Di bambini, moschee, polemiche politiche e identità reattive

La questione della visita dei bambini di una scuola cattolica a una moschea (non importano i nomi e i luoghi) ha avuto una eco molto forte, così come il nostro editoriale di ieri l’altro sul tema. Decine di condivisioni, ma anche diversi educati interventi critici dei nostri lettori. Segno che è un tema sensibile, su cui si ha voglia di discutere. Proviamo, allora, a tirare le fila delle critiche. E a rispondere, per quanto possibile nei limiti di un articolo, quando al tema ho dedicato libri interi.

Un primo livello di discussione riguarda la scelta della scuola, e la sua autonomia decisionale. Può una scuola frequentata da molti bambini musulmani fare un approfondimento, con visita guidata, su quella religione? Lo può decidere solo lei. Non i genitori: che pure, in questo caso, sono stati consultati preventivamente e hanno espresso il loro assenso. Lo stesso per l’educazione all’affettività e sessuale: si può fare solo se i genitori sono d’accordo? Sicuri? Se di educazione sul tema abbiamo bisogno, si fa, punto. E poi come si quantifica il disaccordo? Sarebbe democratico se bastasse l’opposizione di uno per ledere l’interesse di tutti? Così come non si consultano i genitori, e nemmeno la politica, sui programmi di italiano. Molti genitori pensano che la matematica non serva a niente, altri considerano pericolosa persino la biologia perché si parla di genere, ma non per questo si smette di insegnarle. Quando è stato introdotto l’obbligo scolastico, molti genitori erano contro: lo stato non interveniva con comprensione, ma mandava i carabinieri a prelevare in casa i bambini per portarli a scuola.

Le strumentalizzazioni della politica hanno le loro ragioni. Ma non hanno nulla a che fare con il merito delle questioni. La politica vive di contrapposizioni, e il consenso si costruisce meglio se hai un nemico, come insegnava Machiavelli. Se poi il nemico è una minoranza stigmatizzata (che siano gli ebrei in altre epoche, o gli immigrati, o i musulmani oggi, ma potrebbero essere i gay – o magari i conservatori o i razzisti o semplicemente quelli con un’opinione diversa dalla nostra, i presunti cattivi giudicati dai presunti buoni), si chiama capro espiatorio, e serve per acchiappare voti. Non è nobile, ma funziona, e la politica lo sa benissimo, e ne usa a man bassa. Tanto più perché le minoranze contano meno, e spesso hanno meno diritti, incluso quello di voto in questo caso, per cui non si paga pegno: si guadagnano i voti di chi è contro, senza perdere quelli dei diretti interessati. È un meccanismo che mostrano bene le identità reattive: quelle che si formano in reazione, o contro, qualcuno. Come la pletora di persone che hanno scoperto di essere cristiane da quando ci sono i musulmani: prima non se ne erano accorte. Tuttora i politici che tuonano di più di radici cristiane sono quelli che in chiesa vedete meno, e a cui il contenuto del messaggio evangelico interessa meno. Ma vale anche per altre minoranze etniche, religiose, politiche, sessuali: tanto che i conflitti più forti spesso non sono tra gruppi, ma al loro interno, a proposito degli altri.

C’è chi, nel merito, chiede di difendere i valori cattolici. Legittimo. Forse la domanda vera è se a minacciarli è il nemico che ci viene messo di fronte, l’islam, o quello che ci sta alle spalle, apparentemente nostro alleato: la secolarizzazione, l’individualismo, il consumismo e quant’altro. E se i religiosi di altre comunità non siano semmai dei potenziali alleati. Anche perché, poi, il problema vero è chi decide quali sono, i valori cattolici: per qualcuno tutto si riduce all’aborto, per altri all’accoglienza degli immigrati, mentre probabilmente le cose sono un po’ più complesse.

C’è chi ha sollevato il tema della reciprocità. Comprensibile, ma nel caso in questione mal posto, visto che è un ambiente cattolico, dove si prega e ci si fa il segno della croce con regolarità. Anche questo tema, tuttavia, è più complesso: in Marocco o in Senegal, per fare un esempio, i cattolici godono di piena libertà di culto, in Afghanistan no – dobbiamo prendercela con i marocchini che sono da noi perché gli afghani che non sono da noi non ce la danno? Anche la polemica sul fatto che i bambini in moschea si sono inginocchiati e hanno mimato il gesto della preghiera, appare fuorviante: i bambini fanno e imparano così, e cinque minuti dopo se ne sono dimenticati, ed è il loro bello, e la loro libertà, da cui avremmo molto da imparare. A scuola si fa questo. Se lo chiamiamo indottrinamento, come dovremmo chiamare l’allenatore che porta i ragazzi a tifare per la squadra che piace a lui, o l’insegnante (o il parroco, o l’assessore) che gli fa leggere un libro o li porta a teatro a vedere un autore che ha un proprio specifico punto di vista: che li indottrina, o che gli offre delle opportunità e li abitua alla pluralità dei punti di vista?

Il problema vero, alla fine, è l’islam, o meglio il nostro modo di percepirlo. Se siamo convinti che vogliono islamizzarci per via demografica, o vogliono imporci la sharia (da cui spesso sfuggono, proprio per vivere più liberi da noi), o vogliono togliere il crocifisso o il presepe dalle scuole (mai successo per iniziativa dei musulmani, che iscrivono i loro figli e ancor più figlie pure a scuole cattoliche), anche se è un sentito dire, non cambieremo idea neanche di fronte all’evidenza.

Il problema è la questione femminile? Molto giusto. Ma perché la nostra attenzione è selettiva? Perché a proposito dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina non islamiche non protestiamo? Perché se un marito o un padre pakistano è violento con la propria moglie o figlia diciamo che è colpa dell’islam, mentre se è rumeno non diamo colpa all’ortodossia, e se è italiano al cattolicesimo? E se il problema è la democrazia (problema serissimo), siamo sicuri che certi hindu, protestanti o ebrei siano più democratici? Non è un problema di modello di sviluppo, di singolo paese, di epoca storica, più che di religione? Avremmo giudicato il cattolicesimo compatibile con la democrazia, nell’Europa degli anni ’30, quando la chiesa era alleata di Mussolini, Franco, Salazar, o trent’anni fa in America Latina, quando sosteneva le peggiori dittature centro e sud americane?

