La remigrazione non esiste. Gli inapplicabili slogan delle destre europee

La remigrazione non esiste. È solo una parola vuota: uno slogan da lanciare per guadagnare voti, sapendo in partenza che è inapplicabile. E che, se si applicasse, avrebbe un altro nome: deportazione. Un po’ come dire che si è contro le tasse, sapendo in partenza che, una volta al governo, non le si potranno diminuire, e forse si farà il contrario (con quel quid di discriminazione in più, perché può toccare solo alcuni e non altri). Un film già visto, ma che si ripeterà ancora.
Il concetto, lanciato dall’ultradestra germanofona, ma che possiamo essere sicuri sarà ripreso anche da noi, vuol dire questo: incentivare, e nel caso spingere, gli immigrati già presenti in Europa, a tornare indietro. Un concetto simile, senza la paura di usare esplicitamente la parola deportazione, lo ha evocato anche Trump negli Stati Uniti: e almeno ha l’onestà di dichiararlo, senza l’ipocrisia politically correct, normalmente attribuita alle sinistre, delle destre europee. Anche se poi nemmeno lui lo farà: non nella maniera e nei numeri ipotizzati, almeno. Sono i suoi stessi grandi elettori, che di quella manodopera hanno bisogno, a non volerlo: e gliel’hanno già detto.
Del resto, non ci sono precedenti storici che abbiano funzionato. Abbiamo avuto remigrazioni (ma li abbiamo sempre chiamati ritorni, senza bisogno di inventarci una nuova parola per un vecchio concetto), nel caso di persone che hanno dovuto emigrare forzosamente, a seguito di una catastrofe naturale, una persecuzione collettiva, o una guerra. Ma anche questo è un fenomeno che interessa solo una parte della popolazione emigrata. Per dire, nei primi mesi dalla loro partenza forzata, la maggior parte degli ucraini sfollata in Europa, se la guerra fosse finita, sarebbe senz’altro rientrata. Man mano che passa il tempo, accadrà sempre meno: perché le persone si inseriscono, si integrano, gli adulti lavorano, i bambini vanno a scuola e imparano una nuova lingua, i giovani si innamorano (delle persone e delle culture in mezzo a cui vivono) e si mischiano.
Nel caso delle migrazioni volontarie, invece, non ha proprio senso ipotizzarla. Se una persona ha investito anni e risorse cospicue per costruirsi un progetto di vita altrove, è impensabile che voglia prendere un volo nella direzione opposta, e tornare a casa: anche perché ‘casa’, nel frattempo, è diventata il paese di elezione. Può essere spinta, obbligata? No, c’è un’intera civiltà giuridica a impedirlo: gli esecutivi ci potranno provare, e i poteri giudiziari lo impediranno – non perché fanno politica, ma perché di mestiere rispettano le costituzioni, a differenza dei politici, che hanno spesso la tentazione di non farlo. Una persona può essere solo incentivata a andare via, a rientrare. E la cosa può funzionare (abbiamo avuto precedenti e leggi ad hoc già da decenni, in Francia e altrove: e ci sono ONG che lo fanno tuttora di mestiere, col supporto anche dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, con progetti di accompagnamento mirati): ma solo in piccoli numeri, con un qualche esborso economico, più o meno rilevante, e una certa organizzazione. Di solito, con coloro – e ci sono – che hanno fallito il loro progetto migratorio, e quindi possono essere interessati al rientro. Ma soprattutto, la remigrazione non ha senso ipotizzarla per interesse stesso dei paesi in cui se ne parla: economico e demografico (e anche geopolitico e diplomatico). Chi più chi meno (noi di più), tutti i paesi europei sono di fronte a un fabbisogno di manodopera gigantesco: sarebbe autolesionista investire denaro pubblico per espellere anziché per integrare.
Perché allora lo si fa, o almeno lo si promette, e qualche segnale simbolico lo si darà? Perché partiti che richiedono il consenso rivendicando battaglie identitarie (e, diciamolo, senza ipocrisie, francamente e onestamente razziste: e come tali, possiamo dirlo?, odiose) contro gli immigrati in quanto tali (o almeno quelli di uno specifico colore o religione), devono poi dare in pasto al loro elettorato qualche capro espiatorio, pena la perdita del consenso medesimo la volta successiva. E la remigrazione, come l’esternalizzazione delle frontiere (leggi, centri in Albania, che costeranno più di quello che producono senza risolvere un solo problema, e forse creandone), o come il blocco navale spesso evocato ma mai applicato da nessuno (e un motivo c’è: non funzionerebbe, sarebbe costosissimo e pure controproducente), è un buon modo di farlo. Anzi, di dirlo.

Remigrazione, l’inapplicabile scelta simbolo delle destre, in “Il Quotidiano del Sud”, 14 gennaio 2025, pp. 1-7

