Referendum cittadinanza: una lettura in controtendenza

Analizzo in maniera abbastanza diversa l’esito dei referendum: di uno in particolare. Credo che quelli sul lavoro fossero sbagliati (ne ho scritto qui). O meglio, al di là del merito, credo che avessero uno scopo politico, di posizionamento ideologico, di schieramento, di egemonia su un’area politica, di resa dei conti interna, anche (e anche per chi ne condivideva il contenuto). E infatti hanno ottenuto un risultato quasi plebiscitario: anomalo, forse persino problematico e preoccupante, se si fosse votato nel merito. I plebisciti sono sempre sospetti. Se è andata così, in buona parte, è perché è stato votato per le stesse ragioni politiche e di schieramento per cui è stato promosso. So che molti non vorranno riconoscersi in questa immagine: ma, di fatto, mi appare abbastanza chiaro che è stato votato perché lo promuovevano i propri partiti o la propria organizzazione sindacale – e, molto, per cercare di colpire, per via referendaria (e quindi obliqua) lo schieramento opposto, la destra. Come è molto evidente (purtroppo, anche per le sorti future della democrazia) dal posizionamento espresso negli ultimi giorni di campagna referendaria dai promotori partitici (il ridicolo autogol del “preavviso di sfratto” per il governo) – e, peggio ancora, dall’analisi post-voto, ridotta a slogan autoassolutori tutti politichesi (il confronto con i voti di Meloni).
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Il referendum sulla cittadinanza, invece, è stato votato nel merito. Per questo ha avuto un risultato diverso. Il che è un’ottima notizia: tutto il contrario della lamentatio che vedo levarsi nel campo che era favorevole al sì. È andato meglio, non peggio, degli altri referendum. Perché la gente, votando, ha detto quello che pensava nel merito. Ed è vero che molti tra quelli che non sono andati a votare stanno nel campo della destra, e quindi sono tradizionalmente più anti-immigrati: anche se trovo un errore gigantesco regalare l’intero campo dell’astensionismo allo schieramento di centro-destra (semplicemente, esiste un’altra sinistra, e un centro, molto più ampi di quello che alcuni pensano, che non si identificano con quella sinistra, quella che i referendum sul lavoro li ha voluti).
Personalmente penso, e lo pensavo già prima del voto, che l’accorpamento con i referendum sul lavoro abbia danneggiato proprio quello sulla cittadinanza: perché ha per l’appunto impedito di discuterne, di entrare nel merito, relegandolo nel cono d’ombra prodotto da ben quattro altri quesiti (gli unici che avevano un vero sostegno istituzionale, organizzativo, partitico) su argomenti minori e tecnicismi, che si sapevano essere sostenuti per ragioni di schieramento. E il “cinque sì”, così, all’ingrosso, a molti potenziali elettori non è piaciuto: alla fine l’alternativa secca tra questi cinque sì e l’astensionismo, a prescindere dal merito, ha polarizzato ulteriormente l’elettorato, spingendo proprio l’astensionismo.
I referendum veramente su questioni civili, di civiltà, sono divisivi per definizione: non producono percentuali bulgare. Il referendum sul divorzio finì 59,3% contro 40,7%. Quello sull’aborto promosso dal Movimento per la Vita, che voleva limitarne l’applicazione, 68% contro 32%. Tutto sommato, la percentuale di quello sulla cittadinanza di oggi. Certo, direte, se avessero votato gli altri, di destra, sarebbe andata peggio… Ma, appunto, non è vero che gli altri sono di destra e quindi anti-immigrati (anche questo un assunto vero solo per una parte, non per tutti, come mostrano persino le divisioni partitiche sul tema nello schieramento di governo).
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Facciamo un po’ di fantareferendum. Immaginiamo che si fosse votato sulla cittadinanza, sull’autonomia differenziata, sull’eutanasia e sulla depenalizzazione dell’uso della cannabis. Quattro referendum diversissimi: su cui moltissimi hanno sicuramente posizioni differenziate, favorevoli all’uno ma non all’altro. Si sarebbe discusso maggiormente nel merito. La scappatoia dell’astensione sarebbe probabilmente stata più rischiosa, perché alcuni referendum avrebbero agito come effetto di trascinamento anche su altri, rendendo tutt’altro che scontato (come invece era adesso) il non raggiungimento del quorum (alcuni sono interessanti per uno schieramento, altri per l’altro, alcuni per alcune fasce di popolazione e d’età, altri per altre: molti più giovani avrebbero votato, per esempio). Quale sarebbe stato il risultato, non può prevederlo nessuno. Ma non darei per scontato che quello sulla cittadinanza avrebbe perso. Tutt’altro.
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Se, poi, si modificasse, grazie a una iniziativa bipartisan oggi doverosa, il meccanismo stesso del referendum e le sue modalità (nel modo e per le ragioni che ho cercato di spiegare qui ), potremmo in futuro avere non poche sorprese. Il referendum, insomma, non è morto. È solo usato male, e quindi dà risultati discutibili. Ragione di più per migliorare la situazione. C’è margine per farlo.

