Dei delitti e delle pene. La nostra idea di giustizia – Del caso Turetta e d’altro

È un bene che si sia aperta la discussione sulla condanna di Filippo Turetta, sull’utilità dell’ergastolo, sui limiti della difesa. È un bene, perché quello della giustizia e della pena è un tema cruciale per la convivenza civile, ma pur essendo tra i più discussi è anche tra quelli meno ragionati nei suoi fondamentali, nelle sue implicazioni, nella sua efficacia, anche. Tutti piangiamo le vittime, tutti vorremmo la condanna dei colpevoli, tutti chiediamo giustizia. Ma in concreto, cosa significa?
L’idea di giustizia, certo, ha a che fare con la violazione delle norme, e la punizione del colpevole. La giustizia è fondativa perché la violazione della norma, se non punita, mette in crisi la fiducia nella società, la sua stabilità, la sua stessa esistenza. Ecco perché l’ordine va ripristinato, anche ritualmente (non a caso il processo è esso stesso un rituale, una sacra rappresentazione, con i suoi sacerdoti, i paramenti, i comandamenti, i giuramenti…). Ma basta, tutto questo? E basta la galera per risolvere il problema? Temiamo di no. Perché c’è un ordine civile, sociale, e un ordine morale, che non a caso, all’origine, si sovrapponevano: è per questo che il carcere si chiama anche penitenziario (dove si fa penitenza, non solo dove si sconta la pena, la condanna), e quello minorile correzionale (dove c’è la possibilità di correggersi, di cambiare), e pena significa sia dolore che castigo. E tuttavia della funzione morale c’è sempre meno traccia. Il carcere (che vuol dire recinto) dove mettiamo il prigioniero (da prehensus: preso, chiuso) svolge pochissimo la funzione rieducativa che pure prevederebbe l’articolo 27 della Costituzione: e sempre più ha una mera, seppure ovviamente necessaria e imprescindibile, funzione repressiva, non di rado vendicativa (come quando ripetiamo la frase “chiudiamoli in cella e buttiamo via la chiave”). Con il risultato che i tassi di recidiva sono elevatissimi, e a seconda dei reati possono arrivare a due terzi dei detenuti: il che significa che il carcere finisce per non servire a null’altro che a svolgere una funzione immobilizzativa – un mero parcheggio umano. Ma è paradossale: se la scuola producesse due terzi di bocciati, ci interrogheremmo su come è organizzata, a cosa serve, se svolge correttamente la sua funzione. Perché il carcere no? Forse perché abbiamo ridotto la giustizia a mero tecnicismo, in cui solo dei terzi non coinvolti (giudici, avvocati) agiscono, e le persone direttamente interessate (il colpevole, la vittima, i familiari) non svolgono alcun ruolo, e quasi non hanno diritto di parola: con il risultato che diventa più difficile la riflessione autentica, e la stessa presa di coscienza del male che si è fatto, con le evidenti conseguenze in termini di ripetizione del medesimo.
Certo, ci sono ottime ragioni perché sia così: la giustizia è un bene che va garantito a tutti. E non ci sono facili ricette per modificare la situazione. Ma una riflessione collettiva forse andrebbe fatta. Ripensando le forme della giustizia, gli spazi possibili di mediazione, il ruolo delle pene alternative, la necessità di un lavoro rieducativo vero (per il quale si spende invece, in proporzione ai costi totali, pochissimo), i suoi costi rispetto ai suoi benefici, anche. Toccando pure la questione spinosa dei limiti stessi della pena. Lo abbiamo fatto in passato con l’abolizione della pena di morte. Forse, nella medesima ottica, si può ragionare rispetto all’idea stessa di ergastolo, di “fine pena: mai”. Certo, conosciamo la difficoltà di affrontare questi ragionamenti, il bisogno immediato e profondo che abbiamo di ripristino dell’ordine, il diritto a vedere riconosciuto simbolicamente e praticamente il torto fatto, il diritto/dovere di veder pagare per il male compiuto, il risarcimento dovuto alle vittime e alla società tutta, le cui norme di convivenza sono state violate. Senza tutto questo la società non esisterebbe, e dunque si tratta di un bene prezioso, che va salvaguardato. Ma proprio per questo abbiamo bisogno di interrogarci sulle sue forme e in definitiva sulla sua efficacia, nel breve e nel lungo termine. Anche, forse soprattutto, per questioni di principio, alte, morali, fondative.

La nostra idea di giustizia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 novembre 2024, editoriale, pp. 1-5

Alfabeto Veneto 2050

Il “Corriere del Veneto” ha progettato un numero speciale sul futuro del Veneto. Mi è stato chiesto di immaginare un alfabeto per il Veneto nel 2050. Questo è il risultato:

 

Autonomia

 

Non ci sarà. Nemmeno nel 2050. Perché quell’idea, innovativa quando è stata immaginata nel Novecento, si sarà rivelata un cambiamento, sì, ma irrilevante. Le priorità saranno altre. L’autogoverno di piccole comunità autosufficienti, da un lato. E dall’altro grandi poteri transnazionali, privati, più forti di molti stati nazione. Sarà quello, il nemico. E lo stato sarà un alleato, necessario e non sufficiente. Chiederemo, e avremo, più Europa.

 

Benessere

 

Scopriremo cosa significa questa parola. Che nella terra del lavoro come religione, era ignota. Ben-essere come sentirsi appagati, grazie a relazioni significative, e tempo a disposizione. Ci saremo arrivati più per vincolo che per maturazione culturale: perché nel frattempo le macchine ci avranno espropriato di molto del lavoro che consideravamo necessario. Impreparati, quindi.

 

Casta

 

Saremo più diseguali. Ricchi sempre più ricchi, sempre più lontani dai problemi dei comuni mortali: de-territorializzati, anche. Un lumpenproletariato che comprenderà immigrati e fasce crescenti di autoctoni. Un dualismo nel mercato del lavoro (regolare/irregolare, garantito/non garantito) destinato a accentuarsi. E una fascia crescente di popolazione che vivrà tutto ciò come se fosse normale.

 

Demografia

 

Più morti che nati. Popolazione sempre più anziana. Durata della vita crescente, per i più ricchi. Bambini sempre più rari e perciò caricati di aspettative. Giovani lontani mille miglia, come mentalità, gusti e aspirazioni – e spesso anche geograficamente – dalle generazioni che li hanno preceduti. Malattie degenerative sempre più diffuse, ma anche cure sempre più efficaci. A costi crescenti. Che dovremo decidere a chi far pagare.

 

Educazione

 

Livello di istruzione sempre più elevato. Ma un analfabetismo funzionale più diffuso: che diventerà un pericolo per la convivenza civile. Nuove forme di diseguaglianza, basate sull’accesso al sapere. Istruzione non più come prima fase, seguita dal lavoro e dalla pensione, ma spalmata su tutta la durata della vita, come formazione permanente, indispensabile alla sopravvivenza.

 

Frontiera

 

I confini che contano non saranno quelli dello stato. Men che meno quelli della regione. Saranno quelli invisibili del mondo globale: accesso alle informazioni, alle risorse, al credito, al potere, alle relazioni. Le frontiere geografiche conteranno meno. Saremo pronti per lanciarci nello spazio. Ma la vera nuova frontiera sarà quella del tempo: allungarlo, accelerarlo, fermarlo.

 

Genere

 

La parità tra maschi e femmine sarà acquisita. Le donne, più istruite, guadagneranno di più e gestiranno più potere. Acquisiranno e sperimenteranno nuovi ruoli, spesso in modo diverso. Aumenteranno, invece, gli squilibri tra generazioni.

 

Habitat

 

Sarà una delle grandi questioni irresolute. Le trasformazioni globali dovute al cambiamento climatico e al riscaldamento globale. E quelle locali dei piccoli e grandi inquinamenti: dell’acqua, della terra, dell’aria. Avranno altri nomi, rispetto a quelli di oggi, ma la medesima causa: l’uomo. E un’economia incapace di gestire le conseguenze delle proprie azioni.

 

Innovazione

 

Resterà il mantra che accompagnerà la nostra vita: in tutti i settori – troppi per poterne comprendere gli effetti, e starci dietro. Ci supererà sempre, inesorabilmente. Ma impareremo a farcene una ragione. L’intelligenza artificiale ci costringerà a capirlo.

 

Lavoro

 

Sarà di meno. Non sarà per tutti. Ma sarà più creativo. Forse non altrettanto redditizio, ma compatibile con la vita, e non alternativo ad essa. Nel frattempo, si spera, avremo imparato a investire di più su beni e servizi comuni: co-working, co-housing, sharing economy e sharing society. E i workaholic saranno finalmente diventati eccezione.

 

Migrazioni

 

Saranno sempre di più: sia in ingresso che in uscita, e interne. Ma saranno sempre meno costose, anche psicologicamente. La mobilità sarà fisiologia, non patologia (lo è già oggi, per molti, ma non ce ne accorgiamo). E vivremo in una circolarità globale e permanente: non solo di informazioni, denaro e merci, ma anche di persone e relazioni. Con i relativi vantaggi. E i prezzi da pagare.

 

Narrazione

 

Ricostruire il filo rosso della nostra vita sarà sempre più un’urgenza in una società frammentata. Darle senso, unitarietà, spessore. Nelle relazioni private, ma anche nella vita pubblica, e nella politica. La narrazione avrà questa funzione, a scapito della mera analisi razionale. E sarà un bene. Da che mondo è mondo, è la funzione della cultura: dal mito di ieri al romanzo e al cinema di oggi.

 

Occidente

 

Non sarà più quello che immaginiamo. Perché sarà plurale al suo interno, cioè più ricco di diversità. E perché un mondo multipolare presuppone un numero maggiore di potenze, globali o regionali. Resterà l’attrattiva del sogno occidentale, ma impareremo a conoscere altre culture, a confrontarci e a fare affari con loro. Radicati, ma globalizzati.

 

Paura

 

Paura e potere sono un binomio inscindibile. Il potere fomenta la paura, e chi ha paura cede libertà in cambio di protezione. Niente di nuovo. Ma ci saranno nuove paure. Quella dello straniero conterà meno, anche perché molti nel frattempo saranno diventati autoctoni, facce e costumi familiari. Peserà di più quella delle incognite dovute all’evoluzione tecnologica, che ci riserverà sfide sempre meno prevedibili.

 

Qualità

 

Ripenseremo cosa significa qualità (della vita). E in numero crescente capiremo che non ha molto a che fare con la quantità: né di denaro, né di beni, né di relazioni superficiali. Un numero crescente di persone rifiuterà la logica dell’accumulazione, del numero. Guadagnando tempo, significato, pienezza. Altri continueranno sulla strada di oggi. Probabilmente saranno questi a governare. Gli altri si ritaglieranno isole di libertà autogestita. Sempre più numerose.

 

Religione

 

Chiese come beni architettonici: interessanti, ma vuote. In compenso una pletora di gruppi (new age, ma anche di religioni tradizionali) basati più sull’esperienza che sul messaggio. Alcuni si baseranno su sostanze psicotrope di nuova concezione, e sulla realtà virtuale. L’intelligenza artificiale sarà anche spirituale. Nuovi leader carismatici e nuove comunità prenderanno il posto delle vecchie liturgie. Con nuovi dèi, forse. Ma con fedeltà sempre più brevi.

 

Schei

 

Il denaro sarà una delle cose peggio distribuite. Resterà l’obiettivo primario di una minoranza attiva e sgomitante. Nuove forme di moneta sostituiranno quelle attuali. Virtuali, come le monete elettroniche, anche locali. Ma avremo altre forme di intermediazione tra le attività. Faremo assegni di tempo e promesse di pagamento in servizi. Anche se gli schei, qui, conteranno ancora.

 

Trans

 

Saremo perennemente in transizione. Tra personalità, mode, lavori, ruoli. Cambieremo più spesso preferenze culturali e relazioni: saremo transculturali. Alcuni di noi si vivranno transgender, e cambieranno identità di genere. Molti di noi si vorranno transumani: con innesti tecnologici che ci faranno sembrare cyborg, potenziandoci. Sarà una società trans. E i dibattiti identitari di oggi sembreranno preistoria.

 

Unione

 

Ciò che terrà insieme la società saranno nuove forme di solidarietà, anche tra estranei e temporanee. Nuove comunità di mutuo sostegno, più spesso su base culturale che territoriale, saranno alla base di nuove forme di legame sociale, che in parte sostituiranno la famiglia. Dovremo re-inventare le città e la socialità a partire da questo.

