Salvini – che dovrebbe occuparsi di infrastrutture e trasporti ma ha sempre nostalgia del tema che gli è più a cuore e in passato gli ha fatto guadagnare più consensi, l’immigrazione – propone un tetto del 20% al numero di bambini stranieri presenti in una scuola. La proposta ha un’apparente sensatezza, ed è stata persino illustrata con una moderazione di toni inedita per chi, su questo tema, ha sempre preferito le barricate ideologiche e le politiche muscolari.

Cosa dice Salvini? Che “un 20% di bambini stranieri in una classe è anche stimolante, perché conosci lingue, culture e musiche”: e già ci mettiamo via l’inedita apertura sul fatto che la pluralità culturale sia considerata un arricchimento – in altre occasioni, anche recentissime, da parte sua, del suo partito e dei suoi alleati è sempre stata considerata solo un danno e motivo di polemica. Se fossero di più, in specie se la minoranza fossero gli autoctoni, sarebbe “un caos per tutti”.

Proviamo a prendere sul serio l’affermazione, e vediamo cosa implica. Cominciamo con la definizione di autoctono. Nella scuola italiana ci sono oltre 800mila figli di immigrati, in gran parte nati in Italia. In altri paesi sarebbero e sono considerati cittadini, almeno quelli nati sul suolo patrio. Una percentuale significativa ha come prima lingua l’italiano, anche in famiglia. E in ogni caso gli studi di glottologi e linguisti sono abbastanza concordi nell’affermare che avere un’altra lingua natìa non è un ostacolo all’apprendimento di una seconda lingua, ma anzi un vantaggio, che risulterà peraltro in un vantaggio competitivo dei diretti interessati anche sul mercato del lavoro, e una complessiva utilità anche di sistema, per la società.

Non solo: moltissimi sono figli di coppie miste, in famiglie in cui è dominante la lingua italiana, spesso per scelta concordata tra i coniugi in nome della facilità di integrazione dei figli. Sono tuttavia percepiti come stranieri, anche dagli insegnanti, perché in gran parte dei casi il coniuge maschio è straniero, e solo per un’inerzia culturale, visto che oggi la legge consentirebbe di adottare solo il cognome della madre o comunque quello italiano, li fa credere foresti. Su questo ho un’esperienza personale abbastanza illuminante. Ho cresciuto fin da piccoli due figli nati in un precedente matrimonio di mia moglie, italiana, che di cognome, avendo quello del padre, facevano Mohammed. Anche se in realtà pure il padre era cittadino italiano (nato e vissuto in Italia, parlava solo italiano, ma era figlio a sua volta di una coppia mista), e anche se ai colloqui con i genitori andavamo io e mia moglie, che l’italiano lo conosciamo benino, e lo parliamo discretamente forbito, ai nostri figli chiedevano regolarmente di “portare una filastrocca del tuo paese” (noi, entrambi milanesi, avevamo insegnato loro “ti che te tachet i tac…”), senza contare il sentirsi chiamare “marocchini di m…” da qualche compagno. Poi, durante il loro percorso scolastico, il padre ha cambiato legalmente cognome, e i figli di conseguenza, e questa percezione ‘straniera’ è miracolosamente scomparsa: nonostante, almeno in un caso, il colore della pelle fosse lievemente più scuretto della media.