A malinquorum. Qualche riflessione post-referendum

Salvo i dettagli su numeri esatti e percentuali, il referendum è finito come tutti sapevano che sarebbe finito: con il mancato raggiungimento del quorum, e la non vittoria dei sì, maggioritari tra i voti espressi ma insufficienti e dunque, in definitiva, inutili.
A questo punto qualche riflessione è d’obbligo. Sull’utilizzo del referendum, per cominciare. In un paese in cui la politica non decide nulla, nemmeno (men che meno) sui grandi principi e le battaglie valoriali – si pensi ai diritti civili, alle coppie omogenitoriali e al riconoscimento dei loro figli, al principio di autodeterminazione e al fine vita, e tante altre questioni pure sentite e discusse – è inevitabile che si debba attendere la supplenza della magistratura, o appunto i referendum. Detto questo, il suo uso è spesso più tattico – politico nel senso di politicante – che di principio. L’abbiamo visto anche in questa tornata referendaria. Se il referendum sulla cittadinanza aveva valore di battaglia civile – di allargamento, molto concreto e sostanziale, della sfera dei diritti – gli altri sono sembrati a molti più una resa di conti interna a un campo (in questo caso, al mondo della sinistra, dove alcuni erano chiamati a votare contro norme che avevano approvato in passato): un tentativo, legittimo ma obliquo, di far pesare leadership e organizzazioni in funzione di indirizzo politico e egemonia ideologica su un’area politico-elettorale. E il fatto che quattro quesiti su cinque fossero di questo tenore, e per giunta su aspetti molto tecnici e in qualche caso opinabili nelle loro conseguenze, ha di fatto oscurato e marginalizzato – e quindi danneggiato – la discussione sull’unico che aveva un vero valore civile. E forse è il momento che i promotori di referendum comincino a ragionare sugli effetti che ha il non vincerli. La situazione non rimane uguale a prima: è un sostanziale e sostanzioso passo indietro, che finisce per legittimare e rinvigorire i conservatorismi anziché le spinte innovative.
Un gigantesco interrogativo pesa anche sul mantenimento del quorum stesso. Non si capisce (o meglio si capisce benissimo, ma sono ragioni in buona parte interessate) perché alle elezioni il quorum non ci sia, e una maggioranza possa essere determinata, in linea teorica, anche con un solo votante, senza soglia minima, mentre per i referendum sì. A rigore, a voler essere coerenti con la logica della rappresentatività, se votasse solo metà del corpo elettorale dovrebbe eleggere solo la metà dei rappresentanti. In un periodo storico che conosce un calo drastico e per ora apparentemente irreversibile, in tutto l’Occidente, della partecipazione elettorale, avrebbe senso, dunque – oltre che promuovere nuove forme di partecipazione – introdurre un quorum pesato non sul numero degli elettori (il corpo elettorale nella sua interezza), ma parametrato al numero di elettori che realmente si è recato alle urne nelle elezioni precedenti, o addirittura l’abolizione del quorum stesso. Altrimenti possiamo dire addio all’istituto referendario in quanto tale: magari se ne promuoveranno tanti (con la firma elettronica la soglia di consensi necessari per presentarli è diventata molto bassa), ma non ne passerà più nemmeno uno.
Infine, una riflessione seria va fatta sulle forme stesse dell’esercizio del voto. Ma è mai possibile che nel 2025 non si sia ancora capaci di formulare dei quesiti che facciano riferimento al contenuto di ciò per cui si vota, anziché a formule giuridiche esoteriche, incomprensibili anche a un plurilaureato? È anche così che si uccide la democrazia, insieme ai timbrini sul certificato elettorale cartaceo (ma perché non basta la carta d’identità?) e alle matite copiative, e altri ridicoli rituali burocratici senza alcun senso della realtà e della storia, impensabili e persino indecenti in epoca di intelligenza artificiale. E la responsabilità è di tutti, destra sinistra e centro. Ma è mai possibile che non si sia capaci di mettere in piedi una commissione bipartisan che, copiando da quanto accade in altri paesi, faccia uscire le forme dell’esercizio della democrazia da un ottuso formalismo burocratico ottocentesco, che non tollereremmo in nessun altro settore della vita sociale, e che con certezza incide pesantemente sui livelli di comprensione e di partecipazione democratica? La forma è il contenuto, ed è incomprensibile che non lo si capisca. A meno che non sia una volontà implicita. Che non rimanda, tuttavia, alla formula gattopardesca del cambiare tutto, o almeno qualcosa, perché nulla cambi. Qui siamo più indietro: non si fa nemmeno finta di cambiare qualcosa. Prevale, semplicemente, la forza d’inerzia. La forza più grande della storia, come diceva Tolstoj. La più ingombrante e deleteria, nel nostro caso.

Senza quorum?, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 10 giugno 2025, editoriale, pp. 1-2

Eid al-Adha e macellazione islamica. Qual è veramente il problema?

Puntuale come la festa islamica dell’Eid al-Adha, che commemora il sacrificio di Abramo, celebrata in questi giorni, arriva anche la polemica intorno a essa. Che consiste nella protesta contro lo sgozzamento di agnelli e montoni per celebrare l’occasione: altrettanto rituale del rito stesso.
Ora, possiamo capire che gli animalisti si lamentino: è pur sempre un sacrificio animale. E chi gli animali non li mangia è evidente che non sia d’accordo, ed è sacrosanto che possa manifestare la propria opinione: che non è solo legittima, ma esprime un punto di vista su cui c’è molto da riflettere, anche in termini di sostenibilità del pianeta e del nostro stile di vita. Il che implicherebbe protestare in egual misura sia nei confronti di chi gli animali li uccide e li mangia per motivi religiosi, sia di chi lo fa per il puro piacere del palato, o semplicemente per abitudine e idee diverse in materia.
È quando la protesta è per così dire selettiva, che insospettisce. Come accade sempre più spesso intorno alla festività islamica, detta anche Eid al-Kabir, la festa grande. In primis perché la macellazione halal è esattamente identica, sia nelle motivazioni che nell’aspetto tecnico (lo sgozzamento dell’animale previo taglio della carotide, e il conseguente progressivo dissanguamento) alla macellazione ebraica kosher. Infatti molti di coloro che protestano, quando lo scoprono, si ritirano in buon ordine: anche perché la macellazione kosher è legale da quando esistono gli ebrei, cioè da prima che esistessero i cristiani. Com’è che proteste di fronte ai macelli che lavorano per le comunità ebraiche non ce ne sono? Se invece il problema sono gli agnelli, ricordiamo sommessamente che, in occasione della Pasqua, cristiani e laici ne fanno una strage ben più cospicua ogni anno, con numeri imparagonabili. Infine, in passato, e un po’ di nascosto anche nel presente, l’uccisione per dissanguamento era pratica abitudinaria della civiltà contadina, in particolare per il maiale, animale invece considerato impuro per ebrei e musulmani.
Torniamo all’islam. La pratica è tradizionale e diffusa. Personalmente vi ho assistito in diversi paesi musulmani, e anche da noi. L’importante è che non avvenga in privato, senza rispettare elementari norme igieniche, come occasionalmente accaduto in passato. È per questo, peraltro, che le comunità islamiche, esattamente come quelle ebraiche, hanno siglato degli accordi con i macelli, a termini di legge e nel rigoroso rispetto di tutte le normative. Aggiungiamo, peraltro, che il cibo viene condiviso anche con i poveri e gli indigenti, nella misura di un terzo, essendo un tradizionale atto di elemosina e di condivisione, appunto. Ma proprio per questo è pratica oggi spesso sostituita dal conferimento dell’equivalente del costo dell’animale in opere di carità. Infine, se il problema è la sofferenza dell’animale, ricordiamo che ci sono molti studi e opinioni di veterinari che sostengono come l’animale soffra meno, mediante il dissanguamento. Il che non dovrebbe stupire, visto che – e non è ovviamente un suggerimento – quello per dissanguamento è il modo meno doloroso che conosciamo anche per suicidarci. In più, nel caso degli animali, viene accompagnato da una benedizione: un atto di rispetto a noi ignoto, che pure apprezziamo tra i nativi americani e altre popolazioni indigene.
Parliamo del problema vero, allora, se vogliamo porlo. Che è quello dell’industrializzazione della morte animale nella modernità. Che ha una storia lunga, tutta occidentale e non religiosa: la catena di montaggio non l’ha inventata Henry Ford per le automobili, ma lo Union Stock Yard, il macello di Chicago, da cui Ford prese ispirazione.