Certo, nell’islam ci sono dei problemi. Il terrorismo jihadista ce lo ha insegnato (peraltro trent’anni fa il terrorismo da noi era politico, oggi nel mondo è spesso anche indipendentista, etnicista, e pure suprematista e razzista, e quando è religioso non è solo islamico). Lo combattono anche la maggioranza dei musulmani. È giusto parlarne e sollevare il problema. Per affrontarlo insieme, nell’interesse di tutti. Non per combattere i fedeli di una religione, in nome di un’altra, o forse solo di una presunzione di superiorità. Che si dovrebbe dimostrare nei fatti.

La società, le religioni, la politica, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 maggio 2025, editoriale, pp. 1-5

Scuola cattolica e visita in moschea. Il problema è l’ignoranza della politica

Di fronte all’ignoranza – nella sua accezione etimologica di mancanza di conoscenza – sono possibili due atteggiamenti. Uno è quello che potremmo definire dantesco: lasciar perdere (“non ragioniam di lor ma guarda e passa”, come si suggerisce nel canto terzo dell’Inferno a proposito “di coloro che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo”). L’altro è quello di provare a ragionare nonostante tutto, anche se l’oggetto del contendere è risibile, e non è facile. Anche perché c’è un’ignoranza per così dire pura, con cui si può interloquire (appunto perché è solo una carenza di conoscenze), e una che è mossa dalla strumentalizzazione politica contro un presunto nemico, che è facile trasformare in capro espiatorio, e che è più difficile da sradicare.

La (non) notizia di partenza è quella della visita dei bambini di una cattolicissima scuola paritaria parrocchiale a una vicina moschea, frequentata anche da molti genitori i cui figli frequentano la scuola in questione: in cui peraltro ci si fa il segno della croce prima di pranzo e spesso si recitano le preghiere in aula.

L’ignoranza ha naturalmente protestato. Ignorando, per l’appunto, che la nostra società è composta da molte diversità: per dire, oltre il dieci percento delle persone (di più, in Veneto) che vivono da noi sono immigrate. E appartengono, tra le altre cose, a minoranze religiose diverse (cattolici, musulmani, ortodossi). E che frequentarle, studiarle, includerle, rapportarcisi, è l’abc della vita sociale, oltre che del patto costituzionale. Mentre stigmatizzarle favorisce la raccolta di un facile consenso, ma non fa un buon servizio alla società.

Con i criteri dell’ignoranza non ci dovrebbero essere moschee (in effetti la regione ha approvato una legge contro, perfettamente inapplicabile, e infatti le moschee ci sono). Gli oratori non dovrebbero accogliere i bambini musulmani (una ricerca a Milano li quantificava intorno a un terzo degli utenti). Nelle scuole non se ne dovrebbe discutere e guai a fare visite di conoscenza (che peraltro, laddove davvero i musulmani fossero come li descriviamo avrebbero un effetto controproducente). E la diversità non dovrebbe essere nemmeno presa in considerazione: quindi niente visita anche alle sinagoghe, ma nemmeno alle chiese, visto che pure esse (lo ricordiamo a chi non se ne rendesse ancora conto) rappresentano oggi non una presunta maggioranza, ma solo la più grande e storicamente importante delle minoranze religiose.

Quella della chiusura alle culture altrui – incarnate in persone, in questo caso – è sempre una scelta ottusa e perdente: che non ci arricchisce, ma al contrario ci impoverisce (proviamo a immaginare se ci nutrissimo solo di letteratura, musica, cinematografia italiana, o peggio veneta, per non rischiare contaminazioni). Peraltro non ci salva nemmeno dai conflitti culturali, ma al contrario ne produce di nuovi e perfettamente inutili. Ricordiamo, en passant, che la Serenissima, cui molti degli oppositori alla visita in moschea amano nominalmente richiamarsi, aveva consentito la costruzione sul Canal Grande di un Fondaco (da funduq, parola araba ancora oggi usata per albergo) dei Turchi, inaugurato nel 1621 e durato fino al 1838, in cui era presente una moschea (anche allora, nel 1602, un anonimo cittadino veneziano promosse una petizione contro: ma perse… e oggi è il civico museo di storia naturale, che l’ignoranza potrà visitare con profitto). Che il Corano verrà dato alle stampe per la prima volta, in arabo, sempre a Venezia, nel 1537, e una sua prima traduzione seguirà dieci anni dopo (mentre la traduzione più nota e importante per la cultura europea sarà stampata a Padova nel 1698 a cura di padre Ludovico Marracci). Dobbiamo vergognarci, di questa eredità, o al contrario vantarcene? E ci sarebbe stata, se gli attori di questi processi avessero avuto la mentalità di chi non vorrebbe nemmeno far visitare una moschea? O non sarà questa la stessa radice culturale che fa rispondere molti italiani, a domanda se sarebbero disposti a utilizzare i numeri arabi, che loro no, mai, che sarebbe una vergogna, una inaccettabile sottomissione a una cultura nemica? (per sicurezza, ci teniamo a precisare che i numeri arabi sono quelli che usiamo d’abitudine …).

Persino il Mussolini cui si richiamano altri locali nemici verbali dell’islam definiva l’Italia, in un discorso del 1928, come “amica del mondo islamico e conscia delle sue funzioni di grande Potenza mussulmana”; aggiungendo nel 1938, dopo aver ricevuto in dono in Libia la ‘spada dell’islam’, a proposito delle popolazioni dell’italico impero, di voler assicurare “la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto delle leggi del Profeta” e “dimostrare la sua simpatia ai Musulmani e all’Islam del mondo intero”.

Ecco, ci sembra che le reazioni odierne di ottusa chiusura di fronte a un fatto banale siano quelle che fanno andare il Veneto sulle pagine nazionali per i motivi sbagliati. Magari è il caso di rendersene conto.