 

Velocità

 

Tutto sarà più veloce: infrastrutture, mezzi di trasporto, la filiera dalla produzione al consumo, la diffusione delle mode, la velocità di circolazione delle informazioni. Ma anche le relazioni, soggette a continui processi di de- e ri-socializzazione. Che impareremo a gestire.

 

Zig Zag

 

Il futuro non avrà una sola direzione. È impossibile per definizione, in una società plurale. Sperimenteremo spesso, andremo qui e là – e anche avanti e indietro – a seconda delle opportunità del momento. Pezzi di società andranno in direzioni diverse da altri. E non cercheremo una coerenza complessiva del sistema che, forse, non sarà più necessaria.

 

 

Alfabeto Veneto 2050, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 18 novembre 2024, pp.4-5

Un anno fa, Giulia Cecchettin: cosa è cambiato?

Il caso di Giulia Cecchettin è stato uno spartiacque. C’è un prima e c’è un dopo. Nel cupo orrore e nella tragicità dell’episodio di violenza, purtroppo ripetutosi così tante volte da essere banalizzato, la luce è stata il fatto che sia diventato caso esemplare – paradigmatico, se si vuole, di un paradigma che era necessario superare. E i tempi erano maturi per farlo, anche se gran parte del merito è stato della famiglia di Giulia, della sorella e del padre, della capacità che hanno avuto di gestire in pubblico un dolorosissimo fatto privato: rendendolo con dignità narrazione collettiva, e motivo di ripensamento delle dinamiche di genere, della cultura diffusa nella società. Da qui la grandissima e forse inaspettata partecipazione emotiva, la forte mobilitazione, la commossa partecipazione di tanti ai funerali, trasmessi anche – fatto non scontato per una sconosciuta – in diretta tv, i “minuti di rumore”, diventati ore e ore di incontri e assemblee, come suggerito dalla sorella Elena Cecchettin contro la debolezza del segnale del minuto di silenzio, persino l’innovazione prodotta nel vocabolario comune: il termine patriarcato, che prima era di pochi, sdoganato dai messaggi della sorella, e diventato patrimonio diffuso.

Questo, per quanto riguarda il sentimento popolare. E le istituzioni? Di tutto questo cordoglio sviscerato in pubblico, di tutto questo slancio propositivo, di questa apoteosi di buone intenzioni e determinazione affinché non accada mai più, delle molte mirabolanti parole che preannunciavano corsi, programmi, formazione permanente e quant’altro, che cosa è rimasto? Certo, c’è stata l’approvazione bipartisan del disegno di legge contro la violenza sulle donne, poche settimane dopo, sull’onda emotiva della morte di Giulia. La magistratura ha potenziato gli organici di chi si occupa di violenza di genere. Sono aumentate le denunce e le richieste di aiuto, e questo è certamente uno degli effetti positivi della risonanza mediatica del caso. Sicuramente c’è più attenzione nelle forze di polizia, e tra gli assistenti sociali, anche in termini di prevenzione, dopo alcuni casi anche clamorosi di sottovalutazione e di mancato intervento che sono stati letali per alcune vittime che pure avevano avuto il coraggio di denunciare – anche dopo il caso di Giulia Cecchettin, purtroppo.  Ma che ne è stato degli annunci del Ministro dell’istruzione e della Ministra per la famiglia e per le pari opportunità? Quali nuove procedure, progetti, programmi stabili e non episodici, per produrre il cambiamento culturale che allora tutti abbiamo giudicato essenziale? Si erano spese, allora, grandi promesse da parte di tutti: di cambiare, di fare, di educare, di migliorare il nostro ecosistema morale. Si era parlato di iniziative, di corsi, di educazione civica allargata, di coinvolgimento delle istituzioni – e della scuola in particolare – nel creare nuove attività, nuovi contenuti, che prendessero in considerazione l’educazione ai sentimenti, che contribuissero a educare in particolare la metà maschile del mondo, che il femminicidio è quella che lo pratica, in nome di una virilità, anzi, di una maschilità che abbiamo imparato a definire tossica.

Certamente è cambiato qualcosa nella mente di molti, che quello che è successo l’hanno lasciato filtrare nelle loro vite, nel loro rapporto con gli altri e soprattutto le altre, con maggiori attenzioni, con iniziative semplici, discrete, di evidenziazione del tema, di discussione. Molti insegnanti hanno oggi un’attenzione diversa, e utilizzano le occasioni che l’attualità anche interna a gruppi e classi offre per discutere di più: e il loro ruolo è centrale, dato che il problema è soprattutto culturale, e quindi eminentemente educativo. Molte famiglie fanno certamente altrettanto: per proteggere le figlie, e forse anche per prevenire il rischio che comportamenti oppressivi e violenti si ripetano tra i figli. Ma di pubblico, di generalizzato, di permanente, di diffuso, che cosa è stato proposto, fatto, attuato, applicato? Quali sono i segnali dati all’opinione pubblica che lo spartiacque del caso Cecchettin è stato davvero tale? E non parliamo di singole iniziative, alle quali peraltro ha partecipato spesso e generosamente lo stesso Gino Cecchettin. Parliamo di qualcosa di stabile, e strutturale. Diteci che c’è. Fateci sapere che non è stato invano. Chi ha contezza di progetti istituzionali non occasionali, realizzati o in corso di realizzazione, li racconti, li condivida, anche per suggerire buone pratiche a tutti noi: il dibattito pubblico e la maturazione della coscienza collettiva sono fatti anche di questo.

 

La politica batta un colpo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 ottobre 2024, editoriale, pp. 1-3

Il paradosso della cittadinanza. I destini opposti di oriundi e immigrati

Cittadinanza. C’è chi la vorrebbe, la desidera, la sogna, ma non riesce a ottenerla: come i ragazzi di seconda generazione nati qui, socializzati qui, istruiti qui, che parlano e pensano italiano (e non solo “in” italiano). E c’è chi è nato, socializzato e istruito altrove, non sa necessariamente l’italiano e non è detto che sia interessato a impararlo, ma la chiede per motivi spesso strumentali, e la ottiene senza sforzo, a seguito di una semplice richiesta al comune d’origine del proprio avo: i figli, nipoti, bisnipoti e trisnipoti di italiani emigrati altrove anche centocinquantanni fa.

Ecco, se si vuole cogliere l’insensatezza di un provvedimento esistente e di uno mancante, questo paradosso la fotografa bene. La legge esistente è quella in base alla quale può richiedere la cittadinanza italiana chiunque, discendente di italiani, lo voglia. Quella che manca è quella sulla cittadinanza per i figli di immigrati nati e/o cresciuti qui.

Solo che questa situazione non è frutto del caso, di un errore, di una svista, ma di una determinazione tutta ideologica, perseguita con convinzione per anni, che introduce un’idea forte anche se mitizzata di stirpe. Per dirla semplice, la legge per gli italiani all’estero è uno ius sanguinis allargato, anche a chi il sangue l’ha peraltro annacquato parecchio: considerando tutti i discendenti degli emigranti e di coppie miste (basta un avo) c’è chi stima per assurdo una platea potenziale di 60 milioni di persone, un’altra Italia fuori d’Italia. Su questo presupposto ideologico, si sono innestate alcune considerazioni strumentali: la destra era convinta, a torto, di avere un bacino di voti assicurato, che in taluni casi ha invece favorito la sinistra (così come è convinta, a torto, che gli immigrati siano un bacino di voti assicurato per la sinistra, mentre l’esperienza di molti paesi europei mostra che è un elettorato trasversale, come tutti). Una buona dose di demagogia, ha poi fatto sì che i provvedimenti relativi fossero votati da tutti, destra e sinistra insieme, facendo a gara per rivendicarne il merito. Motivo per cui, oggi che la legge rivela tutte le sue distorsioni, non si ha il coraggio di mettervi mano. Qualcuno la richiede infatti per tornare a vivere in Italia, per amore di una antica patria e della sua cultura. Ma molti invece solo per avere un passaporto che consenta loro di entrare negli Stati Uniti senza visto, o poter entrare, grazie alla libera circolazione garantita ai cittadini europei, in altri paesi dell’Unione. Con il risultato che il Brasile è al quarto posto tra le provenienze di coloro che ottengono la cittadinanza (dopo Albania, Marocco e Romania) pur non essendoci una significativa presenza di brasiliani in Italia, e l’Argentina è uno dei paesi con l’incremento maggiore di cittadinanze ottenute pur essendo pochi gli argentini residenti. Un’altra ragione per chiederla, come ha sottolineato di recente anche il presidente Zaia, è quella di utilizzare, alla bisogna, il sistema sanitario nazionale.

Questo mentre una legge un po’ più aperta sulla cittadinanza per le seconde generazioni non viene approvata, ancora una volta per motivi ideologici. Eppure della specularità dei diritti aveva un’idea forte persino un politico come Mirko Tremaglia, esponente del Movimento Sociale, poi di Alleanza Nazionale, infine del Popolo delle Libertà, ministro degli italiani nel mondo (figura che è esistita per una quindicina d’anni a cavallo del secolo) e instancabile sostenitore dei loro diritti, a partire da quello di voto, della cui relativa legge è il padre riconosciuto. Che, tuttavia, chiedeva per gli immigrati gli stessi diritti richiesti per i nostri emigranti, con queste parole: “Gli emigranti italiani hanno vinto nel mondo contro le discriminazioni ottuse, gli stereotipi che li volevano tutti mafiosi e delinquenti, le vere e proprie persecuzioni di cui sono stati oggetto. Con questa storia alle spalle, dare una chance a chi oggi è in Italia da straniero è qualcosa di più di un adempimento burocratico: è un dovere morale che tutti dovrebbero sentire”. Da uomo onesto, che aveva una visione e dei princìpi, si ritrovò isolato.

Tutto questo è materia sufficiente per fermarci a riflettere. E ragionare su quello che davvero vogliamo, quello che è davvero utile, e magari anche quello che è giusto, in materia di cittadinanza.

 

Che cosa vuol dire cittadini, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 25 settembre 2024, editoriale, pp. 1-5

L’Italia tra demografia e migrazioni. Dialoghi Mediterranei

https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/litalia-tra-demografia-e-migrazioni/

 

L’Italia tra demografia e migrazioni

coverdi Stefano Allievi,  Daniela Melfa

Il testo riprende e amplia la conversazione intercorsa tra Stefano Allievi, autore del volume Governare le migrazioni. Si deve, si può (Laterza, 2023), e Daniela Melfa nel quadro di Presente Alternativo VIII edizione del Festival 38° parallelo, svoltosi a Marsala dal 16 al 18 maggio 2024 con la direzione artistica di Giuseppe Prode. L’incontro si è svolto presso le Cantine “Vite ad Ovest” il 17 maggio 2024 in presenza delle studentesse del Liceo statale Pascasino di Marsala.

Daniela Melfa. Grazie dell’invito e dell’occasione di conversare con Stefano Allievi, autorevole sociologo delle religioni, dell’islam, delle migrazioni. Questa conversazione mi è particolarmente gradita anche perché mi consente di ritornare su interessi di ricerca coltivati da giovane laureanda e neolaureata (l’immigrazione musulmana) e di riannodare i fili di un percorso che è proseguito con una tesi di dottorato sugli italiani di Tunisia (un caso di “migrazione al rovescio”) ed è approdato – come “collocazione” accademica – alla Storia e istituzioni dell’Africa.

L’operazione di connessione è agevolata dalla prospettiva adottata da Stefano, che fa uso sapiente dello zoom e del grandangolo: lo zoom per inquadrare da vicino i migranti, per mettersi nei loro panni – o nelle loro scarpe, direbbero gli inglesi (put yourself in somebody’s shoes), scarpe che oggi sono spesso delle infradito; il grandangolo per ampliare il campo di osservazione dall’Italia all’Africa e all’Europa. Per restare nella metafora, Governare le migrazioni. Si deve, si può fotografa il fenomeno migratorio con un ragionamento piano e intelligente, utile a comprendere, a intelligere appunto, un tema impervio che imperversa nel dibattito pubblico.

Marsala, Il pubblico di Presente Alternativo VIII edizione del Festival 38° parallelo, 17 maggio 2024.

