Quando il sovranismo fa male alla nazione. Su carne, insetti e altre sciocchezze

 

La sovranità alimentare rischia di essere una bella battaglia ideologica, e un boomerang pratico. Rischia infatti di ritorcersi contro la patria economia, oltre che contro la nazionale intelligenza.

Intanto: il nemico. Non c’è. Non c’è nessuna Europa che vuole obbligarci a mangiare grilli o deglutire carne sintetica. Anche perché non c’è nessun obbligo: semmai un aumento della libertà individuale e di scelta di ciascuno. Con tutte le precauzioni, etichettature e informazioni del caso, come giusto che sia, e che già l’Europa prevede, peraltro. Dietro ci sono buonissime ragioni. Perché insetti e grilli sono una risorsa di proteine abbondante e a disposizione: e peraltro fanno parte della dieta alimentare dell’uomo dall’inizio della sua storia. Ho mangiato in Africa termiti e cavallette, e non vedo una differenza di principio, e nemmeno di superiore civiltà, rispetto all’inghiottire moeche, lumache o gamberetti, francamente. Dopodiché, siamo liberi di non farlo, se non ci va. Ma anche di scegliere il cibo che più ci piace, compatibilmente con le nostre tasche, come già accade: siamo infatti i più importanti consumatori di sushi d’Europa, e i terzi per il kebab (nonostante le ordinanze sovraniste contro di esso…), pur godendo le decantate meraviglie della dieta mediterranea.

Quella contro la carne e le proteine sintetiche è una battaglia, se possibile, ancora più implausibile. Immaginiamo che, per coerenza, i sovranisti nostrani rifiutino anche le vitamine sintetiche, inghiottendo quando hanno il raffreddore solo quintalate di arance anziché comode compresse solubili in acqua (incidentalmente, anche arance, limoni e mandarini sono originari dall’estremo oriente: come faremmo se li avessimo sovranisticamente rifiutati in passato?).

La dico semplice. Il nutrimento per tutti, a prezzi abbordabili, sarebbe una svolta gigantesca nella storia dell’umanità. L’uscita dal bisogno, e letteralmente dalla fame, che ancora attanaglia molti. E non solo. La carne sintetica avrebbe (ha già) un impatto ambientale molto minore degli allevamenti intensivi (con le conseguenze devastanti che conosciamo, in termini di inquinamento, di salute, di consumo di territorio, risorse, acqua, antibiotici e altri farmaci non proprio naturali, di conseguenze più ampie sul cambiamento climatico – e magari di condizioni degli animali). L’ho assaggiata: e, francamente, non è più artificiale della maggior parte del cibo che compriamo al supermercato – che, peraltro, di naturale spesso ha molto poco (visto che siamo in periodo di Vinitaly, vale la pena ricordare che la viticoltura è la più grande consumatrice di chimica dell’agroalimentare europeo). Non solo: impedirne la produzione in Italia, vantando la primazia mondiale del divieto, mentre il mondo va nella direzione opposta, significa danneggiare le imprese italiane che già lavorano nel settore – altri andranno avanti nella ricerca, nella produzione e nella vendita e faranno profitti, noi contempleremo sovranamente il nostro ombelico impoverito. Salvo importare prodotti altrui, quando ci servirà.

Semmai, immagino altri scenari, legati a diseguaglianze fattuali più che a vaghi principi ideali. È solo questione di poco perché vi sia un ordinario doppio mercato, due filiere parallele: la carne artificiale per i più, nel consumo ordinario, da grande distribuzione, casalingo, e quella ‘vera’, più cara, per le occasioni speciali, magari al ristorante. Un po’ come già oggi sono separate la filiera del cibo ordinario e di quello biologico, o del pesce allevato e quello pescato. Il mercato del lusso e quello della gente comune. Sapendo che già oggi la chimica, tra additivi, integratori e quant’altro, è quella che rende i nostri anziani più restii ad abbandonare questa terra – e noi tutti più longevi. Immaginiamo che i sovranisti alimentari, coerentemente, non ne facciano uso.

Dopodiché, tutto ciò non è in contraddizione con la doverosa valorizzazione dei prodotti del territorio, il km zero, la biodiversità, la sostenibilità, la lotta per un consumo equo, per un pagamento giusto dei lavoratori della terra, la promozione dei sistemi locali del cibo, l’agricoltura familiare, la pesca e l’allevamento tradizionali (che non hanno nulla a che fare con gli allevamenti intensivi di carne pur nostrana, tuttavia).

Sono due binari paralleli, che vanno percorsi entrambi. E lo si può fare. Anche importando costumi e prodotti altrui integrandoli nella nostra cultura. L’abbiamo sempre fatto, del resto. Il pomodoro è peruviano, la melanzana indiana, il peperoncino della Guyana, il mais messicano, il riso arabo, il pesco cinese, la patata americana, come il tabacco – e potremmo continuare. Oggi li produciamo noi, come il kiwi di cui siamo il maggiore produttore al mondo. Non credo che ne faremmo volentieri a meno, in nome di una discutibile dieta sovranista.

 

No alla sovranità alimentare, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 31 marzo 2023, editoriale p.1

Autonomia e LEP: si comincia (non bene)

Il CLEP, o Comitato per i LEP (quello che dovrebbe decidere sui livelli essenziali delle prestazioni, un meccanismo fondamentale per far partire l’autonomia), è stato appena nominato. Sarà composto da 61 membri, coordinati da Sabino Cassese, che conosce come pochi la macchina dello stato. Poiché qualcuno ha definito il comitato come la Costituente dell’autonomia differenziata, ovvero l’organo che dovrebbe determinarne le linee guida e la fattibilità reale, ci piacerebbe poter auspicare che i lavori siano brevi: in un anno e sette mesi i costituenti (che erano 556: ma la Commissione per la costituzione, che materialmente scrisse il testo base per la discussione, era composta di soli 75 membri, e impiegò appena sei mesi a svolgere il suo lavoro) partorirono un’intera costituzione che serviva a inventare una repubblica di sana pianta. Per definire i LEP, in teoria, di tempo dovrebbe bastarne assai meno. Il realismo, tuttavia, ci spinge a qualche pessimismo in più.

