Un anno fa, Giulia Cecchettin: cosa è cambiato?

Il caso di Giulia Cecchettin è stato uno spartiacque. C’è un prima e c’è un dopo. Nel cupo orrore e nella tragicità dell’episodio di violenza, purtroppo ripetutosi così tante volte da essere banalizzato, la luce è stata il fatto che sia diventato caso esemplare – paradigmatico, se si vuole, di un paradigma che era necessario superare. E i tempi erano maturi per farlo, anche se gran parte del merito è stato della famiglia di Giulia, della sorella e del padre, della capacità che hanno avuto di gestire in pubblico un dolorosissimo fatto privato: rendendolo con dignità narrazione collettiva, e motivo di ripensamento delle dinamiche di genere, della cultura diffusa nella società. Da qui la grandissima e forse inaspettata partecipazione emotiva, la forte mobilitazione, la commossa partecipazione di tanti ai funerali, trasmessi anche – fatto non scontato per una sconosciuta – in diretta tv, i “minuti di rumore”, diventati ore e ore di incontri e assemblee, come suggerito dalla sorella Elena Cecchettin contro la debolezza del segnale del minuto di silenzio, persino l’innovazione prodotta nel vocabolario comune: il termine patriarcato, che prima era di pochi, sdoganato dai messaggi della sorella, e diventato patrimonio diffuso.

Questo, per quanto riguarda il sentimento popolare. E le istituzioni? Di tutto questo cordoglio sviscerato in pubblico, di tutto questo slancio propositivo, di questa apoteosi di buone intenzioni e determinazione affinché non accada mai più, delle molte mirabolanti parole che preannunciavano corsi, programmi, formazione permanente e quant’altro, che cosa è rimasto? Certo, c’è stata l’approvazione bipartisan del disegno di legge contro la violenza sulle donne, poche settimane dopo, sull’onda emotiva della morte di Giulia. La magistratura ha potenziato gli organici di chi si occupa di violenza di genere. Sono aumentate le denunce e le richieste di aiuto, e questo è certamente uno degli effetti positivi della risonanza mediatica del caso. Sicuramente c’è più attenzione nelle forze di polizia, e tra gli assistenti sociali, anche in termini di prevenzione, dopo alcuni casi anche clamorosi di sottovalutazione e di mancato intervento che sono stati letali per alcune vittime che pure avevano avuto il coraggio di denunciare – anche dopo il caso di Giulia Cecchettin, purtroppo.  Ma che ne è stato degli annunci del Ministro dell’istruzione e della Ministra per la famiglia e per le pari opportunità? Quali nuove procedure, progetti, programmi stabili e non episodici, per produrre il cambiamento culturale che allora tutti abbiamo giudicato essenziale? Si erano spese, allora, grandi promesse da parte di tutti: di cambiare, di fare, di educare, di migliorare il nostro ecosistema morale. Si era parlato di iniziative, di corsi, di educazione civica allargata, di coinvolgimento delle istituzioni – e della scuola in particolare – nel creare nuove attività, nuovi contenuti, che prendessero in considerazione l’educazione ai sentimenti, che contribuissero a educare in particolare la metà maschile del mondo, che il femminicidio è quella che lo pratica, in nome di una virilità, anzi, di una maschilità che abbiamo imparato a definire tossica.

Certamente è cambiato qualcosa nella mente di molti, che quello che è successo l’hanno lasciato filtrare nelle loro vite, nel loro rapporto con gli altri e soprattutto le altre, con maggiori attenzioni, con iniziative semplici, discrete, di evidenziazione del tema, di discussione. Molti insegnanti hanno oggi un’attenzione diversa, e utilizzano le occasioni che l’attualità anche interna a gruppi e classi offre per discutere di più: e il loro ruolo è centrale, dato che il problema è soprattutto culturale, e quindi eminentemente educativo. Molte famiglie fanno certamente altrettanto: per proteggere le figlie, e forse anche per prevenire il rischio che comportamenti oppressivi e violenti si ripetano tra i figli. Ma di pubblico, di generalizzato, di permanente, di diffuso, che cosa è stato proposto, fatto, attuato, applicato? Quali sono i segnali dati all’opinione pubblica che lo spartiacque del caso Cecchettin è stato davvero tale? E non parliamo di singole iniziative, alle quali peraltro ha partecipato spesso e generosamente lo stesso Gino Cecchettin. Parliamo di qualcosa di stabile, e strutturale. Diteci che c’è. Fateci sapere che non è stato invano. Chi ha contezza di progetti istituzionali non occasionali, realizzati o in corso di realizzazione, li racconti, li condivida, anche per suggerire buone pratiche a tutti noi: il dibattito pubblico e la maturazione della coscienza collettiva sono fatti anche di questo.

