Autonomia e LEP: si comincia (non bene)

Il CLEP, o Comitato per i LEP (quello che dovrebbe decidere sui livelli essenziali delle prestazioni, un meccanismo fondamentale per far partire l’autonomia), è stato appena nominato. Sarà composto da 61 membri, coordinati da Sabino Cassese, che conosce come pochi la macchina dello stato. Poiché qualcuno ha definito il comitato come la Costituente dell’autonomia differenziata, ovvero l’organo che dovrebbe determinarne le linee guida e la fattibilità reale, ci piacerebbe poter auspicare che i lavori siano brevi: in un anno e sette mesi i costituenti (che erano 556: ma la Commissione per la costituzione, che materialmente scrisse il testo base per la discussione, era composta di soli 75 membri, e impiegò appena sei mesi a svolgere il suo lavoro) partorirono un’intera costituzione che serviva a inventare una repubblica di sana pianta. Per definire i LEP, in teoria, di tempo dovrebbe bastarne assai meno. Il realismo, tuttavia, ci spinge a qualche pessimismo in più.

Al di là dei tempi previsti o prevedibili (si auspica un anno, ma vedremo), ci sono altri aspetti che colpiscono, nella composizione del comitato. Il primo è la suddivisione professionale. Non solo la forte presenza, ma addirittura la dominanza praticamente monopolistica di giuristi a vario titolo: come se fosse solo una questione di norme, e di come scriverle. Manca quasi completamente, non me ne vogliano i colleghi, il mondo reale: tre o quattro economisti, un demografo e un matematico decisamente non lo esauriscono. E gli esperti di sanità, di scuola, di lavoro, di formazione professionale, d’arte, di cultura, gli intellettuali, le scienze umane (ma anche le discipline scientifiche hard), l’impresa, l’agricoltura, l’artigianato, il commercio, gli esperti di squilibri territoriali, insomma, tutto quello di cui l’autonomia si dovrebbe occupare, dove sono? Vero che si tratta di definire i livelli essenziali di prestazione: ma vero anche che dovrebbero riferirsi a un contenuto su cui bisognerebbe ragionare nel concreto.

L’altra cosa che balza all’occhio del lettore appena avvertito, è l’equilibrio (o meglio, il totale squilibrio) di genere. Di 61 membri, solo 7 sono donne (più una coordinatrice). Il dieci per cento o poco più. Se si pensa che nella commissione dei 75 le donne erano 5, non pare si siano fatti passi avanti significativi dai tempi della Costituente: la percentuale è quasi uguale (vero, nell’assemblea lo squilibrio era maggiore: 21 donne su 556).

Perché ci sembra, questa, una notizia, e non buona? In altri tempi, dopo tutto, sarebbe passata sotto silenzio. Ecco, direi proprio per questo: perché sono cambiati i tempi. Ma la politica non se ne rende conto. E il non accorgersi del problema (anzi, il non capire che è un problema) mostra un ritardo culturale sostanziale.

C’è una miopia profonda dietro al mancato rispetto della parità di genere: che già in un paese appena (più) civile provocherebbe un’indignata reazione. E non per la necessità di tutelare una qualche forma di quote che mi rifiuto di chiamare ancora rosa (manco le femmine si vestissero ancora di rosa e i maschi d’azzurro, superata l’età del fiocco da appendere fuori casa per segnalare la nuova nascita – e forse dovremmo aggiornarci anche su quello). Non è solo un segnale (l’ennesimo, certo) di mancata presa in considerazione, se non di disprezzo, dell’altra metà del mondo. E, no, non è un problema di forma, ma di contenuto. Non (solo) di metodo, ma di merito. La composizione di genere del comitato è clamorosamente sbagliata nella sostanza, oltre a essere antistorica e segnalare un incredibile scollamento dalla realtà del ceto politico. È sbagliata nel merito dell’autonomia, proprio: per capirne le urgenze, le gerarchie, la complessità. Scuola, infanzia, servizi sociali, salute, per citarne solo alcuni: possiamo immaginare questi problemi, oggi, senza comprenderne la dimensione di genere, familiare, di suddivisione dei ruoli? Possiamo davvero immaginare di definire i requisiti di base, e la persistenza degli squilibri, senza un punto di vista femminile?

Solo giuristi maschi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 28 marzo 2023, editoriale p.1

L’autonomia non è per domani. Forse, per dopodomani.

Difficilmente l’autonomia sarà approvata nel primo consiglio dei ministri del nuovo governo, figlio del risultato elettorale prossimo venturo. Al contrario, è destinata ad allontanarsi nel tempo, anche se sarà solo uno slittamento provvisorio. Non perché non sia un obiettivo politico in sé: lo è e lo rimane, e le regioni interessate sapranno fare le dovute pressioni, a cominciare dal Veneto. Ma perché sarà inevitabilmente subordinata ad altri obiettivi politici, o meglio bilanciata con essi.