C’è poi la definizione della soglia: perché il 20%? Ha una qualche base scientifica? No, nessuna. E in ogni caso non ne ha nemmeno una pratica. Facciamo qualche esempio. Ci sono già quartieri, e addirittura città, in cui la percentuale di alunni di origine straniera è superiore: cosa facciamo, li deportiamo in altri quartieri o città? E perché, come, in base a quali criteri, con quali mezzi di trasporto, a spese di chi, producendo quali conseguenze anche nel percepito degli studenti autoctoni, che si sentirebbero superiori e garantiti a spese degli altri, vittime di un comportamento discriminatorio? Non solo: nello stesso istituto possiamo avere classi con una percentuale superiore e altre no: si fa la media o diventa comunque fuorilegge la classe che supera i limiti? Ma è il principio stesso che è problematico. Il problema non è un numero, una percentuale, un limite astratto e definito a priori. Ma come si fa scuola, con che metodi, con quale preparazione e aggiornamento del corpo docente. Già tutto questo fa capire che una affermazione buttata lì come di apparente buon senso rischia invece di avere terribili effetti di nonsenso quando non di controsenso, e di discriminazione esplicita nei confronti di gruppi etnici e religiosi altri – il che dovrebbe forse ricordarci qualcosa di già avvenuto tante volte nella storia, e da cui rifuggire.

Possiamo capire la preoccupazione di qualche genitore, e la loro fuga eventuale verso altre destinazioni: altre scuole pubbliche in altri quartieri, o la scuola privata – quella che in altri paesi, e anche in alcune ricerche da noi, è stata chiamata la “fuga bianca”, perché di questo si tratta, di colore della pelle, più che d’altro (se in una scuola qualsiasi ci fosse una percentuale maggiore di bambini con genitori con reddito modesto e basso livello di istruzione, se non analfabeti, ma di cognome italiano, nessuno semplicemente se ne accorgerebbe, perché si tratta di dati sensibili e non pubblicizzati – e chi se ne accorgesse e desiderasse andarsene lo farebbe in silenzio, magari anche un po’ vergognandosi, e nessuno invocherebbe intollerabili percentuali per gli altri). Se queste famiglie hanno dei timori, tuttavia, è giusto che siano loro ad assumersene il costo, non gli altri, incolpevoli.

Certo, sappiamo dai dati Invalsi che spesso gli immigrati hanno risultati in italiano e in altre materie inferiori agli italiani (ma sarebbe lo stesso se cercassimo i risultati per censo: solo che non si può fare…). In compenso li hanno spesso più alti in lingue straniere e matematica. Così come sappiamo che gli stranieri, per problemi linguistici, specie quando vengono inseriti come neo-arrivati in classi e a livelli scolastici che corrispondono alla loro età anagrafica ma non alla loro preparazione linguistica, hanno percentuali di ritardi e bocciature maggiori. Normale sia così, e il prezzo dopo tutto lo pagano loro. Ma a questo si potrebbe ovviare in altro modo. Personalmente, occupandomi di questioni migratorie da trentacinque anni, e avendo parlato con moltissimi adulti di origine straniera che da bambini sono passati per questo tipo di inserimento scolastico, e ne hanno pagato dei costi psicologici e relazionali spesso pesantissimi, ho maturato un’opinione diversa da quella della media degli insegnanti (o almeno dei loro rappresentanti negli organismi istituzionali e nei sindacati). Non sono affatto sicuro che questa sia l’unica modalità di inserimento possibile, e nemmeno la migliore. Si potrebbero frequentare prima dell’inserimento scolastico vero e proprio dei corsi intensivi di lingua, che aiutino i ragazzi ad avere un inserimento più morbido e produttivo poi. E non si tratta affatto di classi differenziate, come polemicamente vengono definite, ma di un servizio specifico offerto temporaneamente a persone solo in quel momento in condizione di svantaggio – tecnico, in senso stretto. Nessuno stigma e nessun pregiudizio dietro a questa offerta. Le forme possono essere altre (insegnanti e servizi di supporto, in parallelo, ecc.), ma non dovrebbe essere un tabù parlane operativamente anziché ideologicamente.

La scuola fa un lavoro straordinario, ed è senza dubbio la più grande agenzia di integrazione del nostro paese, il principale laboratorio di pluralità culturale che abbiamo. Va ascoltata, rispettata nella sua autonomia, e semmai aiutata con finanziamenti, progetti e sperimentazioni, non imponendole limiti che sarebbero gabbie ulteriori, che renderebbero meno facile il lavoro degli insegnanti e problematico l’obiettivo di una migliore integrazione sociale.

