Zaia e il terzo mandato. Perché non è una buona idea

Le ragioni e le disragioni del terzo mandato ai presidenti delle regioni sono state ampiamente discusse. Chi vuole abolire il limite, usa l’argomento del consenso: se il popolo vuole così, chi siamo noi per impedirglielo? Un modo superficiale e tendenzioso di intendere la democrazia: che non è una vaga espressione di volontà popolare, per come la interpreta il potente di turno (quello è il populismo: che può accontentarsi di distribuire qualche beneficio mirato, offrire un po’ di circenses, o trovare un qualche capro espiatorio, per mantenere il potere). Ma è fatta di cose scomode e indispensabili, come regole, bilanciamenti e controlli del potere. In cui il limite dei mandati gioca un ruolo eminente: non a caso è presente nei più diversi contesti. E non vale l’argomento che in altre cariche rappresentative, come parlamentari o consiglieri regionali, non c’è (anche se il fatto che se ne discuta, e che qualcuno saltuariamente lo applichi di sua sponte, fa emergere che il problema è sentito anche lì). Queste hanno un peso molto minore: il potere reale ce l’hanno le cariche istituzionali di governo. E il pericolo di periodi di governo troppo lunghi sta precisamente qui.
Il professionismo in politica ha i suoi vantaggi. E abbiamo visto in questi anni le catastrofi prodotte dai dilettanti allo sbaraglio: trovare un equilibrio non è semplice. Ma il continuismo produce concentrazioni di potere inamovibili, cerchie di cortigiani, incarichi ai soliti noti, consorterie, clientele, habitués, inerzie amministrative, rendite di posizione (dovute al fatto di esserci, non di fare), privilegi mai messi in discussione, scarsa circolazione di idee (bastano le routines), incapacità di produrre innovazione: indispensabile, dato che la società, invece, cambia. Prevale quella che Max Weber chiamava “l’autorità dell’eterno ieri”: si fa così perché si è sempre fatto così – e perché lo dice il capo, che è sempre lo stesso. È precisamente l’avere una scadenza che obbliga a mobilitare la società per rinnovare un consenso che altrimenti si erode, a formare nuove leadership o almeno a lasciare loro spazio, a elaborare idee, progetti, obiettivi, orizzonti, visioni: anche solo per evitare che il potere ce lo porti via qualcun altro, alleato o avversario. Il mero continuismo tutto questo non lo fa. E lo si è peraltro già visto: sempre le stesse persone, a fare le stesse cose, mai una scelta coraggiosa o un guizzo di originalità, in nome del principio (che non vale nemmeno nello sport, e ancora meno nell’impresa) che squadra che vince non si cambia. Le elite del potere del resto questo fanno, per mestiere: tendono a autoperpetuarsi, a procedere per cooptazione e non per sostituzione, a impedire ad altri (anche del proprio partito) di sottrarre loro il potere stesso, che corrisponde a rendite preziose, a evitare giudizi di merito e analisi critiche sul passato, e quindi l’emergere di alternative. Più lungo è il periodo di mantenimento del potere, e più il meccanismo si rafforza. E Zaia è presidente già da quindici anni: venti, se calcoliamo il periodo in cui è stato vice (salvo la breve parentesi da ministro). Se facesse anche il quarto mandato, il suo ‘regno’ durerebbe più del ventennio mussoliniano. Non un bellissimo segnale.
C’è una ragione ulteriore, tuttavia, per cambiare. La discussione sul terzo o quarto mandato è tristissima. Dal punto di vista della pubblica opinione, inguardabile. In un periodo storico di calo continuo della partecipazione al voto, e in cui alle prossime regionali si corre il concretissimo rischio che la quota di elettori scenda abbondantemente al di sotto della metà (ciò che mette in questione anche l’argomento stesso della volontà popolare), la discussione sul mantenere il potere in mano a una persona a dispetto di tutto, e anche a costo di cambiare le regole, manda ai cittadini un messaggio devastante: i politici si preoccupano solo di sé stessi, del proprio destino personale. La prova è che solo di questo si discute: non della situazione in cui viviamo, non dei problemi che toccano davvero la vita delle persone, non di dove vogliamo andare, quale progetto costruire, intorno a quali valori, ma solo con chi. Ed è un problema dell’intero ceto politico, maggioranza e opposizioni. Come si vuole che, in un paesaggio desolante come questo, poco coinvolgente nei contenuti, per nulla trascinante emotivamente, la partecipazione possa non diciamo risalire, ma almeno stabilizzarsi? Per cosa dovrebbe discutere, lottare e partecipare, un cittadino, un elettore, a maggior ragione un giovane: per il posto di qualcuno?

Il “popolo” e il terzo mandato, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 14 gennaio 2025, editoriale, pp. 1-3

L’autonomia è finita. Per mancanza di autonomisti…

È un triangolo: il voto era europeo, il luogo il Veneto, ma le conseguenze nazionali. Che a loro volta influiranno sul destino del Veneto, in un complicato ma prevedibile effetto di feedback. Possiamo leggerlo così, il risultato che ci consegna la tornata elettorale per eleggere i parlamentari europei che spettano all’Italia.

La questione che principalmente balza all’occhio è il futuro dell’autonomia differenziata. Non si votava su questo, eppure le conseguenze saranno pesanti. La regione più autonomista d’Italia, quella che più di tutte ne ha fatto una bandiera, un simbolo, e spesso l’unica ragione di una offerta politica (al punto che per molti anni è bastata la parola per scaldare i cuori: anche quando era del tutto priva di contenuti concreti) ha votato con la percentuale più alta di tutte il partito più centralista che c’è, Fratelli d’Italia, con una maggioranza schiacciante, triplicando addirittura il risultato della Lega. Ma c’è di peggio. La Lega stessa mantiene un risultato appena decente solo perché si è affidata al fenomeno acchiappa voti (una scelta furba più che astuta) che si chiama generale Vannacci: un personaggio centralista nel midollo e nei messaggi veicolati, con l’anima ancorata al passato patriottico e tradizionalista (ricorrendo persino a quello repubblichino della X Mas), che si può stare certi non farà nulla per aiutare (semmai farà di tutto per contrastare) il sogno e il disegno autonomista teorizzato dal lighismo originario.