Con l’attuale governo tecnico, sostenuto da una amplissima maggioranza politica, l’autonomia differenziata era raggiungibile. La cosiddetta bozza Gelmini era già stata considerata accettabile dalle regioni interessate, e il sostegno partitico era trasversale, dunque l’approvazione sicura, perché sostenuta da tutti i partiti della maggioranza, Movimento 5 Stelle incluso. Ora non è più così. L’annunciato trionfo elettorale del centrodestra, al cui interno ci sono i partiti che più hanno a cuore l’obiettivo dell’autonomia, paradossalmente ne allontanerà almeno temporaneamente l’approvazione: per una dinamica legata agli equilibri interni alla coalizione, più che per il ruolo delle opposizioni. Non per le ragioni evocate in passato: le differenze tra una Lega autonomista e Fratelli d’Italia centralista. Di fatto non è più così: sia perché la Lega è diventata negli anni partito nazionale e non più solo territoriale, sia perché si annuncia per Fratelli d’Italia un plebiscito elettorale anche nelle regioni del nord che l’autonomia l’hanno sempre richiesta, come il Veneto, e quindi sarà una bandiera sostenuta anche da questo partito. Ma semplicemente perché Fratelli d’Italia in particolare (che, stando ai sondaggi, sarà di gran lunga il partito maggiore, e del governo otterrà la premiership) vuole arrivare ad approvare anche il presidenzialismo: e le due riforme – entrambe importanti ed entrambe di notevole impatto costituzionale – avranno bisogno della costruzione di delicati e complessi bilanciamenti, che richiederanno tempo e sapienza giuridica per essere approvati.

Non solo: poiché il governo non sarà più tecnico e in qualche modo di unità nazionale, i partiti che resteranno all’opposizione avranno meno interesse a giocare un ruolo costruttivo. Anche perché se sull’autonomia il Partito Democratico aveva assunto un indirizzo sostanzialmente favorevole (ricordiamo che l’autonomia differenziata è richiesta anche dall’Emilia-Romagna, governata dal PD), sul presidenzialismo le questioni saranno molto più complesse, e l’opposizione maggiore. Senza contare che il M5S, che nell’ambito del governo Draghi – che sosteneva – avrebbe votato a favore, in futuro, poiché la sua sopravvivenza sarà dovuta soprattutto al voto di protesta del Sud, è probabile che si sfili.

Non si tratta dunque di un abbandono del progetto, anche perché l’autonomia è nel programma elettorale della coalizione che verosimilmente governerà l’Italia dopo le elezioni, e oltre ai partiti maggiori la sostiene anche Forza Italia. Le regioni che la vogliono attiveranno inoltre le attività di lobbying necessarie. Ma di un rinvio temporaneo inevitabilmente sì. Ed è bene saperlo, per non alimentare aspettative che rischierebbero di essere disilluse. L’autonomia in qualche modo si farà: ormai è nella logica delle cose. Semplicemente, non sarà per domani. Probabilmente, per dopodomani.

L’istinto gregario: il terribile conformismo della politica

In quello che molti hanno definito il tradimento del Nord (la fiducia tolta dalle forze politiche che pretendono di rappresentare il territorio a un presidente del consiglio che tutte, ma proprio tutte, le categorie economiche e professionali, e moltissime articolazioni sociali del medesimo territorio – e d’altrove – volevano fortissimamente che rimanesse al governo) c’è un aspetto che non sottolinea nessuno: che è umano, prima che politico.

Colpisce, delle vicende di questi giorni, la caratura del ceto politico: composto quasi senza eccezioni di yesmen e yeswomen (Sciascia li avrebbe definiti ominicchi, o più probabilmente quaquaraqua) che, pur non essendo d’accordo con quella scelta, non spendono una parola contro di essa, e anzi la giustificano a posteriori (mentendo sapendo di mentire), oltre ad averla obbedientemente votata. Sembra quasi che la politica produca un’antropologia propria: un tipo umano che è sostanzialmente l’opposto di quello che, almeno a parole, la maggior parte di noi (e di loro) vorrebbe essere, e vorrebbe che i propri figli diventassero.

Nessuno (o quasi) di noi – o di quelli tra noi che hanno un minimo di strumenti cognitivi (che non necessariamente hanno a che fare con il livello di istruzione: è un sapere, anzi una sapienza, che molti possiedono come dote naturale) – educherebbe i propri figli all’obbedienza cieca, pronta e assoluta. Passiamo anni (e leggiamo libri, e facciamo corsi per genitori, e consultiamo psicologi) per imparare a farne degli individui adulti, autonomi, indipendenti, critici. E probabilmente raccontiamo di esserlo noi stessi, e cerchiamo di esserlo, nella nostra vita familiare e lavorativa, nelle nostre scelte, nei limiti del possibile. Ma quando si entra in politica, questo valore, questa virtù, sparisce. Improvvisamente sappiamo solo “obbedir tacendo” (e persino, in qualche caso, “tacendo morir”: se non altro di vergogna), delegando tutto al capo, che decide in maniera solitaria, e adeguandoci. Senza porci nemmeno la domanda se è giusto così, o che figura ci facciamo davanti al mondo, e magari anche davanti ai nostri figli.

È un dato trasversale, che non riguarda solo alcune forze politiche (semmai è ironico se chi non pratica l’autonomia di pensiero richiede invece autonomia per il proprio territorio: poiché c’è sempre un rapporto tra mezzi e fini, non adeguare i propri comportamenti ai valori che si rivendicano è un indicatore per capire se sono solo strumentali, o meno). Ma in questi giorni l’abbiamo visto all’opera in varie forze politiche, e in passato, a seconda delle questioni, più o meno in tutte. È un elemento, dunque, costitutivo della politica. Che tuttavia dovrebbe farci riflettere, e innescare qualche domanda in più: sul senso di una politica vissuta in questo modo. Non c’è disciplina di partito che tenga, in circostanze particolarmente gravi (l’abbiamo imparato a nostre spese nei periodi di dittatura: persino in casi estremi, che sfidano la propria coscienza, è spesso possibile dire il proprio sì o il proprio no, obbedire a un ordine o a una legge ingiusta o rifiutarsi di farlo). Eppure la manifestazione del dissenso (si può almeno dire la propria, in dissenso con la linea del partito, ma poi votare, appunto, per disciplina di partito) è merce sempre più rara. E quello che sorprende, appunto, non è tanto che accada: ma che venga accettato come normale, e che anche i militanti e gli elettori rivotino poi le stesse persone. Quasi che avessimo riconosciuto in loro l’istinto gregario che è anche in noi.