Al di là dei tempi previsti o prevedibili (si auspica un anno, ma vedremo), ci sono altri aspetti che colpiscono, nella composizione del comitato. Il primo è la suddivisione professionale. Non solo la forte presenza, ma addirittura la dominanza praticamente monopolistica di giuristi a vario titolo: come se fosse solo una questione di norme, e di come scriverle. Manca quasi completamente, non me ne vogliano i colleghi, il mondo reale: tre o quattro economisti, un demografo e un matematico decisamente non lo esauriscono. E gli esperti di sanità, di scuola, di lavoro, di formazione professionale, d’arte, di cultura, gli intellettuali, le scienze umane (ma anche le discipline scientifiche hard), l’impresa, l’agricoltura, l’artigianato, il commercio, gli esperti di squilibri territoriali, insomma, tutto quello di cui l’autonomia si dovrebbe occupare, dove sono? Vero che si tratta di definire i livelli essenziali di prestazione: ma vero anche che dovrebbero riferirsi a un contenuto su cui bisognerebbe ragionare nel concreto.

L’altra cosa che balza all’occhio del lettore appena avvertito, è l’equilibrio (o meglio, il totale squilibrio) di genere. Di 61 membri, solo 7 sono donne (più una coordinatrice). Il dieci per cento o poco più. Se si pensa che nella commissione dei 75 le donne erano 5, non pare si siano fatti passi avanti significativi dai tempi della Costituente: la percentuale è quasi uguale (vero, nell’assemblea lo squilibrio era maggiore: 21 donne su 556).

Perché ci sembra, questa, una notizia, e non buona? In altri tempi, dopo tutto, sarebbe passata sotto silenzio. Ecco, direi proprio per questo: perché sono cambiati i tempi. Ma la politica non se ne rende conto. E il non accorgersi del problema (anzi, il non capire che è un problema) mostra un ritardo culturale sostanziale.

C’è una miopia profonda dietro al mancato rispetto della parità di genere: che già in un paese appena (più) civile provocherebbe un’indignata reazione. E non per la necessità di tutelare una qualche forma di quote che mi rifiuto di chiamare ancora rosa (manco le femmine si vestissero ancora di rosa e i maschi d’azzurro, superata l’età del fiocco da appendere fuori casa per segnalare la nuova nascita – e forse dovremmo aggiornarci anche su quello). Non è solo un segnale (l’ennesimo, certo) di mancata presa in considerazione, se non di disprezzo, dell’altra metà del mondo. E, no, non è un problema di forma, ma di contenuto. Non (solo) di metodo, ma di merito. La composizione di genere del comitato è clamorosamente sbagliata nella sostanza, oltre a essere antistorica e segnalare un incredibile scollamento dalla realtà del ceto politico. È sbagliata nel merito dell’autonomia, proprio: per capirne le urgenze, le gerarchie, la complessità. Scuola, infanzia, servizi sociali, salute, per citarne solo alcuni: possiamo immaginare questi problemi, oggi, senza comprenderne la dimensione di genere, familiare, di suddivisione dei ruoli? Possiamo davvero immaginare di definire i requisiti di base, e la persistenza degli squilibri, senza un punto di vista femminile?

Solo giuristi maschi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 28 marzo 2023, editoriale p.1

Immigrati: l’ipocrisia del click day

Tra una settimana, il 27 marzo, alle ore 9, è previsto il famigerato click day per l’assunzione di immigrati. Una procedura tra il contorto e il perverso che dovrebbe consentire l’ingresso regolare in Italia di oltre 80mila lavoratori, assunti direttamente dalle aziende (per essere precisi, facendo finta che la cifra non tonda sia veramente frutto di un attento studio corrispondente al fabbisogno – e non lo è, nemmeno alla lontana –: 82.705, di cui 38.705 per lavoro non stagionale e autonomo e 44.000 per lavoro stagionale). Il decreto che lo prevede indica anche i settori in cui questo è possibile, ad esclusione di tutti gli altri, dove pure il fabbisogno di manodopera è presente.

In realtà il meccanismo è più complesso di così: la burocrazia ci mette sempre entusiasticamente del suo per trasformare quella che potrebbe essere la normalità in un incubo. La finzione, accettata come tale, prevede che, prima, si superino di slancio alcuni ostacoli: a) le aziende presentino agli uffici competenti sul territorio il modulo di richiesta per lavoratori non dell’Unione Europea non stagionali; b) i Centri per l’impiego pubblicizzino gli annunci agli stranieri già residenti sul territorio, in modo da proporli alle aziende; c) se nessun candidato si presentasse, o se il Centro per l’impiego non rispondesse entro 15 giorni (ciò che costituisce la normalità, da tutti conosciuta), le aziende acquisiscono il diritto di costringere i loro impiegati a stare dalle 8 e 55 del mattino con il ditino pronto sul portale dedicato del Ministero dell’Interno, sperando in una botta di fortuna, che solo alcune avranno. Per il lavoro stagionale in agricoltura la procedura è semplificata: e parliamo di un settore dove un terzo delle ore lavorate lo sono per mano straniera. Di fatto, sia la possibilità delle imprese di assumere, sia quella di alcuni immigrati di regolarizzarsi (perché a questo serve il click day, e tutti lo sanno, pur facendo finta che non sia così: ad assumere chi è già in Italia irregolarmente – spesso perché diventato irregolare a causa della farraginosità delle norme, o dei ritardi nell’erogazione dei permessi – e non a far veramente arrivare qualcuno da fuori), è affidata al caso: un’assurda e inquietante rappresentazione tecnologica del fato, che anche quest’anno, come ogni anno, deciderà del destino delle persone, di chi è sommerso e di chi è salvato (e delle imprese che assumeranno e quelle che no).