 

Bimbi e religioni. L’abc della vita sociale, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 6 maggio 2025, editoriale, pp. 1-5

Femminicidi. Come e cosa c’entrano migrazioni, etnie, religioni, culture

Il ministro Nordio si è lasciato sfuggire una frase che è certamente nei pensieri di molti. Parlando di femminicidi, ha detto che il problema è legato soprattutto “a giovani adulti di etnie che non hanno la stessa nostra sensibilità nei confronti delle donne”. Alla luce delle notizie di cronaca degli ultimi giorni, ci sarebbe da ragionare sulla ‘nostra’ presunta sensibilità, visto che anche l’Istat certifica (dati del 2023, gli ultimi presenti sul sito dell’Istituto) che il 94,3% delle donne italiane sono vittime di italiani (quindi sono vittime di stranieri in una percentuale che è la metà del numero di stranieri presenti sul territorio), mentre semmai ci farebbe propendere per una maggiore violenza anche degli autoctoni il fatto che ‘solo’ il 43,8% delle donne straniere sia vittima di propri connazionali. Tra l’altro, parlando di omicidi in generale, le vittime sono cittadini italiani nel 74% dei casi, mentre per il 26% sono stranieri, pur essendo poco più di un decimo della popolazione: a testimonianza del fatto che, per quanto riguarda i reati di sangue, gli immigrati sono più una categoria a rischio che una categoria rischiosa. Il che mette in discussione anche l’affermazione di un altro ministro (quello della pubblica istruzione, Valditara), che – con grande tempismo e totale mancanza di stile e di pietas, in occasione della presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, uccisa da un giovane autoctono – ci invitava a “non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da un’immigrazione illegale”. Se fosse vero, peraltro, sarebbe un reato legato a una condizione (quella appunto di irregolare, non quella di cittadino di un altro paese), e quindi il governo dovrebbe coerentemente impegnarsi a favorire le forme di regolarizzazione, anziché produrre irregolarità per via normativa, come invece accade.

In generale, circa la metà dei femminicidi sono commessi da partner o ex-partner, che si tratti di italiani o di stranieri: il che, purtroppo, ci fa vedere più le somiglianze che le differenze tra autoctoni e immigrati. La violenza nei confronti delle donne – tutte, quale che sia la loro nazionalità – è soprattutto domestica e relazionale: il luogo più pericoloso è casa propria, la persona potenzialmente più pericolosa il proprio compagno. Ed è qui il problema.

Poiché molti italiani dicono etnie ma alludono a religioni o pensano a culture considerate primitive, aggiungiamo che persino tra i femminicidi di stranieri, molti sono commessi da europei, ad esempio dell’Est, e quindi di cultura e religione cristiana. Non abbiamo alcuna evidenza statistica che, poniamo, gli africani commettano più femminicidi e più violenza sulle donne. E lo stesso, controdeduttivamente rispetto a un’opinione diffusa, vale per i musulmani.

Non solo. Queste interpretazioni vagamente culturaliste non tengono conto del fatto che la cultura non è una cosa fissa, e non si trasmette con il sangue: cambia, attraverso l’interazione e l’interrelazione, e dunque con il tempo. Già con le prime generazioni, e ancor più con le seconde, socializzate e scolarizzate qui. Così come cambia nelle situazioni di amicizie e coppie miste, che crescono prepotentemente di numero. Altrimenti non si spiegherebbe come una propensione culturale profondissima come quella alla fertilità, faccia passare – spesso in una sola generazione – da un numero di figli molto elevato a un sostanziale adeguamento a quello del paese in cui si vive.

I problemi veri, riguardo alla condizione femminile nelle comunità immigrate, semmai sono altri: come gli ostacoli alla parità di diritti, o all’ingresso nel mondo del lavoro, vincolando la donna al ruolo di moglie e madre. Un ideale, peraltro, condiviso anche dai difensori autoctoni della famiglia tradizionale, spesso cattolici. O problemi più specifici, come i matrimoni precoci o forzati (problemi non solo dei musulmani, ma delle culture tradizionali, che riguardano anche hindu e sikh e altri ancora), i rimpatri di ragazze e la conseguente interruzione del percorso di istruzione al sopravvenire della maturità sessuale, o il porto del niqab (il velo che copre anche il volto): problemi reali, ma che possono essere affrontati solo sul piano culturale e, come accade in molti paesi europei, in collaborazione (non in contrapposizione) con l’associazionismo anche religioso degli immigrati. La risposta, come sempre, è l’integrazione, la cultura, lo scambio, la mixité. E, per tutti, italiani e stranieri, l’educazione all’affettività e alla sessualità. Proprio quella che alcuni autoctoni, spesso con motivazioni religiose, rifiutano di introdurre nella scuola.

 

Chi uccide le donne? I veri dati, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 9 aprile 2025, editoriale, pp. 1-7

Il sangue e la ragione. Le nuove norme sulla cittadinanza per i discendenti di emigranti (e i CPR in Albania)

Il governo è intervenuto regolamentando, in senso restrittivo, l’acquisizione della cittadinanza da parte dei discendenti di emigranti italiani. Era un provvedimento atteso da tempo. La normativa precedente consentiva di ottenere la cittadinanza, senza nemmeno essere mai stati in Italia, a chiunque potesse vantare un antenato emigrato dopo il 1861, anno di proclamazione dell’unità d’Italia: con il risultato di intasare ambasciate e consolati, e ancor più i comuni d’origine di questi lontani ascendenti, di complesse pratiche burocratiche, il cui scopo era essenzialmente ottenere un passaporto che consentisse di entrare negli Stati Uniti o in altri paesi senza visto, e in qualche caso di farsi curare in Italia a spese del sistema sanitario nazionale. Una follia logica, che alcuni politici contrari al provvedimento si ostinano a difendere in nome di una inesistente base biologica, straparlando di ‘sangue italiano’ a dispetto di incroci che durano da oltre un secolo e mezzo (e come se il sangue contenesse la cultura, la storia, la lingua di un paese, le cui frontiere peraltro sono nel frattempo cambiate più volte). Intorno a queste richieste strumentali di cittadinanza si era inoltre creato un business di avvocati e faccendieri, che aveva portato al collasso le anagrafi dei comuni in passato a maggiore tasso di emigrazione, spesso già piccoli e poveri di risorse (come sanno bene alcuni comuni veneti, la regione con più emigranti d’Italia). Tutto questo oggi non sarà più ammissibile: la possibilità di richiedere la cittadinanza è limitata a due generazioni, figli e nipoti di emigranti. E subordinata a una presenza di almeno due anni sul territorio italiano: quindi, intuibilmente, a un progetto di stabilizzazione in Italia (ricordiamo che per i cittadini comunitari, la permanenza richiesta è di cinque anni, e per i non comunitari di dieci: resta quindi, correttamente, un trattamento di maggior favore). Il provvedimento è tanto più significativo perché voluto da un governo guidato da una presidente proveniente dallo stesso partito di chi aveva invece voluto la legge precedente (peraltro approvata con sostegno bipartisan), l’onorevole Mirko Tremaglia, che fu anche ministro degli italiani nel mondo: un galantuomo, rispettato esponente della destra, che peraltro ha sempre ritenuto che lo stesso diritto alla cittadinanza dovessero avere gli immigrati in Italia (in questo, rimasto inascoltato).