Un grande economista, Albert Hirschman, negli anni ’70 scrisse un saggio fondamentale, in cui mostrava le logiche dei due comportamenti dissenzienti fondamentali: la “voice” e la “exit”. La prima consente di articolare meglio il proprio pensiero, spiegare le proprie ragioni, indicare dove sta l’errore. La seconda è la presa d’atto che non ci si ritrova più nelle ragioni delle scelte fatte (o più banalmente che il prodotto non piace più), e si va via (o si sceglie un altro prodotto). Bene, nella vicenda della fiducia al governo di “voice” non se ne è praticamente sentita: i leader hanno fatto le loro scelte in solitaria, e molto in fretta (che, come noto, è sempre cattiva consigliera). Mentre si sono visti alcuni esempi di “exit” a posteriori: che tuttavia fanno eccezione (e se ne parla) precisamente perché sono rari.

 

Un ceto politico composto da yesmen, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” e “Corriere di Verona”, 24 luglio 2022, editoriale, p.1

Liste civiche contro partiti. Come cambiano i modelli organizzativi della politica

Civismo contro partiti. Potremmo leggere anche così l’esito di quest’ultima tornata elettorale. Un fenomeno certo non nuovo, ma in continua crescita e con nuovi e sempre più importanti protagonisti.

Le sfide elettorali comunali sono quasi sempre tra candidati civici, anche nelle grandi città. Alcuni di essi arrivano addirittura a snobbare del tutto i partiti, rifiutando perfino di incontrare in pubblico i leader nazionali venuti a sostenere le loro liste (come ha fatto Tommasi a Verona). E sempre più spesso le liste che ottengono più successo sono quelle personali dei candidati (cioè civiche, o travestite in modo da sembrarlo). Anche a livello regionale. L’esempio di maggiore successo è probabilmente quello di Luca Zaia. Certo, membro di un partito, leghista fino al midollo. Ma capace di non sembrarlo, accreditandosi in maniera personalistica, costruendo liste che hanno stracciato anche quelle del suo stesso partito di appartenenza: con un successo tale da rendere l’esperimento difficilmente ripetibile con altrettanta fortuna, e rendere improba perfino la ricerca di un successore.

Si possono elencare molte ragioni interne alla politica stessa per spiegare il crollo di consenso dei partiti. La fine dei partiti di massa, i numeri drammaticamente calanti di iscritti (e la progressiva incapacità di motivarli o tutelarli), la modesta caratura delle leadership, i processi di personalizzazione e disintermediazione che hanno schiacciato il consenso sui e sulle leader (oggi è quasi impensabile un partito, anche minuscolo, senza il nome del leader sul simbolo, quasi quanto sarebbe stato sacrilego nella prima repubblica immaginare quello di Berlinguer o di Moro sulla falce e martello o sullo scudo crociato).

Ma ci sono ragioni anche sociologiche che hanno influenzato queste dinamiche, ben al di là del crollo di fiducia nei partiti stessi. Il nostro orizzonte temporale è radicalmente cambiato, e oggi si proietta sull’oggi molto più che sul domani: in un processo di presentificazione degli orizzonti che non può non avere effetti sulla capacità di impegnarsi per obiettivi di più lungo termine. Tutto è più breve e cambia più velocemente: le mode come le opinioni. E contestualmente diminuisce la durata temporale di tutto: dei progetti e degli impegni, come dei matrimoni o delle scelte di fede. I processi di mobilità ci fanno cambiare sempre più spesso lavoro e latitudini, e dunque anche reti di relazione. E ci siamo abituati a farlo senza drammi apparenti. Non essendoci più né il posto né il matrimonio fisso (oltre la metà finisce in divorzio), figuriamoci se potevano rimanere fisse le appartenenze politiche.

I partiti, naturalmente, non sono morti. E non solo perché la costituzione tuttora affida a loro, e solo a loro, il ruolo dell’intermediazione tra lo stato e gli individui. Solo l’esistenza di organizzazioni dagli orizzonti lunghi può sedimentare la cornice valoriale in cui inserire le politiche contingenti, e solo istituzioni stabili possono consentire di trasmetterle creando un quadro dirigente diffuso, disponendo di uffici studi e scuole di partito, su cui tuttavia la maggior parte dei partiti in Italia ha rinunciato a investire (e quindi tanto vale la civica…). Ma per sopravvivere devono cambiare natura. Per rappresentare la società hanno bisogno di relazioni con l’esterno, precisamente perché non hanno più la società al loro interno: il dramma è che fanno fatica a farlo, al punto che la società, non sentendosi rappresentata, sta smettendo di partecipare ai rituali della politica (da qui l’astensionismo, e il civismo come alternativa funzionale). Oggi il consenso è volubile (basta pensare alla rapidità di parabole recenti, dal M5S a Renzi), e la partecipazione magari entusiasta, ma più sregolata e veloce, e per natura meno duratura. Per questo i partiti debbono anche diventare – e non c’è niente di male a trarne le conseguenze – delle specie di autobus: certo, con una vaga idea della direzione da intraprendere, ma capaci di far salire le persone anche solo per qualche fermata, finché di loro interesse, e cambiando conducente al bisogno, secondo capacità intercettate volta per volta.