Marsala, Il pubblico di Presente Alternativo VIII edizione del Festival 38° parallelo, 17 maggio 2024

Stefano Allievi. Partirei da una riflessione sulla mobilità, che non riguarda soltanto i migranti di ieri e di oggi. La mobilità, ovvero andare via, trovare nuovi orizzonti, incontrare nuove persone, trovare un abbraccio chissà dove, ricevere uno sguardo è la realtà di sempre più gente. Quando noi parliamo di migrazioni, abbiamo in mente gli sbarchi, ma dimentichiamo che, oltre ai flussi in ingresso, ci sono quelli in uscita. Con tutto il loro carico di sofferenze certo, ma anche, per evitare una visione dolorista, di opportunità. Le immigrazioni sono legate a un’aspettativa di miglioramento, e quindi a una speranza. L’aspettativa di miglioramento e la speranza sono due emozioni e le emozioni sono fondamentali nella vita. Etimologicamente, le e-mozioni sono quelle che ci fanno e-movere, quindi muovere. Tra l’altro, l’aspettativa di miglioramento e la speranza sono capitale sociale, importantissimo. Chi ha speranza s’impegna, lotta, fatica, al contrario di chi non ce l’ha. L’esperienza degli Stati Uniti è emblematica in questo senso: i giovani americani escono presto dalla comfort zone della famiglia, sprigionando preziose energie sociali che servono per fare delle cose. Analogamente, un imprenditore è tale perché ha delle aspettative di miglioramento, ha speranza di cambiare delle cose, quindi è una ricchezza sociale importante, a maggior ragione se viene da fuori. In breve, è la ricerca di opportunità che muove le persone, non solo le esigenze. E l’amore, lo studio, la curiosità sono fattori concomitanti.

D.M. La mobilità, la spinta a cercare nuovi orizzonti segnano e hanno segnato anche la Sicilia. A inizio Novecento Tommaso Carletti, viceconsole italiano in Tunisia, diceva che le province di Palermo e Trapani erano «le fonti vive, […] le due mammelle da cui la colonia [italiana di Tunisia] trae il nutrimento» (Carletti 1906: 333; v. Melfa 2008). I programmi di modernizzazione avviati in Tunisia a partire dall’Ottocento costituivano un potente fattore di attrazione per la popolazione dell’Italia meridionale che aspirava a migliorare le proprie condizioni di vita. Oggi quali opportunità si prospettano ai migranti in Italia o in Europa? Come si combinano i fattori attrattivi ed espulsivi?

Stefano Savona (ph. Anna Fici)

Stefano Allievi (ph. Anna Fici)

S.A. Quando mi chiedono perché gli immigrati vengono in Italia, io rispondo: comincia a pensare ai motivi per cui gli italiani vanno via e poi ne aggiungi degli altri. Gli italiani vanno via fondamentalmente per cercare un lavoro e per avere un salario più alto a parità di lavoro. Questo spiega perché la regione che ha più emigranti non è una regione del sud, ma la regione più ricca d’Italia, cioè la Lombardia. Sia che un giovane abbia una laurea in Ingegneria al Politecnico di Milano o un titolo professionale conseguito all’ITS (Istituto tecnico superiore), è molto più remunerativo andare all’estero. Pochi lo sanno, ma ci sono delle agenzie interinali europee che vanno in giro per i Paesi del sud Europa (Italia, Spagna, ecc.), a ingaggiare i giovani. Così, un diciottenne diplomato ITS in Italia ha la prospettiva di uno stage a 600,00 € al mese, mentre in Olanda può capitare che il salario d’ingresso sia di 3.000,00 €.

Poi, si va via per studio o anche per cercare la civiltà. Per chi viene dal Ghana, dalla Costa d’Avorio, dal Bangladesh, l’Italia è un paradiso. Per un italiano che compara il welfare del proprio Paese a quello tedesco, olandese, scandinavo, ecc., il paradiso è là. I migranti che arrivano in Italia hanno almeno un altro paio di motivi piuttosto rilevanti: le guerre le persecuzioni, il cambiamento climatico, la desertificazione.

E poi interviene anche la voglia di sottrarsi da un intollerabile controllo familiare e sociale. In confidenza, gli immigrati ammettono di volere fare esperienze, girare, vedere, ridere, fare l’amore. La voglia di cambiare è un motivo rilevante per i migranti sia in ingresso sia in uscita, anche se raramente viene esplicitato perché non sembra scientifico.

Daniela Melfi (ph. Anna Fici)

Marsala, Daniela Melfa (ph. Anna Fici)

D.M. Il libro Governare le migrazioni inizia con una «doverosa premessa demografica» (Allievi 2023: 14), fornendo dati rivelatori. Partenze di italiani e arrivi di stranieri non soltanto si inscrivono in un quadro di diffusa mobilità e simili aspettative, ma i fenomeni sono accostati, anche da un punto di vista statistico, per rilevare le tendenze in atto. I giovani italiani si spostano per motivi di studio e di lavoro, mentre l’arrivo di studenti universitari stranieri è una realtà in crescita nel «Paese più vecchio d’Europa» (Allievi 2023: 10) «in [piena] recessione demografica» (ivi: 12). Questi dati si riscontrano anche in un microcosmo quale un corso di studio o un’aula universitari. Nel corso di laurea triennale di Scienze politiche e delle relazioni internazionali dell’Università di Messina, nel quale insegno, il numero di immatricolati nell’anno accademico 2023-24 è stato di 252 nel curriculum in lingua inglese e 50 nel curriculum in lingua italiana: il numero di studenti stranieri è risultato, quindi, cinque volte superiore a quello degli italiani. L’iscrizione universitaria è un canale di accesso al quale – come per le richieste di asilo – i giovani migranti fanno ricorso per mancanza di alternative legali? Oppure il sistema universitario italiano è effettivamente attrattivo e sarebbe lungimirante cogliere questa opportunità? L’immigrazione drena risorse o offre prospettive di crescita anche economica? L’immigrazione toglie l’aria o dà ossigeno?

S.A. Dal mio punto di vista le migrazioni sono come i trasporti, la sanità, l’istruzione, né più né meno; sono un fatto, una cosa che accade nella società e accade sempre di più. Non che non accadesse prima. Mi piace ricordare che noi siamo una specie nomade, se facciamo pari a 24 ore la storia dell’umanità siamo stati nomadi per 23 ore e 54 minuti. Poi abbiamo inventato l’agricoltura, le città, ci siamo sedentarizzati, ma successivamente abbiamo ripreso a muoverci. Oggi per noi non è mai stato così sicuro, così veloce, così economico viaggiare e fare esperienze. Anche i costi psicologici sono diminuiti, grazie al cellulare, a Skype, grazie al fatto che è alla portata di tutti spostarsi per far visita agli amici, rientrare per il compleanno, ecc.

Ma se le migrazioni sono come le altre cose, che cosa le differenzia? Allora, immaginate che nessuno governi i trasporti (bus, ferrovie, auto private), sarebbe un caos. Immaginate che non ci sia un assessorato alla sanità, sarebbe un caos. Perché le migrazioni sono percepite come un caos? Perché abbiamo smesso di governarle, perché non esiste un governo delle migrazioni, perché per molti è più comodo dichiarare di essere contrari alle migrazioni e, quindi, non occuparsene; il che è come dire di essere contro i trasporti, contro la sanità, contro la pubblica istruzione: non c’è senso logico. Non puoi essere pro o contro un fatto, puoi avere soluzioni molto diverse, puoi litigare sulla linea da seguire ma non negare l’esistenza del problema.

Rispetto alle migrazioni, in breve, è accaduto questo. In passato c’era la possibilità di ingresso regolare in questo Paese, anche temporaneo. Progressivamente l’Italia, come tutta l’Europa, ha chiuso i canali di ingresso regolare, perché la pubblica opinione, preoccupata per la concorrenza nel mercato del lavoro o episodi di delinquenza, lo ha chiesto alla politica. Il risultato è che abbiamo approvato delle leggi restrittive.

Siamo in una cantina: immaginate che un politico vi arringasse invitandovi a bere grillo e catarratto, perché sono vini siciliani, e a rinunciare a gin, whisky, champagne, o anche ai vini del nord. Anche se molti troverebbero giusto privilegiare i prodotti siciliani, di fatto il protezionismo aprirebbe un gigantesco mercato illegale. Con le migrazioni, chiudendo le frontiere, abbiamo creduto di abolire per legge gli ingressi irregolari, abolendo di fatto gli ingressi regolari. Così i migranti arrivano irregolarmente. Quindi, la prima cosa da fare è riaprire dei canali regolari. Nel 2019, quando Matteo Salvini era ministro dell’Interno, cercava di impedire l’attività delle ONG di soccorso, sostenendo che bisognava chiudere i porti all’immigrazione irregolare. In quel periodo iniziavo spesso le mie conferenze dicendo che ero d’accordo con il ministro: ma l’unico modo di arrivarci era aprire gli aeroporti all’immigrazione regolare. Governare le migrazioni vuol dire esattamente questo.

L’alternativa è trovarsi a fronteggiare continue emergenze. Parlare però di “emergenza sbarchi” è una contraddizione in termini poiché l’immigrazione è un fenomeno fisiologico che dura da ben oltre un quarto di secolo. Anche la categoria di “minori stranieri non accompagnati”, in passato quasi inesistente, è il risultato di politiche restrittive, in quanto l’accesso in Italia è precluso ai genitori, tradizionalmente i breadwinners.

Alievi e Melfi (ph. Anna Fici)

Marsala, Allievi e Melfa (ph. Anna Fici)

D.M. Osservando le migrazioni in un’ottica speculare, dall’Italia alla Tunisia, si rilevano analoghe dinamiche nel passato. Ancora prima dell’occupazione francese, risalente al 1881, le migrazioni erano flussi spontanei non sottoposti a restrizioni. I fattori di richiamo e l’accoglienza delle cosiddette sociétés d’appel (Henia 2012: 228-229) dell’Africa mediterranea facevano parlare di Tunisi come Paris de Barbarie Versailles islamique (Triulzi 1971: 170-171). Alla fine dell’Ottocento iniziarono a essere introdotte delle leggi in materia migratoria. Un primo decreto del 13 aprile 1898 richiedeva agli stranieri, sia nuovi arrivati che vecchi residenti, di presentarsi davanti all’autorità di polizia locale per effettuare una dichiarazione di soggiorno. Disposizioni più restrittive seguirono sotto la pressione di una crescente disoccupazione provocata dalla Grande depressione degli anni Trenta. La legge del 20 febbraio 1930 condizionava l’ingresso dei migranti in territorio tunisino al possesso di un contratto di lavoro validato dalle autorità francesi. Nel luglio del 1953 un ulteriore decreto stabiliva a un anno la durata massima del contratto di lavoro, prima non specificata, istituiva una tassa sui contratti dei lavoratori immigrati e richiedeva certificati di alloggio. Quali furono i risvolti di queste politiche restrittive? Anche in questo caso, il risultato fu l’immigrazione clandestina, stavolta da nord a sud. All’epoca erano gli italiani, i siciliani soprattutto, che a bordo di barconi percorrevano un tratto di mare abbastanza breve, perché la penisola del Capo Bon dista dalla Sicilia 150 km circa. L’attraversamento illegale del Canale di Sicilia faceva notizia all’epoca, persino dopo la Seconda guerra mondiale. Il termine utilizzato per riferirsi a questa migrazione clandestina era esattamente lo stesso impiegato oggi. In arabo si parla di harqa (da haraqa, letteralmente “bruciare”): bruciare i documenti d’identità, ma anche bruciare le tappe in cerca di un’esistenza dignitosa (Cordova 2022: 171). La logica, dunque, è la stessa: la limitazione degli ingressi produce, in assenza di alternative, immigrazione irregolare. E poi interveniva la questione demografica: allora era l’esubero di manodopera, soprattutto nel meridione d’Italia, che spingeva tra l’altro l’Italia a costruire colonie di popolamento in Africa. Oggi come si inscrive l’immigrazione nel quadro demografico?

S.A. Noi viviamo in un’inconsapevolezza assoluta di che Paese siamo: siamo il Paese più anziano d’Occidente, ma non abbiamo idea delle dimensioni di questa catastrofe. Il rapporto ISTAT 2024 segnala quest’anno un ulteriore record: non ci sono mai state così poche nascite. La differenza tra nati e morti è ogni anno di circa 250.000 persone; per capirci, una città delle dimensioni di Padova evapora ogni anno. Il dibattito è recente ma il problema risale ai primi anni Novanta. Un altro dato, spesso ignorato è che gli emigranti, in alcuni momenti, sono stati sostanzialmente equivalenti agli immigrati. Si tratta di un fenomeno che non ha precedenti storici, poiché di solito un Paese ha degli emigranti perché ha un eccesso di popolazione, mentre noi abbiamo un difetto di popolazione. In questo momento, ci sono tre lavoratori attivi ogni due inattivi in Italia. Nel 2040 il rapporto sarà di uno a uno. Di fronte a questi dati, i giovani hanno una ragione in più per partire. Vivere in una società di vecchi, anzitutto, non è sostenibile dal punto di vista previdenziale, ovvero non è sostenibile che i giovani si facciano carico di una popolazione anziana in aumento.