Zaia e il terzo mandato. Perché non è una buona idea

Le ragioni e le disragioni del terzo mandato ai presidenti delle regioni sono state ampiamente discusse. Chi vuole abolire il limite, usa l’argomento del consenso: se il popolo vuole così, chi siamo noi per impedirglielo? Un modo superficiale e tendenzioso di intendere la democrazia: che non è una vaga espressione di volontà popolare, per come la interpreta il potente di turno (quello è il populismo: che può accontentarsi di distribuire qualche beneficio mirato, offrire un po’ di circenses, o trovare un qualche capro espiatorio, per mantenere il potere). Ma è fatta di cose scomode e indispensabili, come regole, bilanciamenti e controlli del potere. In cui il limite dei mandati gioca un ruolo eminente: non a caso è presente nei più diversi contesti. E non vale l’argomento che in altre cariche rappresentative, come parlamentari o consiglieri regionali, non c’è (anche se il fatto che se ne discuta, e che qualcuno saltuariamente lo applichi di sua sponte, fa emergere che il problema è sentito anche lì). Queste hanno un peso molto minore: il potere reale ce l’hanno le cariche istituzionali di governo. E il pericolo di periodi di governo troppo lunghi sta precisamente qui.
Il professionismo in politica ha i suoi vantaggi. E abbiamo visto in questi anni le catastrofi prodotte dai dilettanti allo sbaraglio: trovare un equilibrio non è semplice. Ma il continuismo produce concentrazioni di potere inamovibili, cerchie di cortigiani, incarichi ai soliti noti, consorterie, clientele, habitués, inerzie amministrative, rendite di posizione (dovute al fatto di esserci, non di fare), privilegi mai messi in discussione, scarsa circolazione di idee (bastano le routines), incapacità di produrre innovazione: indispensabile, dato che la società, invece, cambia. Prevale quella che Max Weber chiamava “l’autorità dell’eterno ieri”: si fa così perché si è sempre fatto così – e perché lo dice il capo, che è sempre lo stesso. È precisamente l’avere una scadenza che obbliga a mobilitare la società per rinnovare un consenso che altrimenti si erode, a formare nuove leadership o almeno a lasciare loro spazio, a elaborare idee, progetti, obiettivi, orizzonti, visioni: anche solo per evitare che il potere ce lo porti via qualcun altro, alleato o avversario. Il mero continuismo tutto questo non lo fa. E lo si è peraltro già visto: sempre le stesse persone, a fare le stesse cose, mai una scelta coraggiosa o un guizzo di originalità, in nome del principio (che non vale nemmeno nello sport, e ancora meno nell’impresa) che squadra che vince non si cambia. Le elite del potere del resto questo fanno, per mestiere: tendono a autoperpetuarsi, a procedere per cooptazione e non per sostituzione, a impedire ad altri (anche del proprio partito) di sottrarre loro il potere stesso, che corrisponde a rendite preziose, a evitare giudizi di merito e analisi critiche sul passato, e quindi l’emergere di alternative. Più lungo è il periodo di mantenimento del potere, e più il meccanismo si rafforza. E Zaia è presidente già da quindici anni: venti, se calcoliamo il periodo in cui è stato vice (salvo la breve parentesi da ministro). Se facesse anche il quarto mandato, il suo ‘regno’ durerebbe più del ventennio mussoliniano. Non un bellissimo segnale.
C’è una ragione ulteriore, tuttavia, per cambiare. La discussione sul terzo o quarto mandato è tristissima. Dal punto di vista della pubblica opinione, inguardabile. In un periodo storico di calo continuo della partecipazione al voto, e in cui alle prossime regionali si corre il concretissimo rischio che la quota di elettori scenda abbondantemente al di sotto della metà (ciò che mette in questione anche l’argomento stesso della volontà popolare), la discussione sul mantenere il potere in mano a una persona a dispetto di tutto, e anche a costo di cambiare le regole, manda ai cittadini un messaggio devastante: i politici si preoccupano solo di sé stessi, del proprio destino personale. La prova è che solo di questo si discute: non della situazione in cui viviamo, non dei problemi che toccano davvero la vita delle persone, non di dove vogliamo andare, quale progetto costruire, intorno a quali valori, ma solo con chi. Ed è un problema dell’intero ceto politico, maggioranza e opposizioni. Come si vuole che, in un paesaggio desolante come questo, poco coinvolgente nei contenuti, per nulla trascinante emotivamente, la partecipazione possa non diciamo risalire, ma almeno stabilizzarsi? Per cosa dovrebbe discutere, lottare e partecipare, un cittadino, un elettore, a maggior ragione un giovane: per il posto di qualcuno?

Il “popolo” e il terzo mandato, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 14 gennaio 2025, editoriale, pp. 1-3

Il Medio Oriente e l’Europa

Un’intervista a La difesa del popolo sull’atteggiamento europeo rispetto al Medio Oriente. Di seguito il link (e un grazie a Germana Urbani): Intervista Difesa del popolo

“Prima i veneti”. Ma, esattamente: perché?