 

I candidati civici e i partiti-autobus, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 15 giugno 20221, editoriale, p.1

Immigrati: la comoda svolta della Lega

La Lega, per bocca di un suo autorevole esponente, il ministro del turismo, apre all’ingresso di lavoratori immigrati per impiegarli nel settore, in profonda sofferenza per carenza di manodopera. La questione è cruciale. Meno lavoratori non significa solo maggior carico di lavoro per chi c’è: significa un servizio qualitativamente peggiore, e quindi turisti che la volta successiva sceglieranno altre mete, con un calo di reputazione, oltre che con un significativo danno economico, che avrà ripercussioni anche negli anni successivi.

Certo, il settore del turismo deve fare un ragionamento, e un’autocritica, sui salari e le condizioni di lavoro che offre, molto diseguali, e talvolta da capitalismo selvaggio. Tuttavia la manodopera mancherà comunque. Per problemi demografici di lungo periodo: il calo della forza lavoro autoctona è drammatico, e insieme alla ripresa delle emigrazioni (di italiani, ma anche di seconde generazioni, figli di immigrati nati qui, che con la cittadinanza e la libera circolazione se ne vanno altrove, dove evidentemente ritengono di essere trattati meglio) produce un cocktail esplosivo, anche per altri settori.

È naturalmente un bene che anche la Lega, che conta nel settore turistico-alberghiero una parte del suo elettorato, si sia accorta del problema. Né deve scandalizzare che lo faccia solo per interesse del settore coinvolto: se non altro gli interessi hanno una concretissima solidità che le emozioni, e anche i princìpi, decisamente più evanescenti, non hanno. Quello che un po’ stupisce (o meglio non stupisce, ma è politicamente poco decente) è che lo faccia senza sentire il bisogno di un minimo di autocritica rispetto a un trentennio di campagne ideologiche anti-immigrati, tradottesi in scelte istituzionali conseguenti e appassionatamente sostenute (come le leggi “prima i veneti”, e altre, che avevano lo scopo di rendere più difficile la vita agli immigrati stessi), che hanno portato un concretissimo dividendo elettorale alla Lega e al centro-destra, danneggiando tuttavia la comprensione della realtà della cittadinanza tutta (il meccanismo del capro espiatorio in politica funziona bene, e chi lo usa lo sa benissimo, e pur sapendo che non corrisponde alla realtà, lo usa lo stesso perché conviene).

Non basta dire che la svolta è necessaria perché la manodopera ora serve. Serviva anche prima. Ma al contempo gli immigrati non sono solo forza lavoro, ma persone. Il modello veneto si fonda saldamente sull’immigrazione. Gli immigrati costituiscono le percentuali più alte di manodopera tra i lavoratori della concia e del cuoio, seguono i tecnici di produzione alimentare, muratori e carpentieri, addetti ai magazzini merci, conduttori di macchine, operai delle pulizie, braccianti, operai del legno e del mobile, personale non qualificato nel turismo (che, come si vede, viene dopo molti altri settori), assemblatori di prodotti industriali e addetti all’agro-industria, saldatori e carpentieri, conduttori di mezzi pesanti, addetti ai servizi di pulizia e alla raccolta dei rifiuti, camerieri, manovali edili, professioni non qualificate dell’industria. E poi c’è naturalmente il piccolo esercito di colf e badanti.

Poiché politicamente si tratta di un’abiura vera e propria, visto che la Lega, fino a ieri, ha fatto di quella contro gli immigrati una battaglia di principio, varrebbe la pena portare il ragionamento un po’ più a fondo. Anche perché quello di cui parliamo è il Veneto di oggi e ancor più di domani.

La presenza complessiva di immigrati è del 9,9%, un residente su dieci (ma in alcuni comuni si avvicina a uno su cinque). Rappresentano l’11,8% degli occupati, tre volte gli italiani tra i lavoratori manuali, e il doppio tra i lavoratori manuali specializzati. Oltre un bambino su cinque è nato da genitori stranieri, e costituiscono il 14,1% dei ragazzi nelle scuole del Veneto (ma per il 71,1% sono nati in Italia). Mentre i matrimoni misti sono oltre il 15% del totale. Altro che emergenza turismo, dunque: è una nuova società, quella che si sta costruendo, molto diversa da quella raccontata per anni dalla politica, per comprendere la quale è necessario più di qualche passo avanti, innanzitutto culturale – per capire davvero in che direzione stiamo andando.