Chi è contro l’immigrazione, in realtà, è contro i propri figli, è contro i giovani, perché l’immigrazione vuol dire forza lavoro in più, gente che lavora, che produce ricchezza, che produce PIL, che paga tasse. Siamo un Paese in cui ci sono più figli che si prendono cura dei genitori che genitori che si prendono cura dei figli. Detto ancora più brutalmente: siamo un Paese, l’unico in Europa, in cui si vendono più pannoloni che pannolini. Questa è la prospettiva. L’immigrazione si inscrive in questa cornice. Questo succede perché oltre alla differenza tra morti e nati, c’è la differenza tra chi entra e chi esce nel mercato del lavoro. Ogni anno il numero di chi va in pensione è superiore al numero di giovani italiani che dovrebbero sostituirli. Il numero esiguo di giovani italiani crea dei buchi, dei vuoti che, come confermano Confindustria, Confartigianato, Coldiretti, sono gli immigrati a colmare. Il fabbisogno stimato di nuovi lavoratori in Italia è di 250.000 all’anno. Questa cifra è superiore a quella degli ingressi di immigrati. In altre parole, noi abbiamo bisogno di più forza lavoro di quella che arriva, ma abbiamo bisogno che arrivino in maniera diversa, in certa misura anche persone diverse. In molti denunciano la mancanza di qualificazione e titoli di studio universitari degli immigrati, ma non è questo il punto. Il problema è che noi i laureati li esportiamo. Tra gli italiani che vanno a vivere all’estero, il tasso di laureati è doppio rispetto alla media nazionale, perché la laurea vale, e la vai a incassare dove ti pagano di più. La domanda di lavoro è alta per figure come braccianti, colf e badanti, edilizia, logistica. Un’altra categoria carente, particolarmente nel Nord Italia, è quella degli operai, per i quali non si pone solo un problema di formazione, indisponibilità al lavoro manuale o salari troppo bassi bensì proprio di mancanza di effettivi. E se un’azienda non dispone di forza lavoro delocalizza.

Daniela Melfa (ph. Anna Fici)

Daniela Melfa (ph. Anna Fici)

D.M. Hai evocato le guerre, le condizioni climatiche, la disoccupazione, a proposito dei fattori espulsivi. A questo proposito, mi chiedo se la questione della sicurezza che tanto campeggia nel dibattito, può essere definita anche con riferimento alla sicurezza dei migranti. Ai nostri occhi, le migrazioni sono strettamente legate a delinquenza e terrorismo e, nel libro, le ragioni dei numeri elevati di migranti nelle carceri sono dettagliatamente esposte. Considerato il carattere multidimensionale della sicurezza, è possibile declinare il problema tenendo conto del punto di vista dei migranti? I migranti mettono a rischio la loro vita nel tragitto, sfuggono da situazioni di insicurezza, quali la desertificazione, le guerre.

S.A. Sì, hai ragione a dire multidimensionale. Il problema della sicurezza dei migranti è effettivo ma irrilevante per l’opinione pubblica preoccupata anzitutto della propria sicurezza. Noi in genere associamo la sicurezza alla piccola delinquenza, ai furti per strada o in casa, rispecchiando la retorica politica. Bisognerebbe, piuttosto, imparare a declinare la parola sicurezza in riferimento ad altri ambiti. Avrò una pensione? Il sistema sanitario garantisce cure e assistenza? Questi sono elementi importanti della sicurezza, che fanno la differenza, tant’è vero che molti italiani vanno a vivere altrove. In Italia il 45% delle donne in età fertile non ha figli, la metà della popolazione femminile praticamente. Tra quelle che migrano il tasso di natalità è enormemente più alto, perché in altri Paesi è possibile lavorare e avere figli. E poi c’è, è vero, la delinquenza spicciola, alla quale ho voluto dedicare il capitolo più lungo per decostruire la retorica su questo argomento. Il dato, apparentemente allarmante, è che il 30% delle persone in carcere è costituito da stranieri. Siccome gli stranieri sono il 10% della popolazione, se ne deduce, matematicamente, che questi ultimi delinquono il triplo degli italiani. Se si guardano con attenzione (e senza pregiudizio) i dati, si scopre che ci sono comunità che delinquono più degli italiani e moltissime comunità che sono praticamente assenti dalle statistiche sulla delinquenza. Quindi la discriminante non è l’essere stranieri. Gli italiani non sono in carcere perché, quando commettono reati, hanno accesso alle pene alternative, in particolare gli arresti domiciliari. Gli immigrati, essendo spesso sprovvisti di domicilio, non ne beneficiano. Inoltre, la scarsa conoscenza della lingua non agevola la difesa, così come il basso reddito rende inevitabile il ricorso agli avvocati d’ufficio. Aggiungete un po’ di pregiudizio, che si riscontra in tutte le categorie professionali, poliziotti, giudici, giornalisti, ecc. Ma la vera notizia è che comunità intere, come i rumeni, fino a qualche anno fa all’apice delle classifiche sulla delinquenza e tacciati, con facili antropologismi, di essere violenti, adesso sono agli ultimi posti. La svolta si è registrata dopo che la Romania ha firmato gli accordi di libera circolazione della manodopera con l’Unione Europea prima ancora che vi entrasse. Allora il problema non è che essere stranieri fa delinquere di più. Certo la delinquenza esiste tra gli stranieri, come abbiamo sperimentato nella nostra emigrazione negli Stati Uniti, dove le autorità e la società americane si lamentavano esattamente della stessa cosa. Il problema esiste perché è relativamente normale per un immigrato arrangiarsi finché non è integrato. Più si è integrati, meno si delinque. Gli stranieri sono sovra-rappresentati tra i giovani e tra i non sposati. E i giovani e i non sposati, anche tra gli italiani, delinquono di più degli anziani e degli sposati. La vera distinzione è essere regolari o irregolari. Il grosso di chi è in galera è irregolare. Allora, se vogliamo lavorare alla nostra sicurezza, dobbiamo puntare sull’integrazione. Per me è un assioma. A più B uguale C. Più sicurezza richiede di non marginalizzare, non chiudere nei centri, ma esattamente l’opposto.

Allievi e Melfi (ph. Antonio Messina)

Marsala, Allievi e Melfa (ph. Antonio Messina)

D.M. Vi sarete resi perfettamente conto di qual è l’approccio di Stefano in questo libro. È un approccio pragmatico che osserva le migrazioni in termini di costi e benefici, che prende le mosse dalle posizioni degli avversari per sviluppare il ragionamento. Il libro, quindi, non derubrica gli argomenti anti-immigrazione, non minimizza gli umori e le paure «di chi gli immigrati li vede arrivare» (Allievi 2023: 3). Un atteggiamento difensivo è comprensibile, poiché «[n]oi abbiamo bisogno di confini (identitari, culturali, prima ancora che territoriali)» (Allievi 2023: 28); «le famiglie, le culture, le specificità etniche, linguistiche e religiose hanno bisogno di spazi autonomi di riproduzione, per esistere e per potersi relazionare con altri» (Allievi 2023: 30). Asserire la necessità dei confini culturali non equivale a difendere a spada tratta le radici giudeo-cristiane dell’identità europea o ad agitare lo spauracchio della sostituzione etnica. I confini sono necessari ma sono anche valicabili e mutevoli. Le identità non sono entità cristallizzate e soprattutto non è auspicabile che lo siano. La paura è normale, risponde a un impulso istintivo. Altrettanto normale, inevitabile, e persino desiderabile, è la contaminazione? Stefano Allievi scrive: «non sono le radici che contano, ma i frutti». I tempi sono maturi per operare un ribaltamento di prospettiva, per accogliere seriamente le parole di Gesù nel vangelo di Matteo: “dai loro frutti li riconoscerete” (Allievi 2023: 86)? Nella docu-serie della BBC, The Africans: A Triple Heritage, prodotta negli anni Ottanta, Ali Mazroui sostiene che l’Africa è segnata da apporti esterni, quali quello islamico ed europeo, oltre che dalle tradizioni originarie. Lo studioso keniano iscrive l’identità del continente al crocevia di diverse tradizioni, riconoscendo i frutti dell’incontro anche se le migrazioni, e i contatti, sono avvenuti – per limitarci all’Otto-Novecento – in un quadro di dominio coloniale.

S.A. Mi piace molto com’è posta la domanda, perché è uno snodo fondamentale. Per cominciare dalla fine, i tempi sono maturi, ma noi non ancora, mettiamola così. Rispetto all’osservazione iniziale, io ho un approccio totalmente non ideologico, non parlo mai di valori perché, sebbene importanti, hanno presa solo su chi già vi aderisce. Per rivolgermi a chi non è convinto parlo molto di interessi, che tra l’altro è una bella parola, se guardiamo l’etimologia. Per un sociologo, “interesse” è nocciolo del legame sociale: “essere inter”, “essere tra”. Per cui io sdoganerei gli interessi come qualcosa di bello e legittimo, contro la connotazione negativa di espressioni come “fare qualcosa per interesse”, “matrimonio di interesse”. E poi prendo sul serio le paure cercando di capirne le ragioni. All’inizio del libro faccio un esempio tratto dalla mia esperienza familiare. Se un bambino ha paura del buio, non risolvo il problema mostrandogli una statistica e dicendogli che di buio non è mai morto nessuno; o, ancora peggio, dandogli del cretino (che è l’equivalente di quelli che si ritengono buoni, e accusano quindi gli avversari di razzismo e xenofobia, creando distanza comunicativa). Questo esempio è utile perché permette di individuare la soluzione. Se io mio figlio lo ascolto, lo prendo sul serio, gli dico che la sua paura è legittima, lo abbraccio, insieme possiamo prendere una decisione come quella di lasciare la luce accesa in corridoio per un po’. Non è razionale, è pure costoso, quindi tecnicamente sembra sbagliato: ma non lo è. In altri termini, anche se si è assolutamente convinti di essere nel giusto, il modo migliore di affrontare i problemi non è quello di imporre le proprie idee, bensì di trovare una soluzione accettabile anche da chi non è d’accordo con noi. Bisogna prendere sul serio l’elettore impaurito. La spocchia in un certo mondo progressista e cattolico che crede di possedere la verità o le opinioni “giuste” è controproducente, perché l’integrazione è come un matrimonio, funziona solo se la vogliono tutti e due i coniugi. Se il migrante vuole integrarsi, ma la società lo respinge non ci sarà mai integrazione. Quindi noi dovremmo dedicare la metà del tempo, della fantasia, dell’interesse, persino del denaro per parlare agli italiani. Cosa che è stata sottovalutata.

E vengo alla metafora nello specifico. La parola “radici” nel Vangelo non c’è, quindi, quando sentite parlare di radici cristiane, lasciate perdere. Matteo diceva “dai loro frutti li riconoscerete”, cioè da quello che fate. La metafora giusta invece è quella del fiume con i vari affluenti. In fondo, noi cosa siamo? E, generalizzando, voi siciliani cosa siete? Quanti affluenti hanno forgiato la vostra identità? Gli arabi hanno lasciato traccia nei nomi delle città, nella fisionomia delle persone, nel folklore, nella lingua, e molti altri sono arrivati prima e dopo di loro. Noi siamo figli di tanti apporti e diventiamo un’altra cosa da quello che eravamo o credevamo di essere. L’idea della sostituzione etnica mi fa sorridere perché se la prendiamo un po’ più alla lontana veniamo tutti dall’Africa. Gli Erectus, gli Habilis, i Neanderthal e i Sapiens di cui tutti quanti, alcuni abusivamente, ci sentiamo eredi, sono venuti dall’Africa in ondate diverse. Tra l’altro, i Neanderthal, che sono precedenti, sono andati via dall’Africa prima e, quando sono andati via i Sapiens, nel Medio Oriente si sono incontrati con i Neanderthal; noi abbiamo anche dei geni Neanderthal perché le prime coppie miste, in fondo, sono di quel periodo lì.

E a proposito, le coppie miste sono dei laboratori interessanti perché in famiglia inventano delle soluzioni che possono essere buone per la società: accolgo pezzi della tua cultura o della tua religione e non altri, cambio io la mia cultura, la cambia l’altro, le pratichiamo tutte e due, mangiamo sia l’una che l’altra cosa, diamo il nome ai figli, ne diamo due, ne diamo uno che non è né della mia cultura né della tua. La media nazionale di coppie miste, cioè persone di Paesi diversi è già al 15%, e naturalmente è più alta laddove è più antica l’immigrazione.