Non va invece nel senso della normalizzazione (al contrario) la decisione di utilizzare i centri in Albania anche come CPR, Centri per il rimpatrio. Per giustificare un enorme investimento sbagliato, a rischio di danno erariale, e per non voler ammettere di avere fatto un errore, si esternalizza una funzione che dovrebbe stare in Italia (molte regioni hanno già un CPR: tra queste, manca il Veneto), peraltro moltiplicando i costi, e dando vita a un rischioso precedente – in termini di principio sarebbe come esternalizzare le carceri. I migranti in attesa di espulsione verranno portati in Albania, potranno stare nel centro fino a 18 mesi (senza alcun capo di imputazione e di fatto senza diritti), ma per essere rimpatriati dovranno essere riportati in Italia, così come quelli che non si potranno rimpatriare, a meno di immaginare di lasciarli liberi in Albania (governo locale permettendo, ed è improbabile): il che significherebbe che potrebbero ritentare l’ingresso via mare dall’Albania o via terra lungo il corridoio balcanico. Un andirivieni inutile che, questo sì, rischia di assomigliare a dei “taxi del mare”, in forma di navi militari, e pagati dal contribuente.

Un passo avanti e uno indietro, insomma, nella gestione dei flussi migratori.

Il sangue italiano. Cortocircuiti, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 30 marzo 2025, editoriale, pp. 1-9

CPR in Albania e emigranti di ritorno. Le decisioni del governo

I taxi del mare li ha inventati il governo. Sono le navi che porteranno avanti e indietro dall’Albania i richiedenti asilo la cui domanda è stata respinta in Italia. Tutto per dare un senso a dei centri vuoti, costruiti in tutta fretta e mai utilizzati, per i quali il governo rischia – e meriterebbe – l’accusa di danno erariale, a causa di un investimento enorme quanto insensato.

Nati per altri motivi (selezionare i migranti all’arrivo e respingere i non aventi diritto), ma fondati su basi giuridiche zoppe e malpensate, tanto che sono ancora inutilizzati, i centri in Albania verranno riconvertiti in CPR, ovvero Centri per il rimpatrio. Cambio di destinazione d’uso, insomma, per consentire un’attività diversa da quella originaria. Il tutto, al solo scopo di giustificare un investimento sbagliato, ma senza voler ammettere che l’utilità pratica fosse nulla già nella prima progettazione, quando comunque avrebbe portato a un aumento dei costi rispetto all’analisi delle pratiche in Italia. Il progetto infatti, fin dall’inizio, aveva solo due obiettivi: a) uno scopo ideologico, ovvero dire che si fa qualcosa contro gli immigrati impedendo loro di rientrare (un vecchio refrain delle forze politiche che sostengono questa maggioranza, in passato articolato in formule come ‘frontiere chiuse’ o ‘blocco navale’, non a caso non più sollevate per impossibilità tecnica, ma grazie alle quali si sono presi milioni di voti); b) uno scopo propagandistico, ovvero dare l’impressione ai cittadini di fare qualcosa, esternalizzando alcune funzioni di gestione dei flussi migratori. Il problema è che il cittadino ne esce buggerato e malconcio: perché il conto di questa inettitudine da dilettanti allo sbaraglio lo pagherà lui, e perché quanto accade è mera cosmesi. Si porteranno dei richiedenti asilo denegati, o persone soggette a provvedimento di espulsione per altri motivi, dall’Italia all’Albania, li si lascerà cuocere al sole del Mediterraneo per tutto il tempo che si vorrà, senza alcun diritto (e fino a un massimo di 18 mesi: senza alcun capo di imputazione!), per poi, se li si vorrà e potrà rimpatriare, riportarli in Italia, e se non li si potrà rimpatriare pure (a meno che non li si lasci liberi in Albania, autorità albanesi permettendo: il che significherebbe ritrovarseli alle frontiere dell’Italia lungo il corridoio balcanico o perché ritentano la traversata verso le coste del Belpaese).

Molto rumore per nulla, verrebbe da dire: e molto denaro, e molte parole inutili e azioni imbarazzanti. Senza nel frattempo aver fatto nulla per (ri-)costruire flussi di ingresso regolari, né aver firmato accordi di rimpatrio, né – ancora meno – aver attuato politiche di integrazione, per le quali i soldi investiti in Albania sarebbero stati assai meglio spesi, con maggior vantaggio per gli italiani, dato che più integrazione equivale a più sicurezza. Ma il sospetto è che non sia questo l’obiettivo reale: è solo lo slogan grazie al quale prendere i voti, ma senza implementare politiche che la producano davvero.