Il problema dell’insieme di leggi regionali chiamate “Prima i veneti” – quelle che danno la priorità ai residenti nella regione da un certo numero di anni per un certo numero di graduatorie, a cominciare dagli alloggi popolari, ma coinvolgendo anche altri servizi di welfare – variamente approvate negli anni scorsi, è la loro apparente ragionevolezza: il loro sembrare, di primo acchito, di buonsenso. È questo l’argomento con il quale il presidente della regione, Zaia, le ha peraltro sempre difese: anche se il motivo politico forte per cui erano state approvate era quello di dare un segnale all’opinione pubblica anti-immigrati. Quella a cui era stato chiesto il voto precisamente per questo motivo, e a cui occorreva offrire in pasto un qualche risultato.
Che la ragionevolezza sia solo apparente, lo conferma il fatto che la Corte Costituzionale abbia bocciato il criterio territoriale, relativamente all’accesso alle graduatorie, già lo scorso anno. Ora il tribunale di Padova, per ragioni diverse, ha contestato anche il vantaggio dato nelle graduatorie stesse: non la possibilità di accedere, più grave, ma la posizione acquisita, i punti in più ottenuti, in sostanza.
Va detto che, più che per i numeri di persone coinvolte, tanto le leggi approvate, quanto le sentenze che ne minano la validità, hanno un valore simbolico importante, ma anche una ricaduta politica non irrilevante. Intanto, per l’impatto avuto, e per il segnale dato, non solo agli immigrati. Anzi, soprattutto agli italiani, tanto che all’epoca i primi a protestare furono i poliziotti provenienti da altre regioni. Mandati a lavorare in Veneto per proteggere i veneti, e perché pochi veneti fanno questo mestiere: ma impediti di ottenere gli stessi benefici rivolti ai veneti che proteggevano. In effetti, la ratio di questi provvedimenti è discutibile, e controdeduttiva. Nella pratica, perché mai un carabiniere di Avetrano, un muratore di Desio, un pizzaiolo di Latina, o un ricercatore di Ferrara, dovrebbero volere venire a vivere in una regione dove gli dicono che non sono benvenuti già a partire dalla normativa che li discrimina, e dove a parità di salario godranno di minori servizi rispetto agli autoctoni? È un segnale attrattivo o respingente? Certo, il sottinteso della legge era legato all’immigrazione dall’estero: ma è forse diverso per un operaio del Bangladesh, una badante moldava, un lavoratore dei campi indiano, un edile rumeno, un’infermiera peruviana o un ricercatore inglese? E infatti è il principio in sé (odioso, possiamo dirlo?) che è in questione: che, per nobilitarlo, potremmo chiamare burocraticamente principio di residenzialità, ma che nella realtà agisce come un principio di selezione per corporativismo localistico. E che, oltre tutto, è in essenza antimeritocratico: non ottieni un servizio perché sei migliore di altri, o semplicemente perché a parità di condizione con gli altri ne hai diritto, ma semplicemente perché sei “di qui”, e pure se hai minore titolo.
Un altro modo di capire la solo illusoria ragionevolezza e il discutibile buon senso della norma, è di immaginarla applicata a parti invertite. Se a subirne le conseguenze fossero i veneti che vanno a vivere e lavorare in un’altra regione o in un altro paese. C’è, lo sappiamo, una tentazione sciovinista anche altrove: e tuttavia la sua logica, perdente per tutti, è un po’ quella dei dazi. Il primo che li decide si sente più furbo degli altri e ha un temporaneo apparente vantaggio. Se li adottano tutti, il risultato sarà che le merci saranno più costose, l’economia meno sviluppata, e la vita più scomoda, per tutti: non a caso la costruzione europea nasce precisamente sul principio opposto – stessi diritti e pari opportunità per tutti. Alla fine, conviene di più che non differenziare e discriminare. Anche economicamente.
Oggi poi tali norme appaiono tafazziane (il riferimento è a un noto personaggio comico che passava il tempo a darsi bottigliate sugli zebedei), e quindi autolesioniste. Il Veneto, dato il suo drammatico andamento demografico, ha bisogno di attrarre persone, lavoratori, famiglie. Non è proprio il caso di insistere su normative che hanno l’effetto di risultare respingenti, né di ricorrere contro sentenze che le contrastano. È esattamente il contrario, quello che dovremmo fare. E sarebbe ora che la politica cominciasse a rendersene conto.

L’errore del “Prima i veneti”, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 10 gennaio 2025, editoriale, pp. 1-7

Seconde generazioni, tra baby gang e integrazione

Le chiamiamo seconde generazioni. Ma non sono immigrati: in grande maggioranza, sono nati qui (quasi un milione, su un milione e 300mila). Sono le prime generazioni di neo-autoctoni: figli di immigrati, nati in Italia, ma per lo più non cittadini italiani, perché siamo il paese con la legge sulla cittadinanza più restrittiva d’Europa. Quindi non hanno gli stessi diritti dei nostri figli. Portatori di problematiche sociali? Sì, anche. Come storicamente sono stati alcuni esponenti delle seconde generazioni di immigrati negli Stati Uniti (vi ricordate “West Side Story”?), inclusi i figli di emigranti italiani (vi ricordate “C’era una volta in America” di Sergio Leone?), e come lo sono stati transitoriamente i figli di immigrati dal Sud (vi ricordate i discorsi che si facevano nel Nord negli anni ’60?). Con un tasso di delinquenza un po’ superiore alla media, normalmente riassorbito nel giro di una generazione. Un problema, quindi, certo: da affrontare e risolvere. Ma lontano dall’allarme sistematicamente costruito da intere trasmissioni televisive sulle baby gang, impacchettate con il preciso scopo di mettere paura alle generazioni più anziane, costruendo il fenomeno anziché descrivendolo. Certo che c’è (anche) la delinquenza. Certo che c’è allarme sociale. Su cui c’è da fare luce e da lavorare. Possibilmente, per risolvere il problema, non per additare un capro espiatorio. Anche perché, come al solito, si sente il rumore dell’albero che cade, non quello della foresta che cresce: la grandissima maggioranza di giovani che non delinquono, e che non meritano di essere infilati a forza in una categoria che non li descrive. E poi perché non basta indicare chi: bisogna domandarsi perché. E questo si fa di rado.
Hanno gli stessi problemi di senso e di comportamento dei giovani italiani, ma in percentuali maggiori. Perché sono immigrati? Perché vivono diversamente da noi? O perché li consideriamo diversi dagli altri? Vediamo. Secondo l’Istat vive in povertà assoluta il 35,6% delle famiglie straniere (dato in crescita), contro il 6,4% delle famiglie italiane (dato stabile). Vivendo in percentuali maggiori in famiglie povere, hanno gli stessi obiettivi ma molte meno possibilità di raggiungerli dei giovani autoctoni. Nei loro quartieri il tasso di abbandono scolastico e di disoccupazione è superiore alla media. Aggiungeteci l’irregolarità di alcuni, in particolare dei minori stranieri non accompagnati (un fenomeno che in passato non esisteva proprio, le cui ragioni sono complesse), le umiliazioni costanti di molti, una xenofobia diffusa e neanche tanto mascherata, che si riflette nelle condizioni di lavoro e di vita (la percentuale di nero è maggiore, e i salari più bassi, nei settori in cui sono maggiormente presenti gli immigrati, producendo un dualismo nel mercato del lavoro ormai accettato da quasi tutti noi). Tutto ciò non giustifica nulla. Ma c’entra qualcosa, con l’emarginazione e la delinquenza? Decidete voi. Nel caso, vuol dire che forse il problema non è essere diversi: ma non essere percepiti come uguali, e non sentirsi tali. Anche se la lingua che parlano, l’eredità culturale che apprendono a scuola, quella che si inventano nella vita sociale, la musica che ascoltano, quella che producono (alcuni con grande successo), è la stessa dei loro compagni e compagne autoctoni. Ma qualcosa evidentemente non funziona, se solo nel 40% dei casi si sentono italiani (e il 30% non sa rispondere). La domanda è: lo pensano loro, o è l’immagine che gli restituiamo noi? E quanto questa immagine incide sulla percezione di essere fuori anziché dentro la società, outsider e non insider? Così come ci dice qualcosa che il 59% dei ragazzi con background migratorio delle scuole superiori (contro il 42% dei figli di italiani) vorrebbe vivere all’estero: e molto più le ragazze, il 66%. Evidentemente vivono con più disagio la presenza in Italia: il quadro di un’integrazione mal riuscita. Ma l’integrazione è come il matrimonio: funziona se la vogliono entrambi i partner. Siamo sicuri che la colpa stia tutta da una parte sola?
Le soluzioni sono sempre quelle: integrazione, scolarizzazione, lavoro, valorizzazione. Ma per arrivarci occorre un lavoro specialistico, serio, di accompagnamento. Che ci conviene. Come per tutti i problemi, il costo sociale è maggiore se non lo affrontiamo all’inizio del suo manifestarsi.