 

La politica batta un colpo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 ottobre 2024, editoriale, pp. 1-3

La scuola inutile. Cambiare il calendario scolastico per aiutare il turismo?

Il solo fatto che a qualcuno possa essere venuto in mente, a fronte del boom del turismo in Veneto e altrove che, a seguito del cambiamento climatico, ne sta facendo allungare la stagione, di posporre l’inizio delle scuole di qualche settimana, ci mostra quanto la scuola stessa continui a essere considerata, da una parte significativa del nostro paese, più come una specie di fastidio che come un’opportunità da cogliere e potenziare. E comunque, sempre, una variabile dipendente anziché uno dei cardini su cui costruire un nuovo modello di paese.

È un po’ come proporre quello che, in scala minore e per motivi assai meno drammatici, è successo ai tempi del Covid: quando la scuola è sempre stata la prima a chiudere e l’ultima a riaprire, essendo considerata meno essenziale di altri servizi. Con le drammatiche conseguenze che le generazioni che sono passate in mezzo a quella temperie ai tempi della loro formazione e istruzione stanno pagando adesso, in termini relazionali e cognitivi, tra bisogno di terapie psicologiche, serissime carenze in termini di contenuti che fanno sentire il loro peso negli anni successivi, e talvolta gravi disturbi della personalità.

Il fatto che la proposta, da alcuni attori economici del comparto turistico-alberghiero in particolare, venga reiterata praticamente ogni anno, dà pure l’idea che ci credono proprio, e sono convinti della bontà dell’idea, quasi fosse una geniale trovata per rendere più produttiva la loro gallina dalle uova d’oro. Peccato che vada contro gli interessi di tutti gli altri, e in particolare delle famiglie (di tutte le famiglie: anche dei loro dipendenti), che non saprebbero cosa fare con i loro figli. E questo anche se si trattasse solo di parcheggiarli: che, come noto, non dovrebbe essere la funzione principale della scuola. Il tutto per andare incontro a una maggiore presenza, per giunta, soprattutto di turisti stranieri.

Rimodulare l’anno scolastico andrebbe anche bene, intendiamoci. Ma semmai andrebbe fatto esattamente nella direzione opposta: meno vacanze, meno lunghe in estate, e piuttosto con periodi più lunghi di vacanza durante il resto dell’anno (come accade peraltro nella maggior parte dei paesi civili con cui ci confrontiamo), e scuola aperte agli studenti – e perché no, alla cittadinanza – per attività sociali, sportive e di recupero anche nelle fasce pomeridiane e durante le vacanze.

Ugualmente, andrebbe bene anche una certa capacità di adeguamento del sistema-paese ai cambiamenti in atto, con forme di flessibilità, rapidità decisionale e mutamento organizzativo, che sarebbero certo auspicabili: ma non ci sembra che sia la scuola il primo imputato di lentezza e incapacità. E semmai dovremmo rivolgerci a tante altre amministrazioni, burocrazie e politiche. E anche imprese. Agli operatori del turismo, che vantano (e lucrano su) record di presenze che continuano a crescere (non necessariamente per la loro abilità personale, ma perché nel mondo continua a crescere il numero di persone in grado di pagarsi delle vacanze), magari qualche riflessione comparativa potrebbe essere utile: sui tassi di fidelizzazione dei turisti, che probabilmente dice qualcosa sul servizio ricevuto nel corso della prima visita, o sui tassi di crescita di altre zone comparabili in altri paesi. Ciò che dovrebbe forse far riflettere invece sul bisogno di scuola e formazione, e conseguente professionalità, del comparto nel suo complesso: e sulla necessità di investire su personale ben formato, pagato di più e trattato meglio.