Chiudo con quella che non è una provocazione, ma una semplice constatazione. Lavoro in una istituzione, l’università, che è valutata in base a ranking internazionali, in cui il criterio dell’internazionalizzazione è una variabile importante. Più studenti stranieri hai, e più insegnanti stranieri hai, più vali, più sei appetibile, più questo è considerato un valore aggiunto. Se è vero per l’università (la maggior parte di noi ne è convinta), siamo proprio sicuri che non debba essere altrettanto vero per la scuola dell’obbligo? Sulla base di quali informazioni, studi, ricerche, sperimentazioni ne siamo così profondamente convinti?

 

“Un tetto agli scolari stranieri”. Salvini e il rimedio che fa danni, in “il Riformista”, 29 marzo 2023, pp. 1-9

Neanche il coraggio di manifestare… Il dramma a Gaza, l’indifferenza da noi

Le notizie e le immagini che arrivano da Gaza hanno un’evidenza devastante. La disperazione, la fame, la sofferenza sono sempre più chiaramente documentate. Il massacro di bambini, di donne, di civili (inclusi medici, insegnanti, reporter, infermieri, operatori umanitari…), di persone comunque innocenti è sotto gli occhi di tutti. Così come lo è l’arroganza che fa dire ad autorevoli membri del governo israeliano, senza alcuna resipiscenza, che non si fermeranno, che su quelle terre vogliono eradicare la presenza organizzata palestinese, deliberando sotto gli occhi del mondo, in questo stesso momento, nuove operazioni militari e nuovi insediamenti illegali di coloni, che protrarranno quell’orrore e ne saranno complici. Tutto ciò è di solare evidenza. Nessuno può dire di non sapere.

Certo, tutto questo avviene in reazione all’orribile massacro, che va condannato con ogni forza, del 7 ottobre, in cui sono state uccise oltre milleduecento persone, ugualmente in gran parte civili, anche qui donne, bambini, anziani, a cui vanno aggiunti centinaia di feriti, e i prigionieri ancora nelle mani di Hamas. E chi tale azione ha pianificato e perpetrato, sapeva che ci sarebbe stata una reazione dura, e puntava precisamente a scatenarla. Non ci sono giustificazioni, quindi (come potrebbero?), e i palestinesi dovranno fare i conti anche al loro interno, con i complici e i suscitatori del massacro, e con chi – moltissimi – ha simpatizzato con loro e le loro tecniche di guerra. Ma la reazione israeliana è andata ormai oltre qualsiasi proporzionalità: la rappresaglia – di questo si tratta, e va chiamata con il suo nome – ha perso ogni rapporto con il danno subìto. Senza dimenticare che la storia del conflitto israelo-palestinese non comincia il 7 ottobre: c’è un pregresso, da ambo le parti, di stragi, attentati, uccisioni di civili, mancato riconoscimento dell’esistenza politica e umana dell’altro, ma anche l’ordinarietà di un’occupazione militare che va avanti da decenni, con la sua lunga teoria di sofferenze quotidiane, di angherie volute, di soprusi istituzionalizzati, di colonizzazioni illegali, che vuol dire furti di terra, di case, di speranza e di futuro. Siamo arrivati a un grado di cinismo e di disumanizzazione raccapricciante, non solo dell’avversario, ma anche di sé: le grida di gioia e il disprezzo esibito di terroristi e di soldati quando si colpisce l’avversario sono parte di questo processo.