Ora, poiché tutti sanno che si tratta di una complicata presa in giro, per giunta largamente insufficiente rispetto al fabbisogno, non sarebbe più serio e più civile dire esplicitamente come stanno le cose, ammettere che abbiamo centinaia (non decine) di migliaia di posti di lavoro vacanti, e centinaia (non decine) di migliaia di irregolari che è conveniente per tutti regolarizzare, e consentire un meccanismo (adottato da anni in paesi assai civili e seri dell’Unione Europea, peraltro) di sanatoria individuale (la si chiami regolarizzazione, se la parola fa paura), che consenta alle imprese di assumere un irregolare che già conosce, su semplice richiesta del datore di lavoro o del lavoratore, riducendo al minimo gli adempimenti burocratici necessari?

Poi, magari, si potrebbero e dovrebbero invece concentrare le energie e le risorse sulla formazione professionale delle figure necessarie, e sulle politiche dell’alloggio: aspetti, in particolare il secondo, su cui le imprese – che protestano giustamente per la mancanza di manodopera e la complessità della burocrazia – invece glissano felicemente, anche quando ammettono di non avere bisogno solo di braccia, ma di persone. Di fatto, in molti ambiti (dal turismo all’agricoltura), su questo si sono fatti persino passi indietro rispetto ai tempi delle mondine, a cui almeno un tetto veniva fornito dal datore di lavoro. Mentre molto ci sarebbe da fare, insieme: imprese, organizzazioni dei lavoratori, ma anche regione e enti locali, che invece nella maggior parte dei casi se ne lavano bellamente le mani, salvo lamentarsi degli effetti secondari negativi della gestione dei fenomeni migratori, incolpando magari lo stato o l’Unione Europea se gli immigrati dormono sulle panchine (salvo presenza di dissuasori, o innaffiamento notturno, come qualche volta è persino successo, in passato).

Quello che occorre è semplicemente una onesta assunzione di responsabilità, da parte di tutti. Altrimenti, teniamoci il click day. Senza lamentarci, però, né dell’irregolarità degli immigrati né della mancanza di lavoratori.

 

Immigrati, il click day e l’ipocrisia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 21 marzo2023, editoriale, p.1

 

Migranti e sbarchi: la retorica non serve

La retorica non serve. La strumentalizzazione politica ancora meno. Sono morti, e non hanno colpe. Ma non è una notizia inaspettata, meno ancora sorprendente. Ce ne sono stati altri in passato, di naufragi di migranti. Ce ne saranno in futuro. Ma c’è anche uno stillicidio quotidiano di morti che fanno meno notizia, perché non accadono tutte insieme, non fanno massa, e al contempo sono fatto ordinario, quotidiano (avvengono letteralmente tutti i giorni), anche se restano impercepite ai nostri occhi. In mare, ma anche via terra, sulla rotta montagnosa, piena di guardie e di confini da attraversare, dei Balcani, non meno pericolosa di quella del Mediterraneo centrale e del Mediterraneo orientale.
Inutile, meschino, triste, impudico, trasformare i cadaveri, le famiglie distrutte, il dolore dei sopravvissuti, i bambini annegati, in uno strumento di polemica politica. Con chi da una parte accusa il buonismo immigrazionista (magari impersonato dalle ONG) di fungere da fattore di attrazione, producendo le partenze, e chi dall’altra parte accusa il cattivismo antiimmigrazionista di impedire i salvataggi, producendo gli annegamenti. Né gli uni né gli altri sono la causa dell’ennesimo naufragio. Né gli uni né gli altri l’avrebbero potuto impedire.
Come sempre, la questione è più complessa, le risposte necessarie diversificate, il risultato comunque incerto, l’andare per tentativi ed errori una necessità e un rischio da correre. Ma è certo che molto si potrebbe fare, perché le cose vadano altrimenti. E qualunque cosa sarebbe molto più del niente o quasi niente attuale.
Cominciamo dall’inizio. L’Europa, tutta, e l’Italia peggio di tutti gli altri paesi, è in calo demografico, ha bisogno di manodopera, e continua a importarla facendo finta che non sia così. La prima cosa da fare è ammettere il dato, invece di negarlo, e dividersi quindi sulle soluzioni possibili, sui modi di gestirla, l’immigrazione necessaria, invece di dividersi sull’esistenza del problema. Tutto potrebbe e dovrebbe discendere da lì: modi alternativi di arrivare, regolamentati, selezionati, ma comunque gestiti, in maniera legale, con mezzi normali (l’aereo, la nave), in tempi normali (ore, non mesi o anni, come capita a molti), con costi (umani ed economici) accettabili anziché insostenibili, con permessi di soggiorno per ricerca di lavoro, visto che quello è l’obiettivo reale sia di chi arriva sia di chi li riceve, anziché improbabili richieste di asilo (che poi rigetteremo in buona parte, producendo irregolarità), con politiche di integrazione sociale e culturale davvero praticate, e via di conseguenza. Da qui discenderebbe anche il resto: accordi con i paesi di partenza, collaborazione interstatuale per combattere le migrazioni clandestine e le mafie transnazionali che le gestiscono (ci sarebbe, se ci fossero canali legali, che fornirebbero anche la giustificazione morale per combattere con forza gli arrivi irregolari), cooperazione allo sviluppo (il tanto citato e mai praticato, nemmeno da chi lo evoca continuamente, “aiutiamoli a casa loro”, che poi è sempre una convenienza reciproca, come ha mostrato a suo tempo il piano Marshall). E, a valle, accordi di redistribuzione – o, nel caso, di respingimento – sensati e condivisi tra i paesi di arrivo.
Certo, dovrebbe essere una politica europea. Sarebbe meglio e funzionerebbe meglio. E c’è un’ignavia egoista dei paesi che non sono alla frontiera esterna della Unione Europea, che non vedono arrivare gli sbarchi e nemmeno i rifugiati via terra, nonostante i nuovi muri elettrificati, che va combattuta. È curioso tuttavia che si lamentino dell’inesistenza dell’Europa, o della sua poca efficienza, coloro che rifiutano di darle i mezzi e il potere decisionale per agire, mantenendo le politiche dell’immigrazione come competenza esclusiva nazionale, esercitando il proprio veto ad azioni comuni, salvo lamentarsi della loro assenza. Detto questo, anche i singoli stati potrebbero fare molto, anche da soli. Ma occorre volerlo, e prima ancora occorre capire che sarebbe necessario. Che è ora di smetterla di titillare gli istinti peggiori della pubblica opinione, per fare leva invece sulle sue emozioni e sui suoi interessi, ragionando sulle convenienze e le decisioni concrete, a livello pratico, prima ancora di insistere su più o meno sacri principi che poi sono usati solo strumentalmente, e comunque convincono solo i già convinti. La posta in gioco non è solo la vita degli esseri umani che arrivano. È la de-umanizzazione di chi li vede arrivare, e non fa niente. E tra un po’ non sentirà più niente.