Non solo. È stato chiarissimo che i ceti produttivi, in passato alfieri dell’autonomia per sfuggire ai vincoli di Roma, hanno votato essi stessi il partito della premier. E la conseguenza è che Fratelli d’Italia prenoterà, con ottime probabilità di riuscita (sarebbe quasi un atto dovuto) la presidenza della regione, che non sarebbe più quindi a guida autonomista ma sovranista: e se non c’è un traino forte da parte della regione direttamente e maggiormente interessata, chi mai dovrebbe fare la fatica di spingere per un’autonomia che al massimo sarà utilizzata come merce di scambio, non solo rispetto al premierato? Possiamo prevederne già oggi il risultato: si farà prima o poi, ma senza fretta, un qualcosa che si possa definire un inizio di autonomia, per accontentare la Lega, ma saremo lontanissimi da quanto immaginato da Zaia quando lanciò il referendum sul tema, e dai cittadini veneti che lo votarono in massa con una fede quasi messianica, e come tale molto poco coi piedi per terra. Una magnifica illusione, insomma, oggi inesorabilmente al tramonto. Del resto, a picconarla non ci si è messa solo la maggioranza della maggioranza, ma anche la maggioranza dell’opposizione, dato che il Partito Democratico, con una scelta forse vincente nelle regioni del Sud, ma che pagherà in Veneto, ha deciso di mettersi alla testa di una dura battaglia contro ogni forma di autonomia differenziata: anche da parte di chi era a favore, ma dovrà adeguarsi per disciplina di partito. Di fatto non è neanche più “la Lega contro tutti” per l’autonomia, che sarebbe almeno uno slogan capace di coagulare consenso (e che piacerebbe a Salvini: in fondo ha una declinazione nostalgica nel “molti nemici molto onore” di mussoliniana memoria): ma “nessuno a favore, nemmeno la Lega”, come abbiamo visto. Almeno finché alla sua guida ci resterà Salvini. Ma Salvini, come noto, non ha alcuna intenzione di lasciare il comando, nonostante il disastro della sua leadership (che in passato, è vero, aveva salvato il partito: ma è destino dei leader quando credono troppo in sé stessi passare rapidamente dalle stelle alle stalle, basti pensare a Renzi). Un Salvini che non solo ha fatto oggi perdere voti, ma ha snaturato completamente la ragion d’essere della Lega, trascinandola all’opposto dei suoi ideali. Al punto che il suo fondatore, Umberto Bossi, ha votato Forza Italia, mentre la sua creatura politica, originariamente orgogliosamente antifascista, passava al fiancheggiamento aperto del peggio del neofascismo (e non ci riferiamo a Giorgia Meloni, ma agli ultras alla sua destra): ironicamente, per opera di un leader, Salvini appunto, che aveva cominciato la sua carriera nel consiglio comunale di Milano come leader dei “comunisti padani”, l’ala sinistra e progressista della Lega. Ma, si sa, è la politica. Di fronte alla quale non ci si può stupire che il partito principale sia quello del non voto.

 

Il partito snaturato. Le mutazioni della Lega, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 13 giugno 2024, editoriale, pp. 1-6

Vademecum per non sprecare il voto europeo

Bene fa Confindustria a incontrare i candidati alle elezioni europee: e pretendere una competenza adeguata dei medesimi. Male fanno tutti gli altri (categorie economiche, organizzazioni sociali, terzo settore, mondi religiosi, tutto quell’articolato mondo di socialità intermedie che costituisce il vero tessuto della società) a non fare altrettanto. E vale anche per gli individui e i singoli elettori: a cominciare dagli iscritti e militanti di partito sopravvissuti – i primi a essere umiliati dalle scelte che fanno le loro organizzazioni di riferimento.

Una vera pressione della società civile sarebbe utilissima a contenere le scelte inconcludenti e spesso avvilenti dei partiti. Purtroppo non ce n’è abbastanza. E le liste lo dimostrano. Come al solito, prevalgono (almeno tra coloro che hanno qualche possibilità di essere eletti) alcune figure specifiche: sempre quelle. I e le leader di partito, innanzitutto: che in Europa non ci andranno, ma mettono il loro nome per acchiappare il consenso generico di chi vota senza sapere perché – non distinguendo tra elezioni europee e nazionali. Certo, la colpa, in fondo, è di un elettorato impreparato, e inconsapevole del fatto che il suo voto di simpatia o di fedeltà sarà utilizzato per eleggere qualcun altro: tipicamente delle persone senza competenza (nemmeno quella di cercarsi le preferenze da soli), ma che poi obbediranno ciecamente alle direttive di partito – un comportamento, del resto, molto generosamente ricompensato. Ad evitarlo, basterebbe una norma di buon senso: per cui, se qualcuno si candida a qualcosa – qualunque cosa – e poi viene eletto, dovrebbe essere vincolato ad accettare la carica in questione dimettendosi da quella precedente. Ma naturalmente nessuno l’approverà mai.

I candidati bandiera sono un’altra figura tipica: persone messe in lista, spesso come capilista, non per le competenze che hanno, ma per quello che rappresentano. È un meccanismo in certa misura inevitabile, che qualche volta è stato persino usato bene: e tuttavia dovrebbe farci riflettere. Di solito si tratta di esterni ai partiti, e quindi potenzialmente più indipendenti e critici: ma spesso sono scelti tra impolitici, interessati quindi più all’avere che al dare. In passato sono stati in molti casi campioni di assenteismo, visto che il biglietto vincente della lotteria arriva solo una volta (una legislatura e poi via), e conviene massimizzare i vantaggi investendo il meno possibile. E il loro ruolo, anche nella tutela degli interessi nazionali, oltre che nel far progredire la costruzione dell’Europa, è quasi sempre nullo.

Gli amministratori sono una categoria molto gettonata, ma anche qui si opera una confusione: tra elezioni europee e locali. Non è detto che un sindaco, un assessore municipale o regionale, un consigliere, per quanto abbia operato decentemente (e una valutazione andrebbe pur fatta, sul passato: non sul fatto che c’eri, ma su quello che hai realmente prodotto) possa essere una figura altrettanto utile in un luogo, il parlamento europeo, dove i dossier – e le scale di grandezza – sono tutt’altri. E il minimo che dovremmo chiedere (a questa categoria come a tutte le altre), è di avere dimostrato un qualche interesse per i temi europei: sennò che ci si va a fare?

Infine, gli uscenti. Bene rieleggere chi già c’era, e conosce già gli ingranaggi: ma, anche in questo caso, basta esserci, o non dovremmo chiedere anche che cosa si è fatto nel concreto?

Non si pretende che siano i partiti a maturare una maggiore consapevolezza. Loro preferiscono, si sa, i fedeli alla linea alle voci critiche, i dilettanti rispetto ai professionisti, i ricattabili (se non fai quello che dico non ti metto in lista) agli indipendenti (che uno stipendio sono capaci di guadagnarselo anche da soli), i mediocri rispetto a chi può contestare la leadership e sostituirla. Ma dovrebbero farlo gli elettori: noi. Usando l’arma che abbiamo, la preferenza. Che non sarebbe spuntata, se la usassimo con discernimento. Subordinando le nostre scelte a dei criteri minimali: attività passata, competenze specifiche, conoscenza (almeno) dell’inglese. L’alternativa, del resto, non è incoraggiante: rassegnarsi al progressivo livellamento verso il basso del ceto politico, e quindi all’ininfluenza dei nostri rappresentanti – anche nel difendere i nostri legittimi interessi. Temiamo che una buona parte dell’astensionismo (rischiamo che anche in queste elezioni si rechi alle urne solo la metà del corpo elettorale) sia già motivato da queste ragioni.