Il macello islamico. Indignati con chi e per cosa, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 giugno 2025, editoriale, pp. 1-5

I referendum non sono tutti uguali. Perché quello sulla cittadinanza è il più importante.

Il referendum più importante è quello sulla cittadinanza. Vi spiego perché

di Stefano Allievi

https://corrieredelveneto.corriere.it/notizie/politica/25_giugno_06/il-referendum-piu-importante-e-quello-sulla-cittadinanza-vi-spiego-perche-b2ca57b1-e0ee-4a7b-aa7e-70570f470xlk.shtml

Non tutti i referendum sono uguali. Non tutti hanno lo stesso valore e lo stesso peso. E questo a prescindere dalle convinzioni di ciascuno di noi.
I cinque referendum per cui siamo chiamati a votare sono tra loro molto eterogenei, e questo rischia di avere effetti anche sulla partecipazione al voto. Quattro di essi sono sul tema del lavoro, e hanno a che fare con le forme contrattuali, i licenziamenti e gli appalti. Uno invece si occupa di cittadinanza. I primi quattro, più che avere a che fare con norme di principio, toccano aspetti tecnici. Che insieme, forse, disegnano un mondo del lavoro diverso da quello attuale (migliore o peggiore, dipende dalle opinioni che abbiamo): ma non trasformano la conformazione della società in maniera radicale. Quello sulla cittadinanza, invece, per vertendo anch’esso su un aspetto tecnico apparentemente minore, si salda con una questione di principio, di appartenenza, di identità, molto forte e molto discussa: chi ha il diritto di dirsi cittadino, chi è considerato membro a pieno titolo del patto sociale.

I testi

I testi dei quesiti sono tutti e cinque incomprensibili. E sarebbe il caso di predisporre una modifica delle norme che vincolano a una stesura meramente burocratico-formale dei quesiti (volete voi l’abolizione dell’art X della legge Y?) per favorire una scrittura dei testi basata sulla comprensibilità dei contenuti (altrimenti, come stupirsi di una sempre più scarsa partecipazione a ciò che viene impedito di capire?). Ma se i quesiti sul lavoro toccano più marginalmente la vita delle persone, quello sulla cittadinanza decide sul “diritto ad avere diritti”, come lo chiamava Hannah Arendt. Di un’idea di società, più aperta o più chiusa, più inclusiva o più escludente, perché decide chi della società è membro a pieno titolo, arrivando a incidere sulla dimensione stessa della società, presente e futura, sulla sua numerosità. In questo assomiglia più a referendum spartiacque della storia italiana, come quello sul divorzio o sull’aborto.

La cittadinanza

Cosa chiede questo referendum? Di far scendere gli anni di residenza necessari per poter avanzare la domanda di cittadinanza. È il modo migliore per arrivare a una nuova normativa? No, evidentemente. Il tema avrebbe meritato un’ampia discussione parlamentare, che avrebbe fatto salire anche la consapevolezza del paese sul tema. Ma la politica non ha voluto farla: come su tutte le questioni importanti ma divisive (e tutte le questioni importanti lo sono) preferisce abdicare al suo compito. Motivo per cui, come sulle tematiche assai sentite dei diritti civili, tocca aspettare le sentenze della Corte Costituzionale. O, appunto, i referendum.
I promotori del referendum, avendo solo la possibilità di abrogare qualcosa (la normativa italiana non contempla il referendum propositivo), hanno scelto una strada semplice: lasciare la legge così com’è (con gli attuali obblighi di reddito, di conoscenza della lingua, la fedina penale pulita, ecc.), ma ridurre i tempi, portando gli anni necessari per poter fare domanda da dieci a cinque (come in Germania, in passato il paese europeo con lo ius sanguinis più rigoroso, ma anche Francia, Olanda, Belgio, Svezia e Portogallo, mentre in Austria e Finlandia sono sei). Il problema è che in Italia non sono reali: lo stato si prende ufficialmente tre anni di tempo per rispondere, ma spesso sono di più (senza conseguenze: nessuno fa causa a uno stato che può decidere se siamo suoi membri), e quindi si arriva quasi ai dieci sostanziali (quindici, oggi).

Le conseguenze

La riduzione dei tempi non tocca solo chi può presentare la domanda (molti non lo faranno comunque, per disinteresse, o perché cittadini di paesi che non contemplano la doppia cittadinanza). L’acquisizione della cittadinanza dei genitori andrebbe a ricadere automaticamente sui figli minori (sono esclusi quindi i minori stranieri non accompagnati), intervenendo quindi sul mai approvato ius scholae: una platea potenziale di circa un milione e 300mila giovani (in realtà meno, per i motivi detti prima), per tre quarti nati in Italia, di cui un milione frequenta le nostre scuole insieme ai nostri figli. Persone che spesso si sentono cittadini. Che i loro compagni considerano loro pari. Che, se le ascoltassimo senza vederle, nemmeno ci accorgeremmo che sono di origine straniera. Ma a cui sono negati i diritti che hanno i nostri figli. E a cui restituiamo ogni giorno, per questo solo fatto, un messaggio di esclusione, di rifiuto. Un messaggio che dice: tu non sei come noi. Difficile considerarlo un incentivo all’integrazione. E quindi un vantaggio per noi, autoctoni.

Il referendum più importante è quello sulla cittadinanza. Vi spiego perché, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 6 giugno 2025

Se la politica non fa il suo mestiere. Il referendum sulla cittadinanza

Toccherebbe alla politica, intervenire. Ma la politica non lo fa: perché bisognerebbe aggiornarsi, studiare i dossier, gli effetti delle proprie scelte (o non scelte), magari arrivare a un decente compromesso tra visioni differenti. E invece è più facile e comodo ripetere i soliti quattro slogan per essere eletti, e non fare nulla – costa meno. È per questo che, sulla questione della cittadinanza per gli immigrati, si è arrivati al referendum, così come su altre questioni, come quelle bioetiche e legate ai diritti civili, tocca aspettare la Corte Costituzionale.

Su questo tema, poi, le occasioni perse sono clamorose. Non solo non è intervenuta la destra, per non dover rinnegare decenni di indiscriminata propaganda anti-immigrati, con la quale i voti li raccoglie (anche se li rinnega nei fatti: con questo governo ha decretato il più ampio decreto flussi della storia italiana, così come Berlusconi ha promosso le sanatorie più numerose, ma guai ad ammetterlo). Anche la sinistra, quando era al governo e aveva i numeri per approvare una legge (anche quelli dei sondaggi: la gente era d’accordo, e i giovani ancor più), per pavidità, ha lasciato perdere. E così è toccato inventarsi un referendum, che di necessità propone una scelta netta, anziché consentire lo spazio per una ampia discussione su una riforma, che sarebbe stata una imperdibile occasione di maturazione della pubblica opinione, su un tema di valenza storica: non meno di referendum come quelli sul divorzio o l’aborto, e assai più di quelli oggi al voto sul lavoro.