 

Immigrati, il cambio di rotta, in  “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 13 maggio 2022, editoriale, p. 1

La retorica dell’autonomia

L’autonomia, in questa regione, più che un obiettivo politico è sempre stata una retorica: una narrazione di successo, e per questo motivo molto utilizzata, ma troppo spesso priva di contenuto reale, buona da tirare fuori a giorni alterni a seconda delle convenienze del momento (specie in prossimità delle scadenze elettorali), e dimenticata per il resto dell’anno. Lo dimostrano anche le polemiche di questi giorni. Il Partito Democratico ha promosso un convegno sul tema, sostenendo che, visto che di autonomia tanto si parla ma poco si fa e ancor meno si ottiene, meglio chiedere l’autonomia solo sulle sette materie più facilmente gestibili a livello regionale (come ha fatto la pragmatica Emilia-Romagna, senza neanche bisogno di celebrare un referendum) – e che includono questioni importanti come politiche del lavoro, istruzione e formazione professionale, sostegno alle imprese, governo del territorio – che pretenderla su tutte e ventitré le competenze concorrenti e invocando la gestione dell’intero residuo fiscale (cosa che non ha fatto nemmeno la Lombardia, pure essa a trazione leghista), e ottenerla su zero. Come reagisce la Lega? Come troppo spesso è avvenuto. Ripetendo per bocca del suo capogruppo il suo mantra: o tutto o niente. Cioè, a tutt’oggi, niente.
Sono anni che si va avanti così. Da ben prima del mitico referendum, dal quale ci separano già quattro anni e mezzo: che avrebbe dovuto rappresentare una svolta storica (andate a riprendervi slogan e articoli di giornale dell’epoca), l’inizio della fine dell’odiato centralismo statale. E invece niente. Siamo al punto di partenza, forse anche un po’ più indietro: con meno convinzione, zero entusiasmo, e forse ancora meno argomenti che in passato, dato che tutti i messaggi troppo ripetuti e mai praticati finiscono per usurarsi, e trasformarsi, per l’appunto, in vuota retorica, in ipocrita attestazione di principio (un po’ come quando i genitori ci ripetono per anni sacri principi di comportamento che sono i primi a non mettere in pratica).
Ci sono molti motivi per cui questo è successo. E moltissimi sono in carico ai nemici dell’autonomia: lo stato che si muove con lentezza pachidermica (senza tuttavia apprezzabili differenze tra i momenti in cui gli alfieri dell’autonomia sono all’opposizione o al governo), le regioni del Sud che si oppongono per non perdere, oltre che dei privilegi, dei modi inerziali di governare il consenso, la contrarietà di burocrazie e corporazioni. Ma alcuni sono in carico alla responsabilità della classe politica di governo veneta, che ha incassato su questo un assegno in bianco, e della sua classe dirigente (produttiva e intellettuale, e anche politica di opposizione) che gliel’ha rilasciato, senza mai andare a vedere come e se è stato speso, il dividendo dell’autonomia. Se, oltre al consenso per chi se ne faceva alfiere, ha mai portato altro. E senza attivarsi in proprio per produrre dei risultati.
Certo, c’è una coscienza diffusa che sarebbe utile e necessaria. Ma forse perché obnubilati dalla eccessiva facilità con cui funzionava lo slogan, non si è mai andati oltre o sotto di esso, a cercare di riempirlo di contenuto. Ci sono alcuni bravi specialisti al lavoro, incontri tra delegazioni che ancora si svolgono. Ma niente che assomigli a una serie ben delineata e attuabile di proposte concrete. Non un quadro complessivo di previsioni e calcoli precisi di vantaggi e svantaggi, di costi e benefici, su cui poter discutere, accalorarsi, litigare. Non la formazione di un gruppo competente di esperti e decisori pubblici capaci di elaborare l’applicazione pratica di principi generici, e di discuterla con gli attori sociali coinvolti e le forme organizzate di società civile. Non la road map della fase di transizione, con l’individuazione di responsabilità e forme di controllo, ruoli decisionali e funzioni ispettive, tempi, modi e luoghi di partecipazione. Non una consultazione continua degli operatori dei vari settori per favorire la messa in pratica dei provvedimenti necessari, anticipandone gli scenari e i rischi (ci si prepara prima, non dopo, se si vuole affrontare una sfida nuova e difficile). Non una discussione pubblica e appassionata, convinta e coinvolgente, sul merito delle scelte da compiere. Ecco, si ricominci da qui: dal come, con chi, per fare cosa, in che modo – nel merito. È già tardi, ma meglio tardi che mai. O l’autonomia non sarà altro che quello che oggi sembra già essere diventata: l’ennesima occasione persa.

Autonomia, realtà e retorica, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 19 aprile 2022, editoriale, p.1

L’uso strumentale della giornata della memoria. Come dimenticarsi del nazifascismo.

Il testo scritto dall’assessore veneto all’Istruzione, Elena Donazzan, per la giornata della memoria, “alla Comunità Educante e Scolastica delle scuole del Veneto di ogni ordine e grado”, induce a una certa tristezza. Non scandalo, non rabbia, non sdegno, non costernazione, non imbarazzo (quello dovrebbe indurlo in chi l’ha scritto e trasmesso senza suggerire correzioni), ma la tristezza di vedere le istituzioni e le cose serie, come appunto la giornata della memoria, che dovrebbero essere utilizzate per unificare e riflettere, utilizzate invece, in un’ottica di parte, per confermare i propri pregiudizi ed esacerbare anziché sanare le divisioni nella società.

