Il costo sociale e familiare del lavoro di cura. La dura vita dei caregiver
I caregiver sono le persone che in famiglia si occupano di altre persone – bambini, malati, anziani, disabili, in generale persone non autosufficienti – e se ne prendono cura (ci sono poi quelli professionali, salariati, che esulano dal nostro discorso). Questa figura riguarda tutti, ma notoriamente coinvolge soprattutto le donne. Secondo uno studio recente della Cisl veneta sono caregiver un pensionato su due e un lavoratore su tre: sei su dieci si occupano di un genitore anziano, uno su dieci si fa carico di due persone. Più della metà ha dovuto lasciare il lavoro o lo studio, per dedicarsi a chi ne aveva bisogno. Il tema degli anziani non autosufficienti è quello più serio e grave, perché si tratta di una popolazione in velocissima crescita. Che ci costringe a parlare anche di soldi, cosa che troppo spesso si evita per eccesso di pudore. E di giustizia sociale. Inclusa quella generazionale.
La generazione attuale di anziani è quella storicamente più privilegiata. Ha lavorato sodo, certo, ma ha vissuto il boom economico, le conquiste del welfare, l’aumento della spesa per le pensioni (anche perché ha beneficiato del metodo retributivo, che commisurava la pensione al salario degli ultimi anni, anziché ai contributi versati nel corso della propria vita lavorativa). Nessuna generazione, né precedente né successiva, ha avuto tali tutele. Inoltre beneficia delle conquiste medico-sanitarie, e dunque di un aumento straordinario della durata della vita (che tuttavia non è proporzionale alla durata della vita in buona salute). Le generazioni successive, in particolare, sono quelle che, oltre a sostenere il debito accumulato per garantire quelle precedenti, oltre ad avere salari proporzionalmente più bassi, a entrare più tardi nel mercato del lavoro, a maturare pensioni mediamente inferiori a quelle dei propri genitori (perché, appunto, nel frattempo si è passati al sistema contributivo), se ne devono prendere cura per molto più tempo. E allora, sì, è un problema di giustizia generazionale. Perché la cura dei più anziani va a scapito dei loro figli – che la pagano in termini di perdita di lavoro, di reddito, di salute fisica e mentale, di prospettive di vita – e persino dei loro nipoti. Non sono poche le famiglie costrette a scegliere tra far studiare i propri figli (o far vivere loro una vita decente, anche solo pagarsi delle vacanze o qualche elemento di ben-essere in più) o prendersi cura dei propri genitori, pagare badanti, o strutture per anziani, o subire convivenze sempre più faticose e spesso senza via d’uscita, senza speranza che non sia (diciamolo, visto che molti lo pensano senza avere il coraggio di verbalizzarlo, e con terribili sensi di colpa) la morte del proprio genitore o congiunto.
Nessuno vuole abbandonare o ‘scaricare’ gli anziani, ci mancherebbe (lo siamo o lo saremo anche noi, e ne siamo consapevoli). Ed è bellissimo che da noi si coltivi un modello familiare e di cura stretto, amorevole, affettivamente denso. Ma non è giusto caricare le famiglie, che già fanno sacrifici quotidiani inenarrabili, anche di un dilemma morale insostenibile. C’è un tema di giustizia generazionale, dicevamo: di trasferimenti da una generazione all’altra (che tocca la questione dei cosiddetti diritti acquisiti, almeno delle categorie maggiormente privilegiate: dai politici ai magistrati ai giornalisti). Ma non è solo, e nemmeno soprattutto, questo: anche perché non ha alcun senso dare la ‘colpa’ alle generazioni precedenti – le cui pensioni, peraltro, spesso non sono nemmeno sufficienti a pagare le strutture o le badanti che di loro si occupano. La società ci consente di vivere più a lungo, ed è un bene. Che sia la società, non (solo) le famiglie, ad occuparsene. E anche a discutere pubblicamente quali sono i limiti di questo sostegno. Che si tratti di permanenza nelle case di cura, o del ‘modello badanti’: che quasi non esiste in altri contesti, e scarica sulla famiglia tutto il peso della cura (non solo economico: anche pratico, temporale, relazionale, persino spaziale, e financo morale).
Soprattutto, c’è un gigantesco problema di spostamento di risorse dalle rendite (che siano finanziarie, immobiliari, perché no, anche politiche) – per definizione, parassitarie, piaccia o meno – al lavoro: e il lavoro di cura ne è parte integrante, anche se quello svolto in famiglia non è salariato. Dovrebbe essere pagato in altro modo: in forme di sostegno e soprattutto in servizi, efficienti e universalmente garantiti, o garantiti almeno alle fasce più povere e meno. È questo che manca. E questa mancanza fa orrore. Descrive una società in cui l’invecchiare più a lungo – per cui crea le condizioni – diventa una condanna. Caricata sulle spalle dei diretti interessati e sulle generazioni successive.
Il grande prezzo della cura, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 23 marzo 2025, editoriale, pp.1-5