Migranti, c’è una via d’uscita, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 1 marzo 2023, editoriale, p.1

Il razzismo diffuso che non si vuole vedere

Quando ne ha parlato Paola Egonu a Sanremo, in molti si sono affrettati a darle dell’ingrata: con tutto quello che ha avuto dall’Italia, si permetteva di sputare nel piatto dove mangiava, anziché tacere e obbedire. Senza accorgersi che, così dicendo, confermavano esattamente quanto Egonu cercava di mostrare: l’esistenza, in Italia, di un razzismo popolare, quotidiano, diffuso, strisciante, ma non di meno frequente e troppo spesso accettato. Come confermano tutte le domeniche le partite negli stadi delle serie minori, e tanti altri tristi episodi di vita quotidiana, nelle scuole, negli autobus, al lavoro o nelle discoteche. Nessuno dice che sia un fenomeno maggioritario. Non lo è nemmeno – ci piace sperare – l’omofobia, o il sessismo che porta alla prevaricazione e alle molestie sulle donne, quando non alla violenza sessuale. Ma parlarne, affrontarlo esplicitamente, è il modo migliore per cercare di riconoscerlo e sradicarlo. Dunque bene ha fatto Egonu. E benissimo ha fatto l’arbitro trevigiano Mamady Cissé a interrompere una partita di importanza locale dopo un insulto razzista arrivato al suo indirizzo.

L’esempio, del resto, viene dall’alto. A chi ha un minimo di memoria, ha prodotto una reazione di irritazione, e non di divertimento, il fatto che ha chiedersi pubblicamente quali mai ragioni potesse avere la Egonu per dire quello che ha detto, ci fosse in questi giorni un ministro che anni fa dava dell’orango alla ministra Kyenge, e condannato per questo. Nel calcio è lo stesso. Non ci si può stupire di quanto accade nelle serie minori, se poi quello del tifo, organizzato in particolare, delle serie maggiori, è un mondo marcio: o almeno sono marce le minoranze esagitate che lo governano. Colluse con l’estremismo politico (spesso neofascista, e dunque razzista di suo), non di rado collegate ad altri ambiti illegali (dallo spaccio di droga alla camorra, dipende dalle regioni), agiscono una violenza che non è solo verbale. Con un intollerabile ritardo – e più per spinta esterna che per consapevolezza propria, purtroppo – i club calcistici cominciano molto timidamente ad accorgersi che non è vantaggioso, molto a meno a capire la responsabilità (dis-)educativa che hanno rispetto alla società nel suo complesso. È ora di aspettarsi da quel mondo parole chiare, ma soprattutto fatti conseguenti. L’isolamento, un Daspo fattuale anche senza aspettare quello della questura, l’allontanamento sistematico dagli stadi, multe salatissime della giustizia sportiva, sospensioni, richieste di indennizzo – e scuse vere, e ad alta voce.

Soprattutto, è inaccettabile che si accampino ancora scuse: come la goliardata, o il fatto isolato. Liliam Thuram, grande campione della Juventus e soprattutto della nazionale francese, oggi con la sua fondazione instancabile educatore proprio sui temi della diversità, di cui è da poco uscito l’ultimo libro (intitolato “Il pensiero bianco. Non si nasce bianchi, lo si diventa”: lettura utilissima non solo per i tifosi, e che suggerirei per le scuole), ha raccontato di quando, giocando in Italia, dopo qualche slogan o parola razzista nei suoi confronti, venissero i compagni negli spogliatoi, a dirgli qualche frase di circostanza, tipo “non ci pensare” o “lascia perdere”. Come – denuncia giustamente Thuram – il razzismo fosse un problema suo, e non loro. Cosa c’era di sbagliato, in questi comportamenti? Che non dovevano andare da lui, ma dai tifosi, a parlare, e ad arrabbiarsi: dicendolo nelle interviste, raccontandolo nelle assemblee delle società. E questo ancora manca. E ha un nome: codardia, anche se viene derubricato a inconsapevolezza, che comunque non è innocente.

