Votare a 16 anni. Perché avrebbe senso, perché non si farà.

Quello sul voto ai sedicenni è un dibattito che ha una sua ciclicità: ogni tanto qualcuno lo tira fuori, se ne parla per un po’, poi tutto finisce in nulla. Siamo pronti a scommettere che accadrà così anche stavolta. Ma, intanto, ri-poniamoci il problema. Che, oggi, effettivamente è più d’attualità che in passato. Non, come credono in molti, perché abbiamo visto i giovani manifestare. Quello è un effetto ottico, distorcente, dovuto alla vicinanza degli eventi. Li abbiamo visti oggi, ma non ieri, e non li vedremo necessariamente domani: anche il loro impegno è ciclico. Nemmeno perché, apparentemente, stavolta erano molti: la stragrande maggioranza dei loro coetanei, come sempre accade, non c’era, e non era interessata ad esserci. Ma perché i giovani sono sempre meno, soprattutto sono molti meno degli anziani: e questa è davvero una svolta senza precedenti storici, che deve farci riflettere sulle sue implicazioni. Sta qui la vera ragione di una riflessione seria sul voto ai più giovani.
Spesso il dibattito ruota sul livello di maturità e di consapevolezza dei sedicenni. Problema mal posto: soprattutto se andassimo a misurare la maturità degli ultra-sedicenni, e a maggior ragione degli anziani, il cui contatto col mondo è spesso mediato solo dalla televisione, che costituisce il piatto unico della dieta informativa di molti. Ne sanno più dei giovani, di politica? Hanno più mezzi per comprendere? In un paese dove gli analfabeti di ritorno sono un numero impressionante, e dove quasi la metà degli adulti non è in grado di comprendere una percentuale, forse puntare sugli individui in corso di alfabetizzazione potrebbe non essere così sciocco. Anche perché i sedicenni di oggi hanno comunque un livello di istruzione più elevato della media dei pensionati, in gran parte fermatisi alla terza media. Se il criterio è la “qualità” del voto, se votano i secondi, non si capisce perché non dovrebbero votare i primi.
Il dibattito sul voto ai sedicenni ne porta quindi con sé uno ulteriore, e più importante: quello del voto consapevole. E qui la determinante non è l’età: non a caso più d’uno ha proposto di consentire l’esercizio del diritto di voto solo a chi ha un minimo di conoscenze su ciò per cui vota. Una specie di minimale esame di educazione civica, di patente. Dibattito con un suo fondamento, e rilevante di principio, perché ha a che fare non solo con la democrazia formale, ma con la democrazia sostanziale: la capacità di “essere” e di “fare” democrazia, non solo l’esercizio del diritto di voto. Che, da solo, non garantisce la democrazia.
Un’altra implicazione di rilievo riguarda il collegamento con altri diritti e doveri, con i quali avrebbe senso ipotizzare una coerenza – o tutti a sedici o tutti a diciotto anni. Se a sedici anni si avesse la possibilità di votare, non si capisce perché non si dovrebbe essere pienamente responsabili del proprio comportamento dal punto di vista giuridico, sul piano civile e penale. Ciò che riguarda anche la possibilità di guidare, di acquistare alcolici, di aprire una partita Iva o donare i propri organi.
Quello più rilevante è comunque il problema del numero: che rischia di distorcere i fondamenti della democrazia. Con lo spettacolare allungamento dell’aspettativa di vita, e il contestuale crollo delle nascite, gli anziani dominano numericamente sui giovani. Avendo i partiti bisogno di consensi, è inevitabile che corteggino il voto anziano più di quello giovanile, e approvino leggi a favore degli anziani più che non dei giovani (le pensioni sono l’esempio più noto). Producendo crescenti diseguaglianze nei confronti della popolazione giovanile. Tanto che qualcuno si è spinto a proporre un voto ponderato: ovvero che quello dei giovani, che hanno più futuro davanti, valga proporzionalmente di più di quello degli anziani. Dibattito, anche questo, con un suo importante fondamento di principio: che potrebbe peraltro implicare anche un termine finale, non solo un limite iniziale, all’esercizio del diritto di voto. Ma, tanto, non se ne farà nulla. Fino al prossimo dibattito.
Sedicenni, il voto e i doveri, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” e “Corriere del Trentino”, 3 ottobre 2019, editoriale, p.1

PD, Renzi, Calenda, Salvini: cambiamenti nella politica nazionale, effetti in Veneto