 

Vademecum per il voto europeo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 16 maggio 2024, editoriale, pp. 1-6

Elezioni europee: le responsabilità degli elettori

Si avvicinano le elezioni europee, e il teatrino delle candidature mostra quanto queste vengano considerate, in Italia, una specie di varietà. È un paradosso autolesionistico, e molto indicativo, purtroppo, del livello del ceto politico, ma anche dell’elettorato.
Le elezioni europee sono infatti, per molti versi, persino più importanti di quelle italiane. Sempre più cose fondamentali si decidono a quel livello. Essere nelle commissioni, se possibile dirigerne i lavori e fare da relatori a progetti di legge (e capita solo se ti viene riconosciuta una qualche professionalità, o comunque hai una rete internazionale che ti sostiene, e a cui dovrai rispondere in termini di efficacia), è un modo prezioso e insostituibile di far progredire la collaborazione europea, ma anche di fare gli interessi italiani. E noi chi ci mandiamo, con una frequenza ottusa e sorprendente? Trombati alle elezioni; sconfitti ai congressi; rappresentanti uscenti da rieleggere (senza mai che si faccia un bilancio di quello che concretamente hanno fatto nella legislatura precedente: la rielezione è un diritto, che diamine!); nemici politici da ‘esiliare’ dove non possono disturbare il manovratore; yesmen e yeswomen incapaci della minima autonomia di pensiero ma fedeli alla linea; persone che non parlano alcuna lingua straniera (e con difficoltà, magari, quella italiana); sindaci di paesini da premiare per la loro fedeltà o semplicemente perché a fine mandato e bisognosi di una prebenda (con la scusa ufficiale che la vera politica si fa sul territorio, per cui se hai governato bene San Guidobrando sul Briscolo sarai perfetto per gestire i dossier economici o sull’intelligenza artificiale); figurine di facciata acchiappaclick che si trasformano rapidamente in assenteisti professionali (non essendo nemmeno militanti di partito, si accontentano di usarli come taxi all’incontrario – paga chi guida – per poi farsi abbondantemente i fatti propri); o semplicemente persone che dell’Europa non sanno e non interessa alcunché: magari perché, come è capitato anche a qualche leader di partito, sono addirittura contro la sua stessa esistenza, e quindi sembra loro un gesto eroico dileggiare quelle istituzioni le rare volte in cui ci vanno, incassandone tuttavia a tempo pieno le laute remunerazioni, senza dare nulla in cambio, o perché comunque, qualunque cosa dicano (o qualunque pietosa sceneggiata facciano: si è visto anche questo), si rivolgono sempre e solo al pubblico italiano. E se fosse per diffondere contenuti, o far vedere quanto hanno lavorato, passi, ma il più delle volte è per ripetere stancamente un messaggio ideologico inconcludente: siamo contro qualcuno, siamo a favore di qualcosa, ma in ogni caso non facciamo nulla.
Personaggi così ce ne sono anche in altri paesi. Ma, è onesto dire, in numero inferiore. Il che spiega perché altri paesi difendano meglio pure gli interessi nazionali, presidiando i dossier più importanti per la propria industria, agricoltura, società civile. Ricordiamocelo sempre: se l’Europa in qualche materia è su posizioni contro i nostri interessi, è spesso perché noi abbiamo mandato lì gente del tutto incompetente, che spesso nemmeno si accorgeva di quello che gli capitava sotto il naso. In più, abbiamo il fenomeno surreale di leader di partito o di regione che si candidano per raccattare voti purchessia a favore della lista, dicendo per giunta già prima che è tutto uno scherzo, tanto loro, lì, non ci andranno mai: e la preferenza da noi usata per simpatia sarà utilizzata per eleggere un ominicchio o un/a quaquaraquà, per usare l’indimenticabile terminologia di Sciascia, di cui ignoriamo persino il nome – e lo ignoreremo anche dopo.
Le percentuali di queste figure potranno essere differenti nell’una o nell’altra elezione, e riguardo questo o quel partito, ma è stata finora una costante. E dovrebbe interrogarci. Certo, ci sono stati nella storia anche casi di scelte lungimiranti da parte dei partiti e degli elettori: così clamorosi che risaltano per la loro stranezza. Ma la norma è l’anomalia. Alle europee non ci sono listini bloccati, ai quali abbiamo sempre dato la colpa del miserrimo livello del ceto politico nostrano. Il che significa che la colpa maggiore ce l’hanno gli elettori, che hanno l’arma della preferenza individuale, ma non la usano, o la usano malissimo. Butto lì uno spunto interpretativo: il livello di analfabetismo funzionale in Italia riguarda il 30% della popolazione, il doppio della media europea, che è del 15%; mentre il livello di “competenze adeguate o elevate” riguarda solo il 30% degli italiani, contro una media europea – più che doppia – del 65%. Con i giovani il gap si sta sempre più riducendo. Purtroppo, sia in cifra assoluta che in percentuale, votano di più gli anziani.

 

La qualità dei nostri politici, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 20 aprile 2024, editoriale, pp.1-2

Un tetto agli stranieri nelle scuole? Vediamo cosa significa

Il ministro Salvini – che dovrebbe occuparsi di infrastrutture e trasporti ma ha sempre nostalgia del tema che gli è più a cuore e in passato gli ha fatto guadagnare più consensi, l’immigrazione – propone un tetto del 20% al numero di bambini stranieri presenti in una scuola. La proposta ha un’apparente sensatezza, ed è stata persino illustrata con una moderazione di toni inedita per chi, su questo tema, ha sempre preferito le barricate ideologiche e le politiche muscolari.

Cosa dice Salvini? Che “un 20% di bambini stranieri in una classe è anche stimolante, perché conosci lingue, culture e musiche”: e già ci mettiamo via l’inedita apertura sul fatto che la pluralità culturale sia considerata un arricchimento – in altre occasioni, anche recentissime, da parte sua, del suo partito e dei suoi alleati è sempre stata considerata solo un danno e motivo di polemica. Se fossero di più, in specie se la minoranza fossero gli autoctoni, sarebbe “un caos per tutti”.