La via scelta dai promotori è semplice, intuitiva, lineare: lasciare la legge così com’è (con gli attuali obblighi di reddito, di conoscenza della lingua, la fedina penale pulita, ecc.), ma portare gli anni necessari per fare domanda da dieci a cinque (come in Germania, in passato il paese europeo con il più rigoroso ius sanguinis, Francia, Olanda, Belgio, Svezia e Portogallo: Austria e Finlandia sono a sei, mentre ne ha dieci la Spagna e a dieci vuole tornare la Gran Bretagna). Solo che in Italia non sono reali: lo stato si prende ben tre anni per rispondere, ma spesso sono di più (e quindi si arriva quasi ai dieci sostanziali), senza pagare pegno: nessuno fa causa a uno stato inadempiente quando è da quello stesso stato che dipende, letteralmente, la propria possibilità di acquisire, attraverso la pienezza dei diritti, una vita migliore.

L’acquisizione della cittadinanza dei genitori andrebbe a ricadere automaticamente sui figli minori (esclusi i minori stranieri non accompagnati), risolvendo quindi il dilemma del mai approvato ius scholae: coinvolgendo una platea potenziale di circa un milione e 300mila giovani (quella reale è inferiore perché molti genitori non faranno comunque la domanda), per tre quarti nati in Italia, di cui un milione presente nelle nostre scuole. Persone che, se le ascoltassimo senza vederle, nemmeno ci accorgeremmo che sono stranieri. E se ne ascoltassimo le aspirazioni, ci accorgeremmo che non sono più stranieri dei nostri figli, condividendo con loro aspettative e frustrazioni.

 

Cittadinanza, occasione persa per la politica, in “L’Altravoce. Quotidiano nazionale”, 3 giugno 2025, pp. 1-7

 

Ma esiste davvero la famiglia naturale? La sentenza della Corte sul riconoscimento della madre intenzionale

Non c’è niente di più culturale della definizione di natura. È per questo che suonano fuori luogo le proteste di chi dice che è contro natura riconoscere la madre intenzionale alla pari della madre biologica, nei matrimoni tra due donne – e ciò nel preminente interesse del bambino. Capiamo il dubbio, la fatica di adeguarsi a una mutata realtà: la nuova interpretazione contrasta con tanti anni di pratica sociale e culturale. Non il rifiuto di principio.

Del resto, cosa c’è di naturale nel matrimonio? Se fosse naturale, perché avrebbe così tante e diverse forme, e anche decisori? (più spesso di quello che crediamo non sono i – soli – diretti interessati, a scegliere). E cosa c’è di naturale nella monogamia? Le specie animali che la praticano sono rare tra i mammiferi, e perfino tra gli uccelli si limita a una o più stagioni riproduttive. Per non parlare della genitorialità, come sanno benissimo i genitori adottivi, le coppie ricostituite a seguito di divorzio o vedovanza, ma anche le coppie senza figli. Per non parlare, infine, della famiglia nucleare: e della forma delle coppie, oggi anche omogenitoriali, e in futuro chissà, magari plurime.

La famiglia nucleare stabile come oggi è pensata (genitori e loro figli) non solo non è naturale (non si sarebbe modificata nel tempo, se lo fosse), ma non è nemmeno più maggioritaria: la maggior parte dei matrimoni, statisticamente, finisce in divorzio, a seguito del quale ci sono tante soluzioni possibili quanta è la fantasia dei diretti interessati, anche rispetto alla gestione della prole. Per non parlare del fatto che, da che mondo e mondo, molti sono riconosciuti figli di chi non è loro genitore, e molti padri, in special modo, si credono genitori di quelli che non sono loro figli biologici. Insomma, la definizione di natura c’entra poco, e l’anagrafe ancora meno, dato che non sa (e per fortuna non può sapere) ciò che si sperimenta davvero nella realtà (cioè, nella nostra natura): si accontenta di dichiarazioni.

Grazie, allora, alla consulta, che ha riconosciuto questa evidenza. Che la politica non ha voluto riconoscere (come accade un po’ per tutti i temi bioetici) semplicemente perché non ha alcun coraggio e alcuna contezza della realtà, e palesemente nemmeno voglia di occuparsene, per cui in troppi casi va avanti per inerzie ideologiche e pregiudizi moralistici ma amorali.

Riconoscere come mamme entrambe le madri di una coppia, e aspettiamo lo stesso per i padri, non è che un’ovvietà che va incontro al complessificarsi della realtà: che sempre più spesso ci metterà di fronte a modelli di famiglia diversificati (si pensi ai genitori che si scoprono transgender dopo aver già partorito o cresciuto dei figli), e anche sempre più instabili, nella misura in cui aumenta (e aumenta inesorabilmente) la mobilità sociale e culturale, quella geografica (che non necessariamente implica che si debba spostare tutta la famiglia), e anche, banalmente, la durata della vita. Possiamo davvero immaginare che la coppia monogamica possa non subire modificazioni – e, lo diciamo con affettuosa ironia, risultare sopportabile – a seguito di una durata media della vita già oggi doppia rispetto a un secolo fa, e che potrebbe ulteriormente raddoppiare entro i prossimi cinquant’anni? Non produrrà, anche questo, una nuova conformazione delle relazioni affettive, nelle diverse fasi della vita?

Certo, questa instabilità e variabilità a molti fa paura, legittimamente. Ma non è che la conseguenza sul piano familiare di quanto sta accadendo nel mondo del lavoro, nell’aumentata mobilità geografica, persino nel mutamento religioso e a maggior ragione in quello della cultura, delle idee, dei valori: in cui cambiare opinione e comportamenti, anche a seguito dell’innovazione tecnologica (la stessa che rende oggi pensabili e possibili modi di pensare, di fare e pure di riprodursi in passato tecnicamente impossibili) è diventata più la norma che l’eccezione.

 

I nuovi modelli di famiglia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 24 maggio 2025, editoriale, pp. 1-3

Tra chiesa e moschea. Le trasformazioni del paesaggio religioso.

Nei giorni scorsi, su questo giornale, due istruttive pagine di inchiesta ci informavano, da un lato, sulla crisi della chiesa veneta, e dall’altro, sull’ennesima polemica intorno alla costruzione di una moschea. Due notizie che ci raccontano due pezzi diversi della medesima storia. Che è utile mettere in sequenza, e intorno alle quali costruire un ragionamento.