Doveroso, invece, e semmai tardivo, l’annunciato intervento sulle cittadinanze dei discendenti di italiani (poteva chiederla anche l’intera famiglia di un antenato emigrato centocinquantanni fa), che ne limita la possibilità di richiesta agli emigrati da due generazioni. Si blocca finalmente un’attività insensata, che sovraccaricava di lavoro ambasciate e uffici anagrafi dei comuni, per persone che nella stragrande maggioranza dei casi nemmeno sapevano l’italiano e non avevano alcuna intenzione di tornare in Italia, ma semmai intendevano usare il nuovo passaporto, che è anche comunitario, per andare altrove, in particolare negli USA, senza visto, o usufruire di cure presso il sistema sanitario nazionale: legittimo, ma non ha nulla a che fare con la presunta italianità, su cui pure si sono spesi fiumi di retorica (bipartisan, va pur detto, dato che queste leggi sono state approvate dal parlamento tutto, con pochissime eccezioni a titolo personale).

Gli espulsi sui taxi del mare, in “L’Altravoce. il Quotidiano nazionale”, 29 marzo 2025, p.13

Il costo sociale e familiare del lavoro di cura. La dura vita dei caregiver

I caregiver sono le persone che in famiglia si occupano di altre persone – bambini, malati, anziani, disabili, in generale persone non autosufficienti – e se ne prendono cura (ci sono poi quelli professionali, salariati, che esulano dal nostro discorso). Questa figura riguarda tutti, ma notoriamente coinvolge soprattutto le donne. Secondo uno studio recente della Cisl veneta sono caregiver un pensionato su due e un lavoratore su tre: sei su dieci si occupano di un genitore anziano, uno su dieci si fa carico di due persone. Più della metà ha dovuto lasciare il lavoro o lo studio, per dedicarsi a chi ne aveva bisogno. Il tema degli anziani non autosufficienti è quello più serio e grave, perché si tratta di una popolazione in velocissima crescita. Che ci costringe a parlare anche di soldi, cosa che troppo spesso si evita per eccesso di pudore. E di giustizia sociale. Inclusa quella generazionale.

La generazione attuale di anziani è quella storicamente più privilegiata. Ha lavorato sodo, certo, ma ha vissuto il boom economico, le conquiste del welfare, l’aumento della spesa per le pensioni (anche perché ha beneficiato del metodo retributivo, che commisurava la pensione al salario degli ultimi anni, anziché ai contributi versati nel corso della propria vita lavorativa). Nessuna generazione, né precedente né successiva, ha avuto tali tutele. Inoltre beneficia delle conquiste medico-sanitarie, e dunque di un aumento straordinario della durata della vita (che tuttavia non è proporzionale alla durata della vita in buona salute). Le generazioni successive, in particolare, sono quelle che, oltre a sostenere il debito accumulato per garantire quelle precedenti, oltre ad avere salari proporzionalmente più bassi, a entrare più tardi nel mercato del lavoro, a maturare pensioni mediamente inferiori a quelle dei propri genitori (perché, appunto, nel frattempo si è passati al sistema contributivo), se ne devono prendere cura per molto più tempo. E allora, sì, è un problema di giustizia generazionale. Perché la cura dei più anziani va a scapito dei loro figli – che la pagano in termini di perdita di lavoro, di reddito, di salute fisica e mentale, di prospettive di vita – e persino dei loro nipoti. Non sono poche le famiglie costrette a scegliere tra far studiare i propri figli (o far vivere loro una vita decente, anche solo pagarsi delle vacanze o qualche elemento di ben-essere in più) o prendersi cura dei propri genitori, pagare badanti, o strutture per anziani, o subire convivenze sempre più faticose e spesso senza via d’uscita, senza speranza che non sia (diciamolo, visto che molti lo pensano senza avere il coraggio di verbalizzarlo, e con terribili sensi di colpa) la morte del proprio genitore o congiunto.

Nessuno vuole abbandonare o ‘scaricare’ gli anziani, ci mancherebbe (lo siamo o lo saremo anche noi, e ne siamo consapevoli). Ed è bellissimo che da noi si coltivi un modello familiare e di cura stretto, amorevole, affettivamente denso. Ma non è giusto caricare le famiglie, che già fanno sacrifici quotidiani inenarrabili, anche di un dilemma morale insostenibile. C’è un tema di giustizia generazionale, dicevamo: di trasferimenti da una generazione all’altra (che tocca la questione dei cosiddetti diritti acquisiti, almeno delle categorie maggiormente privilegiate: dai politici ai magistrati ai giornalisti). Ma non è solo, e nemmeno soprattutto, questo: anche perché non ha alcun senso dare la ‘colpa’ alle generazioni precedenti – le cui pensioni, peraltro, spesso non sono nemmeno sufficienti a pagare le strutture o le badanti che di loro si occupano. La società ci consente di vivere più a lungo, ed è un bene. Che sia la società, non (solo) le famiglie, ad occuparsene. E anche a discutere pubblicamente quali sono i limiti di questo sostegno. Che si tratti di permanenza nelle case di cura, o del ‘modello badanti’: che quasi non esiste in altri contesti, e scarica sulla famiglia tutto il peso della cura (non solo economico: anche pratico, temporale, relazionale, persino spaziale, e financo morale).

Soprattutto, c’è un gigantesco problema di spostamento di risorse dalle rendite (che siano finanziarie, immobiliari, perché no, anche politiche) – per definizione, parassitarie, piaccia o meno – al lavoro: e il lavoro di cura ne è parte integrante, anche se quello svolto in famiglia non è salariato. Dovrebbe essere pagato in altro modo: in forme di sostegno e soprattutto in servizi, efficienti e universalmente garantiti, o garantiti almeno alle fasce più povere e meno tutelate. È questo che manca. E questa mancanza fa orrore. Descrive una società in cui l’invecchiare più a lungo – per cui crea le condizioni – diventa una condanna. Caricata sulle spalle dei diretti interessati e sulle generazioni successive.