Proviamo a prendere sul serio l’affermazione, e vediamo cosa implica. Cominciamo con la definizione di autoctono. Nella scuola italiana ci sono oltre 800mila figli di immigrati, in gran parte nati in Italia. In altri paesi sarebbero e sono considerati cittadini, almeno quelli nati sul suolo patrio. Una percentuale significativa ha come prima lingua l’italiano, anche in famiglia. E in ogni caso gli studi di glottologi e linguisti sono abbastanza concordi nell’affermare che avere un’altra lingua natìa non è un ostacolo all’apprendimento di una seconda lingua, ma anzi un vantaggio, che risulterà peraltro in un vantaggio competitivo dei diretti interessati anche sul mercato del lavoro, e una complessiva utilità anche di sistema, per la società.

Non solo: moltissimi sono figli di coppie miste, in famiglie in cui è dominante la lingua italiana, spesso per scelta concordata tra i coniugi in nome della facilità di integrazione dei figli. Sono tuttavia percepiti come stranieri, anche dagli insegnanti, perché in gran parte dei casi il coniuge maschio è straniero, e solo per un’inerzia culturale, visto che oggi la legge consentirebbe di adottare solo il cognome della madre o comunque quello italiano, li fa credere foresti. Su questo ho un’esperienza personale abbastanza illuminante. Ho cresciuto fin da piccoli due figli nati in un precedente matrimonio di mia moglie, italiana, che di cognome, avendo quello del padre, facevano Mohammed. Anche se in realtà pure il padre era cittadino italiano (nato e vissuto in Italia, parlava solo italiano, ma era figlio a sua volta di una coppia mista), e anche se ai colloqui con i genitori andavamo io e mia moglie, che l’italiano lo conosciamo benino, e lo parliamo discretamente forbito, ai nostri figli chiedevano regolarmente di “portare una filastrocca del tuo paese” (noi, entrambi milanesi, avevamo insegnato loro “ti che te tachet i tac…”), senza contare il sentirsi chiamare “marocchini di m…” da qualche compagno. Poi, durante il loro percorso scolastico, il padre ha cambiato legalmente cognome, e i figli di conseguenza, e questa percezione ‘straniera’ è miracolosamente scomparsa: nonostante, almeno in un caso, il colore della pelle fosse lievemente più scuretto della media.

C’è poi la definizione della soglia: perché il 20%? Ha una qualche base scientifica? No, nessuna. E in ogni caso non ne ha nemmeno una pratica. Facciamo qualche esempio. Ci sono già quartieri, e addirittura città, in cui la percentuale di alunni di origine straniera è superiore: cosa facciamo, li deportiamo in altri quartieri o città? E perché, come, in base a quali criteri, con quali mezzi di trasporto, a spese di chi, producendo quali conseguenze anche nel percepito degli studenti autoctoni, che si sentirebbero superiori e garantiti a spese degli altri, vittime di un comportamento discriminatorio? Non solo: nello stesso istituto possiamo avere classi con una percentuale superiore e altre no: si fa la media o diventa comunque fuorilegge la classe che supera i limiti? Ma è il principio stesso che è problematico. Il problema non è un numero, una percentuale, un limite astratto e definito a priori. Ma come si fa scuola, con che metodi, con quale preparazione e aggiornamento del corpo docente. Già tutto questo fa capire che una affermazione buttata lì come di apparente buon senso rischia invece di avere terribili effetti di nonsenso quando non di controsenso, e di discriminazione esplicita nei confronti di gruppi etnici e religiosi altri – il che dovrebbe forse ricordarci qualcosa di già avvenuto tante volte nella storia, e da cui rifuggire.

Possiamo capire la preoccupazione di qualche genitore, e la loro fuga eventuale verso altre destinazioni: altre scuole pubbliche in altri quartieri, o la scuola privata – quella che in altri paesi, e anche in alcune ricerche da noi, è stata chiamata la “fuga bianca”, perché di questo si tratta, di colore della pelle, più che d’altro (se in una scuola qualsiasi ci fosse una percentuale maggiore di bambini con genitori con reddito modesto e basso livello di istruzione, se non analfabeti, ma di cognome italiano, nessuno semplicemente se ne accorgerebbe, perché si tratta di dati sensibili e non pubblicizzati – e chi se ne accorgesse e desiderasse andarsene lo farebbe in silenzio, magari anche un po’ vergognandosi, e nessuno invocherebbe intollerabili percentuali per gli altri). Se queste famiglie hanno dei timori, tuttavia, è giusto che siano loro ad assumersene il costo, non gli altri, incolpevoli.

Certo, sappiamo dai dati Invalsi che spesso gli immigrati hanno risultati in italiano e in altre materie inferiori agli italiani (ma sarebbe lo stesso se cercassimo i risultati per censo: solo che non si può fare…). In compenso li hanno spesso più alti in lingue straniere e matematica. Così come sappiamo che gli stranieri, per problemi linguistici, specie quando vengono inseriti come neo-arrivati in classi e a livelli scolastici che corrispondono alla loro età anagrafica ma non alla loro preparazione linguistica, hanno percentuali di ritardi e bocciature maggiori. Normale sia così, e il prezzo dopo tutto lo pagano loro. Ma a questo si potrebbe ovviare in altro modo. Personalmente, occupandomi di questioni migratorie da trentacinque anni, e avendo parlato con moltissimi adulti di origine straniera che da bambini sono passati per questo tipo di inserimento scolastico, e ne hanno pagato dei costi psicologici e relazionali spesso pesantissimi, ho maturato un’opinione diversa da quella della media degli insegnanti (o almeno dei loro rappresentanti negli organismi istituzionali e nei sindacati). Non sono affatto sicuro che questa sia l’unica modalità di inserimento possibile, e nemmeno la migliore. Si potrebbero frequentare prima dell’inserimento scolastico vero e proprio dei corsi intensivi di lingua, che aiutino i ragazzi ad avere un inserimento più morbido e produttivo poi. E non si tratta affatto di classi differenziate, come polemicamente vengono definite, ma di un servizio specifico offerto temporaneamente a persone solo in quel momento in condizione di svantaggio – tecnico, in senso stretto. Nessuno stigma e nessun pregiudizio dietro a questa offerta. Le forme possono essere altre (insegnanti e servizi di supporto, in parallelo, ecc.), ma non dovrebbe essere un tabù parlane operativamente anziché ideologicamente.

La scuola fa un lavoro straordinario, ed è senza dubbio la più grande agenzia di integrazione del nostro paese, il principale laboratorio di pluralità culturale che abbiamo. Va ascoltata, rispettata nella sua autonomia, e semmai aiutata con finanziamenti, progetti e sperimentazioni, non imponendole limiti che sarebbero gabbie ulteriori, che renderebbero meno facile il lavoro degli insegnanti e problematico l’obiettivo di una migliore integrazione sociale.