Semmai bisogna investire sulla scuola e l’istruzione nel suo complesso, visto che siamo un paese che investe circa un punto di PIL meno della media degli altri paesi europei, ha tassi di abbandono scolastico elevatissimi, la metà dei laureati della media europea (la metà!), e il doppio esatto di analfabetismo funzionale (il doppio! Il 30% contro il 15% dei nostri partner comunitari). Investendo, magari, anche strutturalmente. In settembre fa più caldo per tutti, e quindi anche per gli studenti. E, peraltro, fa più caldo anche in giugno, e quindi allungare il calendario scolastico in quel periodo non sarebbe una gran trovata. Magari pensare di investire, banalmente, in aria condizionata?

Dopodiché, forse, oltre che ragionare sulle opportunità turistiche del cambiamento climatico e dell’innalzamento delle temperature globali, potrebbe essere utile ragionare sui loro costi. E investire per contrastarli. Uno dei compiti in cui potrebbe essere utile un maggiore investimento sul sapere critico che propone la scuola.

 

Le richieste del turismo. Come cambiare il calendario, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 1 settembre 2024, editoriale, p.1-5

Quando il sovranismo fa male alla nazione. Su carne, insetti e altre sciocchezze

 

La sovranità alimentare rischia di essere una bella battaglia ideologica, e un boomerang pratico. Rischia infatti di ritorcersi contro la patria economia, oltre che contro la nazionale intelligenza.

Intanto: il nemico. Non c’è. Non c’è nessuna Europa che vuole obbligarci a mangiare grilli o deglutire carne sintetica. Anche perché non c’è nessun obbligo: semmai un aumento della libertà individuale e di scelta di ciascuno. Con tutte le precauzioni, etichettature e informazioni del caso, come giusto che sia, e che già l’Europa prevede, peraltro. Dietro ci sono buonissime ragioni. Perché insetti e grilli sono una risorsa di proteine abbondante e a disposizione: e peraltro fanno parte della dieta alimentare dell’uomo dall’inizio della sua storia. Ho mangiato in Africa termiti e cavallette, e non vedo una differenza di principio, e nemmeno di superiore civiltà, rispetto all’inghiottire moeche, lumache o gamberetti, francamente. Dopodiché, siamo liberi di non farlo, se non ci va. Ma anche di scegliere il cibo che più ci piace, compatibilmente con le nostre tasche, come già accade: siamo infatti i più importanti consumatori di sushi d’Europa, e i terzi per il kebab (nonostante le ordinanze sovraniste contro di esso…), pur godendo le decantate meraviglie della dieta mediterranea.

Quella contro la carne e le proteine sintetiche è una battaglia, se possibile, ancora più implausibile. Immaginiamo che, per coerenza, i sovranisti nostrani rifiutino anche le vitamine sintetiche, inghiottendo quando hanno il raffreddore solo quintalate di arance anziché comode compresse solubili in acqua (incidentalmente, anche arance, limoni e mandarini sono originari dall’estremo oriente: come faremmo se li avessimo sovranisticamente rifiutati in passato?).

La dico semplice. Il nutrimento per tutti, a prezzi abbordabili, sarebbe una svolta gigantesca nella storia dell’umanità. L’uscita dal bisogno, e letteralmente dalla fame, che ancora attanaglia molti. E non solo. La carne sintetica avrebbe (ha già) un impatto ambientale molto minore degli allevamenti intensivi (con le conseguenze devastanti che conosciamo, in termini di inquinamento, di salute, di consumo di territorio, risorse, acqua, antibiotici e altri farmaci non proprio naturali, di conseguenze più ampie sul cambiamento climatico – e magari di condizioni degli animali). L’ho assaggiata: e, francamente, non è più artificiale della maggior parte del cibo che compriamo al supermercato – che, peraltro, di naturale spesso ha molto poco (visto che siamo in periodo di Vinitaly, vale la pena ricordare che la viticoltura è la più grande consumatrice di chimica dell’agroalimentare europeo). Non solo: impedirne la produzione in Italia, vantando la primazia mondiale del divieto, mentre il mondo va nella direzione opposta, significa danneggiare le imprese italiane che già lavorano nel settore – altri andranno avanti nella ricerca, nella produzione e nella vendita e faranno profitti, noi contempleremo sovranamente il nostro ombelico impoverito. Salvo importare prodotti altrui, quando ci servirà.