Eppure, di fronte a tutto ciò, siamo sorprendentemente inerti. Qualche blanda dichiarazione. Quasi nessuna manifestazione di peso significativo. Forse il solo vero atto politico compiuto, a cui è doveroso plaudere (ma che era maturato già prima del 7 ottobre), è stato il rifiuto dell’accreditamento del nuovo ambasciatore israeliano, grande supporter delle colonizzazioni illegali. Tutto questo ci dice qualcosa su di noi. In altri paesi europei, dalla Spagna alla Germania, dall’Olanda alla Francia, passando per la Gran Bretagna, ci sono state mobilitazioni anche numericamente massicce: di adulti, non solo di studenti. E il linguaggio mediamente usato dalla politica e dai media europei – anche in Israele (a testimonianza del fatto che in questione non è un popolo o una nazione, che resta una democrazia e su altri piani un esempio, ma le scelte del suo governo) – è assai meno blando e accondiscendente rispetto alle ragioni del governo di Israele di quello corrente da noi. Il ceto politico, quanto meno, si mostra circospetto: e lo si è visto mobilitarsi in prima persona, mettendoci doverosamente la faccia, più per la morte di Navalny che per quella di oltre trentamila palestinesi, per un terzo bambini.

Di fronte a questo, le poche e certo non oceaniche manifestazioni degli studenti italiani, di giovani e giovanissimi che vanno in piazza contro quanto sta accadendo, e contro la nostra indifferenza, sono un qualcosa che dovrebbe farci riflettere. Certo, sono piene di ingenuità, di semplificazioni della realtà, spesso anche di unidirezionalità, di strumentalizzazioni. Ma almeno dicono qualcosa, e sollevano una domanda: la cui risposta non dovrebbe stare nei manganelli e nel paternalismo facile (“se fate i bravi e rispettate le norme non vi succede niente”), ma richiedere un supplemento di riflessione. E magari anche di partecipazione.

 

La nostra colpevole inerzia, in “Corriere della sera. Corriere del Veneto”, 17 marzo 2024, editoriale, pp.1-3

La politica, il conformismo, il dissenso. Riflessioni a partire dal caso Da Re

L’espulsione dell’europarlamentare Toni Da Re dalla Lega è notizia di costume, non solo politica, che può suscitare qualche riflessione più larga del suo caso personale e di quello del suo partito. Toni Da Re è certamente personaggio sanguigno: e, peraltro, il suo consenso personale era dovuto precisamente a questo. Le sue esternazioni – ad esempio sull’immigrazione e altri temi – spesso discutibili e tranchant. Ma il ‘reato’ per cui è stato punito non è questo: quelle stesse posizioni sono apertamente condivise e spesso incoraggiate, nel suo ex partito. Quello che non è incoraggiato, anzi è proprio vietato, come si è visto, è la critica al leader, che diventa immediatamente reato di lesa maestà.

Ufficialmente, come noto, è stato infatti espulso per aver dato del “cretino” al suo capo politico, Salvini: in realtà il suo dissenso è più largo e radicato nel tempo. Ecco, la questione del dissenso è una prima chiave di lettura: la Lega non lo tollera. Non a caso era stata definita, fin dai suoi albori, l’ultimo partito leninista, in cui il centralismo democratico di antica memoria comunista è il metodo di governo interno, ferreo, del partito stesso. Il che ha prodotto una antropologia persino umiliante per chi la rappresenta. Raro il dibattito interno, clamorosa la mancanza di discussione a fronte di svolte a 180 gradi della linea politica e delle alleanze, ridondante la presenza di yesmen e di yeswomen, irritante il livello di culto della personalità: già con il suo fondatore, Bossi. Solo per fare un ironico confronto, se nel Partito Democratico fossero stati espulsi tutti i dirigenti, rappresentanti e militanti che hanno considerato cretino il o la loro leader di turno, e l’hanno esplicitato in varia forma, avrebbe certamente più epurati che iscritti.