D.M. Per governare le migrazioni auspichi «scenari di maggiore cooperazione intergovernativa, mutuamente vantaggiosi, capaci di implementare la fiducia tra governi e tra Paesi, basati su un riconoscimento di pari dignità tra partner» (Allievi 2023: 44). In occasione del summit Italia-Africa 2024, svoltosi a Roma, il rappresentante dell’Unione Africana, Moussa Faki, ha lamentato la mancanza di consultazione della controparte africana. La prima questione è capire in cosa consiste esattamente la cooperazione. La creazione di hot-spot rientra nel quadro della cooperazione? Vi rientrano gli accordi di Danimarca e Gran Bretagna con il Ruanda, Paese con discutibili livelli di democrazia e diritti umani, per la gestione delle richieste di asilo? L’altra questione riguarda il riconoscimento dei partner africani come eguali. Enrico Mattei cercava effettivamente un rapporto paritario con i Paesi produttori di petrolio ma la vicenda del summit rivela la persistenza di un retaggio coloniale o neocoloniale. Il linguaggio tradisce l’esistenza di gerarchie laddove usiamo termini di derivazione coloniale quali “etnia”, “tribù”, “razza” per differenziare le “primitive” società africane dalle “evolute” società europee, organizzate in nazioni e Stati. Anche i giornalisti più accorti, animati dalle migliori intenzioni, ripropongono certi automatismi. Nel libro La speranza africana, Federico Rampini, ad esempio, rileva, i «segnali sorprendenti» provenienti dalla diaspora africana negli Stati Uniti a cui si riferisce in termini di “gruppo etnico” (Rampini 2023: 7). La nozione di etnia africana si accompagna ad una visione evoluzionista delle civiltà, all’idea eurocentrica che le società occidentali siano «il cuore e il motore della storia» (Gentili 1995: 14), mentre i Paesi africani permangono allo stadio di Paesi sottosviluppati o in via di sviluppo. Non è sorprendente, allora, l’opinione di un mio studente secondo il quale, se i programmi scolastici non includono l’Africa è perché la storia dell’Africa non è caratterizzata da eventi rilevanti meritevoli di attenzione.

Stefano Allievi (ph. Anna Fici)

Marsala, Stefano Allievi (ph. Anna Fici)

S.A. È prevedibile che tra pochissimi anni vi sarà una fortissima emigrazione, che peraltro è già cominciata, dall’Europa verso l’Africa. Anzitutto perché andiamo ad aprire fabbriche in Africa, ma poi anche per altri motivi, come già un’emigrazione di livello medio-alto si registra verso gli Emirati. È sempre utile rovesciare la prospettiva. Una mia collega che ha lavorato sugli italiani a Berlino rilevava che alcuni andavano in Germania con un progetto, altri, che lei chiamava gli avventurieri, andavano via senza arte né parte, senza avere alcuna idea, senza conoscere la lingua. Un altro cambiamento che si registrerà tra pochissimi anni è che il terzo Paese più popoloso al mondo sarà la Nigeria, che supererà gli Stati Uniti. Ci sono zone dell’Africa dove, in controtendenza con quanto avviene in Europa, i tassi di crescita annuale del PIL sono a due cifre. I ritmi di crescita africani attirano anche gli europei, che cercheranno di trarne profitto. Rovesciare la prospettiva vuol dire osservare questi cambiamenti. Recentemente ho visto una attivista che indossava una maglietta con la frase: «Illegal immigration started in» e la data era il 1492 – anche questo un rovesciamento di prospettiva.

A proposito di cooperazione, tre sono le cose che dovremmo fare per governare l’immigrazione. La prima è fare degli accordi con i Paesi d’origine per aprire dei canali regolari d’ingresso. Solo in questo modo è possibile ridurre l’immigrazione irregolare, che oggi rappresenta la quasi totalità degli ingressi per via dell’assenza di canali legali alternativi. Se andate online e digitate “Passport Index”, troverete in quanti Paesi noi possiamo andare senza visto: sono 177. L’Italia ha il secondo più forte passaporto al mondo, insieme ad altri Paesi europei. In una situazione ancora migliore si trovano gli Emirati Arabi Uniti. Se a qualcuno di noi venisse voglia di andare in Ghana, semplicemente perché gli piace il nome, anche senza alcun progetto, acquisterebbe online un biglietto low cost e in sei ore di aereo sarebbe ad Accra. Un cittadino ghanese non potrebbe fare la stessa cosa, perché noi richiediamo un visto che concediamo solo in casi molto particolari. I Paesi con condizioni di vita peggiori sono quelli che hanno i passaporti peggiori: Yemen, Somalia, Etiopia, Iraq, Pakistan, Siria, Libia, ecc.: Paesi dove ci sono dei conflitti (nei quali spesso c’è il nostro zampino) o risorse minerarie importanti. Un bellissimo proverbio africano dice che se uno ruba il miele dall’alveare, le api lo seguono, che è una bella interpretazione delle migrazioni. Fare degli accordi è l’unica strada possibile. A differenza di quelli già stipulati gli accordi devono prevedere come prima cosa il rilascio di un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro. Avere un lavoro prima dell’ingresso regolare in Italia è una finzione perché il mercato del lavoro funziona diversamente. Come fai ad avere un lavoro in Italia se stai ad Accra? Come fai a conoscere un datore di lavoro se stai altrove? È solo dopo avere cambiato le leggi che è ragionevole chiedere la collaborazione dei Paesi partner per trattenere gli irregolari, e solo in quel caso peraltro i Paesi di partenza accetteranno i rimpatri di quelli che delinquono. E gli accordi vanno fatti su base paritaria. Quando i politici italiani affermano di volere aprile gli hotspot in Tunisia, sembrano trascurare il fatto che gli Stati africani sono Paesi sovrani ai quali spetta la decisione. L’accordo sull’Albania dà l’idea del nonsenso degli hotspot. L’accordo consiste tecnicamente nel costruire delle basi a spese nostre per mandare in Albania delle persone, che sono già a Lampedusa, con personale italiano (poliziotti, infermieri, ecc.) che viene pagato di più, perché è in trasferta, per gestire le pratiche. Se si tratta di richiedenti asilo, questi vanno riportati in Italia, se non lo sono cercheranno di arrivare irregolarmente con un barcone dall’Albania oppure via terra dai Balcani. In breve, è come se noi per diminuire le code nella sanità, aprissimo un ospedale a Tirana e ci portassimo sia i malati che i medici e gli infermieri.

Enrico Mattei era un sincero democratico, un partigiano cattolico liberale che voleva fare accordi paritari riconoscendo ai Paesi produttori il 50% degli utili. Per questo Mattei era un personaggio scomodo che ha portato avanti una politica contraria agli interessi delle Sette sorelle, le società petrolifere degli Stati Uniti e di altri Paesi europei, ed è stato ammazzato. Per cui io sono felicissimo che un governo si ispiri a Mattei, ma questo vuol dire seguirne l’approccio, ovvero dialogare con i diretti interessati, altrimenti è come fare una festa a casa di altri imponendo ospiti e menù. La logica degli accordi è quella giusta, ma fare accordi implica avere un’idea dell’Africa diversa rispetto a quella corrente, secondo cui gli africani non hanno mai inventato niente o non hanno cultura. Provate a immaginare di leggere solo libri italiani: gli scrittori italiani guadagnerebbero di più, ma noi perderemmo non solo il piacere della lettura, ma soprattutto il punto di vista di un’altra cultura che è quello che ci serve. E lo stesso vale per la pittura, la musica, il cinema. Inoltre, molti che lavorano sul cambiamento climatico sostengono che, per sopravvivere come specie, gli occidentali dovrebbero imparare dalle culture cosiddette “inferiori”, dalle culture native, che hanno mantenuto un rapporto sano con l’ambiente. Analogo discorso vale per le religioni. Le idee diffuse sull’islam sono approssimative e i musulmani non vi si riconoscono così come i cristiani non accettano di essere descritti semplicisticamente come europei privi di morale, che esibiscono nudità femminili senza pudore. La realtà è diversa, la nostra civilizzazione, come la loro, è più complicata.

D.M. L’integrazione presuppone il riconoscimento, l’accettazione dell’Altro, e chiama in causa la società ospitante. Tu scrivi che «gli autoctoni hanno bisogno che venga loro spiegato quello che succede nei loro quartieri, la novità che porta lì nuove popolazioni e culture» (Allievi 2023: 60). A che punto siamo su questo fronte, si registrano buone prassi o segnali in questo senso?

S.A. Vi riporto l’esperienza della Germania che era il Paese più vecchio d’Europa insieme all’Italia. Nel 2015, in un solo anno, ha consentito l’ingresso di quasi un milione e mezzo di persone. L’arrivo di centinaia o migliaia di richiedenti asilo anche in percentuali rilevanti è stato preparato informando la popolazione dei vantaggi che ne sarebbero derivati. Cinquecento persone in più in un paese, poniamo, equivale a cinquecento clienti in più per i negozi, duecento appartamenti in più da affittare o costruire, pazienti in più per i medici, nuove sezioni a scuola per accogliere i bambini. Oggi la Germania ha recuperato il gap demografico con un vantaggio anche economico, puntando con pragmatismo non sugli slogan ma sui numeri.

L’integrazione si può anche non volerla per interessi politici ma per fortuna accade lo stesso. Le scuole sono laboratori di integrazione. La presenza di allievi immigrati suscita allarme ma sarebbe da considerare un fattore positivo, come avviene con gli indicatori di internazionalizzazione all’università. A scuola, fino alla seconda, terza elementare, non si manifestano problemi di rapporti tra gruppi etnici, linguistici o religiosi: cominciano quando sentono cosa si dice in casa. Nella nostra società ci sono gli immigrati e i nativi della pluralità culturale: gli immigrati sono le prime generazioni che arrivano, ma anche le prime generazioni che li vedono arrivare; i nativi sono quelli che si ritrovano a scuola insieme, e hanno, appunto, un punto di vista diverso. Questo mi fa essere lievemente più ottimista di quanto sarei guardandomi intorno, guardando solo gli adulti.

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Riferimenti bibliografici
Allievi S., Governare le migrazioni. Si deve, si può, Bari-Roma, Laterza, 2023.
Carletti T., La Tunisia e l’emigrazione italiana (marzo 1903), in Ministero degli Affari esteri, Emigrazione e colonie. Raccolta di rapporti dei rr. agenti diplomatici e consolari, Roma, Tipografia dell’unione cooperativa editrice, 1906, vol. II: 297-409.
Cordova G., Karim e gli altri. La gioventù tunisina dopo la primavera, Torino, Rosenberg & Sellier, 2022.
Gentili A.M., Il leone e il cacciatore. Storia dell’Africa sub-sahariana, Roma, Carocci, 1995.
Henia A., Le rôle des étrangers dans la dynamique sociopolitique de la Tunisie (XVIIe-XVIIIe siècle). Un problème d’historiographie, in «Cahiers de la Méditerranée», n. 84, 2012 : 213-233.
Melfa D., Migrando a sud. Coloni italiani in Tunisia (1881-1939), Roma, Aracne, 2008.
Rampini F., La speranza africana. La terra africana: concupita, incompresa, sorprendente, Milano, Mondadori, 2023
Rivera A., Il fuoco della rivolta. Torce umane dal Maghreb all’Europa, Bari, Edizioni Dedalo, 2012.
Triulzi A., Italian-speaking Communities in Early Nineteenth Century Tunis, in «Revue de l’Occident musulman et de la Méditerranée», n. 9, 1971: 153-84.
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Stefano Allievi, è professore ordinario di Sociologia all’Università di Padova, e direttore del master in Religion, Politics and Global Society. È specializzato nello studio dei fenomeni migratori, in sociologia delle religioni (con particolare attenzione alla presenza dell’islam in Europa) e in studi sul mutamento culturale. Svolge anche un’intensa attività di divulgatore, come autore e performer. Tra i suoi ultimi libri Governare le migrazioni (2023), Il sesto continente (2023) e Torneremo a percorrere le strade del mondo. Breve saggio sull’umanità in movimento (2021) www.stefanoallievi.it
Daniela Melfa,è professoressa ordinaria di Storia e istituzioni dell’Africa presso il Dipartimento di Scienze politiche e giuridiche dell’Università di Messina. Nel 2008 ha pubblicato la tesi di dottorato sui viticoltori italiani nel protettorato tunisino, mentre del 2019 è il volume Rivoluzionari responsabili. Militanti comunisti in Tunisia (1956-93). Ha ricoperto la carica di presidente della Società per gli Studi sul Medio Oriente (2017-2019) ed è vicepresidente dell’Associazione di Studi Africani in Italia (2021-24).