Semmai, immagino altri scenari, legati a diseguaglianze fattuali più che a vaghi principi ideali. È solo questione di poco perché vi sia un ordinario doppio mercato, due filiere parallele: la carne artificiale per i più, nel consumo ordinario, da grande distribuzione, casalingo, e quella ‘vera’, più cara, per le occasioni speciali, magari al ristorante. Un po’ come già oggi sono separate la filiera del cibo ordinario e di quello biologico, o del pesce allevato e quello pescato. Il mercato del lusso e quello della gente comune. Sapendo che già oggi la chimica, tra additivi, integratori e quant’altro, è quella che rende i nostri anziani più restii ad abbandonare questa terra – e noi tutti più longevi. Immaginiamo che i sovranisti alimentari, coerentemente, non ne facciano uso.

Dopodiché, tutto ciò non è in contraddizione con la doverosa valorizzazione dei prodotti del territorio, il km zero, la biodiversità, la sostenibilità, la lotta per un consumo equo, per un pagamento giusto dei lavoratori della terra, la promozione dei sistemi locali del cibo, l’agricoltura familiare, la pesca e l’allevamento tradizionali (che non hanno nulla a che fare con gli allevamenti intensivi di carne pur nostrana, tuttavia).

Sono due binari paralleli, che vanno percorsi entrambi. E lo si può fare. Anche importando costumi e prodotti altrui integrandoli nella nostra cultura. L’abbiamo sempre fatto, del resto. Il pomodoro è peruviano, la melanzana indiana, il peperoncino della Guyana, il mais messicano, il riso arabo, il pesco cinese, la patata americana, come il tabacco – e potremmo continuare. Oggi li produciamo noi, come il kiwi di cui siamo il maggiore produttore al mondo. Non credo che ne faremmo volentieri a meno, in nome di una discutibile dieta sovranista.

 

No alla sovranità alimentare, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 31 marzo 2023, editoriale p.1

Come non capire i giovani. La politica che diventa farsa su Tik Tok

Tutti su Tik Tok. Con sei anni di ritardo sulla sua invenzione (a dimostrazione del loro tempismo), quando già ha raggiunto in Italia il tetto di una decina di milioni di iscritti, i politici italiani scoprono improvvisamente il social network cinese su cui si possono caricare brevi video, che, si dice, spopola tra i giovani. E in una settimana o giù di lì aprono tutti (tutti quelli che già non ce l’avevano) il loro account: con l’idea di raggiungere i giovani dove stanno, ovvero nei social network per loro più interessanti (Facebook di iscritti in Italia ne ha 35 milioni, ma è roba da boomer; Twitter 11 milioni ma è una bolla di adulti che si presumono addetti ai lavori della politica).

Il problema è come i nostri politici si rivolgono ai giovani. Fondamentalmente, prendendoli per scemi (o scambiandoli in blocco per pre-adolescenti ottusi con meno neuroni di un’ameba), ci vanno con contenuti pseudo-spiritosi, triviali, perfino imbarazzanti (per chi li pubblica), finendo per farsi prendere in giro e allontanando ulteriormente i giovani dalla politica. Del resto, assistendo a questi preclari esempi di comunicazione, non potrebbero certo prendere la politica per una cosa seria. E così, la nuova riserva di caccia al voto dell’elettorato giovanile, come noto meno attivo e presente di quello adulto (in cifra assoluta, perché sono pochi; ma anche in percentuale, perché votano meno), illusoriamente attivata nel tentativo di riconquistare voti o addirittura motivare militanza, si risolve in una ridicola eterogenesi dei fini. Il politico che affannosamente corre all’inseguimento del presunto giovane, di cui ha un’immagine tutta sua, rincorrendo l’astensionismo giovanile per riportarlo nell’urna, finisce così per produrre astensionismo ulteriore.