Basta con le minoranze rumorose che sporcano gli ambienti, frequentati da maggioranze che la pensano e agiscono diversamente, ma umiliate sistematicamente da questa voce che li sovrasta. Si agisca. Con il solo linguaggio che possono capire (o forse nemmeno, ma saranno costretti a subire). E il mondo, anche quello del calcio, sarà migliore: per tutti.

 

La paura di dire razzismo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 16 febbraio 2023, editoriale, p.1

Terremoto e migrazioni: il nesso che non si vede (ma c’è)

Il devastante terremoto in Siria e Turchia avrà conseguenze di medio periodo anche inaspettate, che non riguardano lo sciame sismico e il movimento delle placche tettoniche, ma lo sciamare delle persone da un luogo all’altro e la mobilità umana. E curiosamente coinvolge due paesi che nel recente passato hanno svolto, su questo tema, un ruolo opposto.

La Siria, ha visto andarsene milioni di suoi concittadini, esausti da decenni di guerre, dittatura, violenze, terrorismo di stato e dello Stato Islamico, oltre a ordinaria fame e disoccupazione, che hanno trasformato il paese in una specie di buco nero della storia. Molti siriani sono stati protagonisti dell’esodo di migranti forzati nei Balcani del 2015, una specie di epica minore, priva tuttavia di un Omero che la celebri, che molti esuli conoscono bene ma che noi nemmeno immaginiamo: e che in quell’occasione, dopo il ritrovamento su una spiaggia turca del cadavere in maglietta rossa del piccolo Aylan Kurdi e le immagini di milioni di disperati in cammino attraverso le frontiere della ex-Jugoslavia, portò all’inaspettata apertura di Angela Merkel, che fece entrare in Germania un milione e mezzo di rifugiati in poco più di un anno. Facendo il bene loro e del paese che li ha accolti, dando a una nazione allora con il peggior bilancio demografico d’Europa, insieme all’Italia, nuove braccia e nuova linfa vitale di cui ha beneficiato (lasciando l’Italia da sola in quell’incomoda posizione). La Turchia, invece, è il paese che noi europei stiamo finanziando perché li blocchi, i migranti, facendo per così dire da tappo nei confronti dell’Asia, e se li tenga al posto nostro: a pagamento, e regalandole un’arma di ricatto, una vera e propria arma di migrazione di massa, a cui il governo turco lascia occasionalmente sparare qualche colpo (lasciando partire qualche barcone), quando è il momento di ricordare all’Europa di staccare un nuovo assegno.

Il terremoto avrà conseguenze anche sulle migrazioni che coinvolgono questi paesi. I siriani che vogliono andarsene aumenteranno ancora massicciamente di numero. Ma aumenteranno anche i turchi (e i migranti transitoriamente ospitati in Turchia) che vogliono fare la stessa cosa, mentre la Turchia come paese avrà bisogno di risorse per la propria ricostruzione, e quindi le sue pressioni si faranno più esigenti. C’è da sperare, anche se è difficile arricchire la speranza di altrettanta convinzione (i segnali scarseggiano) che qualche lezione, dal 2015, sia stata appresa (da altri paesi europei, Germania in primo luogo, probabilmente sì: dall’Italia, purtroppo, dubitiamo, ma non di meno ci sembra necessario segnalarlo). E che quindi all’aiuto umanitario si affianchi un’intelligente, e vantaggiosa per tutti, politica delle migrazioni (che poi è essa stessa un aiuto umanitario in altra forma), che si proietti sui prossimi anni anziché limitarsi ai pochi giorni dell’emotività: o che almeno si abbozzi un ragionamento su qualcosa che, pianificato o meno, in ogni caso succederà. Sarebbe l’occasione di trasformare una disgrazia in un’opportunità, anche di riflessione, per governi e cittadini: per arrivare a un ripensamento delle nostre politiche migratorie, o per meglio dire della mancanza delle stesse, che oggi ci affligge, e ci rende miopi – al limite della cecità.

 

Lo sciame sismico e i migranti, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 9 febbraio 2023, editoriale, p. 1

Governare le migrazioni, non le ONG

La geniale trovata di far percorrere 1200 chilometri in quattro giorni di navigazione a una nave che si trovava tra l’Italia e l’Africa, per scaricare i migranti a La Spezia, salvo poi riportarne una parte a Foggia in autobus, percorrendo altri 750 chilometri in senso contrario, come appena accaduto con la Geo Barents di Medici senza frontiere, dà l’idea precisa di come si continui, di fronte alle migrazioni, a inventare iniziative estemporanee senza capo né coda, giusto per mandare una qualche ottuso e contraddittorio segnale di attivismo all’opinione pubblica, senza che nulla di sostanziale accada. Illudersi di fermare le migrazioni irregolari bloccando l’attracco delle navi delle Organizzazioni non governative o rendendo più difficile la loro attività, del resto, è come cercare di fermare l’acqua corrente riportandola dentro il rubinetto usando un colino: il flusso non si ferma comunque, è impossibile influire con questo comportamento sulla logica che ha portato l’acqua nel rubinetto, e comunque il colino è l’attrezzo meno adatto per farlo – alla fine l’acqua, seppure più lentamente, passa comunque. In più, incidentalmente, gli arrivi attraverso le navi delle ONG sono a loro volta una minoranza degli arrivi totali via mare, che a loro volta non tengono conto di quelli via terra.