 

Il grande prezzo della cura, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 23 marzo 2025, editoriale, pp.1-5

Una certa idea di Veneto. Il cinema di Carlo Mazzacurati

Circola in questi giorni nelle sale cinematografiche del Veneto un film-documentario, di Mario Canale e Enzo Monteleone, su “Carlo Mazzacurati. Una certa idea di cinema”, presentato all’ultimo festival di Venezia, a dieci anni dalla morte. È un’occasione preziosa, non solo per ricordare un grande regista: se esiste un cinema veneto, che oggi ha i suoi validi eredi, e anche un’immagine del Veneto nel cinema, lo si deve in gran parte a lui e ai suoi film, da “Notte italiana”, il film d’esordio, prodotto da Nanni Moretti, a “Il prete bello”, tratto dal romanzo di Parise, da “Il toro” (Leone d’argento a Venezia), a “La lingua del santo”, da “La giusta distanza” fino a “La sedia della felicità”. Per non parlare dei documentari, tutti tesi a valorizzare il meglio della storia e della cultura veneta: i ritratti di Rigoni Stern, Meneghello e Zanzotto, con Marco Paolini, il documentario “Sei Venezia” e quello dedicato al Cuamm e ai suoi Medici con l’Africa. In linguaggio politico le si chiamerebbero le eccellenze venete, se non fosse che per la politica le eccellenze venete si riducono all’enogastronomia e al mondo dell’impresa, o, più che alla conoscenza dei patrimoni dell’Unesco, alla possibilità di dichiararli tali.

L’occasione è preziosa, tuttavia, per interrogarsi sul Veneto stesso, su come è cambiato. Esiste ancora il Veneto cantato da Mazzacurati? Quella provincia sonnacchiosa ma profonda, quei paesaggi monotoni ma potentemente lirici, quella carica umana ricca di sfumature anche se spesso perdente rispetto al mondo della grande città, in cui tutto accade e si consuma, mentre nella provincia si viene solo consumati. Un mondo, anche, curioso della novità e del cambiamento, capace di produrlo, di attraversarlo, e di approfittarne, spesso senza capirlo veramente: è impressionante vedere come Mazzacurati abbia letto non solo la trasformazione culturale e antropologica dei suoi personaggi, la devastazione quasi inconsapevole del suo ambiente e del suo territorio, ma anche, con grande tempismo, la delocalizzazione che è stata tanta parte del miracolo economico del Nordest, il mondo delle migrazioni, la pluralizzazione culturale. È una domanda rilevante e per niente nostalgica, questa, da porsi: ci serve per capire chi siamo e dove stiamo andando. E se il tipo antropologico che oggi abita questo lembo di terra, rimasto marginale nonostante le qualità e capacità dei suoi attori, ha ancora la stessa dignità, la stessa profondità di sentimenti, la stessa cultura diffusa, e tocca le stesse note di umanità. E la sensazione è che forse no. Non perché manchi l’umanità un po’ dolente e un po’ divertita, disperata e pasticciona ma ricca di sentimenti e di pietas raccontata nei suoi film: anche se, certamente, la sua nicchia ecologica si rimpicciolisce di anno in anno. Ma perché manca chi sappia immedesimarsi in essa e cantarne l’epopea profondamente popolare. Il che non è solo frutto del caso, ma segno di una trasformazione profonda, drammatica, irreversibile.

Il Veneto deve tantissimo a personaggi come Mazzacurati: a sua insaputa, verrebbe da dire, tanto sono dimenticati, o non abbastanza ricordati. Non a caso a celebrarlo, nel film, c’è il meglio della cinematografia italiana che ha lavorato con lui: Stefano Accorsi, Antonio Albanese, Giuseppe Battiston, Fabrizio Bentivoglio, Roberto Citran, Paola Cortellesi, Valentina Lodovini, Valerio Mastandrea, Marco Messeri, Nanni Moretti (per il quale Mazzacurati ha fatto pure l’attore), Silvio Orlando, Marco Paolini, Isabella Ragonese, Maya Sansa (ma tra le sue collaborazioni ci sono anche Gabriele Salvatores e Daniele Luchetti, e attori come Abatantuono). A ricordarci che anche la provincia, se raccontata con amore e introspezione, può dire qualcosa del mondo più largo che si sta disegnando altrove.

 

Una certa idea di Veneto, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 5 marzo 2025, editoriale, pp. 1-7

Fine vita: l’ipocrisia della politica

Sul fine vita, e il diritto a decidere sulla propria morte, si combatte una triste battaglia. Non tra posizioni diverse, che sarebbe legittimo. Ma tra chi si assume le responsabilità del proprio lavoro – nel caso della politica, di decidere – e chi non lo fa.

La cosa più indegna è che non si tratta nemmeno di decidere su un principio, ma solo sulla tempistica della sua applicazione: certa politica conigliesca scappa persino da questo. Il principio infatti è già garantito: un paziente malato terminale ha il diritto di autosomministrarsi un farmaco letale. Si chiama suicidio assistito, e consente a chi ha una patologia irreversibile, sta vivendo sofferenze intollerabili, è totalmente dipendente da macchinari per sopravvivere (senza sarebbe già morto), ed è capace di intendere e di volere, di decidere se e quando somministrarsi il farmaco letale. Nessuna eutanasia: non sono altri a decidere. Ma una libera assunzione di responsabilità da parte dell’individuo. Si tratta solo di obbligare le strutture sanitarie a rispondere in tempi certi alle richieste dei diretti interessati (e, peraltro, possono anche rispondere di no, per fondati motivi).

Tale norma era già stata scandalosamente bocciata in consiglio regionale, con il voto decisivo anche di una consigliera del Partito Democratico, poco più di un anno fa. Eppure i sondaggi ci dicono che la società civile è in maggioranza a favore, lo è anche gran parte del centro-destra, e pure i cattolici sono divisi a metà. Anche perché – come sosteneva Giovanni Reale, filosofo cattolicissimo – chi affida alle macchine la vita delle persone non sacralizza la vita, ma la tecnica. Ecco perché dovremmo smetterla di chiamare pro vita militanti e associazioni che sono invece a favore dell’accanimento terapeutico: scelta legittima, ma molto meno valoriale di quanto amano pensare. Mentre chi è a favore del suicidio assistito non è affatto pro morte, ma a favore di una vita dignitosa, non dipendente dalle scelte altrui, consapevole che senza il progresso tecnico (non la volontà divina, o l’amore della propria famiglia) la morte sarebbe sopravvenuta già da un pezzo.