Lettera agli studenti (e ai professori)

Comincia, o ri-comincia, la scuola. E la domanda di fondo che sta nella testa di molti ragazzi (e al cuore del problema dell’istruzione superiore) è quella sulla sua utilità. Che senso ha? A cosa serve? Cosa posso aspettarmi? Domanda tanto più importante oggi che la scuola, invece di spiegare la società ai suoi utenti (brutta parola: dovremmo dire abitanti, cittadini), arranca anche lei, con enorme fatica come tutti, dietro a trasformazioni che spesso nemmeno comprende. Nelle società lente l’istruzione, in continuità con la socializzazione primaria (in famiglia), serve a tramandare un patrimonio di conoscenze da una generazione (che sa, o presume di sapere) all’altra (che non sa e deve imparare). Oggi, nelle nostre società sempre più veloci, non è più così: anzi, è quasi l’opposto. La società cambia con rapidità, i ragazzi spesso hanno competenze che i loro genitori non hanno, e spesso ne deducono – terribilmente a torto – di saperne di più della vita, in generale, perché conoscono una tecnologia o un gergo particolare, ignoto ai loro genitori e insegnanti. Ma questo è un campanello d’allarme e un messaggio anche per la scuola, per capire quale è davvero il cuore pulsante della sua missione, al di là degli orpelli: qual è il suo senso primario, al di là delle tante cose secondarie che accompagnano la sua attività.

L’insegnante, anche se spesso lo dimentica, deve ‘e-ducere’: guidare verso qualcosa, dando ai suoi alunni (da ‘alere’, nutrire) le energie per comprendere qual è la loro strada, e incamminarsi in quella direzione (l’arrivarci sarà responsabilità altrui). Cioè avere criteri di lettura del mondo, prima che giudizi su di esso: “L’insegnante si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità” ha scritto Hannah Arendt.

Certo, per fare davvero questo, la scuola dovrebbe cambiare, stile comunicativo e contenuti. Ed è lentissima a farlo, e pure demotivata: per lo scarso rilievo che la società (facendosi del male) le dà, per la scarsità di risorse che investe, per come malamente ne retribuisce e spesso forma i suoi protagonisti. Ma è la prima e forse l’unica agenzia educativa che può svolgere ancora questo ruolo, di cui la società ha più bisogno che mai. Le altre stanno peggio, sono ancora meno solide, il loro ruolo è progressivamente evaporato: famiglia, parentela allargata, religioni, movimenti politici e partiti, altre socialità intermedie. E vale anche per i (social) media, nonostante la loro invadenza e onnipresenza.

Cosa può imparare uno studente a scuola? L’uso del tempo, per esempio. Il fatto che non è solo in mano propria. Che bisogna imparare a individuare delle priorità, altrimenti lo si spreca. Che bisogna mettersi noi a disposizione del tempo, e non lui a nostra disposizione. Che bisogna lasciarsi mettere in contatto con potenziali passioni che non conosciamo ancora, mettersi alla prova in ambiti e materie che a prima vista sentiamo lontani. La scuola è anche, può essere, dovrebbe essere, il luogo dell’incontro con l’inaspettato. Che potrebbe annoiare. Ma anche no. Come negli incontri della vita. Solo pochissimi valgono la pena. Anche tra gli amici (i social ci hanno abituato alla quantità, ma per noi tutti è la qualità che conta, ed è rara). Quindi la scuola non deve né può piacere in toto. Ma ci sarà un o una insegnante, forse una materia, magari anche solo una lezione che potrebbe cambiare letteralmente la nostra vita, lasciare un ‘signus’ (insegnante, insegnare, insegnamento nel senso di materia, vuol dire questo, ed è parola ambiziosissima: che dovrebbe atterrirci per la responsabilità che ci consegna, e renderci umili nello svolgerla – lasceremo un segno anche senza volerlo, ma se non ne abbiamo consapevolezza rischiamo di lasciarlo negativo, di segnare per sempre la vita di uno studente o di una studentessa).

La scuola è anche il luogo di una preziosissima socialità che, con tutti i suoi aspetti anche negativi, non incontreremmo altrimenti (e abbiamo visto i danni della sua mancanza nei lunghi mesi della didattica a distanza: questa sì un’esperienza che ha segnato per sempre, in negativo, moltissimi ragazzi). La società plurale (culturalmente, socialmente, religiosamente, per orientamenti di genere), che è il nostro presente e sarà sempre di più il nostro futuro, la scopriamo a scuola, e si vede meglio lì che in altre parti della società. Non per caso la scuola è spesso più avanti, e dà già per scontato quello che nella società e in politica è ancora oggetti di dibattiti retrodatati.

La scuola, soprattutto, è il luogo non delle risposte, ma della legittimità delle domande. Una storiella ebraica racconta di un gentile che domanda a un ebreo: “perché gli ebrei hanno l’abitudine di rispondere a un domanda sempre con un’altra domanda?”. E l’ebreo risponde: “e perché no?”. Ecco, la scuola è il luogo delle domande e delle risposte che aprono a nuove domande. E questo nei rapporti tra compagni come in quelli con i libri di testo o con i docenti. Dai quali pretendere tutto questo. E protestare se non lo danno.

Sapere deriva da ‘sàpere’, che ha sapore. Assaggiare, toccare con mano, non contemplare dall’esterno, come se non ci riguardasse. Attività in cui giocano un grande ruolo anche le ‘e-mozioni’ (letteralmente: ciò che ci fa muovere), non solo la razionalità. Qui la scuola rivela tutti i suoi più grandi limiti, e la sua necessità di ripensamento profondo della didattica, e perfino della sua stessa struttura edilizia e del proprio orario e calendario. “Knowledge is life with wings” diceva un grande poeta, Khalil Gibran: la conoscenza è vita con le ali. E le ali servono per volare. Non conosco responsabilità più grande che aiutare qualcuno a spiccare il volo. E, per i diretti interessati, lanciarsi alla conquista del proprio pezzo di cielo.

L’incontro con l’inaspettato. Lettera aperta, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 11 settembre 2024, editoriale, pp. 1-2

I cattolici e l’autonomia. Cosa c’entra la fede?

Il carteggio tra il presidente della regione Veneto Zaia e il presidente della conferenza episcopale monsignor Zuppi si presta a qualche considerazione, oltre che sul merito dell’autonomia, sul ruolo della chiesa e dei cattolici in politica. Cominciamo da quest’ultimo punto.

Contano ancora i cattolici nella politica italiana? Molto poco, nel senso dell’orientamento dell’opinione pubblica e del comportamento in cabina elettorale. Un voto cattolico, spostabile secondo gli umori della chiesa, non esiste sostanzialmente più, tanto che non esiste più nemmeno un partito cattolico, come era, fin dal nome, la Democrazia Cristiana. La sua eredità la pretendono in molti, un po’ a sinistra e molto a destra, dove si fa a gara a esibire e dichiarare un cattolicesimo non necessariamente praticato: non diciamo nelle camere da letto e nella formazione delle famiglie (ormai su questo punto lo scollamento è totale e nemmeno più nascosto), ma anche nelle scelte di orientamento valoriale in ambito pubblico. E non ci riferiamo solo a grandi temi sociali, come la solidarietà, il contenimento delle diseguaglianze, l’attenzione ai più poveri (non nominiamo nemmeno gli immigrati), ma anche a indicatori più generici, come evitare la menzogna (che del resto è parte integrante della pratica politica, a qualunque latitudine) o la disonestà (gli ‘atti impuri’ della pubblica amministrazione, per così dire). La chiesa non orienta più il voto anche perché è diminuito di molto il suo pubblico, la sua audience. I cattolici, anche se si ostinano a non accorgersene, o fanno finta, sono una minoranza, nel paese: sempre meno rilevante (i praticanti vanno da un terzo scarso della popolazione nei piccoli paesi a meno di un decimo nelle grandi città, in crollo verticale tra le generazioni più giovani). Ma soprattutto sono divisi al loro interno tanto quanto i non credenti, e il loro voto lo decidono sulla base di considerazioni che maturano altrove che non in parrocchia: nel foro interiore della coscienza (incluso i pregiudizi che ciascuno di noi cova), nel proprio portafoglio, o in vaghe idee in cui ha un ruolo più il telegiornale che la lettura dei vangeli (attività non particolarmente praticata, anche dai praticanti, come dimostrato da molte ricerche).

Quello che è vero in termini analitici non è però vero in ambito pubblico. La chiesa non solo si interroga su moltissimi temi, facendo in questo nient’altro che il suo dovere: ma le sue considerazioni vengono usate nel dibattito pubblico, dalla politica e dai partiti, come pezze d’appoggio per le proprie posizioni. E così è tutto un tirare per la giacchetta, o per la tonaca, tale o talaltra frase del papa, o appunto della conferenza episcopale. Solo che si tratta di una mera strumentalizzazione senza alcun radicamento effettivo. E fa più tristezza che scandalo vedere politici che dell’opinione dei vescovi semplicemente si disinteressano nella normalità della loro vita, usarle eccitati se danno ragione (o sembrano anche solo lontanamente farlo) alle proprie posizioni. Come se questo contasse ancora. E così vediamo le stesse persone (diciamo, per comodità, di sinistra) che aborrono le posizioni della chiesa sull’omosessualità o sull’aborto, incensarla quando si parla di autonomia. E le stesse persone (diciamo, per comodità, di destra) che aborrono le posizioni della chiesa sugli immigrati, incensarla quando si parla di genere, o di difesa di una famiglia tradizionale che non praticano nemmeno loro.

Sull’autonomia siamo alla stessa impasse. La conferenza episcopale prende una posizione dura contro di essa, utile come opinione, ma poco fondabile evangelicamente (basti pensare all’autonomismo e al federalismo quasi militanti di don Sturzo, fondatore del Partito Popolare, che sapeva coniugarsi con una buona dose di meridionalismo). La sinistra esulta e usa l’argomento per sostenere la propria proposta di referendum contro l’autonomia, e i cattolici di sinistra esaltano le dure posizioni, condite di molta retorica, di mons. Savino, vice di Zuppi e vescovo di Cassano all’Jonio (gli stessi cattolici di sinistra, e la stessa sinistra, che bollavano le posizioni di mons. Ruini come ingerenze). Mentre Zaia prende carta e penna e reagisce, spostando il ragionamento dai principi ai contenuti pratici, proponendo un tavolo tecnico. Dimenticando tuttavia che in Veneto l’autonomia è stata usata precisamente come arma retorica per decenni. E, soprattutto, sente il bisogno, pur avendo posizioni sideralmente distanti da quelle ecclesiali su temi come omosessualità o fine vita, quando si tratta di autonomia, di rispondere da presidente e autonomista ma anche ‘da cattolico’. Non si sa mai.

 

La chiesa tirata per la giacca, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 settembre 2024, editoriale, pp. 1-5

Migrazioni. Costruire una politica, non subirla – Alcune proposte

Secolo 1sett2024 Festival comunicazione

In occasione del Festival della comunicazione di Camogli, il 15 settembre si svolgerà un dibattito cui parteciperanno Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, e Federico Fubini, vice-direttore del Corriere della sera, insieme al sottoscritto. Per presentarlo mi è stato chiesto questo contributo, pubblicato su due intere pagine del quotidiano ligure Il Secolo XIX (nel link che precede, il pdf).

Non si capisce una barca con cento migranti che galleggia precariamente nel Mediterraneo se si guarda solo ad essa. Per capire di cosa si tratta veramente, bisogna guardare al contempo più da lontano e ancora più vicino: guardare cosa succede in Africa e in Europa, a Lagos o a Bruxelles (dal punto di vista demografico, economico, sociale, politico, ambientale…), da un lato, ed entrare nella testa, nel corpo e nei sogni di qualcuno di quei migranti, e nella vita di chi si ritroverà ad avere a che fare con loro, dall’altro. E, per inciso, questo riguarda tutti coloro che migrano: gli immigrati in Italia come gli emigranti dall’Italia, che pure sono in crescita tumultuosa, nell’inconsapevolezza dei più.

Solo così potremo sperare di capire quel fenomeno che chiamiamo migrazione (spesso aggiungendovi una caratterizzazione enfatica: emergenza, dramma, crisi…): che non ha facili spiegazioni monocausali, ma implica invece un insieme molto ampio di fattori, tra loro interrelati. È dalle loro interconnessioni, infatti, più che dall’approfondimento di ciascuno di essi, che possiamo sperare di capire qualcosa di quanto sta succedendo intorno a noi, compresa quella barca che galleggia precariamente nel Mediterraneo.