Il calo delle vocazioni sacerdotali (e di conseguenza il loro invecchiamento) non è solo un problema della chiesa cattolica, ma in essa è particolarmente visibile: circa 6000 in Veneto mezzo secolo fa, 3700 oggi, ma in calo tendenziale ulteriore e drammatico. È presente anche in altre chiese e religioni, e rappresenta la crisi di motivazione di un ruolo in quanto tale sempre meno sentito e considerato meno appagante. Ma in altre forme religiose (dai pentecostali al mondo new age) è invece ancora attrattivo e pregno di significato. Il che ci dice che la forma non è irrilevante, anche rispetto alla possibilità e alla capacità di veicolare un contenuto. Ad esso bisogna aggiungere l’abbandono della tonaca (che peraltro quasi nessuno mette più: è rimasto un modo di dire) da parte di chi prete lo è già, e se ne va via, in fondo per gli stessi motivi per cui altri non vengono più: per una crisi di senso, ma anche per desiderio d’altro (incluso l’amore e la sessualità: che altri magari vivono all’interno e di nascosto). Quello che era un mestiere una volta stimolante, di prestigio e con adeguato riconoscimento sociale, oggi è spesso, in molte sue forme, faticoso e ripetitivo, mentre la sua centralità sociale e la sua influenza sono tracollati, riducendo i preti alla meno attrattiva figura di “funzionari di Dio”, per riprendere il titolo di uno splendido libro di Eugen Drewermann, teologo e psicanalista (e oggi ex-sacerdote), che i suoi confratelli li ha avuti in terapia per una vita. E questo a dispetto dello spessore umano, spesso notevolissimo, di figure sacerdotali che in taluni casi diventano esempi di riferimento anche per il mondo laico, e preziosi costruttori di comunità. Calano anche le vocazioni di monaci e suore, e di conseguenza anche i servizi, da queste ultime in particolare, erogati, talvolta come manodopera a basso costo, nel mondo dell’educazione e dell’assistenza: anche questo un modello da mettere in discussione come tale.

A parole il rimedio sarebbe coinvolgere i laici. Ma poi, nella pratica, i parroci si tengono stretti potere decisionale e cassa, e gerarchia delle priorità, lasciando i laici, pure indispensabili nella gestione concreta, in posizione ancillare e subordinata (non vero coinvolgimento, mai alla pari, e soprattutto niente ruoli decisionali anche simbolicamente rilevanti per le donne, senza la cui presenza e il cui lavoro, pure, le parrocchie non starebbero in piedi): anche per responsabilità dei fedeli, che continuano ad avere un’idea di chiesa clericocentrica e quindi de-responsabilizzante per loro stessi.

Il ruolo del prete finisce per essere soprattutto rassicurante, in particolare per gli anziani, che oggi costituiscono la presenza maggioritaria alle funzioni: li tranquillizza che nulla è cambiato. Ma non è così, e gli altri allora non entrano nemmeno più, perché non riconoscono l’ambiente come proprio. L’effetto è il crollo della partecipazione settimanale, ormai ridotta a meno di un quinto della popolazione (molto meno, nelle città) e di conseguenza dei contributi economici, cioè a dire della fiducia.

Il Covid ha dato il colpo di grazia a un processo che sarebbe avvenuto comunque (anche perché viene da molto lontano: i primi studi sulla secolarizzazione risalgono agli anni Sessanta), ma più gradualmente. La disaffezione dei giovani è cresciuta, e la prevalenza di anziani che rispondono a una fede espressa in maniera tradizionalista, non più comprensibile per le nuove generazioni (anche nelle cose minute, come nella punitiva insistenza a mantenere gli orari delle messe al mattino in orari incompatibili per i giovani che il sabato fanno legittimamente tardi), allontanandole ulteriormente.

Gli altri dati completano il quadro. Educazione religiosa al massimo fino alla cresima, matrimoni civili in crescita esponenziale (da un decimo mezzo secolo fa a due terzi oggi: e molti di quel terzo rimasto, per motivi che spesso hanno a che fare più con l’estetica che con la fede), convivenze in aumento, nascite al di fuori del matrimonio che sono oltre la metà tra le coppie giovani, riducendo a fortiori il numero di battesimi.

Eppure la domanda di spiritualità non è diminuita, e nuove forme di religiosità si fanno strada. All’interno della chiesa cattolica e al suo esterno. Incluso nelle nuove religioni arrivate per via migratoria, di cui quella che fa più discutere è l’islam, ma che tutte testimoniano un nuovo e vivace pluralismo religioso. Esse non pongono alcun problema di concorrenza, e peraltro sono soggette alle medesime tendenze in precedenza evidenziate: solo in maniera meno visibile e più lenta. Ma a proposito dell’islam detta ancora legge, o per lo meno urla più forte, lo schema leghista della protesta a prescindere. Anche se si assiste a una maturazione altrove, incluso tra le forze politiche di centrodestra, meno disposte a farsi trascinare sul terreno di un inutile scontro, e nella società. Qui la religione, e concretamente la moschea, gioca un ruolo di integrazione, e dunque di maggiore sicurezza, come attestano anche le forze dell’ordine, mentre è il pregiudizio che ad esse si oppone che produce dis-integrazione e conflitto sociale. La discriminazione è sempre e solo riferita a musulmani e moschee, contro le quali la regione si è già prodotta in una legge discriminatoria (contro cui si sono schierate tutte le comunità religiose, dai cattolici agli ebrei) quanto inutile. Ma la moschea fa sentire i musulmani più cittadini in quanto riconosciuti anche nella loro specificità religiosa (peraltro costituzionalmente protetta, come quella di tutti) e quindi più integrati. E a chi, per giustificare la sua contrarietà, richiede prima un accordo con lo Stato, rispondiamo, per esperienza (ero membro del Consiglio per l’islam italiano, presso il Ministero dell’interno), che è lo Stato (rappresentato dagli stessi partiti che localmente invocano un accordo che nazionalmente impediscono) che non lo vuole. Le organizzazioni islamiche lo firmerebbero domani. Chiedessero dunque, nel caso, ai loro rappresentanti di darsi una mossa.

 

La chiesa e le nuove religioni, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 14 maggio 2025, editoriale, pp.1-7

Di bambini, moschee, polemiche politiche e identità reattive

La questione della visita dei bambini di una scuola cattolica a una moschea (non importano i nomi e i luoghi) ha avuto una eco molto forte, così come il nostro editoriale di ieri l’altro sul tema. Decine di condivisioni, ma anche diversi educati interventi critici dei nostri lettori. Segno che è un tema sensibile, su cui si ha voglia di discutere. Proviamo, allora, a tirare le fila delle critiche. E a rispondere, per quanto possibile nei limiti di un articolo, quando al tema ho dedicato libri interi.