La seconda generazione, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 24 dicembre 2024, editoriale, pp. 1-3

Se la Siria parla anche di noi

La Siria ci riguarda. Perché parla di noi. In questo tormentato angolo di Medio Oriente stanno accadendo avvenimenti epocali, che costituiscono una di quelle svolte cruciali che la storia ogni tanto si concede. Dopo oltre mezzo secolo cade, finalmente, una dittatura sanguinaria, tramandata di padre in figlio. Hafiz al-Assad è stato al potere dal 1970 al 2000, anno della sua morte, mentre il figlio Bashir gli è succeduto fino alla caduta, avvenuta nei giorni scorsi: più per una inevitabile erosione interna che per l’attacco dall’esterno. In totale, 54 anni (per capirci, quasi il triplo della durata del fascismo) di autoritarismo, violenze di stato, torture, repressione, scontri armati interni, guerre. Per giunta, in nome di nessun principio, che non fosse la mera conservazione di un potere assoluto, personale, nepotista, clientelare: e largamente aiutato, a fasi alterne, da diverse potenze, occidentali e non. In nome del dogma di una mal concepita stabilità dell’area, e perché si autodefiniva un potere laico, ispirato al partito Ba’ath, oppositore dei partiti religiosi.
La caduta di un dittatore come Assad dovrebbe essere un momento di gioia per tutti i democratici. E semmai potrebbe essere occasione di autocoscienza, anche rispetto alle nostre responsabilità e ai nostri errori. Perché per far cadere questa orrida caricatura del potere abbiamo dovuto aspettare gli islamisti, e i curdi? Perché noi non abbiamo dato loro una mano? Dove eravamo? Da quale altra parte guardavamo, per far finta di non vedere? Sarebbe, inoltre, il momento alto della consapevolezza, anche solo per mantenere la nostra sfera di influenza nell’area, mobilitando la diplomazia internazionale, preparando un piano di transizione, pianificando la ricostruzione e la pacificazione interna. Quale ruolo giocare? Quanto spendere, e come? Con chi allearsi? Invece no. Le cancellerie occidentali – il nostro governo incluso – hanno pensato, come prima misura (e simbolicamente è inquietante), solo e esclusivamente a bloccare l’esame delle richieste di asilo provenienti da cittadini siriani: o addirittura, come in Germania e altrove, hanno proposto di rispedire i siriani a casa loro. Proprio ora! Proprio ora che l’instabilità si manifesterà in tutte le sue forme, come in ogni dopoguerra. Proprio ora che si consumeranno le faide interne e le vendette personali. Proprio ora che i collaboratori del regime dovranno scappare (e non tutti sono corrotti approfittatori: alcuni sono persone qualsiasi, che non avevano alternative all’obbedienza). Proprio ora che le minoranze, etniche e religiose, rischiano grosso. Proprio ora, insomma, il nostro atteggiamento, invece di essere all’altezza dei tempi e delle sfide, e dei princìpi in cui dichiariamo di credere, è di chiusura, ingeneroso, meschinamente pensato ad uso degli slogan della politica interna, infimo dal punto di vista valoriale, persino tatticamente suicida dal punto di vista dei nostri interessi. Non stupisca se altrove, fuori dall’Occidente, ci considerano persone e governi dalla doppia morale, e non credono più nei valori di cui diciamo di essere portatori, senza praticarli, e nemmeno fare finta.
Non sappiamo come andrà a finire in Siria. Non sappiamo se il regime di Assad sarà sostituito da uno migliore o da uno ancora peggiore. Sappiamo già, però, che con il nostro gesto di chiusura, simbolicamente inguardabile, ci siamo giocati il nostro possibile ruolo e la nostra dignità. Per spiegare quanto sia indegno proviamo a immaginare lo scenario peggiore: l’instaurazione di un regime islamista che colpisce anche le minoranze religiose cristiane (qualche esempio minore di polizia morale si è già visto: donne a cui è stato chiesto di indossare l’hijab, le scuole cristiane che potrebbero dover cancellare le loro classi miste). Ecco, stanti le regole che ci siamo dati, noi diremo a queste persone che dovessero, nel caso, scappare in gran fretta, che no, non li vogliamo, nemmeno esamineremo le loro richieste di asilo. Che stiano a casa loro: noi siamo impegnati nel preparare il Natale in cui entrambi, loro e noi, diciamo di credere.