Quella dell’essere proni al leader, che dopo tutto è il garante ultimo di una carriera politica che è anche un redditizio modo di sfangarsela nella vita, non è tuttavia solo una prerogativa della destra, e per motivi per così dire di destra: perché ama l’uomo (o la donna) forte al comando. Fu così anche per Berlusconi, certo, e non sembra di vedere un gran dissenso intorno a Meloni, che ha affidato il controllo interno del partito alla sorella, ma non è che con Renzi e molti altri, anche di partiti minuscoli della galassia di centro, di destra o di sinistra, del passato o del presente, questo atteggiamento sia da meno, o meno visibile. In altre stagioni politiche tanto Almirante che Berlinguer erano oggetto di un’obbedienza e di un consenso acritico che è il minimo considerare preponderanti. Quello dell’obbedienza cieca, pronta, prona e assoluta non è un tema di parte, ma della politica nel suo complesso, e in particolare dei leader carismatici, capaci di trascinare consenso. Ed è questo che dovrebbe farci riflettere. La politica incoraggia un modo di essere e di appartenere – appunto obbediente, acritico, privo di coraggio e di responsabilità – che invece chiediamo alla scuola di insegnare, per statuto e mestiere. E non notiamo la contraddizione. In altre aree della vita sociale (a scuola appunto, in famiglia, ma è il mestiere anche di educatori, psicologi, coach sportivi, animatori, per non parlare del mondo dell’arte in tutti i suoi aspetti: cantanti, attori, registi…) diciamo di voler incoraggiare l’autonomia, lo spirito critico, la creatività, il libero pensiero, il coraggio di difendere le proprie opinioni e di pagarne le conseguenze, di essere minoranza, di cercare strade solitarie, l’anticonformismo anche. In politica, invece, vengono premiate le qualità, o i vizi, opposti: l’obbedienza, l’acriticità, la subordinazione a costo dell’umiliazione personale, il conformismo – le proprie idee devono essere le idee del capo e del partito, altrimenti è meglio non dichiararle. E su questo sarebbe utile riflettere. Finché non cambieranno i meccanismi premiali e la forma organizzativa stessa della politica (ma vale anche per altri ambiti di impegno collettivo, come la religione, per non parlare del mondo militare) ci sarà uno scollamento tra i valori dichiarati rilevanti nel privato e quelli praticati in pubblico. A cui corrisponde una specifica forma di schizofrenia, per la quale tuttavia non si vedono terapeuti, né forme di guarigione.

 

La lesa maestà, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 9 marzo 2024, editoriale, p. 1-2