Chiudo con quella che non è una provocazione, ma una semplice constatazione. Lavoro in una istituzione, l’università, che è valutata in base a ranking internazionali, in cui il criterio dell’internazionalizzazione è una variabile importante. Più studenti stranieri hai, e più insegnanti stranieri hai, più vali, più sei appetibile, più questo è considerato un valore aggiunto. Se è vero per l’università (la maggior parte di noi ne è convinta), siamo proprio sicuri che non debba essere altrettanto vero per la scuola dell’obbligo? Sulla base di quali informazioni, studi, ricerche, sperimentazioni ne siamo così profondamente convinti?

 

“Un tetto agli scolari stranieri”. Salvini e il rimedio che fa danni, in “il Riformista”, 29 marzo 2023, pp. 1-9

Neanche il coraggio di manifestare… Il dramma a Gaza, l’indifferenza da noi

Le notizie e le immagini che arrivano da Gaza hanno un’evidenza devastante. La disperazione, la fame, la sofferenza sono sempre più chiaramente documentate. Il massacro di bambini, di donne, di civili (inclusi medici, insegnanti, reporter, infermieri, operatori umanitari…), di persone comunque innocenti è sotto gli occhi di tutti. Così come lo è l’arroganza che fa dire ad autorevoli membri del governo israeliano, senza alcuna resipiscenza, che non si fermeranno, che su quelle terre vogliono eradicare la presenza organizzata palestinese, deliberando sotto gli occhi del mondo, in questo stesso momento, nuove operazioni militari e nuovi insediamenti illegali di coloni, che protrarranno quell’orrore e ne saranno complici. Tutto ciò è di solare evidenza. Nessuno può dire di non sapere.

Certo, tutto questo avviene in reazione all’orribile massacro, che va condannato con ogni forza, del 7 ottobre, in cui sono state uccise oltre milleduecento persone, ugualmente in gran parte civili, anche qui donne, bambini, anziani, a cui vanno aggiunti centinaia di feriti, e i prigionieri ancora nelle mani di Hamas. E chi tale azione ha pianificato e perpetrato, sapeva che ci sarebbe stata una reazione dura, e puntava precisamente a scatenarla. Non ci sono giustificazioni, quindi (come potrebbero?), e i palestinesi dovranno fare i conti anche al loro interno, con i complici e i suscitatori del massacro, e con chi – moltissimi – ha simpatizzato con loro e le loro tecniche di guerra. Ma la reazione israeliana è andata ormai oltre qualsiasi proporzionalità: la rappresaglia – di questo si tratta, e va chiamata con il suo nome – ha perso ogni rapporto con il danno subìto. Senza dimenticare che la storia del conflitto israelo-palestinese non comincia il 7 ottobre: c’è un pregresso, da ambo le parti, di stragi, attentati, uccisioni di civili, mancato riconoscimento dell’esistenza politica e umana dell’altro, ma anche l’ordinarietà di un’occupazione militare che va avanti da decenni, con la sua lunga teoria di sofferenze quotidiane, di angherie volute, di soprusi istituzionalizzati, di colonizzazioni illegali, che vuol dire furti di terra, di case, di speranza e di futuro. Siamo arrivati a un grado di cinismo e di disumanizzazione raccapricciante, non solo dell’avversario, ma anche di sé: le grida di gioia e il disprezzo esibito di terroristi e di soldati quando si colpisce l’avversario sono parte di questo processo.

Eppure, di fronte a tutto ciò, siamo sorprendentemente inerti. Qualche blanda dichiarazione. Quasi nessuna manifestazione di peso significativo. Forse il solo vero atto politico compiuto, a cui è doveroso plaudere (ma che era maturato già prima del 7 ottobre), è stato il rifiuto dell’accreditamento del nuovo ambasciatore israeliano, grande supporter delle colonizzazioni illegali. Tutto questo ci dice qualcosa su di noi. In altri paesi europei, dalla Spagna alla Germania, dall’Olanda alla Francia, passando per la Gran Bretagna, ci sono state mobilitazioni anche numericamente massicce: di adulti, non solo di studenti. E il linguaggio mediamente usato dalla politica e dai media europei – anche in Israele (a testimonianza del fatto che in questione non è un popolo o una nazione, che resta una democrazia e su altri piani un esempio, ma le scelte del suo governo) – è assai meno blando e accondiscendente rispetto alle ragioni del governo di Israele di quello corrente da noi. Il ceto politico, quanto meno, si mostra circospetto: e lo si è visto mobilitarsi in prima persona, mettendoci doverosamente la faccia, più per la morte di Navalny che per quella di oltre trentamila palestinesi, per un terzo bambini.

Di fronte a questo, le poche e certo non oceaniche manifestazioni degli studenti italiani, di giovani e giovanissimi che vanno in piazza contro quanto sta accadendo, e contro la nostra indifferenza, sono un qualcosa che dovrebbe farci riflettere. Certo, sono piene di ingenuità, di semplificazioni della realtà, spesso anche di unidirezionalità, di strumentalizzazioni. Ma almeno dicono qualcosa, e sollevano una domanda: la cui risposta non dovrebbe stare nei manganelli e nel paternalismo facile (“se fate i bravi e rispettate le norme non vi succede niente”), ma richiedere un supplemento di riflessione. E magari anche di partecipazione.

 

La nostra colpevole inerzia, in “Corriere della sera. Corriere del Veneto”, 17 marzo 2024, editoriale, pp.1-3

La politica, il conformismo, il dissenso. Riflessioni a partire dal caso Da Re

L’espulsione dell’europarlamentare Toni Da Re dalla Lega è notizia di costume, non solo politica, che può suscitare qualche riflessione più larga del suo caso personale e di quello del suo partito. Toni Da Re è certamente personaggio sanguigno: e, peraltro, il suo consenso personale era dovuto precisamente a questo. Le sue esternazioni – ad esempio sull’immigrazione e altri temi – spesso discutibili e tranchant. Ma il ‘reato’ per cui è stato punito non è questo: quelle stesse posizioni sono apertamente condivise e spesso incoraggiate, nel suo ex partito. Quello che non è incoraggiato, anzi è proprio vietato, come si è visto, è la critica al leader, che diventa immediatamente reato di lesa maestà.

Ufficialmente, come noto, è stato infatti espulso per aver dato del “cretino” al suo capo politico, Salvini: in realtà il suo dissenso è più largo e radicato nel tempo. Ecco, la questione del dissenso è una prima chiave di lettura: la Lega non lo tollera. Non a caso era stata definita, fin dai suoi albori, l’ultimo partito leninista, in cui il centralismo democratico di antica memoria comunista è il metodo di governo interno, ferreo, del partito stesso. Il che ha prodotto una antropologia persino umiliante per chi la rappresenta. Raro il dibattito interno, clamorosa la mancanza di discussione a fronte di svolte a 180 gradi della linea politica e delle alleanze, ridondante la presenza di yesmen e di yeswomen, irritante il livello di culto della personalità: già con il suo fondatore, Bossi. Solo per fare un ironico confronto, se nel Partito Democratico fossero stati espulsi tutti i dirigenti, rappresentanti e militanti che hanno considerato cretino il o la loro leader di turno, e l’hanno esplicitato in varia forma, avrebbe certamente più epurati che iscritti.

