Trasformare i centri in Albania in CPR. Ma è così che si combatte l’irregolarità?
I centri per migranti in Albania funzioneranno: la premier l’aveva promesso. Ma riadattati ad altro scopo: grazie a un cambio di destinazione d’uso, per così dire. Dopo le molteplici bocciature della magistratura, il progetto di fermare i migranti lungo la strada, o appena sbarcati, dirottandoli in Albania, ha prodotto per il governo solo costi sproporzionati e scottature sul piano politico. E il sostegno dell’Europa è assai meno granitico di quanto si racconti: von der Leyen ha sì detto all’Italia di andare avanti, ma si è ben guardata dal proporre misure simili a livello di Unione, e gli altri paesi non sembrano per ora seguire il nostro paese sull’idea di esternalizzare le funzioni legate al respingimento dei richiedenti asilo e al rimpatrio dei migranti irregolari, che pure seduce molti, non solo nel centro-destra europeo.
L’ultima trovata per non far fallire il progetto nel suo complesso, assumendosi il costo politico di dover ammettere di fronte all’opinione pubblica di essersi sbagliati dall’inizio, sembra essere quella di trasformare i campi (le prigioni, di fatto) in Albania in Centri per il rimpatrio. Quelli dove stanno i migranti irregolari già individuati sul territorio italiano, in attesa di rimandarli fisicamente nel loro paese d’origine. Il problema è che anche i CPR sono una specie di terra di nessuno, che prima o poi andrà affrontata, nei suoi aspetti giuridici, e non solo. In essi sono presenti persone che non hanno commesso altro reato che quello di immigrazione clandestina: eppure le loro condizioni sono spesso peggiori di quelle delle carceri, dove stanno persone che hanno ricevuto una reale condanna, per reati ben più gravi. Non solo, i migranti in questione, spesso quasi senza tutela giuridica, pur senza alcuna condanna penale specifica, sono reclusi sine die, in strutture sovente affidate a privati senza alcuna competenza specifica. Esternalizzare questa funzione all’estero, in Albania, oltre a produrre ancora meno tutele, ne aumenterebbe i costi. L’unico vero vantaggio, esclusivamente cosmetico e politico, è che si darebbe un senso, riempiendole, a strutture per ora vuote e dispendiosissime.
La domanda vera però è la seguente: davvero tutto ciò serve a qualcosa? Certo, il problema della deterrenza rispetto agli arrivi irregolari (la ratio originaria dietro alla costruzione dei centri) è reale: tutti vorremmo che entrassero solo immigrati regolari (salvo che esiste la questione dei richiedenti asilo, che non possono esserlo per definizione). E anche quello dei rimpatri degli irregolari deve essere posto: lo stato deve avere il diritto di controllare chi entra, e anche il potere di rimandare indietro chi è sgradito – il tema del controllo dei confini è serio, e ancora troppo negletto nel mondo progressista. Il problema è che non si fa così. E che per farlo non occorre violare leggi e convenzioni, né calpestare la dignità umana (anche se sappiamo che a buona parte della pubblica opinione di ciò non importa nulla, come non importa nulla delle condizioni delle carceri), e nemmeno inventarsi provvedimenti extra-ordinari in luoghi extra-territoriali. Bisogna, invece, rovesciare le priorità della politica. Non vogliamo immigrati irregolari? L’unico modo è costruire canali regolari di ingresso: così come se vogliamo debellare l’analfabetismo l’unico modo è investire in scuole, non punire gli analfabeti. Il problema è che – stupefacentemente – continuano a non esserci, o a coprire solo una parte minima degli arrivi, e diciamo pure del fabbisogno della nostra economia e della nostra società. Mancano (o ci sono, ma non contengono le clausole fondamentali) accordi con i paesi d’origine e di transito che per prima cosa offrano flussi regolari di ingresso (tot mila l’anno per paese, ad esempio): la sola vera motivazione (anche perché gli emigranti garantiscono preziosissime rimesse) per cui i paesi interessati potrebbero essere motivati a collaborare nel trattenere i flussi irregolari e accettare i rimpatri. E come noto i click day sono una politica fallimentare, da tutti denunciata come tale, a partire dai diretti interessati (cioè i datori di lavoro, tra cui ci sono anche le famiglie), che continua a essere ripetuta solo per quella che Tolstoj chiamava la forza più grande della storia: l’inerzia – politica e burocratica.
Non è, tuttavia, solo questione di controllo dei confini. L’altro modo con cui si combatte l’irregolarità è con la regolarizzazione: quasi sempre più vantaggiosa e meno costosa dell’espulsione, anche perché dietro ci sono datori di lavoro e lavoratori motivatissimi. Noi siamo invece dentro a un sistema che non solo non regolarizza, ma produce irregolarità: per via legislativa (legge Bossi Fini, che lega il soggiorno al lavoro, per cui perdendo il secondo, anche solo temporaneamente, si perde il primo – en passant, persino Fini dice da anni che andrebbe cambiata) e amministrativa, come sa chiunque abbia passato anche solo un paio d’ore in un ufficio stranieri di una qualsiasi questura, e visto i motivi per cui non si rinnovano i permessi di soggiorno.
L’altra cosa da fare sarebbe favorire politiche di integrazione, a cominciare dalla lingua. Mentre i decreti Piantedosi hanno persino abolito l’insegnamento dell’italiano tra le spese rimborsabili nei CAS, i Centri di accoglienza straordinari, oltre ad aver sostanzialmente smantellato i SAI, gestiti dai comuni, così che ciò che era straordinario è diventato, nei numeri, ordinario. Ma questo sarebbe un discorso che merita un’attenzione specifica.
Centri per il rimpatrio, la cosmesi politica costa ed è controproducente, in “il Quotidiano del Sud”, 12 febbraio 2025, pp.