Non si capiscono infatti le migrazioni se non le intrecciamo ad altre forme di mobilità: delle informazioni, del denaro, delle merci, e naturalmente delle persone. La “rivoluzione mobiletica” in corso sta accentuando la nostra propensione alla mobilità, anche a prescindere dalle migrazioni vere e proprie: ci muoviamo per studio, interesse, cultura, sport, eventi globali come mostre, expo, campionati, olimpiadi, tournée, per fame di esperienze e per amore, per una mobilità intrinseca al nostro lavoro e non solo per cercarlo, per non parlare del turismo, che da solo rappresenta la principale ‘industria’ globale e il dieci per cento del PIL e dell’occupazione mondiale, oltre che a causa di push factors come guerre e carestie, catastrofi naturali e indotte dall’uomo come quelle climatiche, fino ai pendolarismi urbani, agli esodi agostani, ai week-end fuori porta, alle serate che si salvano dall’essere inconcludenti solo nell’essere itineranti (come in Certe notti che cantava Ligabue, in cui “ci ritroveremo come le star a bere del whisky al Roxy bar”, come nella Vita spericolata di Vasco Rossi), a testimonianza della nostra connaturata irrequietezza. E del fatto che oggi siamo mobili in misura maggiore rispetto ai nostri genitori e ai nostri nonni.

La nostra storia di mobilità, come specie, viene da lontano: dalla preistoria. Da quando i nostri progenitori, i vari homo in cui siamo evoluti – fino all’ultimo, i Sapiens, di cui facciamo parte (qualcuno forse abusivamente) –, hanno abbandonato l’Africa per popolare l’intero globo, facendo del nomadismo una costante della storia umana – la sua fisiologia, non la sua patologia, la norma, non l’eccezione. Se facessimo pari a 24 ore la storia dell’umanità siamo stati nomadi per 23 ore e 54 minuti, secondo più secondo meno: cacciatori e raccoglitori prima, poi pastori, solo recentemente – dalla rivoluzione neolitica, diecimila anni fa – contadini e infine urbanizzati, e negli ultimi secondi di nuovo potentemente mobili, grazie anche all’innovazione tecnologica, che ha reso il viaggiare, per chi può farlo legalmente e liberamente, mai così veloce, economico, sicuro e dunque ripetibile e reversibile).

Ma non si capiscono le migrazioni, in ingresso e in uscita, nemmeno se non le colleghiamo ad altri fenomeni, a cominciare dalla demografia, per continuare con le trasformazioni nel mercato del lavoro e le sue esigenze di manodopera, il livello di istruzione di chi arriva e di chi parte, l’ambiente, e altro ancora. La demografia è il primo e principale fattore correlato, dato che fa dell’Italia il paese più vecchio d’Europa e uno dei più vecchi del mondo (e non abbiamo ancora capito con quali devastanti conseguenze). Un paese che ha più morti che nati (con una differenza in negativo che è pari annualmente alla popolazione di una città come Padova, che evapora senza sostituzione), con più figli che si prendono cura dei genitori che genitori che si prendono cura dei figli, in cui si vendono più pannoloni che pannoloni, in cui il 45% (quasi la metà) delle donne in età fertile non ha figli a fronte di solo un 5% che dichiara di non volerne. Un paese in cui importiamo immigrati con relativamente bassa scolarizzazione (e con sbocchi lavorativi che del resto non la richiedono), ma comunque in numero largamente insufficiente al fabbisogno, ed esportiamo laureati in percentuale doppia rispetto ai giovani autoctoni che rimangono, pur avendo la metà dei laureati rispetto alla media europea. Un paese, come ricorda Federico Fubini citando il recente intervento del governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, in cui nei prossimi 15 anni il numero di persone in età di lavoro si ridurrà di 5,5 milioni, anche ipotizzando un afflusso netto di 170 mila immigrati all’anno: a parità di tutto il resto, questo fossato demografico renderebbe l’economia italiana più piccola del 13% e ridurrebbe il reddito per abitante di circa un decimo.

Un paese, anche, che dispone di nuovi cittadini, figli degli immigrati, in gran parte nati e scolarizzati qui (in numero insufficiente, ma è pur sempre qualcosa) ma si rifiuta di riconoscerli come tali, rimandando loro un’immagine di diversità e di rifiuto che è l’opposto dei processi di integrazione che pure si dichiara di volere, anzi di pretendere. In cui il voler vestire un foulard o pregare in una moschea costituiscono un percorso a ostacoli, stigmatizzato in ogni modo, che fa venire la voglia di scappare anche ai più volonterosi. E infatti molti scappano davvero: tra chi va via c’è anche una parte significativa di onward migrations, le seconde migrazioni di prime e seconde generazioni, spesso proprio dopo aver acquisito quella cittadinanza che facciamo di tutto per negargli, ma che gli apre le porte per paesi europei più lungimiranti e accoglienti.

A fronte di questo scenario, è necessario agire, non solo reagire. L’Europa, non solo l’Italia (anche se l’Italia, in molti indicatori, è messa peggio dei paesi con cui si confronta nel mercato globale come nella vita civile) rischia infatti di crollare sotto il peso delle migrazioni: o meglio, sotto il peso delle sue contraddizioni interne a proposito delle migrazioni.

 

Riaprire canali di ingresso regolari

 

La prima e fondamentale proposta. A partire dagli anni ’70, tutti i paesi europei hanno progressivamente chiuso gli accessi regolari agli immigrati. Lo shock petrolifero, la crisi economica, il crescere di pezzi di opinione pubblica e partiti anti-immigrati, hanno spinto i governi a chiudere all’immigrazione regolare, nell’illusione di fermarla. Ma, così facendo, hanno semplicemente aperto all’immigrazione irregolare, e non poteva essere altrimenti.

C’è da stupirsi, infatti, se, non potendo arrivare legalmente, molti ci provano nell’unico modo possibile, ossia illegalmente? È evidente per chi scappa da una guerra o da una persecuzione etnica o religiosa: fuggirebbero anche in zattera, sapendo di correre gravi rischi – tanto le prospettive a casa loro sarebbero peggiori, ammesso che una casa ce l’abbiano ancora. Ma lo fanno anche altri. Producendo così una forte immigrazione irregolare (che, se fosse regolamentata, potrebbe inserirsi molto più facilmente e non creerebbe i problemi che vediamo, anche rispetto alla percezione dell’opinione pubblica). Paradossalmente, dunque, sono proprio i paesi europei, Italia in primo luogo, con la loro legislazione, a produrre migrazioni irregolari che potrebbero invece essere in gran parte regolari e regolate, e definitive laddove potrebbero essere temporanee e reversibili, se ci fosse la possibilità di andare e tornare senza problemi.

Dunque la prima cosa da fare è quella di riaprire canali regolari di immigrazione, concordati con i paesi d’origine, anche selezionati in base alle esigenze del mercato del lavoro. Esigenze che in Europa ci sono, trattandosi di un continente che perde ogni anno 3 milioni di lavoratori, che vanno in pensione, e non sono sostituiti da nessuno (i loro posti restano dunque vacanti) semplicemente perché chi avrebbe dovuto sostituirli non è mai nato. Mentre il fabbisogno italiano è stimato in 3-400mila lavoratori l’anno: molti di più – non di meno – di quelli che oggi arrivano irregolarmente, via mare o via terra o in qualunque altro modo. Occorre ribadirlo: se non c’è mano d’opera, le imprese vanno altrove – e se non ci sono gli operai, non ci saranno neanche gli impiegati e i dirigenti. C’è quindi anche questo effetto recessivo paradossale e non previsto dietro l’idea del blocco dell’immigrazione per salvaguardare il lavoro degli autoctoni… Meno immigrati, come documentato ampiamente da Bankitalia, vorrà dire meno lavoro per gli autoctoni, non di più.

Una politica di apertura all’ingresso regolare sarebbe anche l’unica vera legittimazione politica – oltre che un’utile moneta di scambio – per una politica della fermezza, da attuare senza tentennamenti, all’immigrazione irregolare. E potrebbe essere promossa con la collaborazione dei paesi di origine e di transito dei migranti, stabilendo degli accordi che sarebbero anche un riconoscimento di pari dignità tra partner (è quello che dice, ma non fa, anche il cosiddetto Piano Mattei). Ciò non significa invece appaltare i costi e l’impopolarità dell’accoglienza – più correttamente del trattenimento – dei migranti ad altri paesi in cambio di denaro, come si è fatto con la Turchia, e si sta tentando di fare con Libia, Tunisia, Albania ed altri. Perché non si può pensare di sigillare tutto il Mediterraneo (Libia inclusa: un buco, peraltro, che è stato aperto dall’Europa), e perché rischia di diventare un’arma di pressione e di ricatto – un’arma di migrazione di massa, come è stato notato – da far scattare con qualche sbarco mirato tutte le volte che si intende alzare la posta.

Una apertura, dicevamo, controllata e selezionata: è da quando ci sono le migrazioni irregolari che il livello di istruzione medio dei migranti è calato drammaticamente, rendendo più difficili e costose le dinamiche di integrazione; riportare le migrazioni sotto il controllo degli stati consentirebbe di ritornare a una situazione più accettabile anche per il mercato del lavoro e per le società europee. Inoltre, questo diminuirebbe l’arrivo di minori stranieri non accompagnati. Nella storia delle migrazioni sono sempre partiti i padri e le madri. Da qualche anno assistiamo a un aumento esponenziale dei minori, ormai quasi tutti tra i 16 e i 18 anni e maschi: segno che è una filiera migratoria in sé, prodotta precisamente dal blocco dell’arrivo regolare degli adulti – anche questa, dunque, paradossalmente, figlia della nostra legislazione di progressiva chiusura all’immigrazione regolare di adulti e al ricongiungimento familiare. Riaprire i canali regolari ridurrebbe a dimensioni molto più contenute anche questa drammatica anomalia.

 

Parlare alle pubbliche opinioni: un’iniezione di verità

 

Tale politica sarebbe anche un segnale forte per dare la sensazione, ai cittadini, che lo stato controlla, attraverso i flussi, i confini, non più forzati dai disperati sui barconi o da quelli che ci arrivano via terra. E sappiamo quanto questa sensazione, questa paura, sia stata determinante nel far emergere sentimenti di frustrazione e di rabbia, e quindi di xenofobia (di cui stanno pagando il prezzo anche gli immigrati arrivati negli scorsi decenni e già integrati: il rifiuto degli stranieri non va troppo per il sottile, nel distinguere tra neo-arrivati e altri immigrati, magari di seconda generazione e/o cittadinizzati) e nel cambiare di conseguenza gli equilibri politici dell’Europa, al punto da mettere a rischio la sua stessa esistenza.

Dopodiché, occorre ripensare e riformulare la stessa distinzione attuale tra richiedenti asilo e migranti economici, allargando le maglie dal lato di questi ultimi: dato che anche questa distinzione, come è trattata ora, è figlia della chiusura delle frontiere (e ha portato alla demonizzazione dei migranti economici, che sono invece sempre stati la norma, e lo sono tuttora – e ne abbiamo un enorme bisogno). Per i rifugiati bisogna trarre le opportune lezioni dall’efficacia di misure sperimentali come i corridoi umanitari, che vedono la Comunità di Sant’Egidio e la Chiesa Valdese, tra i promotori: di fronte a tragedie umanitarie, che peraltro i paesi occidentali hanno spesso cooperato a produrre, non si può pensare ad alcuna selezione, ma nemmeno si può aspettare che chi scappa da esse arrivi nei nostri mari e sulle nostre coste; a costo inferiore, con maggiore efficacia e giustizia sociale possiamo andarli a prendere ed aiutarli, come doveroso. Mentre per gli altri tipi di migranti siamo giunti all’assurdo per cui, impedendo le migrazioni regolari, costringiamo gli irregolari che sono migranti economici a dichiararsi richiedenti asilo, anche se in maggioranza non lo sono, perché è semplicemente l’unico modo per restare in Europa. Chiediamo loro, in sostanza, di mentirci, in modo da legarci da soli le mani attivando lunghe, costose e inutili pratiche di riconoscimento che arriveranno nella maggior parte dei casi a smentirli: producendo a loro volta un’ulteriore presenza di immigrati irregolari, data la difficoltà e il costo di implementare politiche di rimpatrio significative – tanto più in mancanza della collaborazione dei paesi di provenienza.

Tanto vale riaprire canali regolari di ingresso per i migranti economici, bloccare o diminuire significativamente gli arrivi irregolari attraverso accordi, e consentire di attivare le pratiche di richiesta di asilo solo per coloro che ragionevolmente hanno qualche titolo per ottenerlo: e per i richiedenti asilo ‘veri’, e solo per questi ultimi, dovrebbe essere garantito un accesso universale, senza condizioni e forme di selezione.