Ecco, insistere sulla stretta alle ONG dà l’idea di quanto la politica non sappia che pesci pigliare, e si arrabatti su soluzioni che tali non sono, da buttare in pasto a un’opinione pubblica che peraltro non ci crede più. L’errore sta proprio nel focalizzarsi sugli arrivi, quando quello che conta veramente sono le partenze. Perché il problema è lì. È su quel fronte che occorrerebbe lavorare: non con iniziative di bandiera, ma con un paziente lavoro di cucitura diplomatica all’esterno, e una intelligente apertura legislativa alle migrazioni economiche all’interno, spiegando all’opinione pubblica che è necessario, e perché (le ragioni demografiche e di mercato del lavoro sarebbero facilmente spiegabili: se non lo si fa è perché non si vuole perdere la rendita politica – sempre più modesta, abbiamo la sensazione – dell’immigrato come capro espiatorio di problemi che non ha creato lui). Rendere le migrazioni possibili legalmente, con canali dedicati, concordati con i paesi di partenza, meccanismi di selezione sulla base delle capacità professionali, del titolo di studio e della conoscenza della lingua, e precisi accordi di rimpatrio degli irregolari, consentirebbe di offrire una via alternativa ai migranti, più sicura e garantita (perché fargli attraversare prima il deserto e poi il mare, o una mezza dozzina di fredde e militarizzate frontiere balcaniche, mettendoci un anno o più, con sofferenze inenarrabili che poi pesano anche sulle loro forze e la loro capacità di integrazione, quando potrebbero prendere anche loro – come noi quando andiamo da loro – un volo low cost e arrivare in poche ore?). Riaprire canali controllati di ingresso è necessario tanto per loro (ci sarebbero meno morti e più speranze) quanto per noi, che almeno sapremmo chi viene e dove va, invece di perdere il controllo di un’immigrazione irregolare tra i cui effetti c’è l’aumento del numero di minori non accompagnati, l’abbassarsi del livello di istruzione dei migranti, il crescere dell’insicurezza tra i cittadini, ma anche il moltiplicarsi dei guadagni di pericolose mafie transnazionali che poi reinvestono nelle economie legali dei loro e dei nostri paesi, inquinandole.

Conseguenza a valle di questo assurdo meccanismo è che si stima che in Europa ci sia almeno un 2% di popolazione irregolare, senza diritti e impossibilitata per questo solo fatto a rimanere nel circuito della legalità: un’irregolarità (mancanza di documenti e permessi) infatti tira l’altra (abitazione non dichiarata, lavoro in nero, mancanza di copertura sanitaria, ecc.), con le conseguenze che si possono immaginare, e che per nostra fortuna comportano meno frequentemente di quanto sarebbe lecito ipotizzare l’ingresso nei circuiti dell’illegalità e della delinquenza veri e propri.

Nessuna soluzione sarebbe definitiva. Non si può abolire l’immigrazione irregolare per legge: una quota c’è sempre stata e sempre ci sarà. Ma almeno avremmo fatto il possibile per diminuirne l’entità, e anche per rendere più umano un meccanismo che oggi non lo è.

 

Un vero governo dei flussi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 7 febbraio 2023, editoriale, p.1

La società della prevenzione (del vino e d’altro)

Viviamo in una società che sente di doversi e doverci proteggere da tutto, e che spesso ci impone di farlo. Preventivamente. Ragionevole, all’apparenza: salvo che la deriva comincia a sembrare un po’ estremista. Tra poco il casco protettivo, che è l’immagine simbolica che meglio riassume la nostra ossessiva ricerca di sicurezza, e che abbiamo giustamente introdotto nelle più svariate attività, diventerà una consuetudine, se non un obbligo, anche in casa, per proteggere i nostri bimbi dagli spigoli e gli anziani dalla caduta dalle scale. Una metaforica cintura di sicurezza ci avvolge in un numero sempre maggiore di attività. Tutto giusto, tutto comprensibile, tutto spesso necessario e in alcuni casi doverosissimo: pensiamo alle precauzioni, purtroppo ancora mal rispettate e quindi insufficienti, che ci proteggono dagli incidenti sul lavoro, o all’obbligo vaccinale, che ho difeso strenuamente proprio su queste pagine. E tuttavia, a volte, quando se ne estende troppo l’ambito di applicazione, più che la cura o la soluzione, questo atteggiamento mentale comincia ad assomigliare pericolosamente alla malattia, o a una sua caricatura.

Pensiamo alla attuale discussione sull’introduzione, anche sulle bottiglie di vino, di apposite minacciose etichette tipo quelle che ci sono sui pacchetti di sigarette. E sulla sua supposta pericolosità intrinseca, cancerogenicità o quant’altro. È una mentalità che sembra figlia della ossessione di cui sopra. Tutto, potenzialmente, fa male. Tutto è pericoloso. Tutto può essere persino mortale. Il fumo. Il vino e gli alcolici bevuti in eccesso. Ma anche il caffè, o le bevande zuccherate. Persino l’acqua, volendo, in quantità eccessive si usa in uno specifico tipo di tortura (sì, lo so, è un paradosso: ma spesso ci aiutano a comprendere meglio la realtà). Poi si comincia con i cibi, e se si eccede non so quanti se ne salvano: a cominciare naturalmente dal cibo spazzatura, per il quale tuttavia non si parla di etichettatura (dovremmo etichettare interi scaffali di supermercato). Si prosegue con gli attrezzi con cui li prepariamo (il terribile coltello). Si continua con l’automobile. Ma anche la bicicletta, si sa. Persino l’inventore del jogging, attività salutista per eccellenza, Jim Fixx, diventato ricco e famoso con i suoi libri e i suoi insegnamenti, è morto di infarto a soli 52 anni, proprio al termine della sua corsa giornaliera. Mentre Winston Churchill, che quando gli si chiedeva il segreto della sua longevità rispondeva “Lo sport. Mai fatto”, è campato 91 anni. Non arriviamo a dedurne che la corsa fa male e invece vino bianco e sigaro a colazione, per poi proseguire con whisky e un debole per lo champagne, come pare fosse la giornata del primo ministro britannico, facciano bene. Ma qualcosa, anche questo, ci dice.