Un primo livello di discussione riguarda la scelta della scuola, e la sua autonomia decisionale. Può una scuola frequentata da molti bambini musulmani fare un approfondimento, con visita guidata, su quella religione? Lo può decidere solo lei. Non i genitori: che pure, in questo caso, sono stati consultati preventivamente e hanno espresso il loro assenso. Lo stesso per l’educazione all’affettività e sessuale: si può fare solo se i genitori sono d’accordo? Sicuri? Se di educazione sul tema abbiamo bisogno, si fa, punto. E poi come si quantifica il disaccordo? Sarebbe democratico se bastasse l’opposizione di uno per ledere l’interesse di tutti? Così come non si consultano i genitori, e nemmeno la politica, sui programmi di italiano. Molti genitori pensano che la matematica non serva a niente, altri considerano pericolosa persino la biologia perché si parla di genere, ma non per questo si smette di insegnarle. Quando è stato introdotto l’obbligo scolastico, molti genitori erano contro: lo stato non interveniva con comprensione, ma mandava i carabinieri a prelevare in casa i bambini per portarli a scuola.

Le strumentalizzazioni della politica hanno le loro ragioni. Ma non hanno nulla a che fare con il merito delle questioni. La politica vive di contrapposizioni, e il consenso si costruisce meglio se hai un nemico, come insegnava Machiavelli. Se poi il nemico è una minoranza stigmatizzata (che siano gli ebrei in altre epoche, o gli immigrati, o i musulmani oggi, ma potrebbero essere i gay – o magari i conservatori o i razzisti o semplicemente quelli con un’opinione diversa dalla nostra, i presunti cattivi giudicati dai presunti buoni), si chiama capro espiatorio, e serve per acchiappare voti. Non è nobile, ma funziona, e la politica lo sa benissimo, e ne usa a man bassa. Tanto più perché le minoranze contano meno, e spesso hanno meno diritti, incluso quello di voto in questo caso, per cui non si paga pegno: si guadagnano i voti di chi è contro, senza perdere quelli dei diretti interessati. È un meccanismo che mostrano bene le identità reattive: quelle che si formano in reazione, o contro, qualcuno. Come la pletora di persone che hanno scoperto di essere cristiane da quando ci sono i musulmani: prima non se ne erano accorte. Tuttora i politici che tuonano di più di radici cristiane sono quelli che in chiesa vedete meno, e a cui il contenuto del messaggio evangelico interessa meno. Ma vale anche per altre minoranze etniche, religiose, politiche, sessuali: tanto che i conflitti più forti spesso non sono tra gruppi, ma al loro interno, a proposito degli altri.

C’è chi, nel merito, chiede di difendere i valori cattolici. Legittimo. Forse la domanda vera è se a minacciarli è il nemico che ci viene messo di fronte, l’islam, o quello che ci sta alle spalle, apparentemente nostro alleato: la secolarizzazione, l’individualismo, il consumismo e quant’altro. E se i religiosi di altre comunità non siano semmai dei potenziali alleati. Anche perché, poi, il problema vero è chi decide quali sono, i valori cattolici: per qualcuno tutto si riduce all’aborto, per altri all’accoglienza degli immigrati, mentre probabilmente le cose sono un po’ più complesse.

C’è chi ha sollevato il tema della reciprocità. Comprensibile, ma nel caso in questione mal posto, visto che è un ambiente cattolico, dove si prega e ci si fa il segno della croce con regolarità. Anche questo tema, tuttavia, è più complesso: in Marocco o in Senegal, per fare un esempio, i cattolici godono di piena libertà di culto, in Afghanistan no – dobbiamo prendercela con i marocchini che sono da noi perché gli afghani che non sono da noi non ce la danno? Anche la polemica sul fatto che i bambini in moschea si sono inginocchiati e hanno mimato il gesto della preghiera, appare fuorviante: i bambini fanno e imparano così, e cinque minuti dopo se ne sono dimenticati, ed è il loro bello, e la loro libertà, da cui avremmo molto da imparare. A scuola si fa questo. Se lo chiamiamo indottrinamento, come dovremmo chiamare l’allenatore che porta i ragazzi a tifare per la squadra che piace a lui, o l’insegnante (o il parroco, o l’assessore) che gli fa leggere un libro o li porta a teatro a vedere un autore che ha un proprio specifico punto di vista: che li indottrina, o che gli offre delle opportunità e li abitua alla pluralità dei punti di vista?

Il problema vero, alla fine, è l’islam, o meglio il nostro modo di percepirlo. Se siamo convinti che vogliono islamizzarci per via demografica, o vogliono imporci la sharia (da cui spesso sfuggono, proprio per vivere più liberi da noi), o vogliono togliere il crocifisso o il presepe dalle scuole (mai successo per iniziativa dei musulmani, che iscrivono i loro figli e ancor più figlie pure a scuole cattoliche), anche se è un sentito dire, non cambieremo idea neanche di fronte all’evidenza.

Il problema è la questione femminile? Molto giusto. Ma perché la nostra attenzione è selettiva? Perché a proposito dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina non islamiche non protestiamo? Perché se un marito o un padre pakistano è violento con la propria moglie o figlia diciamo che è colpa dell’islam, mentre se è rumeno non diamo colpa all’ortodossia, e se è italiano al cattolicesimo? E se il problema è la democrazia (problema serissimo), siamo sicuri che certi hindu, protestanti o ebrei siano più democratici? Non è un problema di modello di sviluppo, di singolo paese, di epoca storica, più che di religione? Avremmo giudicato il cattolicesimo compatibile con la democrazia, nell’Europa degli anni ’30, quando la chiesa era alleata di Mussolini, Franco, Salazar, o trent’anni fa in America Latina, quando sosteneva le peggiori dittature centro e sud americane?

Certo, nell’islam ci sono dei problemi. Il terrorismo jihadista ce lo ha insegnato (peraltro trent’anni fa il terrorismo da noi era politico, oggi nel mondo è spesso anche indipendentista, etnicista, e pure suprematista e razzista, e quando è religioso non è solo islamico). Lo combattono anche la maggioranza dei musulmani. È giusto parlarne e sollevare il problema. Per affrontarlo insieme, nell’interesse di tutti. Non per combattere i fedeli di una religione, in nome di un’altra, o forse solo di una presunzione di superiorità. Che si dovrebbe dimostrare nei fatti.

