L’istinto gregario: il terribile conformismo della politica
In quello che molti hanno definito il tradimento del Nord (la fiducia tolta dalle forze politiche che pretendono di rappresentare il territorio a un presidente del consiglio che tutte, ma proprio tutte, le categorie economiche e professionali, e moltissime articolazioni sociali del medesimo territorio – e d’altrove – volevano fortissimamente che rimanesse al governo) c’è un aspetto che non sottolinea nessuno: che è umano, prima che politico.
Colpisce, delle vicende di questi giorni, la caratura del ceto politico: composto quasi senza eccezioni di yesmen e yeswomen (Sciascia li avrebbe definiti ominicchi, o più probabilmente quaquaraqua) che, pur non essendo d’accordo con quella scelta, non spendono una parola contro di essa, e anzi la giustificano a posteriori (mentendo sapendo di mentire), oltre ad averla obbedientemente votata. Sembra quasi che la politica produca un’antropologia propria: un tipo umano che è sostanzialmente l’opposto di quello che, almeno a parole, la maggior parte di noi (e di loro) vorrebbe essere, e vorrebbe che i propri figli diventassero.
Nessuno (o quasi) di noi – o di quelli tra noi che hanno un minimo di strumenti cognitivi (che non necessariamente hanno a che fare con il livello di istruzione: è un sapere, anzi una sapienza, che molti possiedono come dote naturale) – educherebbe i propri figli all’obbedienza cieca, pronta e assoluta. Passiamo anni (e leggiamo libri, e facciamo corsi per genitori, e consultiamo psicologi) per imparare a farne degli individui adulti, autonomi, indipendenti, critici. E probabilmente raccontiamo di esserlo noi stessi, e cerchiamo di esserlo, nella nostra vita familiare e lavorativa, nelle nostre scelte, nei limiti del possibile. Ma quando si entra in politica, questo valore, questa virtù, sparisce. Improvvisamente sappiamo solo “obbedir tacendo” (e persino, in qualche caso, “tacendo morir”: se non altro di vergogna), delegando tutto al capo, che decide in maniera solitaria, e adeguandoci. Senza porci nemmeno la domanda se è giusto così, o che figura ci facciamo davanti al mondo, e magari anche davanti ai nostri figli.
È un dato trasversale, che non riguarda solo alcune forze politiche (semmai è ironico se chi non pratica l’autonomia di pensiero richiede invece autonomia per il proprio territorio: poiché c’è sempre un rapporto tra mezzi e fini, non adeguare i propri comportamenti ai valori che si rivendicano è un indicatore per capire se sono solo strumentali, o meno). Ma in questi giorni l’abbiamo visto all’opera in varie forze politiche, e in passato, a seconda delle questioni, più o meno in tutte. È un elemento, dunque, costitutivo della politica. Che tuttavia dovrebbe farci riflettere, e innescare qualche domanda in più: sul senso di una politica vissuta in questo modo. Non c’è disciplina di partito che tenga, in circostanze particolarmente gravi (l’abbiamo imparato a nostre spese nei periodi di dittatura: persino in casi estremi, che sfidano la propria coscienza, è spesso possibile dire il proprio sì o il proprio no, obbedire a un ordine o a una legge ingiusta o rifiutarsi di farlo). Eppure la manifestazione del dissenso (si può almeno dire la propria, in dissenso con la linea del partito, ma poi votare, appunto, per disciplina di partito) è merce sempre più rara. E quello che sorprende, appunto, non è tanto che accada: ma che venga accettato come normale, e che anche i militanti e gli elettori rivotino poi le stesse persone. Quasi che avessimo riconosciuto in loro l’istinto gregario che è anche in noi.
Un grande economista, Albert Hirschman, negli anni ’70 scrisse un saggio fondamentale, in cui mostrava le logiche dei due comportamenti dissenzienti fondamentali: la “voice” e la “exit”. La prima consente di articolare meglio il proprio pensiero, spiegare le proprie ragioni, indicare dove sta l’errore. La seconda è la presa d’atto che non ci si ritrova più nelle ragioni delle scelte fatte (o più banalmente che il prodotto non piace più), e si va via (o si sceglie un altro prodotto). Bene, nella vicenda della fiducia al governo di “voice” non se ne è praticamente sentita: i leader hanno fatto le loro scelte in solitaria, e molto in fretta (che, come noto, è sempre cattiva consigliera). Mentre si sono visti alcuni esempi di “exit” a posteriori: che tuttavia fanno eccezione (e se ne parla) precisamente perché sono rari.
Un ceto politico composto da yesmen, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” e “Corriere di Verona”, 24 luglio 2022, editoriale, p.1