“E’ stata la peggiore campagna elettorale di sempre”. Da che ho memoria, almeno. Questa frase mi sembra perfettamente descrittiva di quanto è successo in queste settimane. Salvo che, riflettendoci, mi è venuto in mente di averla già pensata, e forse anche già scritta, la scorsa campagna elettorale. E rischio di pensarla, e scriverla, la prossima.
Trovo, qui, un segno dei tempi: esplicativo di una tendenza lunga. Che potremmo definire così: decadenza tendenziale della qualità della democrazia. E quindi sua perdita di significato. Più forte anche, come segnale, più decisivo ed incisivo, del calo nel numero di votanti, che pure è già, e già da tempo anch’esso, un campanello d’allarme invano suonato da percentuali sempre più ampie di elettori potenziali, non motivati ad essere elettori fattuali.
Non solo – come sempre in Italia – pur essendo elezioni europee, di tutto si è parlato fuorché di Europa. Non solo la qualità dei candidati pare in continuo tracollo: e all’insipienza si assomma in maniera più visibile che mai l’ignoranza – vera, patentata, misurabile, persino ostentata senza vergogna. Non solo, come inevitabile conseguenza, il livello del dibattito si è svilito, e le stesse parole usate si riducono a un repertorio linguistico limitato e primitivo: le poche parole a disposizione di chi esce da una scuola dell’obbligo malfatta, e da allora non ha più ripreso in mano un libro, arrendendosi all’analfabetismo funzionale. Non solo, quindi, non c’è alcuna capacità di visione, di immaginare orizzonti: perché i limiti del pensiero sono i limiti del linguaggio che si ha a disposizione. Ma tutto si riduce a mossette, a battutine, a polemicuzze, a frasette presunte ad effetto. Zero confronti tra i candidati: che li costringerebbero almeno ad articolare il proprio pensiero (il segnale forse più inquietante, dal punto di vista della sostanza della democrazia: eppure, in questo paese, pronamente accettato come un dato, sia dal giornalismo che dalla pubblica opinione). E, per finire, appunto un giornalismo – e quindi un pubblico dibattito – ridotto a gossip, sdraiato sulle parole dei rappresentanti politici, incapace di contraddittorio e controllo: funzione fondamentale, nelle democrazie, tanto quanto l’esercizio del voto. Ed ecco che tutto, quindi, si riduce a schieramento: aprioristico, da tifo calcistico, e quindi per definizione stupido, e inutile. Con una percentuale sempre maggiore di persone, non interessate a quel modo di essere (perché il tifo è un modo di essere, non solo di fare: e un metodo, prima ancora che una scelta), che finisce per astenersi.
Questo l’orizzonte: sconsolato, certo. Di fronte al quale la domanda inevitabile diventa: che fare? La prima risposta è difficile, ma va data: non lasciarsi prevaricare dal pessimismo. Votare, perché ce n’è bisogno, e perché si può fare, nonostante tutto, in maniera intelligente: scegliendo le persone con le preferenze, votando chi ci dice qualcosa di concreto, chi ci ispira personalmente fiducia, chi ha qualche competenza (e, almeno, come minimo sindacale, chi ci dice che eserciterà il mestiere per cui si candida). E, dal giorno dopo le elezioni, cominciare a ritrovare lo spazio e il gusto per l’esercizio della democrazia (che è una modalità di ascolto, prima che un modo di agire) in altri ambienti: dalla famiglia al lavoro, dal condominio al quartiere, dal consiglio parrocchiale all’associazione polisportiva, dal volontariato alla cultura. Ricominciando a porsi gli interrogativi di fondo della democrazia: perché? come? Praticandone il dibattito e la presa collettiva di decisione come stile. Solo allora saremo di nuovo capaci di proporlo come stile anche della politica, come suo prassi, e come suo fine.
Perché votare, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 26 maggio 2019, editoriale, p.1