Quella dell’essere proni al leader, che dopo tutto è il garante ultimo di una carriera politica che è anche un redditizio modo di sfangarsela nella vita, non è tuttavia solo una prerogativa della destra, e per motivi per così dire di destra: perché ama l’uomo (o la donna) forte al comando. Fu così anche per Berlusconi, certo, e non sembra di vedere un gran dissenso intorno a Meloni, che ha affidato il controllo interno del partito alla sorella, ma non è che con Renzi e molti altri, anche di partiti minuscoli della galassia di centro, di destra o di sinistra, del passato o del presente, questo atteggiamento sia da meno, o meno visibile. In altre stagioni politiche tanto Almirante che Berlinguer erano oggetto di un’obbedienza e di un consenso acritico che è il minimo considerare preponderanti. Quello dell’obbedienza cieca, pronta, prona e assoluta non è un tema di parte, ma della politica nel suo complesso, e in particolare dei leader carismatici, capaci di trascinare consenso. Ed è questo che dovrebbe farci riflettere. La politica incoraggia un modo di essere e di appartenere – appunto obbediente, acritico, privo di coraggio e di responsabilità – che invece chiediamo alla scuola di insegnare, per statuto e mestiere. E non notiamo la contraddizione. In altre aree della vita sociale (a scuola appunto, in famiglia, ma è il mestiere anche di educatori, psicologi, coach sportivi, animatori, per non parlare del mondo dell’arte in tutti i suoi aspetti: cantanti, attori, registi…) diciamo di voler incoraggiare l’autonomia, lo spirito critico, la creatività, il libero pensiero, il coraggio di difendere le proprie opinioni e di pagarne le conseguenze, di essere minoranza, di cercare strade solitarie, l’anticonformismo anche. In politica, invece, vengono premiate le qualità, o i vizi, opposti: l’obbedienza, l’acriticità, la subordinazione a costo dell’umiliazione personale, il conformismo – le proprie idee devono essere le idee del capo e del partito, altrimenti è meglio non dichiararle. E su questo sarebbe utile riflettere. Finché non cambieranno i meccanismi premiali e la forma organizzativa stessa della politica (ma vale anche per altri ambiti di impegno collettivo, come la religione, per non parlare del mondo militare) ci sarà uno scollamento tra i valori dichiarati rilevanti nel privato e quelli praticati in pubblico. A cui corrisponde una specifica forma di schizofrenia, per la quale tuttavia non si vedono terapeuti, né forme di guarigione.

 

La lesa maestà, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 9 marzo 2024, editoriale, p. 1-2

Mattarella, i migranti e l’Europa

Meno male che Mattarella c’è. Con la consueta chiarezza, in un momento in cui tutti parlano dello stesso argomento – l’immigrazione – con piglio ideologico, paventando inesistenti complotti con propaganda altisonante, rilanciando con nomi nuovi vecchie e già fallimentari ricette, il presidente della repubblica interviene invece in maniera diretta, con linguaggio esplicito, dicendo pane al pane, e lasciando perdere il companatico di slogan che arzigogola la nostra vita politica, rendendola sterile e incapace di decisioni vere. I fenomeni si governano, e i problemi si risolvono, solo se si capiscono, e se si cerca onestamente di spiegarli alla pubblica opinione. E solo se si vuole davvero cercare di risolverli, anziché cercare di dimostrare inesistenti coerenze con le proprie posizioni del passato. Ecco spiegato perché altri non hanno lo stesso atteggiamento di Mattarella, né lo stesso linguaggio.

Pensiamo ad alcune chiarissime parole del presidente: “le regole di Dublino sono preistoria. Voler regolare il fenomeno migratorio facendo riferimento agli Accordi di Dublino è come dire ‘realizziamo la comunicazione in Europa con le carrozze a cavalli’ (…) È proprio una cosa fuori dalla realtà”. Gli accordi di Dublino sono quelli che dicono che dei migranti che sbarcano in Europa, e che si dicono richiedenti asilo, si deve occupare il paese di primo ingresso. Quindi i paesi alle frontiere dell’Europa, e quindi l’Italia in particolare, dato che la rotta del Mediterraneo centrale è quella oggi più frequentata. È una follia in sé, perché queste persone vogliono arrivare in Europa, non in Italia. Questo spiega i movimenti secondari, ovvero i tentativi, spesso riusciti, di andare oltre frontiera (ciò che spiega, al contrario di quanto dice la propaganda del governo, perché paesi come Germania e Francia, ma anche Spagna e Austria, accolgano più richiedenti asilo dell’Italia). Ma produce anche un effetto perverso: perché i molti di cui si può ricostruire che sono prima passati dall’Italia, dovrebbero essere rispediti qui. E siamo stati noi a smettere di riprenderceli, per esempio dalla Germania, ben prima che Germania e Francia decidessero allora di interrompere le redistribuzioni volontarie, che peraltro riguardano numeri molto più piccoli.

Tutto ciò spiega bene come, se davvero l’immigrazione è problema europeo, e lo è, servano soluzioni europee: gli stati nazionali non fanno infatti che rimpallarsi e scaricarsi reciprocamente sulle spalle il problema. Ciò che non è nemmeno nel loro interesse, dato che di immigrazione in Europa abbiamo bisogno (nel nostro interesse) – nell’ordine di 2-3 milioni di persone l’anno, mica bruscolini – e dunque è meglio gestirla e organizzarla che subirla. Il problema è che sono gli stati, che si lamentano della poca azione o dell’impotenza dell’Europa, a tenersi strette le competenze sul tema, con il risultato, irrazionale per noi e doloroso per i migranti, che vediamo.

Dovrebbe essere l’Europa (ma potrebbe farli – con meno forza – anche un singolo paese) a fare accordi di ingresso di migranti regolari, che oggi non ci sono. È proprio l’inesistenza di questi accordi a spiegare, da sola, perché arrivino irregolarmente (e se si capisse questo si sarebbe già sulla via della soluzione del problema). Ma è anche ciò che spiega perché abbiamo un numero di richiedenti asilo abnorme: proprio perché non vogliamo ammettere di aver bisogno di migranti economici, e li costringiamo quindi a dirsi rifugiati. Non lo facessimo, i numeri di richiedenti asilo si ridurrebbero drasticamente: e sarebbe anche più facile mettere in campo una riforma degli accordi di Dublino, dando ai diretti interessati la libertà di circolazione in Europa, e rendendo dunque più facile e meno costosa la loro stessa integrazione, dato che spesso hanno parenti, familiari, amici e comunità che possono sostenerli e aiutarli nei paesi in cui c’è anche più possibilità di lavoro. Ma per fare questo, citando ancora Mattarella, “occorre studiare, definire, porre in campo delle soluzioni nuove, coraggiose e non superficiali”. “Soluzioni naturalmente europee”, dice ancora il capo dello stato. Praticamente il contrario di quello che si continua a fare: tanto più a ridosso di elezioni europee in cui il tema migratorio sarà ancora una volta più comodo per cercare un facile consenso, privo tuttavia di soluzioni, che non per essere affrontato con serietà: cosa dalla quale guadagnerebbero le società, ma non i partiti che le rappresentano.