Inoltre, sono in maggioranza a favore gli ospedalieri, medici e infermieri, e molte famiglie di malati gravi e terminali. Su cui l’ignavia dei politici che si rifiutano di normare il principio scarica la responsabilità della scelta. L’ennesimo festival dell’ipocrisia, insomma, visto che poi, se agire bisogna, qualche mezzo si trova, ma sempre a rischio di essere perseguiti. La stessa ipocrisia che fa dire ai consiglieri regionali contrari che tocca al parlamento decidere. È vero: e non si contano le sollecitazioni della Corte costituzionale a legiferare. Peccato che chi non vuole farlo siano precisamente i parlamentari della stessa parte politica di coloro che dicono che allora non vogliono decidere a livello regionale. Mettetevi d’accordo con voi stessi: se volete una regolamentazione parlamentare, chiedetela ai vostri. Se accettate che non ci sia, adeguatevi al fatto che la decisione – per la quale, peraltro, siete pagati – allora spetta a voi.

Il presidente della regione Zaia ha il merito di porre anche i suoi di fronte a un dilemma che è etico ma anche politico. Volete l’autonomia? Praticatela. Decidendo, come hanno fatto anche Emilia-Romagna e, proprio in questi giorni, Toscana. Non scappando dalle decisioni. Non nascondendovi dietro all’ignavia di Roma, visto che avete la possibilità di decidere a Venezia. Invocare la sussidiarietà solo a giorni alterni, quando fa comodo ed è a costo politico zero, è uno spettacolo triste e persino volgare.

Zaia, in questo, ha il merito enorme e raro di una laica e testarda coerenza. Su questo come su altri temi etici, a cominciare dalle questioni di genere (omosessualità, transgender, ecc.). Merita rispetto, per questo: a maggior ragione, perché ha il coraggio di andare contro una parte dei suoi. In nome del principio per cui un leader non è chi segue gli umori di chi presume essere i suoi (secondo il principio per cui “je suis leur chef, il faut que je les suive”), ma chi li precede e li guida. E vedrete, finirà così. Che anche chi fa finta di dichiararsi contrario sarà contento del fatto che Zaia – con un regolamento o forse solo una circolare – gli tolga le castagne dal fuoco. Avrà mantenuto la verginità senza il bisogno di essere virtuoso. La più ipocrita delle vie d’uscita.

 

Il festival della ipocrisia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 13 febbraio 2025, editoriale, pp. 1-7

Trasformare i centri in Albania in CPR. Ma è così che si combatte l’irregolarità?

I centri per migranti in Albania funzioneranno: la premier l’aveva promesso. Ma riadattati ad altro scopo: grazie a un cambio di destinazione d’uso, per così dire. Dopo le molteplici bocciature della magistratura, il progetto di fermare i migranti lungo la strada, o appena sbarcati, dirottandoli in Albania, ha prodotto per il governo solo costi sproporzionati e scottature sul piano politico. E il sostegno dell’Europa è assai meno granitico di quanto si racconti: von der Leyen ha sì detto all’Italia di andare avanti, ma si è ben guardata dal proporre misure simili a livello di Unione, e gli altri paesi non sembrano per ora seguire il nostro paese sull’idea di esternalizzare le funzioni legate al respingimento dei richiedenti asilo e al rimpatrio dei migranti irregolari, che pure seduce molti, non solo nel centro-destra europeo.

L’ultima trovata per non far fallire il progetto nel suo complesso, assumendosi il costo politico di dover ammettere di fronte all’opinione pubblica di essersi sbagliati dall’inizio, sembra essere quella di trasformare i campi (le prigioni, di fatto) in Albania in Centri per il rimpatrio. Quelli dove stanno i migranti irregolari già individuati sul territorio italiano, in attesa di rimandarli fisicamente nel loro paese d’origine. Il problema è che anche i CPR sono una specie di terra di nessuno, che prima o poi andrà affrontata, nei suoi aspetti giuridici, e non solo. In essi sono presenti persone che non hanno commesso altro reato che quello di immigrazione clandestina: eppure le loro condizioni sono spesso peggiori di quelle delle carceri, dove stanno persone che hanno ricevuto una reale condanna, per reati ben più gravi. Non solo, i migranti in questione, spesso quasi senza tutela giuridica, pur senza alcuna condanna penale specifica, sono reclusi sine die, in strutture sovente affidate a privati senza alcuna competenza specifica. Esternalizzare questa funzione all’estero, in Albania, oltre a produrre ancora meno tutele, ne aumenterebbe i costi. L’unico vero vantaggio, esclusivamente cosmetico e politico, è che si darebbe un senso, riempiendole, a strutture per ora vuote e dispendiosissime.

La domanda vera però è la seguente: davvero tutto ciò serve a qualcosa? Certo, il problema della deterrenza rispetto agli arrivi irregolari (la ratio originaria dietro alla costruzione dei centri) è reale: tutti vorremmo che entrassero solo immigrati regolari (salvo che esiste la questione dei richiedenti asilo, che non possono esserlo per definizione). E anche quello dei rimpatri degli irregolari deve essere posto: lo stato deve avere il diritto di controllare chi entra, e anche il potere di rimandare indietro chi è sgradito – il tema del controllo dei confini è serio, e ancora troppo negletto nel mondo progressista. Il problema è che non si fa così. E che per farlo non occorre violare leggi e convenzioni, né calpestare la dignità umana (anche se sappiamo che a buona parte della pubblica opinione di ciò non importa nulla, come non importa nulla delle condizioni delle carceri), e nemmeno inventarsi provvedimenti extra-ordinari in luoghi extra-territoriali. Bisogna, invece, rovesciare le priorità della politica. Non vogliamo immigrati irregolari? L’unico modo è costruire canali regolari di ingresso: così come se vogliamo debellare l’analfabetismo l’unico modo è investire in scuole, non punire gli analfabeti. Il problema è che – stupefacentemente – continuano a non esserci, o a coprire solo una parte minima degli arrivi, e diciamo pure del fabbisogno della nostra economia e della nostra società. Mancano (o ci sono, ma non contengono le clausole fondamentali) accordi con i paesi d’origine e di transito che per prima cosa offrano flussi regolari di ingresso (tot mila l’anno per paese, ad esempio): la sola vera motivazione (anche perché gli emigranti garantiscono preziosissime rimesse) per cui i paesi interessati potrebbero essere motivati a collaborare nel trattenere i flussi irregolari e accettare i rimpatri. E come noto i click day sono una politica fallimentare, da tutti denunciata come tale, a partire dai diretti interessati (cioè i datori di lavoro, tra cui ci sono anche le famiglie), che continua a essere ripetuta solo per quella che Tolstoj chiamava la forza più grande della storia: l’inerzia – politica e burocratica.