Per farla breve: tutto, potenzialmente, fa male. Tutto, in dosi eccessive, è pericoloso. E il comportamento di chi è pericoloso anche per altri va doverosamente disincentivato e punito (ad esempio chi guida in stato di ubriachezza o sotto gli effetti della droga). Dubitiamo tuttavia che la soluzione sia riempirci di etichette minacciose: in frigo, sulle posate, sulla portiera dell’auto. Tanto varrebbe che lo Stato, o l’Unione Europea, o il necessario – a questo punto – Ministero della Prevenzione, presupposto del Grande Fratello (l’originale, quello di Orwell, non la boiata televisiva) incoraggiassero una campagna permanente di pubblicità progresso con una sola frase: “Memento mori”.

Il vino, per dire, ha una storia millenaria, legata alla religione, alla cultura, alla socialità (attività in sé lodevoli, necessarie, e pure notoriamente curative). Dal “Symposion” di Platone a “In vino veritas” di Kierkegaard, passando per l’ubriacatura di Noé e il miracolo delle nozze di Cana (dove dubitiamo ci si sia fermati alla modica quantità di un bicchiere), esso è parte costitutiva di un processo di civilizzazione. Possiamo imparare a bere meno e meglio. Ma non sarà il terrorismo psicologico un po’ infantile di una stupida etichetta a migliorarci. Semmai un raffinamento progressivo del gusto: che si impara con la pratica, con l’educazione guidata, non con le minacce o i divieti.

Forse dovremmo imparare dal dibattito bioetico: in cui, di fronte all’accanimento terapeutico (non è forse lodevole far vivere le persone più a lungo possibile?), ci si comincia a interrogare se quello che ci occorre sia dare tempo alla vita o vita al tempo. Io propendo per la seconda ipotesi.

 

La società della prevenzione. Il vino (e non solo), in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 24 gennaio 2023, editoriale, p. 1

Jacinda Ardern, la politica come professione e la religione del lavoro

Jacinda Ardern, la politica come professione e la religione del lavoro. Una questione di genere. Una riflessione per tutti.

Le dimissioni anticipate, per sua volontà e scelta, della premier neozelandese Jacinda Ardern, sono un potente messaggio anche per noi, che viviamo dall’altra parte dell’emisfero. Ci dicono due cose importanti, e (ri-)aprono una questione che ci accompagnerà a lungo.

La prima considerazione, il primo messaggio, riguarda naturalmente la politica: le condizioni in cui si svolge, il coinvolgimento che richiede. Fare il politico (non c’è bisogno di essere primo ministro, lo sa anche un sindaco) è un mestiere totalizzante. Non è il solo, certo: dall’imprenditore al parroco, dall’operatore umanitario allo sportivo, lo possono essere molti altri, che tendono a mangiare tutto il tempo disponibile, se non si è capaci di porre loro dei limiti. A differenza di altri, tuttavia, un politico, specie di altissimo livello, non può scegliere: deve farsi coinvolgere, perché sono le urgenze, più che l’ordinaria amministrazione, a travolgere. In questi casi il limite è difficile da porre, nel corso dell’espletamento dell’incarico. Da qui il grande insegnamento delle cariche a termine, la saggezza del limite nel numero di mandati. E, anche, la diffidenza che dovremmo avere – e che invece ci manca totalmente – nei confronti di chi questi mestieri li pratica troppo a lungo, o peggio non sa farne a meno. Eppure il fatto che gesti come quelli di chi lascia in anticipo perché sente di non farcela più (da Jacinda Ardern a Benedetto XVI) ci facciano simpatia, dovrebbe farci capire la stortura e anche l’innaturalità diremmo patologica del comportamento opposto.

La seconda considerazione riguarda tutti noi: specialmente le culture e i luoghi in cui il lavoro è considerato alla stregua di una religione (come da noi). Noi crediamo di esserci liberati progressivamente dal lavoro, immaginiamo che le nostre società siano più avanzate e progredite perché ci consentono di guadagnare di più, e con questo di concederci lussi impossibili altrimenti. Il problema è che i veri lussi sono altri, e il primo di essi è precisamente quello di non dipendere più dal lavoro, non esserne schiavi. Che è un insegnamento che ci accompagna dall’inizio del mondo. Noi abbiamo un’idea distorta delle popolazioni dette primitive, quelle che vivevano di caccia e raccolta. Le compiangiamo, perché costrette a procurarsi il cibo tutti i giorni, altrimenti non avevano, letteralmente, di che vivere. Il problema, come ci insegnano da un lato le testimonianze di archeologi e paleontologi, dall’altro gli studi antropologici su popolazioni ancora esistenti in qualche landa del nostro mondo, e su culture diverse dalla nostra (come ‘L’economia dell’età della pietra’ dello studioso americano Marshall Sahlins), è che la nostra interpretazione della loro vita si fonda su un grande equivoco: è vero che la durata della loro vita era ed è minore, ma la qualità della medesima prevedeva di dedicare solo alcune ore alla ricerca di cibo, e il resto della giornata spenderlo, letteralmente, in chiacchiere, rituali, decorazioni, creazione di gioielli e ornamenti, feste, danze, giochi, riposo, stati alterati e ubriacature di qualche tipo, attività effimere come acconciarsi i capelli, truccarsi e tatuarsi, grattarsi e godere un qualche tipo di vita sessuale, di solito precoce e spesso promiscua. Non è un caso che il pensiero utopistico degli ultimi due secoli, accompagnato da molti tentativi di metterlo in pratica, dai primi anarchici alle comuni hippy, fino ai pragmatici cohousing urbani e alla progettazione di smart cities odierni, abbia dedicato molta attenzione (dal modo di lavorare ai trasporti, dalle concezioni del lavoro di cura alla vivibilità degli spazi collettivi e alla salubrità dell’ambiente) a lavorare meno e meglio (Keynes un secolo fa suggeriva che sarebbero potute bastare tre ore al giorno per soddisfare i bisogni dell’Adamo che è in noi…), e a dedicare più tempo a coltivare e favorire le relazioni, intese come piacere condiviso, con tempi e luoghi dedicati.