 

La vera soluzione, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 23 settembre 2023, editoriale, p. 1

Accordi con la Tunisia e politiche migratorie: cosa (non) cambia

Dell’accordo sui migranti tra Italia e Tunisia, il tratto positivo principale – e quello che infatti viene proposto all’opinione pubblica con più convinzione dai rispettivi governi – è che ci sia stato. Per il resto, cambierà poco o nulla. Il che, se non altro, evita che si cambi in peggio. Ma non è davvero un risultato per cui sbracciarsi dall’entusiasmo.

Bene che l’accordo ci sia stato. Bene che abbia coinvolto l’Unione Europea ai suoi massimi livelli. Simbolicamente, per l’Italia, significa l’ingresso ufficiale nel club che conta, per così dire, e la fine di quella che qualcuno, all’opposizione, considera tuttora la presunta impresentabilità della destra. Questa impresentabilità non c’è o è stata ampiamente superata a pieni voti, e non possiamo che gioirne: le due occasioni recenti di contatto tra Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni (la visita in occasione dell’alluvione in Emilia-Romagna e la presenza congiunta in Tunisia) sono lì a testimoniarlo. Ma, per il resto, quanto avvenuto ricorda un po’ la perfida battuta di Kissinger rivolta ai governanti italiani quando si recavano negli Stati Uniti: per i quali sembrava che il risultato fosse ottenuto al momento della discesa della scaletta dell’aereo.

Bene, benissimo, infatti, la cooperazione economica. Ma assai ridotta nell’entità e tragicamente tardiva. La Tunisia è stata il paese che ha fatto da innesco per tutte le primavere arabe, portando all’abbattimento del regime di Ben Ali, dopo vent’anni di potere assoluto sotto la protezione dell’occidente. Ed è stata uno straordinario esempio di successo di transizione democratica, ottenuta in nome di quelli che l’Europa considera i suoi principi fondativi: fu approvata una nuova costituzione, alle elezioni vinsero gli islamisti, ma poi ci furono nuove elezioni, e persero, senza che nessuno abbia messo in questione la legittimità del processo elettorale. Ma la colpa storica dell’Europa – una macchia da cui è difficile ripulirsi – è stata di non aiutarla, questa difficile transizione (si doveva promuovere allora, un serio piano Marshall europeo). Con il risultato che poi è venuta la crisi economica, il terrorismo dell’Isis, il crollo del turismo – completatosi nel periodo della pandemia – e dunque dell’economia: e oggi trattiamo con un autocrate antidemocratico che, per mantenere il consenso interno, ha fatto degli immigrati il proprio capro espiatorio (non diversamente dai partiti che hanno vinto le elezioni in Italia, per certi versi, ma con la radicale differenza che qui – nonostante le grida di qualcuno – la democrazia c’è ancora, e i risultati elettorali ne sono precisamente il frutto).

Bene, dunque, dicevamo, l’aiuto economico, bene gli accordi sull’energia e per l’interscambio di studenti nell’ambito dei programmi Erasmus (speriamo che poi le nostre ambasciate e consolati non continuino nella prassi di rendere il loro ingresso in Italia una corsa a ostacoli, con il risultato che ne beneficiano solo altri paesi europei). Male invece subordinare gli aiuti alle ricette, già fallimentari altrove, del Fondo Monetario Internazionale. E male, malissimo, chiudere tutt’e due gli occhi e anche le orecchie e la bocca, e non pronunciare parola sul tipo di regime che si sta incoraggiando. In Tunisia la democrazia è sospesa dal 2021, il governo è stato dimissionato, il parlamento è stato sciolto, l’indipendenza della magistratura è stata sospesa (abolendo l’equivalente del Consiglio Superiore della Magistratura), è impedita l’attività dei partiti (alle ultime elezioni hanno potuto partecipare solo dei candidati senza sigle, con il risultato che la partecipazione al voto si è ridotta a meno di un decimo del corpo elettorale), e l’espressione di qualsiasi forma di dissenso è vietata. C’è solo l’esecutivo. Il presidente Kaïs Saïed, in sostanza. Che pure gode di consenso popolare – la sua proposta di nuova costituzione, peraltro più islamista della precedente (ma su questo sembra che nessuno abbia niente da dire), ha ottenuto una maggioranza plebiscitaria, seppure con solo un terzo di elettori recatisi alle urne – grazie alla condanna morale delle cricche corrotte e del familismo e famelicismo dei partiti.

Infine: male per le politiche migratorie, che avrebbero dovuto essere la parte principale degli accordi. Si parla come sempre della fine del processo e mai dell’inizio. Si chiede la collaborazione della Tunisia per il controllo delle partenze irregolari e per i rimpatri (collaborazione già autorevolmente smentita, peraltro) ma non si offre nulla in termini di flussi di ingresso regolari, di cui pure abbiamo urgentissimo bisogno e che potremmo contribuire a formare, con reciproco vantaggio. Con il risultato paradossale che in assenza di lavoratori regolari, non potremo lamentarci di avere, da quel paese, quasi solo irregolari, e tra essi, devianti.

L’esternalizzazione delle frontiere ha già fallito – ed è anzi diventata un’arma di migrazione di massa in mano ai paesi coinvolti – quando è stata applicata in Turchia su richiesta della Germania. Non c’è una ragione al mondo per cui debba funzionare in Tunisia su richiesta dell’Italia. Il che mostra, ancora una volta, quanto il dibattito politico sia indietro rispetto alla realtà.

 

I migranti e il nodo Tunisia. Cosa (non) cambia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 13 giugno 2023, editoriale, p.1

25 aprile: le parole per dirlo

Il 25 aprile continua ad essere percepito da alcuni come una data e una festa “divisiva”. Eppure è dalla Liberazione dal nazifascismo che nasce logicamente la Repubblica, che festeggiamo il 2 giugno. E in cui tutti, salvo forse i Savoia, ci riconosciamo.

