Zaia e il terzo mandato. Perché non è una buona idea
Le ragioni e le disragioni del terzo mandato ai presidenti delle regioni sono state ampiamente discusse. Chi vuole abolire il limite, usa l’argomento del consenso: se il popolo vuole così, chi siamo noi per impedirglielo? Un modo superficiale e tendenzioso di intendere la democrazia: che non è una vaga espressione di volontà popolare, per come la interpreta il potente di turno (quello è il populismo: che può accontentarsi di distribuire qualche beneficio mirato, offrire un po’ di circenses, o trovare un qualche capro espiatorio, per mantenere il potere). Ma è fatta di cose scomode e indispensabili, come regole, bilanciamenti e controlli del potere. In cui il limite dei mandati gioca un ruolo eminente: non a caso è presente nei più diversi contesti. E non vale l’argomento che in altre cariche rappresentative, come parlamentari o consiglieri regionali, non c’è (anche se il fatto che se ne discuta, e che qualcuno saltuariamente lo applichi di sua sponte, fa emergere che il problema è sentito anche lì). Queste hanno un peso molto minore: il potere reale ce l’hanno le cariche istituzionali di governo. E il pericolo di periodi di governo troppo lunghi sta precisamente qui.
Il professionismo in politica ha i suoi vantaggi. E abbiamo visto in questi anni le catastrofi prodotte dai dilettanti allo sbaraglio: trovare un equilibrio non è semplice. Ma il continuismo produce concentrazioni di potere inamovibili, cerchie di cortigiani, incarichi ai soliti noti, consorterie, clientele, habitués, inerzie amministrative, rendite di posizione (dovute al fatto di esserci, non di fare), privilegi mai messi in discussione, scarsa circolazione di idee (bastano le routines), incapacità di produrre innovazione: indispensabile, dato che la società, invece, cambia. Prevale quella che Max Weber chiamava “l’autorità dell’eterno ieri”: si fa così perché si è sempre fatto così – e perché lo dice il capo, che è sempre lo stesso. È precisamente l’avere una scadenza che obbliga a mobilitare la società per rinnovare un consenso che altrimenti si erode, a formare nuove leadership o almeno a lasciare loro spazio, a elaborare idee, progetti, obiettivi, orizzonti, visioni: anche solo per evitare che il potere ce lo porti via qualcun altro, alleato o avversario. Il mero continuismo tutto questo non lo fa. E lo si è peraltro già visto: sempre le stesse persone, a fare le stesse cose, mai una scelta coraggiosa o un guizzo di originalità, in nome del principio (che non vale nemmeno nello sport, e ancora meno nell’impresa) che squadra che vince non si cambia. Le elite del potere del resto questo fanno, per mestiere: tendono a autoperpetuarsi, a procedere per cooptazione e non per sostituzione, a impedire ad altri (anche del proprio partito) di sottrarre loro il potere stesso, che corrisponde a rendite preziose, a evitare giudizi di merito e analisi critiche sul passato, e quindi l’emergere di alternative. Più lungo è il periodo di mantenimento del potere, e più il meccanismo si rafforza. E Zaia è presidente già da quindici anni: venti, se calcoliamo il periodo in cui è stato vice (salvo la breve parentesi da ministro). Se facesse anche il quarto mandato, il suo ‘regno’ durerebbe più del ventennio mussoliniano. Non un bellissimo segnale.
C’è una ragione ulteriore, tuttavia, per cambiare. La discussione sul terzo o quarto mandato è tristissima. Dal punto di vista della pubblica opinione, inguardabile. In un periodo storico di calo continuo della partecipazione al voto, e in cui alle prossime regionali si corre il concretissimo rischio che la quota di elettori scenda abbondantemente al di sotto della metà (ciò che mette in questione anche l’argomento stesso della volontà popolare), la discussione sul mantenere il potere in mano a una persona a dispetto di tutto, e anche a costo di cambiare le regole, manda ai cittadini un messaggio devastante: i politici si preoccupano solo di sé stessi, del proprio destino personale. La prova è che solo di questo si discute: non della situazione in cui viviamo, non dei problemi che toccano davvero la vita delle persone, non di dove vogliamo andare, quale progetto costruire, intorno a quali valori, ma solo con chi. Ed è un problema dell’intero ceto politico, maggioranza e opposizioni. Come si vuole che, in un paesaggio desolante come questo, poco coinvolgente nei contenuti, per nulla trascinante emotivamente, la partecipazione possa non diciamo risalire, ma almeno stabilizzarsi? Per cosa dovrebbe discutere, lottare e partecipare, un cittadino, un elettore, a maggior ragione un giovane: per il posto di qualcuno?
Il “popolo” e il terzo mandato, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 14 gennaio 2025, editoriale, pp. 1-3