Non è, tuttavia, solo questione di controllo dei confini. L’altro modo con cui si combatte l’irregolarità è con la regolarizzazione: quasi sempre più vantaggiosa e meno costosa dell’espulsione, anche perché dietro ci sono datori di lavoro e lavoratori motivatissimi. Noi siamo invece dentro a un sistema che non solo non regolarizza, ma produce irregolarità: per via legislativa (legge Bossi Fini, che lega il soggiorno al lavoro, per cui perdendo il secondo, anche solo temporaneamente, si perde il primo – en passant, persino Fini dice da anni che andrebbe cambiata) e amministrativa, come sa chiunque abbia passato anche solo un paio d’ore in un ufficio stranieri di una qualsiasi questura, e visto i motivi per cui non si rinnovano i permessi di soggiorno.

L’altra cosa da fare sarebbe favorire politiche di integrazione, a cominciare dalla lingua. Mentre i decreti Piantedosi hanno persino abolito l’insegnamento dell’italiano tra le spese rimborsabili nei CAS, i Centri di accoglienza straordinari, oltre ad aver sostanzialmente smantellato i SAI, gestiti dai comuni, così che ciò che era straordinario è diventato, nei numeri, ordinario. Ma questo sarebbe un discorso che merita un’attenzione specifica.

 

Centri per il rimpatrio, la cosmesi politica costa ed è controproducente, in “il Quotidiano del Sud”, 12 febbraio 2025, pp.

Trump, i dazi, i migranti e i muri

Forse è un bene questa assurda guerra dei dazi. Pre-industriale e pre-capitalistica, verrebbe da dire pre-civile, persino primitiva, nel merito. Arrogante e bullizzante nei modi. È un bene, perché è uno specchio che ci fa vedere quello che siamo diventati. E tanto più in quanto, nella forma scelta dagli Stati Uniti e da Trump (“la più stupida guerra commerciale della storia”, l’ha definita il Wall Street Journal, quotidiano dell’establishment che il presidente americano l’ha visto con simpatia), la giudichiamo, a ragione, assurda e controproducente per loro, oltre che dannosa per i nostri interessi. Mentre non è altro che una accurata descrizione delle nostre pulsioni profonde e al contempo quotidiane, che tuttavia non giudichiamo allo stesso modo: nei confronti delle quali, anzi, siamo incredibilmente autoindulgenti. E non fa che mostrare, in economia, quello che sempre più spesso diciamo – e, peggio: facciamo – nella società. Non quella degli altri: la nostra. Trump siamo noi. I dazi sono sempre più spesso il nostro modo di ragionare. In ambito sociale, culturale, politico.

Perché? Perché la logica dei dazi è esattamente la stessa che applichiamo ai muri nei confronti dei migranti – l’unica differenza rispetto ai dazi è che si tratta di un nemico anche interno (un capro espiatorio, si sarebbe detto in altri tempi), non solo esterno, e i muri non sono solo quelli materiali, alle frontiere, ma anche quelli nelle coscienze, nei ragionamenti e nelle politiche (discriminatorie) adottate. È la medesima che è alla base della chiusura aprioristica nei confronti di culture e religioni che non conosciamo, ma ci permettiamo di giudicare con stupefacente superficialità. È anche la stessa che applichiamo alle persone diverse da noi per opinione politica, orientamento di genere, ma anche lingua, colore della pelle, e persino vestiario. È ancora la medesima che ci fa dire che quello che conta è solo la nostra nazione, o la nostra regione, o il nostro comune, e chissenefrega degli altri: prima noi, chiunque sia questo noi, a prescindere dal fatto che sia più meritevole di altri – ciò che viene dato per scontato, senza bisogno di prova. Infine, è quella che ci spinge a farci solo i nostri interessi, a sparire dallo spazio pubblico e non interessarci alla cosa pubblica e ai beni comuni, non votando nemmeno più, o partecipando solo per garantire i nostri interessi e quelli della nostra bolla, della nostra lobby, classe, ceto, categoria o professione.

Trump ha solo il merito di riassumerli tutti insieme e rivendicarli platealmente, questi comportamenti. Ma non è l’unico. Trump rappresenta, per così dire, lo spirito dei tempi, e lo fa benissimo. Al punto che forse, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. Perché alle volte, anche alle società, come accade alle persone, serve un sonoro schiaffo – ideale, morale, valoriale, oltre che, come in questo caso, economico e politico – per ritrovare il senso di realtà, per accorgersi che al centro del mondo non ci siamo solo noi, che a furia di contemplare solo il proprio ombelico si perde legame sociale, che l’egoismo non salva nemmeno gli individui (o gli stati: lo vedremo presto anche negli Stati Uniti), figuriamoci le società, che la chiusura nostra produce la chiusura altrui. Che i muri, insomma, che siano materiali o immateriali, sotto forma di filo spinato o di dazi, o anche solo di opinioni, chiudono fuori – o si illudono di farlo – le nostre paure, ma finiscono per chiuderci dentro, a combattere i nostri stessi fantasmi, con sempre meno capacità e risorse, perché abbiamo appunto solo le nostre. È già successo, nella storia, e può succedere ancora, perché il vaccino contro l’imbecillità umana non è stato ancora inventato, e non lo sarà mai, e comunque ci saranno sempre dei no-vax che si rifiuteranno di assumerlo. Anzi, le nostre difese (immunitarie?) si sono, in questi anni, indebolite. Per cui, o ci svegliamo, ci guardiamo allo specchio, ci rendiamo conto di quanto siamo imbruttiti, e ne traiamo delle conseguenze, adottando delle contromisure, o ne pagheremo il prezzo.

 

I migranti, i dazi e i muri, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 5 febbraio 2025, editoriale, pp. 1-6