Se la Siria parla anche di noi. Regimi e diritti, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 17 dicembre 2024, editoriale, pp.1-3

Dei delitti e delle pene. La nostra idea di giustizia – Del caso Turetta e d’altro

È un bene che si sia aperta la discussione sulla condanna di Filippo Turetta, sull’utilità dell’ergastolo, sui limiti della difesa. È un bene, perché quello della giustizia e della pena è un tema cruciale per la convivenza civile, ma pur essendo tra i più discussi è anche tra quelli meno ragionati nei suoi fondamentali, nelle sue implicazioni, nella sua efficacia, anche. Tutti piangiamo le vittime, tutti vorremmo la condanna dei colpevoli, tutti chiediamo giustizia. Ma in concreto, cosa significa?
L’idea di giustizia, certo, ha a che fare con la violazione delle norme, e la punizione del colpevole. La giustizia è fondativa perché la violazione della norma, se non punita, mette in crisi la fiducia nella società, la sua stabilità, la sua stessa esistenza. Ecco perché l’ordine va ripristinato, anche ritualmente (non a caso il processo è esso stesso un rituale, una sacra rappresentazione, con i suoi sacerdoti, i paramenti, i comandamenti, i giuramenti…). Ma basta, tutto questo? E basta la galera per risolvere il problema? Temiamo di no. Perché c’è un ordine civile, sociale, e un ordine morale, che non a caso, all’origine, si sovrapponevano: è per questo che il carcere si chiama anche penitenziario (dove si fa penitenza, non solo dove si sconta la pena, la condanna), e quello minorile correzionale (dove c’è la possibilità di correggersi, di cambiare), e pena significa sia dolore che castigo. E tuttavia della funzione morale c’è sempre meno traccia. Il carcere (che vuol dire recinto) dove mettiamo il prigioniero (da prehensus: preso, chiuso) svolge pochissimo la funzione rieducativa che pure prevederebbe l’articolo 27 della Costituzione: e sempre più ha una mera, seppure ovviamente necessaria e imprescindibile, funzione repressiva, non di rado vendicativa (come quando ripetiamo la frase “chiudiamoli in cella e buttiamo via la chiave”). Con il risultato che i tassi di recidiva sono elevatissimi, e a seconda dei reati possono arrivare a due terzi dei detenuti: il che significa che il carcere finisce per non servire a null’altro che a svolgere una funzione immobilizzativa – un mero parcheggio umano. Ma è paradossale: se la scuola producesse due terzi di bocciati, ci interrogheremmo su come è organizzata, a cosa serve, se svolge correttamente la sua funzione. Perché il carcere no? Forse perché abbiamo ridotto la giustizia a mero tecnicismo, in cui solo dei terzi non coinvolti (giudici, avvocati) agiscono, e le persone direttamente interessate (il colpevole, la vittima, i familiari) non svolgono alcun ruolo, e quasi non hanno diritto di parola: con il risultato che diventa più difficile la riflessione autentica, e la stessa presa di coscienza del male che si è fatto, con le evidenti conseguenze in termini di ripetizione del medesimo.
Certo, ci sono ottime ragioni perché sia così: la giustizia è un bene che va garantito a tutti. E non ci sono facili ricette per modificare la situazione. Ma una riflessione collettiva forse andrebbe fatta. Ripensando le forme della giustizia, gli spazi possibili di mediazione, il ruolo delle pene alternative, la necessità di un lavoro rieducativo vero (per il quale si spende invece, in proporzione ai costi totali, pochissimo), i suoi costi rispetto ai suoi benefici, anche. Toccando pure la questione spinosa dei limiti stessi della pena. Lo abbiamo fatto in passato con l’abolizione della pena di morte. Forse, nella medesima ottica, si può ragionare rispetto all’idea stessa di ergastolo, di “fine pena: mai”. Certo, conosciamo la difficoltà di affrontare questi ragionamenti, il bisogno immediato e profondo che abbiamo di ripristino dell’ordine, il diritto a vedere riconosciuto simbolicamente e praticamente il torto fatto, il diritto/dovere di veder pagare per il male compiuto, il risarcimento dovuto alle vittime e alla società tutta, le cui norme di convivenza sono state violate. Senza tutto questo la società non esisterebbe, e dunque si tratta di un bene prezioso, che va salvaguardato. Ma proprio per questo abbiamo bisogno di interrogarci sulle sue forme e in definitiva sulla sua efficacia, nel breve e nel lungo termine. Anche, forse soprattutto, per questioni di principio, alte, morali, fondative.

La nostra idea di giustizia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 novembre 2024, editoriale, pp. 1-5

Alfabeto Veneto 2050

Il “Corriere del Veneto” ha progettato un numero speciale sul futuro del Veneto. Mi è stato chiesto di immaginare un alfabeto per il Veneto nel 2050. Questo è il risultato:

 

Autonomia

 

Non ci sarà. Nemmeno nel 2050. Perché quell’idea, innovativa quando è stata immaginata nel Novecento, si sarà rivelata un cambiamento, sì, ma irrilevante. Le priorità saranno altre. L’autogoverno di piccole comunità autosufficienti, da un lato. E dall’altro grandi poteri transnazionali, privati, più forti di molti stati nazione. Sarà quello, il nemico. E lo stato sarà un alleato, necessario e non sufficiente. Chiederemo, e avremo, più Europa.

 

Benessere

 

Scopriremo cosa significa questa parola. Che nella terra del lavoro come religione, era ignota. Ben-essere come sentirsi appagati, grazie a relazioni significative, e tempo a disposizione. Ci saremo arrivati più per vincolo che per maturazione culturale: perché nel frattempo le macchine ci avranno espropriato di molto del lavoro che consideravamo necessario. Impreparati, quindi.