La questione che si (ri-)apre e che ci accompagnerà a lungo è invece, naturalmente, quella di genere. Sono più spesso le donne che si pongono (anche perché costrette a farlo dai ruoli così come concepiti nella nostra cultura attuale) il problema della conciliazione tra famiglia e professione, tra soddisfazione lavorativa e coltivazione di relazioni significative, tra ben-essere e guadagnare. Il problema è che non faremo sufficienti passi avanti se non diventerà una condizione comune, una aspettativa condivisa, trasversale ai generi.

Cosa c’è di emergenziale nell’emergenza migranti?

La cosiddetta “emergenza migranti” in Veneto ri-alimenta purtroppo i problemi di sempre, senza aumentare di un pollice la nostra comprensione del problema, e senza quindi avvicinarci nemmeno per sbaglio a una soluzione. La stessa esistenza di questa presunta emergenza dimostra la totale inconsapevolezza e dunque incapacità della politica a comprendere le ragioni di quello che definiamo problema, e che è innanzitutto un fatto, con cui dovremmo confrontarci ordinariamente, e non in una logica perennemente emergenziale (non è più tale un qualcosa che si ripete identico da un paio di decenni).

Cominciamo dai dati. Gli sbarchi sono ripresi in maniera significativa (a margine: gli sbarchi sono ciò di cui la politica e i media parlano, ma sono lungi dal rappresentare la totalità degli arrivi): a dimostrazione del fatto che non conta e non cambia nulla chi è al governo – conta quello che si fa e soprattutto non si fa. Sarebbe stato stupefacente il contrario, peraltro, dopo il fermo della mobilità umana, a tutti i livelli, nel periodo Covid (anche le emigrazioni, per capirci, sono ricominciate in maniera massiccia). Oggi in Veneto ci sono poco più di seimila persone nella rete di ospitalità regionale, e si parla di emergenza. Poiché il Veneto rappresenta un decimo del PIL e della popolazione italiana, vorrebbe dire che l’Italia, un grande paese di sessanta milioni di abitanti che si picca di essere una grande potenza industriale e politica, non sarebbe in grado di ospitare sessantamila persone di cui sta esaminando i documenti (in realtà sono molte di più, ma suddivise in maniera sperequata tra le regioni, e il Veneto è tra quelle avvantaggiate). Magra figura, rispetto ai paesi con cui ci compariamo abitualmente. Solo nel 2021 in Europa sono state presentate oltre seicentotrentamila richieste di asilo, un quarto delle quali in Germania, un decimo in Francia, e più che da noi anche in Spagna. Ma stiamo parlando di cifre assolute: in percentuale sulla loro popolazione, moltissimi paesi ne hanno molte più di noi (e noi precipitiamo al quindicesimo posto in Europa).

Peraltro il Veneto ha contrattato di ricevere solo il 6% del totale dei richiedenti asilo ospitati nelle strutture gestite dal pubblico, in Italia: praticamente, in percentuale, la metà delle sue potenzialità (che dovrebbero corrispondere alle sue responsabilità), e pure, all’ingrosso, la metà della percentuale di migranti che ci vivono e la metà della percentuale di PIL che producono in regione.

Per giunta, l’Italia per l’accoglienza dei richiedenti asilo va al risparmio. Le cifre pagate dallo stato (molto inferiori agli investimenti di altri paesi) sono insufficienti per una decente ospitalità: figuriamoci per attivare politiche di integrazione (insegnamento di lingua e cultura, formazione professionale, orientamento al lavoro). Ma il costo della non integrazione è di molto superiore. Come per l’istruzione, se pensi che sia costosa, prova l’ignoranza…

Come si può notare, siamo di nuovo a parlare dell’anello finale, l’accoglienza, senza un cenno a tutta la filiera che la precede, a cominciare dalle procedure di ingresso e dalla legislazione complessiva sulle migrazioni (oggi entrare legalmente in Italia e in Europa è praticamente impossibile: l’unico modo per farlo è farsi passare per richiedenti asilo anche quando non lo si è, ed ecco spiegati i numeri di richieste e pure gli sbarchi, con le implicazioni in termini di accoglienza, in un circolo vizioso di cui non possiamo lamentarci, perché l’abbiamo creato noi: semmai potremmo finalmente modificarlo, ma dalla politica non giungono segnali in tal senso).

Infine, il dato più clamoroso di tutti, con cui dovremmo confrontarci. Se consideriamo poco più di seimila persone in accoglienza un’emergenza, ci sarebbe un modo molto semplice per risolverla, svuotando i centri. Seimila persone è in grado di assorbirle, senza costi e aiuti pubblici, il mercato del lavoro di una sola delle province venete, in non più di ventiquattr’ore: gli imprenditori farebbero a gara. Se ciò non avviene, vuol dire che il problema, e l’emergenza, sta altrove: nella legislazione, nella burocrazia, nella totale incomprensione della posta in gioco demografica, economica e politica. Potremmo risolvere il problema a vantaggio di tutti in poco tempo. Se non lo si fa, guardiamoci in faccia, e domandiamoci il perché.

 

I migranti e la vera emergenza, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 15 gennaio 2023, editoriale, p.1