Italiani all’estero: le implicazioni difficili della cittadinanza facile

La questione delle richieste di cittadinanza dei discendenti di italiani all’estero è emersa da poco, ma ha radici lontane, che vale la pena ricordare.
La legge sulla cittadinanza risale al 1992, e già allora se ne erano messe in evidenza le criticità. Il principio su cui si basa è quello noto come jure sanguinis: chi, nato all’estero, può vantare un antenato italiano, per quanto lontano nel tempo, può ottenere la cittadinanza italiana sulla base di una semplice richiesta documentata. Al contrario, per chi non ha sangue italiano, qualunque cosa possa significare questa espressione (probabilmente nulla, dal punto di vista tanto biologico quanto culturale), e anche se nato, socializzato e istruito in Italia (cosa che sul piano della vicinanza culturale significa parecchio), conquistare la cittadinanza è una corsa a ostacoli: almeno dieci anni di residenza continuativa in Italia per chi ci è arrivato; e per chi ci è nato, invece, il compimento del diciottesimo anno di età con residenza ininterrotta (ed entro il diciannovesimo, chissà perché: come se un diritto potesse scadere – mentre quello dei discendenti da italiani non decade mai, anche se l’emigrazione risale a centocinquant’anni prima…). Poiché lo stato si prende tre anni di tempo per rispondere, e spesso non rispetta le regole che si è dato, significa che un o una giovane nati in Italia possono rischiare di ottenere la cittadinanza a ventidue o ventitré anni, facendo dell’Italia una dei paesi europei in cui è più difficile e complicato ottenerla. Il capolavoro si è compiuto poi con la legge del 2001 sul voto agli emigranti, fortissimamente voluta dall’allora ministro per gli italiani all’estero Mirko Tremaglia, di Alleanza Nazionale, ma votata per ignavia, come la precedente, dai partiti di tutto l’arco costituzionale: anche da chi sapeva che era una follia ideologica senza alcuna vera motivazione pratica. Il paradosso che ne è derivato è che chi in Italia ci è nato, ci vive, ci paga le tasse, ne conosce la lingua, fa molta più fatica ad ottenere la cittadinanza di chi qui non ha alcun legame né alcun interesse: e il primo non vota alle politiche, il secondo sì. Nel concreto, il pronipote di un Veneto emigrato in Brasile nel 1870, di cui nessun discendente è mai più rientrato nemmeno come turista, può ottenere la cittadinanza subito, mentre un brasiliano nato in Italia, che non conosce altro paese che questo, deve aspettare il compimento della maggiore età solo per inoltrare la domanda, a meno che un suo genitore non si sposi con un italiano/a.
C’è poi la questione dei motivi: chi chiede la cittadinanza italiana vivendoci, di solito si sente italiano, questa è la sua lingua, la sua patria, il suo orizzonte di lungo periodo. Chi la chiede dall’estero nella grande maggioranza dei casi vuole solo poter viaggiare più comodo, entrare negli USA senza visto, o ottenere la libera circolazione in tutta l’Unione Europea (cosa sulla quale l’UE potrebbe prima o poi eccepire).
Per anni questa è stata solo un’incongruenza politica, con pochi effetti pratici perché le nostre ambasciate e consolati davano seguito alle domande, per usare un eufemismo, con opportuna lentezza. Oggi che qualche precursore, non ottenendo risposte, è riuscito a vedersi riconosciuto il diritto per via giudiziale, è cominciato l’effetto emulazione (al tribunale di Venezia queste cause costituiscono già i due terzi del contenzioso civile, con i costi e i ritardi per le cause ‘autoctone’ che questo implica). La situazione è quella documentata su queste pagine da numerosi casi veneti: paesi in cui le richieste di cittadinanza dall’estero sono superiori al dieci per cento della popolazione, anagrafi in tilt e minacciate di ricorsi al TAR e risarcimenti, centocinquantamila domande presentate solo in Veneto e solo dal Brasile nell’ultimo anno, pletore di avvocati, consulenti e intermediari che ci campano sopra (c’è sempre business dove lo stato non applica ciò che promette), e il rischio di un effetto valanga con potenziali distorsioni persino della democrazia: con un minimo di organizzazione questi neo-cittadini non residenti potrebbero distorcere il risultato elettorale a loro favore, decidendo sindaci e maggioranze.
Ce ne sarebbe abbastanza per far diventare questa una notizia politica di rilievo nazionale, e pure urgente. Rimane invece, per ora, cronaca locale, derubricata a intoppo burocratico, a problema amministrativo. Come spesso succede, manca il coraggio di affrontare il problema alle radici.

(nella foto: il Comune di Val di Zoldo espone la bandiera brasiliana. L’ente locale ha 2.745 abitanti, di cui 1.720 residenti all’estero, la metà dei quali vive in Brasile: in questo momento ha 551 pratiche pendenti di discendenti di italiani residenti in questo paese)

Finti e veri italiani, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 4 febbraio 2024, editoriale, p.1

Perché è ragionevole il limite ai mandati

Luca Zaia gode di tassi di consenso stratosferici: di approvazione trasversale, di immarcescibile e persino crescente popolarità, in fasce assai diverse di popolazione, per età, livello di istruzione, genere, professione.

Non ne diamo un giudizio politico. Non è quello che ci interessa, in questa sede. Lo constatiamo, e basta. È un animale politico di rara abilità e longevità. E vorrà dire qualcosa se il suo consenso personale trascende la sua parte politica, e pesca abbondantemente anche in quella avversaria.