 

Casta

 

Saremo più diseguali. Ricchi sempre più ricchi, sempre più lontani dai problemi dei comuni mortali: de-territorializzati, anche. Un lumpenproletariato che comprenderà immigrati e fasce crescenti di autoctoni. Un dualismo nel mercato del lavoro (regolare/irregolare, garantito/non garantito) destinato a accentuarsi. E una fascia crescente di popolazione che vivrà tutto ciò come se fosse normale.

 

Demografia

 

Più morti che nati. Popolazione sempre più anziana. Durata della vita crescente, per i più ricchi. Bambini sempre più rari e perciò caricati di aspettative. Giovani lontani mille miglia, come mentalità, gusti e aspirazioni – e spesso anche geograficamente – dalle generazioni che li hanno preceduti. Malattie degenerative sempre più diffuse, ma anche cure sempre più efficaci. A costi crescenti. Che dovremo decidere a chi far pagare.

 

Educazione

 

Livello di istruzione sempre più elevato. Ma un analfabetismo funzionale più diffuso: che diventerà un pericolo per la convivenza civile. Nuove forme di diseguaglianza, basate sull’accesso al sapere. Istruzione non più come prima fase, seguita dal lavoro e dalla pensione, ma spalmata su tutta la durata della vita, come formazione permanente, indispensabile alla sopravvivenza.

 

Frontiera

 

I confini che contano non saranno quelli dello stato. Men che meno quelli della regione. Saranno quelli invisibili del mondo globale: accesso alle informazioni, alle risorse, al credito, al potere, alle relazioni. Le frontiere geografiche conteranno meno. Saremo pronti per lanciarci nello spazio. Ma la vera nuova frontiera sarà quella del tempo: allungarlo, accelerarlo, fermarlo.

 

Genere

 

La parità tra maschi e femmine sarà acquisita. Le donne, più istruite, guadagneranno di più e gestiranno più potere. Acquisiranno e sperimenteranno nuovi ruoli, spesso in modo diverso. Aumenteranno, invece, gli squilibri tra generazioni.

 

Habitat

 

Sarà una delle grandi questioni irresolute. Le trasformazioni globali dovute al cambiamento climatico e al riscaldamento globale. E quelle locali dei piccoli e grandi inquinamenti: dell’acqua, della terra, dell’aria. Avranno altri nomi, rispetto a quelli di oggi, ma la medesima causa: l’uomo. E un’economia incapace di gestire le conseguenze delle proprie azioni.

 

Innovazione

 

Resterà il mantra che accompagnerà la nostra vita: in tutti i settori – troppi per poterne comprendere gli effetti, e starci dietro. Ci supererà sempre, inesorabilmente. Ma impareremo a farcene una ragione. L’intelligenza artificiale ci costringerà a capirlo.

 

Lavoro

 

Sarà di meno. Non sarà per tutti. Ma sarà più creativo. Forse non altrettanto redditizio, ma compatibile con la vita, e non alternativo ad essa. Nel frattempo, si spera, avremo imparato a investire di più su beni e servizi comuni: co-working, co-housing, sharing economy e sharing society. E i workaholic saranno finalmente diventati eccezione.

 

Migrazioni

 

Saranno sempre di più: sia in ingresso che in uscita, e interne. Ma saranno sempre meno costose, anche psicologicamente. La mobilità sarà fisiologia, non patologia (lo è già oggi, per molti, ma non ce ne accorgiamo). E vivremo in una circolarità globale e permanente: non solo di informazioni, denaro e merci, ma anche di persone e relazioni. Con i relativi vantaggi. E i prezzi da pagare.

 

Narrazione

 

Ricostruire il filo rosso della nostra vita sarà sempre più un’urgenza in una società frammentata. Darle senso, unitarietà, spessore. Nelle relazioni private, ma anche nella vita pubblica, e nella politica. La narrazione avrà questa funzione, a scapito della mera analisi razionale. E sarà un bene. Da che mondo è mondo, è la funzione della cultura: dal mito di ieri al romanzo e al cinema di oggi.

 

Occidente

 

Non sarà più quello che immaginiamo. Perché sarà plurale al suo interno, cioè più ricco di diversità. E perché un mondo multipolare presuppone un numero maggiore di potenze, globali o regionali. Resterà l’attrattiva del sogno occidentale, ma impareremo a conoscere altre culture, a confrontarci e a fare affari con loro. Radicati, ma globalizzati.

 

Paura

 

Paura e potere sono un binomio inscindibile. Il potere fomenta la paura, e chi ha paura cede libertà in cambio di protezione. Niente di nuovo. Ma ci saranno nuove paure. Quella dello straniero conterà meno, anche perché molti nel frattempo saranno diventati autoctoni, facce e costumi familiari. Peserà di più quella delle incognite dovute all’evoluzione tecnologica, che ci riserverà sfide sempre meno prevedibili.

 

Qualità

 

Ripenseremo cosa significa qualità (della vita). E in numero crescente capiremo che non ha molto a che fare con la quantità: né di denaro, né di beni, né di relazioni superficiali. Un numero crescente di persone rifiuterà la logica dell’accumulazione, del numero. Guadagnando tempo, significato, pienezza. Altri continueranno sulla strada di oggi. Probabilmente saranno questi a governare. Gli altri si ritaglieranno isole di libertà autogestita. Sempre più numerose.

 

Religione

 

Chiese come beni architettonici: interessanti, ma vuote. In compenso una pletora di gruppi (new age, ma anche di religioni tradizionali) basati più sull’esperienza che sul messaggio. Alcuni si baseranno su sostanze psicotrope di nuova concezione, e sulla realtà virtuale. L’intelligenza artificiale sarà anche spirituale. Nuovi leader carismatici e nuove comunità prenderanno il posto delle vecchie liturgie. Con nuovi dèi, forse. Ma con fedeltà sempre più brevi.