La società, le religioni, la politica, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 maggio 2025, editoriale, pp. 1-5

Scuola cattolica e visita in moschea. Il problema è l’ignoranza della politica

Di fronte all’ignoranza – nella sua accezione etimologica di mancanza di conoscenza – sono possibili due atteggiamenti. Uno è quello che potremmo definire dantesco: lasciar perdere (“non ragioniam di lor ma guarda e passa”, come si suggerisce nel canto terzo dell’Inferno a proposito “di coloro che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo”). L’altro è quello di provare a ragionare nonostante tutto, anche se l’oggetto del contendere è risibile, e non è facile. Anche perché c’è un’ignoranza per così dire pura, con cui si può interloquire (appunto perché è solo una carenza di conoscenze), e una che è mossa dalla strumentalizzazione politica contro un presunto nemico, che è facile trasformare in capro espiatorio, e che è più difficile da sradicare.

La (non) notizia di partenza è quella della visita dei bambini di una cattolicissima scuola paritaria parrocchiale a una vicina moschea, frequentata anche da molti genitori i cui figli frequentano la scuola in questione: in cui peraltro ci si fa il segno della croce prima di pranzo e spesso si recitano le preghiere in aula.

L’ignoranza ha naturalmente protestato. Ignorando, per l’appunto, che la nostra società è composta da molte diversità: per dire, oltre il dieci percento delle persone (di più, in Veneto) che vivono da noi sono immigrate. E appartengono, tra le altre cose, a minoranze religiose diverse (cattolici, musulmani, ortodossi). E che frequentarle, studiarle, includerle, rapportarcisi, è l’abc della vita sociale, oltre che del patto costituzionale. Mentre stigmatizzarle favorisce la raccolta di un facile consenso, ma non fa un buon servizio alla società.

Con i criteri dell’ignoranza non ci dovrebbero essere moschee (in effetti la regione ha approvato una legge contro, perfettamente inapplicabile, e infatti le moschee ci sono). Gli oratori non dovrebbero accogliere i bambini musulmani (una ricerca a Milano li quantificava intorno a un terzo degli utenti). Nelle scuole non se ne dovrebbe discutere e guai a fare visite di conoscenza (che peraltro, laddove davvero i musulmani fossero come li descriviamo avrebbero un effetto controproducente). E la diversità non dovrebbe essere nemmeno presa in considerazione: quindi niente visita anche alle sinagoghe, ma nemmeno alle chiese, visto che pure esse (lo ricordiamo a chi non se ne rendesse ancora conto) rappresentano oggi non una presunta maggioranza, ma solo la più grande e storicamente importante delle minoranze religiose.

Quella della chiusura alle culture altrui – incarnate in persone, in questo caso – è sempre una scelta ottusa e perdente: che non ci arricchisce, ma al contrario ci impoverisce (proviamo a immaginare se ci nutrissimo solo di letteratura, musica, cinematografia italiana, o peggio veneta, per non rischiare contaminazioni). Peraltro non ci salva nemmeno dai conflitti culturali, ma al contrario ne produce di nuovi e perfettamente inutili. Ricordiamo, en passant, che la Serenissima, cui molti degli oppositori alla visita in moschea amano nominalmente richiamarsi, aveva consentito la costruzione sul Canal Grande di un Fondaco (da funduq, parola araba ancora oggi usata per albergo) dei Turchi, inaugurato nel 1621 e durato fino al 1838, in cui era presente una moschea (anche allora, nel 1602, un anonimo cittadino veneziano promosse una petizione contro: ma perse… e oggi è il civico museo di storia naturale, che l’ignoranza potrà visitare con profitto). Che il Corano verrà dato alle stampe per la prima volta, in arabo, sempre a Venezia, nel 1537, e una sua prima traduzione seguirà dieci anni dopo (mentre la traduzione più nota e importante per la cultura europea sarà stampata a Padova nel 1698 a cura di padre Ludovico Marracci). Dobbiamo vergognarci, di questa eredità, o al contrario vantarcene? E ci sarebbe stata, se gli attori di questi processi avessero avuto la mentalità di chi non vorrebbe nemmeno far visitare una moschea? O non sarà questa la stessa radice culturale che fa rispondere molti italiani, a domanda se sarebbero disposti a utilizzare i numeri arabi, che loro no, mai, che sarebbe una vergogna, una inaccettabile sottomissione a una cultura nemica? (per sicurezza, ci teniamo a precisare che i numeri arabi sono quelli che usiamo d’abitudine …).

Persino il Mussolini cui si richiamano altri locali nemici verbali dell’islam definiva l’Italia, in un discorso del 1928, come “amica del mondo islamico e conscia delle sue funzioni di grande Potenza mussulmana”; aggiungendo nel 1938, dopo aver ricevuto in dono in Libia la ‘spada dell’islam’, a proposito delle popolazioni dell’italico impero, di voler assicurare “la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto delle leggi del Profeta” e “dimostrare la sua simpatia ai Musulmani e all’Islam del mondo intero”.

Ecco, ci sembra che le reazioni odierne di ottusa chiusura di fronte a un fatto banale siano quelle che fanno andare il Veneto sulle pagine nazionali per i motivi sbagliati. Magari è il caso di rendersene conto.

 

Bimbi e religioni. L’abc della vita sociale, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 6 maggio 2025, editoriale, pp. 1-5

L’opposizione (e la leadership) che non c’è. La risposta di Alessandra Moretti

Ho scritto alcune centinaia di editoriali su, pro o contro qualcuno o qualcosa (quasi cinquecento, solo per il “Corriere del Veneto”). Possono piacere o meno, essere condivisi o meno, ma sono analisi e opinioni. Anche quando riguardano la politica. Spesso il tema più caldo: non per i lettori, ma per coloro di cui si parla.

Ho scritto parecchi editoriali critici – come è dovere della stampa fare – sul presidente della regione, su qualche iniziativa della giunta, su altri membri della medesima, su leggi regionali che non condividevo, sui partiti della maggioranza. I media sono o dovrebbero essere delle specie di guardiani della democrazia (quando non sono – e purtroppo spesso sono – dei meri megafoni del potere). Mai il presidente della regione ha risposto (l’ha fatto, un paio di volte, l’assessore Donazzan, un’altra che non gradisce le critiche). Così come ne ho scritti di apprezzamento, quando è stato il caso: come pure è giusto fare.