Quest’anno c’è una differenza, però. Al governo non c’è chi l’ha sempre considerata come una “sua” festa, un motivo d’orgoglio e una rivendicazione di identità. C’è proprio chi, o anche chi, l’ha considerata – pure con polemiche recenti sul ruolo dei partigiani, o ambigui tentativi di ridurla alle sue pagine oscure (dalle foibe ai conflitti tra fazioni o alle vendette personali: che ci sono state, ma non ne inquinano il messaggio e il risultato) – divisiva e non inclusiva. Quale occasione migliore, allora, per i discendenti politici di chi all’epoca è stato sconfitto, ma ora gode dei vantaggi del regime repubblicano costruito dopo quello totalitario, e della legittimità democratica conquistata grazie ai suoi meccanismi elettorali (che il fascismo non consentiva), per fare un passo avanti, per andare oltre, per mostrare definitivamente di essere statisti, di essere al governo di tutti e per tutti, e non solo di una parte che si sente ancora – per giunta a torto – minoranza e vittima incompresa?

Certo, il 25 aprile ci mostra la vittoria di una parte d’Italia. Qualcuno direbbe la sua parte migliore. Certamente non solo la sua parte vincente: quella che come noto scrive la storia. Perché è molto di più: è la parte che ha dato luogo al tutto – i padri e le madri della Repubblica, della democrazia, e della costituzione che di questi valori si è fatta garante trasformandoli in mezzi. Grazie a quella vittoria, combattuta dagli alleati e da una parte minoritaria della meglio gioventù italiana (i partigiani di varia tendenza, diversi e divisi tra loro ma tutti accomunati dal desiderio di sconfiggere il fascismo), e sostenuta da molti di più, oggi siamo il paese che siamo. Con terribili difetti, è vero: ma democratico, e libero. Con una costituzione avanzata e civile, capace di evolvere e di includere diversità che il fascismo avrebbe considerato inaccettabili e avrebbe combattuto. Un paese in cui sono garantiti i diritti di tutti. Anche delle minoranze. Anche di chi, se allora avesse vinto, non li avrebbe garantiti a tutti, li avrebbe esplicitamente conculcati ad alcuni, e limitati a molti, come già aveva fatto, trasformandoli in privilegi di pochi.

C’è un modo di uscire dal meccanismo delle retoriche contrapposte, e pronunciare parole non banali, in qualche modo significative, oggi? Forse sì. Celebrando il 25 aprile, come giusto. Ricordando e raccontando chi ha combattuto e si è sacrificato nella resistenza, affrontando il nemico, che era nemico dell’Italia e degli italiani, non solo degli antifascisti: aveva tolto loro le libertà e li aveva portati in guerra, perseguitando e sterminando una parte di loro, gli ebrei, oltre gli oppositori politici. Un regime indifendibile sotto tutti i punti di vista, con gli occhi di oggi. Ma anche riconoscendo che molti hanno servito il loro paese, o hanno creduto di farlo, in altro modo. Il 25 aprile è padre del 2 giugno, ma anche figlio dell’8 settembre. Il giorno in cui molti si sono trovati di fronte a un bivio, hanno dovuto scegliere, e hanno scelto. Chi andando in montagna a combattere come partigiano. Chi cercando di dare una mano continuando a fare il proprio lavoro di prima: il contadino, l’operaio, l’impiegato di una istituzione, il carabiniere – schierandosi silenziosamente, nel fare più che nel dire. Chi scappando, invece: in esilio, rifiutandosi di contrapporre italiano a italiano, o semplicemente sfollato altrove, rifiutandosi di obbedire ad una autorità non più riconosciuta, ma incapace di assumere altro ruolo. E poi, sì, c’è stato chi ha creduto di dover rimanere fedele alla patria aderendo a una sua caricatura, la Repubblica di Salò. Il volto peggiore del fascismo: un regime in declino che portava con sé i valori antidemocratici e sopraffattori del precedente, aggravandoli, con il sostegno di una potenza totalitaria straniera, i nazisti. Ma in cui tuttavia qualcuno si riconobbe per ideale, e non ha senso negarlo oggi.

Mi sento titolato per dirlo. Io non c’ero. Ma mia madre il 25 aprile si trovava in galera, a San Vittore, con destinazione già prenotata in Germania, in quanto sorella e collaboratrice di un combattente partigiano. Mio zio era comandante di stato maggiore delle brigate Garibaldi. Un militare, un soldato che dopo l’8 settembre aveva scelto di continuare a combattere, ma dall’altra parte: un partigiano liberale, in contrapposizione continua con il suo commissario politico comunista. Ucciso il 26 aprile: da un tedesco, come scritto nei libri di storia. Da partigiani di orientamento diverso dal suo, come pure capitava in quei giorni, come si è tramandato nelle zone dove ha combattuto – fino ad oggi, come ho potuto verificare anche personalmente. Ecco, quella vita, e quella morte, mi hanno sempre spinto a cercare di uscire dalla retorica, dalla visuale a senso unico, dalla contrapposizione manichea tra buoni e cattivi, dove i buoni sarebbero stati tutti da una parte sola. Non è così, non è stato così. La resistenza ha le sue pagine buie, alcune orribili. Così come ci sono state figure positive, che è giusto ricordare, altrove. E in mezzo molti, eroi e anti-eroi della quotidianità. Martiri e banditi. E persone qualsiasi.

Sarebbe un passo avanti se riuscissimo a riconoscerlo, tutti. Che la ragione politica stava essenzialmente da una parte, pur con i suoi torti (al suo interno c’erano anche sostenitori di un totalitarismo diverso, inaccettabile con gli occhi di oggi nonostante incarnasse per molti dei valori nobili e positivi). Mentre altre ragioni, e altri torti, stavano anche altrove, e ovunque. E sarebbe semplicemente onesto se da parte del governo, e del capo del governo prima di chiunque altro, venissero finalmente parole chiare su questo. Un riconoscimento esplicito che quel 25 aprile ha aperto al mondo di oggi, e il mondo di oggi è molto meglio di quello di prima del 25 aprile. Basterebbe questo. E aiuterebbe il mondo a cui Giorgia Meloni e altri (incluso l’incauto La Russa) appartengono a uscire da un complesso di minorità che non ha più ragione d’essere, acquisendo una legittimità culturale (quella politica gliel’hanno data le elezioni) che ancora non ha, perché ancora ambiguamente ammicca ad un passato che dovrebbe imparare a superare. Nel nome della libertà, della democrazia, e della repubblica: che non hanno colore. Chi oggi governa avrebbe tutto da guadagnarne. Sfuggendo a un’accusa che da parte di molti è solo strumentale, polemica: ma di fatto sostenuta da intollerabili e inaccettabili ambiguità. E aiutando il paese ad andare oltre. Facendo esplicitamente propri i valori fondanti della nostra convivenza civile. E facendo in modo che siano i valori di tutti, nessuno escluso.

 

25 aprile: le parole per dirlo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, “Corriere di Bologna”, “Corriere di Verona”, “Corriere del Trentino”, “Corriere dell’Alto Adige”, 25 aprile 2023, editoriale, p.1