 

Schei

 

Il denaro sarà una delle cose peggio distribuite. Resterà l’obiettivo primario di una minoranza attiva e sgomitante. Nuove forme di moneta sostituiranno quelle attuali. Virtuali, come le monete elettroniche, anche locali. Ma avremo altre forme di intermediazione tra le attività. Faremo assegni di tempo e promesse di pagamento in servizi. Anche se gli schei, qui, conteranno ancora.

 

Trans

 

Saremo perennemente in transizione. Tra personalità, mode, lavori, ruoli. Cambieremo più spesso preferenze culturali e relazioni: saremo transculturali. Alcuni di noi si vivranno transgender, e cambieranno identità di genere. Molti di noi si vorranno transumani: con innesti tecnologici che ci faranno sembrare cyborg, potenziandoci. Sarà una società trans. E i dibattiti identitari di oggi sembreranno preistoria.

 

Unione

 

Ciò che terrà insieme la società saranno nuove forme di solidarietà, anche tra estranei e temporanee. Nuove comunità di mutuo sostegno, più spesso su base culturale che territoriale, saranno alla base di nuove forme di legame sociale, che in parte sostituiranno la famiglia. Dovremo re-inventare le città e la socialità a partire da questo.

 

Velocità

 

Tutto sarà più veloce: infrastrutture, mezzi di trasporto, la filiera dalla produzione al consumo, la diffusione delle mode, la velocità di circolazione delle informazioni. Ma anche le relazioni, soggette a continui processi di de- e ri-socializzazione. Che impareremo a gestire.

 

Zig Zag

 

Il futuro non avrà una sola direzione. È impossibile per definizione, in una società plurale. Sperimenteremo spesso, andremo qui e là – e anche avanti e indietro – a seconda delle opportunità del momento. Pezzi di società andranno in direzioni diverse da altri. E non cercheremo una coerenza complessiva del sistema che, forse, non sarà più necessaria.

 

 

Alfabeto Veneto 2050, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 18 novembre 2024, pp.4-5

Un anno fa, Giulia Cecchettin: cosa è cambiato?

Il caso di Giulia Cecchettin è stato uno spartiacque. C’è un prima e c’è un dopo. Nel cupo orrore e nella tragicità dell’episodio di violenza, purtroppo ripetutosi così tante volte da essere banalizzato, la luce è stata il fatto che sia diventato caso esemplare – paradigmatico, se si vuole, di un paradigma che era necessario superare. E i tempi erano maturi per farlo, anche se gran parte del merito è stato della famiglia di Giulia, della sorella e del padre, della capacità che hanno avuto di gestire in pubblico un dolorosissimo fatto privato: rendendolo con dignità narrazione collettiva, e motivo di ripensamento delle dinamiche di genere, della cultura diffusa nella società. Da qui la grandissima e forse inaspettata partecipazione emotiva, la forte mobilitazione, la commossa partecipazione di tanti ai funerali, trasmessi anche – fatto non scontato per una sconosciuta – in diretta tv, i “minuti di rumore”, diventati ore e ore di incontri e assemblee, come suggerito dalla sorella Elena Cecchettin contro la debolezza del segnale del minuto di silenzio, persino l’innovazione prodotta nel vocabolario comune: il termine patriarcato, che prima era di pochi, sdoganato dai messaggi della sorella, e diventato patrimonio diffuso.

Questo, per quanto riguarda il sentimento popolare. E le istituzioni? Di tutto questo cordoglio sviscerato in pubblico, di tutto questo slancio propositivo, di questa apoteosi di buone intenzioni e determinazione affinché non accada mai più, delle molte mirabolanti parole che preannunciavano corsi, programmi, formazione permanente e quant’altro, che cosa è rimasto? Certo, c’è stata l’approvazione bipartisan del disegno di legge contro la violenza sulle donne, poche settimane dopo, sull’onda emotiva della morte di Giulia. La magistratura ha potenziato gli organici di chi si occupa di violenza di genere. Sono aumentate le denunce e le richieste di aiuto, e questo è certamente uno degli effetti positivi della risonanza mediatica del caso. Sicuramente c’è più attenzione nelle forze di polizia, e tra gli assistenti sociali, anche in termini di prevenzione, dopo alcuni casi anche clamorosi di sottovalutazione e di mancato intervento che sono stati letali per alcune vittime che pure avevano avuto il coraggio di denunciare – anche dopo il caso di Giulia Cecchettin, purtroppo.  Ma che ne è stato degli annunci del Ministro dell’istruzione e della Ministra per la famiglia e per le pari opportunità? Quali nuove procedure, progetti, programmi stabili e non episodici, per produrre il cambiamento culturale che allora tutti abbiamo giudicato essenziale? Si erano spese, allora, grandi promesse da parte di tutti: di cambiare, di fare, di educare, di migliorare il nostro ecosistema morale. Si era parlato di iniziative, di corsi, di educazione civica allargata, di coinvolgimento delle istituzioni – e della scuola in particolare – nel creare nuove attività, nuovi contenuti, che prendessero in considerazione l’educazione ai sentimenti, che contribuissero a educare in particolare la metà maschile del mondo, che il femminicidio è quella che lo pratica, in nome di una virilità, anzi, di una maschilità che abbiamo imparato a definire tossica.