Lo scenario elettorale del Veneto, in prospettiva delle elezioni regionali del 2020, vede come protagonista, sempre più, la politica nazionale. Continua a leggere

RICOMPOSIZIONE – Un nuovo paesaggio nel fronte progressista

RICOMPOSIZIONE
Un nuovo paesaggio nel fronte progressista





Il nucleo di questo testo risale a oltre un anno fa: non è dunque figlio delle contingenze, ma frutto di una riflessione di lungo periodo (in parte uscita in articoli scritti all’epoca delle polemiche sulla presenza della delegazione PD al funerale delle vittime del crollo del ponte Morandi). Il resto ha circolato in gruppi ristretti a inizio 2019. Il primo paragrafo (ultimo in ordine di scrittura) è successivo alla presentazione del nuovo governo. I nomi propri dei protagonisti (persone e partiti) di una possibile diversa configurazione del fronte progressista, presenti nell’ultimo paragrafo, sono aggiunte dell’ultima ora…
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Il suicidio di Salvini, il nuovo governo, e qualche possibile scenario veneto

Non è solo un nuovo governo: è un nuovo quadro politico, quello che si sta delineando. E una nuova stagione: che potrà avere effetti fino a ieri inimmaginabili anche a livello regionale e locale. Continua a leggere

Come mai abbiamo bisogno di immigrati nonostante la presenza di disoccupati?

Come ogni anno, si scopre l’acqua calda. Mancano i braccianti per le raccolte stagionali, in agricoltura. Mancano i camerieri e il personale di pulizia, nel turismo: l’anno scorso, solo in Veneto, e solo in questo settore, sono rimasti vacanti 5.000 posti di lavoro, non coperti né da italiani né da stranieri. Ma, per la verità, mancano anche gli infermieri e i medici, e molto altro. Rimaniamo comunque ai lavori più diffusi. Continua a leggere

Politica a nordest: lezioni dal voto

La Lega consolida e travolge: il Veneto è la regione più leghista d’Italia. Ormai è, semplicemente, il potere. In tutte le sue dimensioni. Beneficiando quindi anche dell’effetto di adeguamento, di conformismo anche un po’ forzato, che determinano tutte le situazioni di potere non contendibili: ovunque e sempre, che si trattasse della DC nelle regioni bianche o del PCI in quelle rosse. Provate a essere un sindaco di centro-sinistra in un paesino del Veneto, o leghista in Toscana: tutto, inevitabilmente, diventa più difficile, anche solo ricevere un piccolo finanziamento o la collaborazione a un progetto. La gente – e soprattutto gli operatori economici, e le burocrazie – lo sa, e spesso si adegua. Continua a leggere

Perché votare (nonostante tutto)