Donazzan riesce, in poche righe, nel capolavoro di richiamare al dovere di ricordare la persecuzione degli ebrei, ma senza nominare il fascismo, senza nominare il nazismo, senza nominare le leggi razziali e la dottrina della razza elaborata e attivamente sostenuta nel nostro paese, senza nominare il programmato genocidio di massa perpetrato dal nazismo e sostenuto collaborativamente e fattivamente dal fascismo italiano, senza nominare i campi di sterminio, di concentramento e di transito esistenti anche in Italia, senza nominare i vagoni piombati e l’Olocausto, ma in compenso citando per ben due volte il fondamentalismo islamico. Questo in un paese dove ancora in questi giorni ragazzi italiani hanno insultato altri ragazzi italiani in quanto ebrei, dove l’antisemitismo e l’antiebraismo circolano liberamente, frequentemente e senza condanna alcuna in ambienti politici e tifoserie calcistiche certamente più vicini all’elettorato dell’assessore all’Istruzione che nelle moschee d’Italia.

Capiamo sia difficile essere equanimi per chi ancora un anno fa, di questi giorni, preferiva cantare “Faccetta nera” alla radio, ricordando che il fascismo ha fatto anche cose buone (anche Hitler, anche Mao, anche Kim Joung-un, anche Stalin, o più recentemente Putin, hanno fatto certamente anche cose buone…); da parte di chi ha partecipato a feste di compleanno con torte con i simboli del fascismo e delle SS in compagnia dei colleghi di partito, o derubricava a goliardata il saluto romano e l’esposizione della bandiera della Repubblica Sociale dei suoi supporter vicentini; e infine da parte di chi ce l’ha sempre avuta con l’islam al punto da intervenire persino per impedire l’intervento di un innocuo imam (premiato anche da organizzazioni cattoliche per il suo impegno nel dialogo, conosciuto anche ai vertici delle istituzioni regionali, e molto attivo a fin di bene nel Nordest) in una scuola, esulando ampiamente dalle sue competenze in materia. Tutte cose di cui l’assessore Donazzan è stata perdonata troppo spesso: e tanto più sorprendente all’interno di una giunta il cui presidente, Zaia, ha invece avuto sempre parole molto chiare e inequivocabili sul fascismo, sulla Shoah, sulla persecuzione degli ebrei, sulla memoria.

Forse sarebbe auspicabile, da parte di chi agisce come rappresentante di un’istituzione, e non di una parte politica, un profilo un po’ più basso e un po’ più istituzionale, appunto. Forse sarebbe utile vedere lo stesso impegno nei compiti che sono invece propri dell’istituzione che si presiede: magari nel migliorare l’edilizia scolastica e nel dotare le scuole di rilevatori di CO2 e di filtri Hepa per migliorare l’areazione delle aule e diminuirne la pericolosità nella trasmissione del virus, anziché suggerire di cosa si debba o non si debba parlare nelle suddette scuole, inoculando altri tipi di virus. E se proprio si vuole parlare di un argomento più complicato di certe semplificazioni, lo si faccia in altro modo. Invece di fare una equivoca o equivocabile classifica degli antisemitismi, o scivolare su una discutibile comparazione tra antiebraismo e discussione critica nei confronti delle politiche dello stato di Israele, si ricordi che esistono un antiebraismo di destra (con il significativo dettaglio che è stato al governo nel Ventennio, con esiti letteralmente mortali per gli ebrei), un antiebraismo di sinistra, uno islamico, uno cristiano (non a caso più di un papa dignitosamente di esso ha chiesto perdono, invece di accusare altri), e tanti altri. E che quindi tutti insieme siamo chiamati a riconoscerlo nei nostri rispettivi ambienti, a condannarlo esplicitamente e a superarlo, ognuno a casa sua, senza cadere in discutibili comparazioni sulle dimensioni delle pagliuzze e delle travi negli occhi di ciascuno. Questo sarebbe l’alto messaggio educativo che ci aspetteremmo dalle istituzioni, in occasione della giornata della memoria.

 

L’orrore dimenticato del nazismo e del fascismo. La Shoah e il testo sbagliato dell’assessore all’istruzione, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 gennaio 2022, editoriale, p.1

Se i parlamentari sono più uguali degli altri. Il caso Sara Cunial.

La deputata veneta no vax Sara Cunial, ex M5S, potrà accedere al Parlamento senza green pass, seppure dalle tribune e seguendo un percorso predefinito (e, immaginiamo, con il vuoto intorno, visto che la deputata non è solitamente propensa nemmeno all’uso della mascherina). Questo, in attesa di una decisione definitiva, che dovrebbe essere presa l’1 dicembre, sulla richiesta di sospensiva del divieto di accesso, richiesta appunto dalla deputata. La decisione è stata presa dal collegio dei questori della Camera dei Deputati, ed è un modo per mettere una pezza al decreto del presidente del consiglio di appello, anch’egli un ex grillino e anch’egli su posizioni anti green pass, che, con una solitaria decisione, ha sostenuto il diritto della deputata ad assistere ai lavori in ottemperanza al suo mandato parlamentare.

Non ce l’abbiamo con la deputata, i cui destini personali sono ininteressanti, e che probabilmente non avrà alcun futuro nelle istituzioni: è una delle tante miracolate della politica appartenenti a quella corte dei miracoli – più ampia di altre – che è stato il Movimento 5 Stelle nel momento del suo maggiore fulgore, che gli ha fatto portare nelle istituzioni la classe dirigente più pittoresca e incompetente di sempre. Nel caso di specie, è stata espulsa persino dallo stesso M5S per le sue posizioni antiscientifiche e anti vaccini, ed è incline a combattere tutte le cause di questo universo subculturale, dalla lotta contro il 5G all’abbraccio dei più disparati complottismi: ciò che l’ha portata anche all’occupazione del Consiglio regionale del Lazio con l’altrettanto pittoresco consigliere ex M5S Davide Barillari, e ha portato alla chiusura della sua pagina Facebook per il suo contributo alla diffusione di fake news.