Certamente è cambiato qualcosa nella mente di molti, che quello che è successo l’hanno lasciato filtrare nelle loro vite, nel loro rapporto con gli altri e soprattutto le altre, con maggiori attenzioni, con iniziative semplici, discrete, di evidenziazione del tema, di discussione. Molti insegnanti hanno oggi un’attenzione diversa, e utilizzano le occasioni che l’attualità anche interna a gruppi e classi offre per discutere di più: e il loro ruolo è centrale, dato che il problema è soprattutto culturale, e quindi eminentemente educativo. Molte famiglie fanno certamente altrettanto: per proteggere le figlie, e forse anche per prevenire il rischio che comportamenti oppressivi e violenti si ripetano tra i figli. Ma di pubblico, di generalizzato, di permanente, di diffuso, che cosa è stato proposto, fatto, attuato, applicato? Quali sono i segnali dati all’opinione pubblica che lo spartiacque del caso Cecchettin è stato davvero tale? E non parliamo di singole iniziative, alle quali peraltro ha partecipato spesso e generosamente lo stesso Gino Cecchettin. Parliamo di qualcosa di stabile, e strutturale. Diteci che c’è. Fateci sapere che non è stato invano. Chi ha contezza di progetti istituzionali non occasionali, realizzati o in corso di realizzazione, li racconti, li condivida, anche per suggerire buone pratiche a tutti noi: il dibattito pubblico e la maturazione della coscienza collettiva sono fatti anche di questo.

 

La politica batta un colpo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 ottobre 2024, editoriale, pp. 1-3

Il paradosso della cittadinanza. I destini opposti di oriundi e immigrati

Cittadinanza. C’è chi la vorrebbe, la desidera, la sogna, ma non riesce a ottenerla: come i ragazzi di seconda generazione nati qui, socializzati qui, istruiti qui, che parlano e pensano italiano (e non solo “in” italiano). E c’è chi è nato, socializzato e istruito altrove, non sa necessariamente l’italiano e non è detto che sia interessato a impararlo, ma la chiede per motivi spesso strumentali, e la ottiene senza sforzo, a seguito di una semplice richiesta al comune d’origine del proprio avo: i figli, nipoti, bisnipoti e trisnipoti di italiani emigrati altrove anche centocinquantanni fa.

Ecco, se si vuole cogliere l’insensatezza di un provvedimento esistente e di uno mancante, questo paradosso la fotografa bene. La legge esistente è quella in base alla quale può richiedere la cittadinanza italiana chiunque, discendente di italiani, lo voglia. Quella che manca è quella sulla cittadinanza per i figli di immigrati nati e/o cresciuti qui.

Solo che questa situazione non è frutto del caso, di un errore, di una svista, ma di una determinazione tutta ideologica, perseguita con convinzione per anni, che introduce un’idea forte anche se mitizzata di stirpe. Per dirla semplice, la legge per gli italiani all’estero è uno ius sanguinis allargato, anche a chi il sangue l’ha peraltro annacquato parecchio: considerando tutti i discendenti degli emigranti e di coppie miste (basta un avo) c’è chi stima per assurdo una platea potenziale di 60 milioni di persone, un’altra Italia fuori d’Italia. Su questo presupposto ideologico, si sono innestate alcune considerazioni strumentali: la destra era convinta, a torto, di avere un bacino di voti assicurato, che in taluni casi ha invece favorito la sinistra (così come è convinta, a torto, che gli immigrati siano un bacino di voti assicurato per la sinistra, mentre l’esperienza di molti paesi europei mostra che è un elettorato trasversale, come tutti). Una buona dose di demagogia, ha poi fatto sì che i provvedimenti relativi fossero votati da tutti, destra e sinistra insieme, facendo a gara per rivendicarne il merito. Motivo per cui, oggi che la legge rivela tutte le sue distorsioni, non si ha il coraggio di mettervi mano. Qualcuno la richiede infatti per tornare a vivere in Italia, per amore di una antica patria e della sua cultura. Ma molti invece solo per avere un passaporto che consenta loro di entrare negli Stati Uniti senza visto, o poter entrare, grazie alla libera circolazione garantita ai cittadini europei, in altri paesi dell’Unione. Con il risultato che il Brasile è al quarto posto tra le provenienze di coloro che ottengono la cittadinanza (dopo Albania, Marocco e Romania) pur non essendoci una significativa presenza di brasiliani in Italia, e l’Argentina è uno dei paesi con l’incremento maggiore di cittadinanze ottenute pur essendo pochi gli argentini residenti. Un’altra ragione per chiederla, come ha sottolineato di recente anche il presidente Zaia, è quella di utilizzare, alla bisogna, il sistema sanitario nazionale.

Questo mentre una legge un po’ più aperta sulla cittadinanza per le seconde generazioni non viene approvata, ancora una volta per motivi ideologici. Eppure della specularità dei diritti aveva un’idea forte persino un politico come Mirko Tremaglia, esponente del Movimento Sociale, poi di Alleanza Nazionale, infine del Popolo delle Libertà, ministro degli italiani nel mondo (figura che è esistita per una quindicina d’anni a cavallo del secolo) e instancabile sostenitore dei loro diritti, a partire da quello di voto, della cui relativa legge è il padre riconosciuto. Che, tuttavia, chiedeva per gli immigrati gli stessi diritti richiesti per i nostri emigranti, con queste parole: “Gli emigranti italiani hanno vinto nel mondo contro le discriminazioni ottuse, gli stereotipi che li volevano tutti mafiosi e delinquenti, le vere e proprie persecuzioni di cui sono stati oggetto. Con questa storia alle spalle, dare una chance a chi oggi è in Italia da straniero è qualcosa di più di un adempimento burocratico: è un dovere morale che tutti dovrebbero sentire”. Da uomo onesto, che aveva una visione e dei princìpi, si ritrovò isolato.

Tutto questo è materia sufficiente per fermarci a riflettere. E ragionare su quello che davvero vogliamo, quello che è davvero utile, e magari anche quello che è giusto, in materia di cittadinanza.

 

Che cosa vuol dire cittadini, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 25 settembre 2024, editoriale, pp. 1-5