Ieri ho scritto un editoriale molto critico sull’inesistenza di una leadership dell’opposizione, e sull’opposizione stessa (lo trovate qui). Raramente ho ricevuto così tante reazioni positive, in privato (messaggi su whatsapp, mail, telefonate): anche, direi soprattutto, dall’interno del principale partito di opposizione, di cui mi occupavo nel testo, e in generale da persone che all’opposizione si ritrovano, ma ne vorrebbero una diversa. Ho ricevuto anche educate ulteriori informazioni, da parte di chi ha voluto correttamente puntualizzare, senza polemica, alcune mie osservazioni. E poi ho ricevuto la lettera che trovate di seguito, che il mio giornale ha correttamente pubblicato, e che – dopo averne parlato con il direttore – abbiamo lasciato concordemente senza risposta. E’ uno sfogo, e come tale va preso. Di cui è interessante il tono complessivo di vittimismo, di autogiustificazione, e anche di sindrome da lesa maestà: come se criticare non si potesse. Come ha sintetizzato un amico, influente opinion leader, dopo aver letto questa risposta, “Questo è il problema: invece di parlare con la gente, scrivono a chi scrive di loro… soprattutto non rispondono a quelli del loro stesso partito che dietro le quinte ne dicono peste e corna”. Forse è precisamente uno dei motivi per cui l’opposizione non riesce a farsi ascoltare.

Io apprezzo questa risposta: anzi, farei volentieri un dibattito pubblico sul tema, anche con la diretta interessata. Non mi turba per nulla: amo il dibattito, che è il sale della democrazia, e come ho detto ieri al mio direttore, considero sacrosanto il diritto di replica. Non è questo, dunque, il problema. Il problema è la distanza siderale dalla realtà che da questa risposta traspare. Il non voler prendere atto che se il consenso non si aggrega, se l’informazione su ciò che si fa non passa, forse la responsabilità è dell’emittente, non del ricevente, o dell’osservatore.

Nel merito. Il Partito Democratico può fare quello che vuole, magari anche molto di bellissimo, in consiglio regionale. Se, fuori, non se ne accorge quasi nessuno, se la pubblica opinione non ne è consapevole, qualche domanda sull’efficacia del lavoro fatto (o almeno sulla capacità di comunicarlo, che è comunque parte del fare politica) me la porrei.

Capisco il sacrificio di Moretti, che ha rinunciato al seggio europeo per quello regionale, comunque sicuro, in quanto candidata presidente dell’opposizione. Diciamo che il paracadute ai più non sembrerebbe così sacrificante, punitivo e svantaggioso.

Sui supposti omaggi di chi scrive al governatore, invito semplicemente a digitare il nome di Luca Zaia sul motore di ricerca del mio sito, e vedere cosa salta fuori. E anche sul mio supposto maschilismo, o antifemminismo, che rinvio alla mittente: sia per quanto scritto in tanti anni sulla condizione femminile, sia per le tante critiche a personaggi di sesso maschile che non mi sono mai risparmiato (anche in questo stesso editoriale, peraltro). Temo sia fuori rotta.

Non commento sulla “chiara visione di quello che dovrà essere il Veneto del futuro” che ha il PD (visione che naturalmente auspico): diciamo che credo che, se fosse così evidente, qualche elettore di più se ne sarebbe accorto.

Infine. Io non denigro la politica. Dopo aver criticato molto più frequentemente, come giusto, chi governa, ho espresso qualche critica anche a chi vorrebbe governare al suo posto. E la distinzione finale tra la “pancia degli elettori” e i “nostri elettori” temo mostri, più che altro, la distanza siderale tra alcuni eletti e i potenziali elettori: che, tutti, sono dotati sia di pancia che di testa.

“Caro direttore,

le scrivo dopo aver letto l’editoriale di Stefano Allievi pubblicato ieri sul vostro Giornale, un articolo a mio avviso caratterizzato da “debolezza strutturale”, per usare le parole dello stesso Allievi nei confronti del Partito democratico.

Il vostro giornalista infatti tende etichettare “evanescente” ogni esponente dell’opposizione a Zaia degli ultimi anni, senza verificare cosa si sia invece portato a termine. Mi sarei aspettata una verifica dei fatti più accurata.

Ho letto giudizi superficiali sul lavoro dell’opposizione in consiglio regionale, quando invece il Partito democratico, guidato da Vanessa Camani, incalza quotidianamente la Giunta di centro destra su temi come sanità, trasporto pubblico locale, emergenza abitativa e gli effetti devastanti del cambiamento climatico.

Anche fuori dal Consiglio regionale ci sono colleghi del Partito democratico, per nulla evanescenti, che portano avanti gli interessi del territorio e dei cittadini a livello nazionale ed europeo. Tra questi ci sono anche io, che non sono stata “mandata” in Europa, come scritto da Allievi, ma ho raccolto la fiducia di 83mila persone nelle ultime elezioni europee del 2024, che restano una delle sfide elettorali più difficili e competitive.

Ma aggiungo: quando nel 2015 mi è stato chiesto, dall’allora Presidente del Consiglio Renzi, di candidarmi in Veneto contro Luca Zaia, mi sono dimessa dal Parlamento europeo prima ancora di sapere i risultati della competizione che poi ha visto il PD attestarsi al 22.74% (senza il Movimento Cinque stelle che, con Berti, prese l’11,88%).

Sono rimasta in consiglio regionale per oltre per quattro anni, dove mi sono impegnata, tra le altre cose, contro la riforma della sanità voluta da Zaia, riforma che ha svuotato il servizio socio sanitario veneto. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

Viene un po’ tristezza a leggere certi editoriali perché siamo ancora lì, al trito luogo comune che sa tanto di omaggio al potente governatore la cui leadership volge al termine ma il cui regno va mantenuto a tutti i costi, anche infangando il lavoro prezioso, per una democrazia sana, che fa l’opposizione e condendo il pezzo di imbarazzanti fake news. Le donne poi sono il bersaglio preferito: non sono mai stata un’assenteista, prova ne è il mio rating di presenza nelle aule parlamentari e nelle commissioni, come facilmente riscontrabile.

L’opposizione, in Veneto e in Europa, non è evanescente, infatti ogni giorno ci battiamo per fatti concreti: il reddito di libertà per le donne vittima di violenza; l’impegno per la ricerca scientifica e la medicina di genere; la lotta al cancro; la difesa delle nostre aziende contro i dazi americani; la qualità dell’aria che respiriamo o l’acqua che beviamo; per le donne vittime di stupri di guerra; perché l’Europa guidi un processo di pace.

Per le prossime elezioni regionali, il partito democratico sta costruendo un’ampia coalizione che comprenderà anche forze civiche capaci di proporre ai veneti un programma alternativo agli ultimi trent’anni di centro destra. Il Pd ha una chiara visione di quello che dovrà essere il Veneto del futuro: capace di garantire un lavoro sicuro e dignitoso, di sostenere le imprese e di proteggere il territorio e la salute.

Denigrare la politica, non è mai una buona idea. Ben vengano le critiche costruttive e l’attento lavoro dei giornalisti che ne raccontano la cronaca, ma il facile populismo che parla solo alla pancia degli elettori e non ai nostri elettori non fa bene alla democrazia.

Alessandra Moretti”