“E’ stata la peggiore campagna elettorale di sempre”. Da che ho memoria, almeno. Questa frase mi sembra perfettamente descrittiva di quanto è successo in queste settimane. Salvo che, riflettendoci, mi è venuto in mente di averla già pensata, e forse anche già scritta, la scorsa campagna elettorale. E rischio di pensarla, e scriverla, la prossima.
Trovo, qui, un segno dei tempi: esplicativo di una tendenza lunga. Che potremmo definire così: decadenza tendenziale della qualità della democrazia. E quindi sua perdita di significato. Più forte anche, come segnale, più decisivo ed incisivo, del calo nel numero di votanti, che pure è già, e già da tempo anch’esso, un campanello d’allarme invano suonato da percentuali sempre più ampie di elettori potenziali, non motivati ad essere elettori fattuali.
Non solo – come sempre in Italia – pur essendo elezioni europee, di tutto si è parlato fuorché di Europa. Non solo la qualità dei candidati pare in continuo tracollo: e all’insipienza si assomma in maniera più visibile che mai l’ignoranza – vera, patentata, misurabile, persino ostentata senza vergogna. Non solo, come inevitabile conseguenza, il livello del dibattito si è svilito, e le stesse parole usate si riducono a un repertorio linguistico limitato e primitivo: le poche parole a disposizione di chi esce da una scuola dell’obbligo malfatta, e da allora non ha più ripreso in mano un libro, arrendendosi all’analfabetismo funzionale. Non solo, quindi, non c’è alcuna capacità di visione, di immaginare orizzonti: perché i limiti del pensiero sono i limiti del linguaggio che si ha a disposizione. Ma tutto si riduce a mossette, a battutine, a polemicuzze, a frasette presunte ad effetto. Zero confronti tra i candidati: che li costringerebbero almeno ad articolare il proprio pensiero (il segnale forse più inquietante, dal punto di vista della sostanza della democrazia: eppure, in questo paese, pronamente accettato come un dato, sia dal giornalismo che dalla pubblica opinione). E, per finire, appunto un giornalismo – e quindi un pubblico dibattito – ridotto a gossip, sdraiato sulle parole dei rappresentanti politici, incapace di contraddittorio e controllo: funzione fondamentale, nelle democrazie, tanto quanto l’esercizio del voto. Ed ecco che tutto, quindi, si riduce a schieramento: aprioristico, da tifo calcistico, e quindi per definizione stupido, e inutile. Con una percentuale sempre maggiore di persone, non interessate a quel modo di essere (perché il tifo è un modo di essere, non solo di fare: e un metodo, prima ancora che una scelta), che finisce per astenersi.
Questo l’orizzonte: sconsolato, certo. Di fronte al quale la domanda inevitabile diventa: che fare? La prima risposta è difficile, ma va data: non lasciarsi prevaricare dal pessimismo. Votare, perché ce n’è bisogno, e perché si può fare, nonostante tutto, in maniera intelligente: scegliendo le persone con le preferenze, votando chi ci dice qualcosa di concreto, chi ci ispira personalmente fiducia, chi ha qualche competenza (e, almeno, come minimo sindacale, chi ci dice che eserciterà il mestiere per cui si candida). E, dal giorno dopo le elezioni, cominciare a ritrovare lo spazio e il gusto per l’esercizio della democrazia (che è una modalità di ascolto, prima che un modo di agire) in altri ambienti: dalla famiglia al lavoro, dal condominio al quartiere, dal consiglio parrocchiale all’associazione polisportiva, dal volontariato alla cultura. Ricominciando a porsi gli interrogativi di fondo della democrazia: perché? come? Praticandone il dibattito e la presa collettiva di decisione come stile. Solo allora saremo di nuovo capaci di proporlo come stile anche della politica, come suo prassi, e come suo fine.
Perché votare, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 26 maggio 2019, editoriale, p.1

Primo maggio: ieri e oggi. Domani?

Le manifestazioni del Primo Maggio ho cominciato a frequentarle da studente: erano un atto politico tra tanti, per chi si sentiva più o meno impegnato. Nella prima metà degli anni ’80 – e per quasi una decina d’anni – sono diventate anche parte del mio lavoro: facevo, allora, l’operatore sindacale a Milano, e contribuivo alla loro organizzazione. Era ancora un’epoca di grande partecipazione: si respirava l’orgoglio operaio (testimoniato dalla fierezza e la numerosità delle delegazioni delle fabbriche), l’importanza di contarsi e la dignità attribuita al momento; si utilizzava l’occasione per fare il punto sulle relazioni industriali e la situazione politica, con un intento pedagogico (testimoniato dai torrenziali comizi dei leader sindacali e di altri esponenti del mondo della cultura e della politica); e si viveva il clima di festa, che terminava spesso con una mangiata con gli amici e lunghe camminate per tornare a casa in assenza di mezzi pubblici. Il mondo cattolico partecipava anch’esso: l’allora cardinal Martini, in quella che era la festa di San Giuseppe lavoratore, per rispetto della festa sindacale e per non diminuire la partecipazione dei lavoratori cristiani alle manifestazioni, organizzava delle veglie di meditazione la sera del 30 aprile, anch’esse molto partecipate. Continua a leggere

La bolla inutile dell’antirazzismo da social

Apro facebook a caso. Trovo per primo questo commento: https://www.facebook.com/martino.ghielmi/posts/10156984759395102?__tn__=K-R
Del merito non mi frega un granché (mai fatto né guardato una maratona: con lo sport ho più o meno il rapporto che ne aveva Churchill, che – ultraottantenne – attribuiva il suo eccellente stato di salute mentale al fatto di non averlo mai praticato): ma capisco che c’è sotto l’ennesima storia di razzismo o presunto tale, e me lo leggo. Mi sembra convincente. Continua a leggere

Le polemiche inutili (e i veri problemi) sul 25 aprile

Quella sul 25 aprile è una polemica fastidiosa e stucchevole: come quasi tutte le polemiche che dividono per principio – e non sul merito – maggioranza e opposizione (e pure la maggioranza al suo interno, come tradizione da quando c’è questo governo). E come tutte le occasioni per posizionarsi senza ragionare sul perché ci si posiziona: in cui lo scopo non è dire, ma dirsi. Continua a leggere