Il segnale mandato dalle decisioni prese in parlamento va tuttavia oltre il suo caso personale. E getta una luce inquietante sullo stesso principio di autodichia, in nome del quale il Parlamento può prendere decisione giuridiche su sé stesso e i suoi membri in deroga ai principi giuridici che valgono per i comuni cittadini. Una decisione che fa molto casta, anche perché probabilmente non varrà per i dipendenti delle camere, non parlamentari, che, pure essi, stanno facendo obiezione al green pass.

Tra le motivazioni addotte per consentire l’ingresso della deputata c’è infatti anche quella, abbastanza surreale, per cui è giusto dare visibilità a tutte le posizioni presenti nel paese. Se anche fosse, non si capisce perché ciò debba essere fatto violando le leggi vigenti nel paese: che impongono l’esibizione del green pass nei luoghi di lavoro, quale anche il parlamento è, o dovrebbe essere. I parlamentari sono lì, nel caso, per modificare le leggi ed approvarne di nuove, se vogliono, ma non certo prendendosi la libertà di violare quelle in vigore.

L’esempio che viene dato ai cittadini con questa decisione – speriamo solo provvisoria – è che la legge non è uguale per tutti, e che tutti i cittadini sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri, come nel “1984” di George Orwell: ed è solo un’ulteriore ironia che questo avvenga proprio da parte di chi sproloquia di dittatura sanitaria e lamenta disparità di trattamento invocando la propria libertà di scelta, a spese di quella altrui (per inciso, ricordiamo di passaggio che stiamo per decidere di vaccinare anche i bambini per compensare la non volontà di vaccinarsi di alcuni adulti, a loro volta surclassati dalle percentuali di vaccinazione dei giovani: il che la dice lunga su un’altra guerra in corso, generazionale, di cui non parla nessuno, e che attraversa tutta la vicenda del Covid).

Ecco perché speriamo che la Camera, il primo dicembre, saprà rovesciare la decisione adottata. Perché sarebbe un’onta e una vergogna per la sua autorevolezza e per la sua credibilità, oltre che un ulteriore schiaffo per noi, cittadini comuni. Che non meritiamo. E che non meritano, soprattutto, quelli che sono in prima fila nella lotta contro il Covid, negli ospedali e nelle terapie intensive.

 

La cittadina più uguale degli altri. Il caso Cunial, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 20 novembre 2021, editoriale, p.1

Cittadinanza onoraria a Bolsonaro: ne valeva la pena?

Ma ne valeva davvero la pena? Ma chi gliel’ha fatto fare, al comune di Anguillara, di dare la cittadinanza onoraria a un personaggio discutibile e discusso, non per le sue qualità, ma solo perché è famoso e potente? Certo, Jair Bolsonaro è il presidente eletto del Brasile, e la sua carica merita rispetto. Ma davvero questo basta a far finta di non vedere come la carica viene incarnata? Perché il problema è lì: una visita privata, per incontrare i discendenti del bisnonno emigrato, non si nega a nessuno, tanto meno a un presidente. Magari poteva essere il modo per ricordare il dramma delle migrazioni, che unisce il Veneto e il Brasile, per le partenze di allora, e i tentativi di recuperare ascendenze italiane per ottenere un prezioso passaporto europeo degli italo-brasiliani di oggi. Ma onorare con una cittadinanza è altra cosa. Onore sta per dignità, reputazione, valore morale, considerazione, rispettabilità: attesta cioè del come si è esercitato un ruolo, non del fatto che lo si è ottenuto. Di quale onore è portatore il Bolsonaro autoritario, militarista, machista, misogino, omofobo, sprezzante delle minoranze, delle popolazioni indigene, della gente di colore, in ottimi legami col peggior establishment finanziario e fazendeiro, nepotista (tre dei suoi figli sono sotto inchiesta per scandali e malversazioni varie), no vax, no mask, complottista, negazionista del Covid al punto che il suo stesso Senato gli imputa 400mila dei 600mila morti brasiliani a causa della pandemia, soprattutto tra i più poveri, che si sarebbero potuti evitare prendendo qualche misura di contenimento?

Certo, si può derubricare il tutto a un atto di banale provincialismo. Il piccolo comune dimenticato che grazie al pronipote di emigranti locali diventato presidente conquista un insperato quarto d’ora di celebrità: peccato veniale e comprensibile. Ma ci si poteva accontentare di un incontro coi lontani parenti e col sindaco. La cittadinanza onoraria presuppone un onore, appunto, un merito: nel caso specifico, dov’è?