 

A valle degli arrivi: gestire l’integrazione

 

Fino a qui abbiamo visto soprattutto cosa accade a monte degli sbarchi, e le possibili soluzioni che si possono porre in atto. Ma anche a valle c’è molto da fare. Innanzitutto occorre uscire, oltre che dall’emergenza, dalla mentalità emergenziale, che continua a farci gestire un fenomeno che in sé è strutturale con soluzioni improvvisate e totalmente prive di strategia. Bisogna passare dall’accoglienza emergenziale all’integrazione strutturata: fatta di agenzie nazionali che si occupano davvero della questione, che indicano criteri minimi di integrazione, che controllano, selezionano, valutano e respingono le associazioni e gli organismi che non lavorano all’altezza degli standard individuati. L’integrazione è fatta di apprendimento rapido e intensivo della lingua, di conoscenza della cultura del paese in cui ci si trova, di formazione professionale (tanto più importante dato il basso livello di istruzione di partenza) e di orientamento al lavoro: presuppone dunque delle linee guida stringenti e l’attivazione delle professionalità necessarie (en passant: si tratta di un mercato del lavoro specializzato che si apre, soprattutto per professionalità autoctone). Se pensata come tale, si tratta di un investimento (come lo è la scuola, per capirci): che in pochi mesi (comunque a molto minor prezzo di un percorso scolastico tradizionale), può creare cittadini e lavoratori integrabili nella società e nel mercato del lavoro. Diversamente, se limitata all’accoglienza e a un generico diritto di permanenza, rischia di essere una spesa improduttiva, che per giunta può produrre in misura significativa dropout e irregolari che possono diventare problematici per la società.

E poi, c’è tutta l’enorme partita dei processi di integrazione, della costruzione di meccanismi di inclusione reale (a cominciare dalla cittadinanza, in particolare a partire dalle cosiddette seconde generazioni), di riconoscimento simbolico delle specificità culturali e religiose compatibili con il quadro normativo europeo. E qui il dibattito sullo ius scholae fa comprendere in maniera disarmante quanto manchi ancora, da parte del ceto politico, la comprensione minimale dei fondamentali dei processi in atto. Manca la conoscenza dei dati di base. Manca la consapevolezza. Figuriamoci se c’è il minimo di volontà politica necessario.

I flussi migratori sono per l’appunto flussi, come tali regolabili e canalizzabili, almeno in buona misura. Sta a noi decidere se lasciare i flussi migratori all’anarchia di un mercato primitivo, e alla volontà dei nuovi schiavisti, o assumerci la responsabilità di affrontare i problemi per provare, finalmente, a risolverli. Governandoli. Gestendoli, finalmente. Nell’interesse nostro e di tutti.

 

Migranti, alziamo lo sguardo, in “Il Secolo XIX”, 1 settembre 2024, pp. 1-4-5

Ius scholae. Il diritto di avere diritti.

La cittadinanza è “il diritto di avere diritti”, diceva Hannah Arendt. Sapeva di cosa parlava, essendo stata apolide per un decennio. Lo diciamo in altro modo: la cittadinanza fa coincidere le frontiere territoriali con le frontiere dei diritti, semplificando notevolmente la vita. Chi ce l’ha, ha qualcosa in più, di sostanziale, che ne determina lo status e in certa misura i percorsi e gli esiti. Ed è precisamente quello che non capiscono (o capiscono fin troppo bene) coloro i quali, comodamente seduti sulla propria cittadinanza che coincide con il luogo di residenza, la rifiutano ad altri: trasformando il proprio diritto in privilegio. Che altro significa, infatti, far stare in condizioni giuridiche diverse due persone nella medesima situazione?

Prendiamo due minori, uno figlio di italiani, l’altro di immigrati. Nati entrambi in Italia (lo sono anche la stragrande maggioranza dei figli di immigrati). Frequentano lo stesso nido e la stessa scuola, la stessa palestra e spesso anche lo stesso oratorio. Hanno fatto gli stessi studi, nella stessa lingua, con gli stessi riferimenti culturali. Con poche differenze (che però sono anche differenze interne agli autoctoni: e che arricchiscono il panorama e l’offerta culturale, anziché impoverirla, come fa la chiusura ombelicale), ascoltano la stessa musica, vedono gli stessi film, praticano gli stessi sport e tifano per le stesse squadre, leggono gli stessi libri o gli stessi manga, mangiano cose simili e talvolta anche diverse, si vestono nella stessa maniera ma qualche volta un po’ diversa, si innamorano allo stesso modo e magari anche in modo diverso (ancora una volta: arricchendo e allargando le opportunità di tutti, non certo restringendole). Che cosa li differenzia? Precisamente la cittadinanza. E nient’altro. O, almeno, nient’altro di significativo: perché se si parla di colore della pelle o di occhi a mandorla, sono significativi solo per coloro che gli attribuiscono un significato, che non ha niente di oggettivo, e che per le giovani generazioni significa sempre meno).

Chi ce l’ha, la cittadinanza, nemmeno si accorge del vantaggio competitivo che ha: ma fa parte di un club esclusivo, perché esclude altri. E che non è legato a nessun merito (anzi, è la cosa più antimeritocratica che esiste), essendo la nascita del tutto casuale (nessuno sceglie né il luogo né i genitori e la loro origine). Se li sentissimo solo parlare, i figli e le figlie di immigrati che sono nelle classi dei nostri figli, il più delle volte non ne coglieremmo che la medesima inflessione dialettale. Dunque, perché questa differenza?

L’Italia è oggi uno dei paesi europei con la legislazione più restrittiva. Devi diventare maggiorenne. Poi hai un anno di tempo per raccogliere i documenti necessari (per motivi incomprensibili, se non di puro cattivismo burocratico, la finestra di opportunità si chiude col compimento del diciannovesimo anno). Poi lo stato si prende tre anni di tempo per rispondere (proviamo a immaginare se facesse altrettanto per il nostro certificato di residenza), che di fatto spesso diventano di più, senza che sia veramente possibile sollecitare o protestare. E naturalmente la risposta può essere negativa, anche se accade sempre meno. Quale il vantaggio per gli autoctoni? Persino per questioni di sicurezza, evocate così spesso a sproposito: è meglio includere e integrare (chi peraltro già lo è), o coltivare un sentimento di marginalizzazione? Perché restituire un rifiuto, dire all’altro: non sei come me, anche se ti credi uguale? Cosa ci si guadagna?

Quasi un decennio fa, in alcune realtà del nordest, i comuni, in collaborazione con l’Unicef, davano una simbolica cittadinanza onoraria ai bambini che avevano completato un ciclo scolastico, con incontri specifici e una cerimonia formale. L’ha fatto per qualche tempo anche il comune in cui vivo. Che cosa accadeva, andando nelle classi a parlarne? Che i figli di italiani scoprivano in quel momento, e se ne stupivano, che i loro compagni non avessero gli stessi diritti. Che talvolta lo scoprivano allo stesso modo i figli di stranieri. Ed era commovente e al contempo ironico vedere i giornalisti locali chiedere ai bambini “di dove sei?” e sentirsi rispondere, come a una domanda senza senso: “di qui”. Ecco, sono di qui. Fattualmente: perché non anche giuridicamente? Anche la maggioranza della popolazione oggi ne è consapevole, e è a favore dello ius scholae. E tra i giovani il consenso è plebiscitario. Perché non prenderne atto? Chi è contro, lo fa sulla pelle, è il caso di dirlo, di chi ha meno diritti, e non può votare per difenderli. Non è ora di fare un passo avanti?

 

Il diritto di avere diritti. Noi e lo ius scholae, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, “Corriere di Bologna”, “Corriere dell’Alto Adige”, 21 agosto 2024, editoriale, pp.1-3

Israele e Palestina, due pesi e due misure. Troppi silenzi sulle stragi

Lo scorso 7 ottobre una azione terroristica inaudita, pianificata da Hamas, ha portato all’uccisione di 1200 israeliani, tutti civili, tutte vittime innocenti, incolpevoli, inconsapevoli, e al rapimento di 250 ostaggi. Sono passati 300 giorni, da allora. E la risposta israeliana a questo orrendo massacro ha portato fino ad ora all’uccisione di forse 40.000 (quarantamila!) palestinesi, la stragrande maggioranza dei quali civili, vittime innocenti, incolpevoli, inconsapevoli, moltissime dei quali bambini. Una strage sproporzionata, una rappresaglia indiscriminata, violentissima. A cui si aggiunge la crisi umanitaria, certificata anche dalle Nazioni Unite – e spesso intenzionalmente indotta – dovuta ai milioni di sfollati, all’impossibilità di offrire cure mediche, alla difficoltà negli approvvigionamenti di cibo, di acqua, di medicinali, di energia elettrica. A cui vanno aggiunti gli abusi di soldati e coloni illegali nei territori palestinesi, e un avventurismo politico senza exit strategy, che sta allargando il conflitto in Cisgiordania, in Yemen, in Iran, in Libano, con atti mirati che superano di gran lunga la gravità dei danni provocati dai razzi lanciati su Israele dai suoi nemici. Tutto questo riguarda anche noi: occidentali, europei, italiani. Per le sue conseguenze pratiche (tra cui il probabile arrivo di migliaia di nuovi profughi palestinesi alle nostre frontiere) e politiche: il sostegno acritico al governo israeliano ci isola di fronte al resto del mondo, tanto è inguardabile, per occhi appena onesti, questa logica dei due pesi e due misure.

Eppure prevale un assordante silenzio. Anche nel Nordest, dove pure ci sono sia alcune tra le comunità ebraiche più importanti, antiche e colte, sia una cospicua presenza immigrata musulmana. Poche manifestazioni, e lasciate in gestione a pochi militanti delle ali estreme dello schieramento politico, che non hanno coinvolto i partiti principali e l’opinione pubblica. E relativamente poche prese di posizione esplicite interne alla stessa comunità ebraica locale: legata per ovvi motivi allo stato di Israele (e giustamente timorosa del fatto che sia in gioco la sua stessa esistenza, cruciale per tutti gli ebrei del mondo), ma che non dovrebbe esserlo al suo governo, che dovrebbe essere legittimo criticare, come fanno peraltro molti ebrei israeliani dall’interno e in situazione assai più difficile. Comunità che ha ricevuto una doverosissima solidarietà dopo il 7 ottobre, mentre quasi nulla ne ha ricevuto la comunità palestinese, pur presente sul territorio, anche con esponenti conosciuti (tra cui imam, ma anche medici, professionisti, imprenditori).

Il confronto viene spontaneo. Quando ci sono stati attentati terroristici in nome dell’islam in Europa (ma anche a proposito dei crimini dello Stato Islamico in Medio Oriente), si chiedeva ai musulmani da noi, che fattualmente non c’entravano niente, che spesso venivano da paesi che non erano quelli coinvolti nel terrorismo, e addirittura a quella nati qui, e quindi europei di nascita e formazione, di dissociarsi da quei fatti orrendi e abnormi. E molti l’hanno fatto spontaneamente, arrivando a “dirsi Charlie” dopo gli attentati perpetrati a Parigi, a Bruxelles e altrove. Forse sarebbe giusto chiedere alle comunità ebraiche di levare una voce critica, che c’è, anche nei confronti del governo israeliano, per i crimini che sta perpetrando. Sarebbe più credibile anche la loro richiesta di sostegno, in questo modo; e più facile per i non ebrei offrirlo (specularmente, anche i musulmani, se fossero maggiormente capaci di critica esplicita nei confronti di Hamas e delle leadership islamiche, sarebbero più credibili e riceverebbero più sostegno – l’onestà intellettuale paga più della partigianeria, su tutti i fronti). Altrove, dagli Stati Uniti a molti paesi europei, gli ebrei per primi, e le pubbliche opinioni, hanno reagito, platealmente. Da noi prevale una certa timidezza, e la difficoltà, della politica in primo luogo, anche solo a indicare nell’attuale governo di Israele (certo non nello stato di Israele o peggio nel popolo israeliano) uno dei maggiori responsabili di questa strage. Perché le vittime sono arabi? Perché sono musulmani (e qui sbagliamo: molti palestinesi non lo sono)? Ecco, forse la semina anti-islamica di questi anni, dai testi di Oriana Fallaci in avanti, ha giocato un ruolo. Ma non basta a spiegare tutto. Forse dobbiamo solo assumere, tutti noi, il banale coraggio di dire quello che pensiamo ad alta voce, poco importa se a qualcuno non piacerà, e se magari è sbagliato. E cominciare a discutere con tutti gli interlocutori. Perché le amicizie sono vere solo quando si è capaci di una discussione franca: se l’amicizia può reggere a un litigio e sopravvivere a una divergenza di opinioni.

Israele e Palestina. Quei silenzi sulle stragi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” 2 agosto 2024, editoriale, p. 1-5