Ma è sufficiente, questo, a giustificare un altro mandato come governatore, e un altro ancora? Vale per lui, come per gli altri governatori, per i sindaci, per gli assessori, e per le altre cariche apicali della politica che prevedono il limite dei due mandati (che poi, nel caso specifico, si tratterebbe del quarto mandato, e non del terzo, visto che governa da prima che entrasse in vigore la norma sui due mandati: è presidente della regione ininterrottamente dal 2010, ed è stato suo vice-presidente dal 2005, se escludiamo una breve parentesi come ministro).

Chi sostiene l’abolizione del limite dei mandati ha un argomento forte: il consenso, la volontà popolare (se pure espressa da un numero sempre minore di elettori: oggi basta la metà più uno dei consensi di meno della metà degli elettori a vincere – e il trend di partecipazione continua a calare, cambiando di molto il significato dell’espressione “volontà popolare”, riducendola di fatto a un suo simulacro). E un altro ancora: perché solo loro? Perché non anche i parlamentari, o i consiglieri comunali, provinciali e regionali? L’obiezione ha senso: seppure chi governa ha un potere molto maggiore di chi si limita a rappresentare. E comunque varrebbe la pena ragionare sul fatto di introdurre il limite anche per gli altri, come alcuni partiti hanno fatto volontariamente. Si dice che così non si formano professionalità politiche adeguate: ma non abbiamo alcuna controprova che, se ci fosse stato maggiore ricambio, le cose sarebbero andate peggio. Mentre abbiamo molti indizi che, con i professionisti della politica, i signori delle tessere, le consorterie permanenti, le rendite di posizione, le ‘ditte’ di vario tipo, le cose siano comunque andate molto male.

Il fatto è che sapere di avere una scadenza, per quanto lontana, obbliga i partiti, e gli stessi leader, a far crescere un ceto politico di ricambio, fresco e innovatore, capace e professionale. Mentre in assenza di limiti le elite tendono ad autoperpetuarsi, e hanno tutto l’interesse non solo a non favorire, ma a ostacolare e impedire attivamente l’emergere di figure politiche concorrenti. Creando un danno enorme: almeno se crediamo che la concorrenza abbia un valore e la meritocrazia un senso, anche al di fuori del mercato e dell’economia.

Piaccia o non piaccia, un monarca, per quanto costituzionale, porta con sé i soliti noti, gli amici e i consiglieri fidati, le cordate e le clientele abituali, i garanti dell’ordine costituito: le proprie corti e i propri cortigiani. Mai figure, come si dice oggi, disruptive, innovative; quasi mai un cambiamento di visione; e mai processi che possano mettere in questioni gli obiettivi raggiunti, o esprimere un giudizio critico sul passato. E questo molto al di là della volontà dei singoli. Del resto, è quello che si è visto in regione anche dopo le ultime elezioni: le continuità, le inerzie (la forza più grande della storia, diceva Tolstoj) hanno prevalso nettamente sulle discontinuità – basta guardare alle nomine e agli assessori. Squadra che vince non si cambia, si dice: il problema è intendersi sul concetto di vittoria – alle elezioni o nella competizione globale? È un aspetto, non secondario, della legge ferrea delle oligarchie di cui parlava uno studioso italiano, Roberto Michels, già all’inizio del secolo scorso. Un leader, inoltre, può pure sembrare eterno e immortale (il potere dà questa illusione), ma invecchia anche lui. E come tutte le persone che invecchiano finisce per vivere più di abitudini che di cambiamenti, per essere più legato al passato, alla nostalgia del buon tempo andato (che peraltro non tornerà mai più: il Nordest è cambiato completamente, dai fasti del suo modello alle difficoltà attuali) che al futuro con i suoi rischi e le sue opportunità, su cui bisogna saper scommettere.

Tra chi punta sulla continuità – che forse è mero continuismo – c’è chi teme il vuoto di potere. Ma il vuoto di potere non esiste. Semmai esiste il potere del vuoto. Che è quello che la politica mostra aspirando a perpetuare sé stessa, anziché aprirsi a un nuovo modo di pensarsi e di pensare la società.

 

Il potere che cambia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 17 dicembre 2023, editoriale, p.1