Soprattutto, si poteva evitare la strumentalizzazione politica. Ci sarà un motivo per cui l’intero mondo democratico ha preso le distanze da Bolsonaro (rispettandone il ruolo ma evitando qualsiasi omaggio alla persona), evitandolo al G20 e isolandone le posizioni alla Cop 26, la conferenza sul clima alla quale non si è nemmeno presentato (e dove, da responsabile dell’aumento degli incendi e delle deforestazioni in Amazzonia, sarebbe stato discretamente fuori luogo). E così in Italia, l’hanno evitato accuratamente il presidente del consiglio, il ministro degli esteri, il presidente della regione, tutti i leader politici (tranne uno), e a livello locale persino la diocesi di Padova si dichiara ufficialmente – testuale – in “forte imbarazzo, stretti tra il rispetto per la principale carica del caro paese brasiliano e le tante e forti voci di sofferenza che sempre più ci raggiungono, e non possiamo trascurare, gridate da amici, fratelli e sorelle”, rifiutandosi di incontrarlo. Solo la Lega ha voluto omaggiarlo, da Salvini suo capo politico agli esponenti locali del Carroccio, passando per una manciata di europarlamentari. E questo forse ci dice di più su Salvini (e un pezzo della Lega) che su Bolsonaro stesso: con l’ansia di visibilità che spinge verso il distinguersi nell’abbracciare posizioni estreme e personaggi discutibili, ostentandolo, che fa aggio sulla capacità di sostenere una scelta di campo esplicita in favore dell’Europa e della democrazia liberale – causando pesanti mal di pancia all’altra Lega, che invece questi dubbi non li ha, ma non ha il coraggio di discutere apertamente le compatibilità di una Lega con l’altra, di Orban con von der Leyen, e appunto di Bolsonaro con la civiltà.

 

Ma ne valeva la pena?, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 3 novembre 2021, editoriale, p. 1

La fase adulta dell’autonomia

Il presidente Luca Zaia, nel quarto anniversario dalla celebrazione del referendum, dice giustamente che l’autonomia si conquista passo dopo passo, con un approccio pragmatico: non strepitando nelle piazze. Bene, forse è il segnale che sancisce l’uscita dalla fase puerile della richiesta di autonomia (vogliamo tutto, vogliamo di più – magari vogliamo anche l’indipendenza, come in uno dei quesiti a suo tempo cassati dalla Corte Costituzionale) per entrare nella fase adulta: vediamo cosa si può fare, come, con chi, per arrivare dove.

È un utile contributo. Finalmente, verrebbe da dire. Ma anche un ripensamento non dichiarato, una resipiscenza non ammessa, e un giudizio implicito sulla fase precedente.

Lo stesso referendum è stata una legittima forzatura: una ragionevole pressione nella direzione dell’autonomia come obiettivo politico generico, quando ancora non la si era delineata nei suoi contenuti specifici. Come lo è stata la richiesta – a differenza delle altre regioni che più hanno spinto nella direzione dell’autonomia, con o senza celebrazione di referendum (la Lombardia con, l’Emilia-Romagna senza) – di volerla su tutte le 23 materie e competenze concorrenti: anche quelle in cui palesemente non sarebbe possibile né sensato, o addirittura non conveniente e controproducente. Quelle, effettivamente, erano richieste adolescenziali: tipiche del periodo in cui si vuole appunto maggiore autonomia dalla famiglia, ma non si sa ancora per farne cosa, e per andare dove – e non si hanno ancora veramente i mezzi per fare da soli.

Però, va detto, se siamo rimasti a lungo allo stadio infantile del dibattito, è perché qualcuno ha spinto in questa direzione. Perché è facile e comodo, dare sempre la colpa agli altri, come i bambini: in Veneto non solo la politica, ma gran parte dei media, e molti cittadini, sono permeati di questa narrazione deresponsabilizzante e forse liberante ma, appunto, infantile; secondo la quale se l’autonomia non c’è ancora è colpa solo dello Stato che non ce la dà.

In effetti in questi quattro anni – e prima, nel periodo che ha alimentato la campagna referendaria – non si è fatto altro che spingere sull’emotività del desiderio, lasciando da parte la razionalità del processo: tanto che se chiedessimo, a chi è favorevole all’autonomia, in che cosa ‘esattamente’ dovrebbe esplicarsi, quali sarebbero i vantaggi e svantaggi rispettivi nei diversi ambiti, la maggior parte non saprebbe cosa rispondere e come articolare un’opinione. Forse anche tra coloro che la materia la dovrebbero maneggiare.

Il motivo è semplice: gli adulti sono costretti a fare i conti, ad analizzare costi e benefici, a mediare con interessi diversi – anche perché per ottenerla, l’autonomia, bisogna conquistare una solida maggioranza in parlamento, ovvero convincere anche gli altri. Inoltre bisognerebbe discutere su che cosa si vuole farne. E un dibattito largo e aperto, con i contributi solidi dei corpi intermedi, in regione, su questi temi, non si è veramente mai aperto. L’altro problema è che per diventare adulti, usciti dalla fase adolescenziale, e per assumere una responsabilità maggiore nel mondo, occorre formarsi, prepararsi, studiare. Dove sono i luoghi di formazione della classe dirigente dell’autonomia? Su quali dossier si sta veramente preparando? Nella fase puberale ci si può accontentare degli slogan e delle parole d’ordine: voglio l’autonomia. La fase adulta presuppone la risposta a domande sul come, sul chi è in grado di perseguirla, e anche sul perché, per andare dove.

La sensazione è che finora la vaghezza dei contenuti sia stata precisamente la garanzia del più vasto consenso trasversale: per cui si è volutamente rimasti lì. Ora, a prendere sul serio Zaia, è il momento di affrontare responsabilmente i contenuti: il che vuol dire avere il coraggio – che finora non c’è stato – di discutere nel merito, coinvolgendo il meglio della società civile, e di dividersi su ricette e modalità di preparazione. È questa la vera svolta, il vero cambio di passo. Che è giunto il momento di perseguire, se davvero vogliamo raggiungerla, la nostra maggiore autonomia.

 

Autonomia: la fase “adulta”, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 ottobre 2021, editoriale, p. 1