Tra l’altro, ci sarebbe da riflettere su questa bulimia da social dei politici. Non solo per il narcisismo di cui è segno: che, certo, è figlio dell’epoca. Ma anche per il desiderio nemmeno nascosto di essere presenti solo laddove non c’è possibilità di interlocuzione vera, ma solo di messaggio a senso unico, senza possibilità di confronto e ancor meno di contraddittorio (mostrando di usare i nuovi social media come fossero i vecchi mass media unidirezionali con cui sono cresciuti loro). Non a caso quasi nessuno si incarica di rispondere ai commenti: postano il loro contenuto (il cui specifico, spesso, non è di dire qualcosa di minimamente significativo, ma solo di esserci), e poi lasciano a scannarsi le rispettive tifoserie.

Che poi lo scopo sia solo e del tutto strumentale (ma, purtroppo per loro, si vede), lo dimostra il fatto che nei social dei giovani non si propongono contenuti (anche politici: proposte, programmi) che li possano riguardare. Se infatti questi sono tutti a base di favori ai pensionati o ai lavoratori adulti (tipo quota 41), e comunque tutti implicano colossali sfondamenti – più che scostamenti – di bilancio, che non farebbero che produrre ulteriore debito che a pagare saranno precisamente i giovani, peraltro destinati in larga misura a non beneficiare delle misure proposte, hai voglia a rivolgerti a loro sperando di sedurli con un sorriso impacciato, di blandirli con una caramella semiotica o di farli ridere con una barzelletta (peraltro, tutto molto old style).

Oltre tutto i giovani non sono come li immaginiamo o li immagino i politici: bisognosi solo di cibo intellettuale premasticato. Al contrario, quello, come noto, è più utile agli anziani. Contrariamente a quello che si pensa, i giovani non sono affatto come li descriviamo. Leggono di più degli adulti: anche libri. Viaggiano di più. È la generazione con il più alto livello di istruzione che si sia mai avuta. Quella con la maggiore frequentazione con lettura e scrittura. Sono gli anziani, quelli la cui dieta informativa è spesso basata su un unico medium, la televisione, i più esposti a messaggi ipersemplificanti.

I giovani sono figli della complessità. Per loro i social sono piattaforme come tante, e non ne frequentano una sola, ma molte, in contemporanea, per soddisfare bisogni o sviluppare interessi ed esigenze diverse: sociali e relazionali, di comunicazione e discussione, culturali e di ricerca di informazioni, di puro divertimento. Per questo diffidano della politica che gli propongono. Non è qualunquismo. In vena di provocazione, mi azzarderei perfino a definirlo, al contrario, un ben fondato senso di superiorità rispetto al mondo adulto. Che ci ha portato dove ci ha portato. E per provare a far dimenticare i suoi guasti si diverte, come uno scemo, su Tik Tok.

 

La politica che (non) fa Tik Tok, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 6 settembre 2022, editoriale, p.1

Urbino. All’inaugurazione dell’anno accademico, imprevedibilmente, fa capolino un libro…

 CORRIERE ADRIATICO

Cipolletta all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università di Urbino:
«Innovazione dalla pandemia»

 

Mercoledì 20 Ottobre 2021 di Eugenio Gulini

URBINO – Con la sollecitazione “They call us dreamers but we are the ones who never sleeps” (“Ci chiamano sognatori ma siamo quelli che non dormono mai”) si è aperto ieri, al Teatro Sanzio, l’anno accademico 2021 – 2022 dell’università Carlo Bo di Urbino al 516esimo anno dalla fondazione. Ospite d’onore, con la sua personale lectio magistralis, Innocenzo Cipolletta. Il tema dello statistico ed economista, già direttore generale di Confindustria, era attualissimo e a lui molto caro: “La fatica di innovare”.

La ripartenza
Prima di lui il rettore Giorgio Calcagnini si è rivolto agli studenti con «l’augurio che ci si possa avviare verso una normalizzazione che consenta di accogliervi in aule confortevoli piuttosto che in un dialogo a distanza che, pur utile in determinate circostanze, è sicuramente meno rispondente alla mission di una Università come luogo di relazioni. Il nostro obiettivo prefigura una speranza: ripartenza. Forniti di una consapevolezza nuova, di nuove precauzioni, di nuove forme di socialità, dobbiamo essere pronti, con progetti sostenibili, a ripartire per nuove destinazioni, facendo emergere le difformità dei contesti in cui viviamo, annullando le distanze culturali e sanando le disuguaglianze sociali ed economiche. Magari, in questo viaggio, saremo ancora costretti ad esibire un passaporto sanitario piuttosto che uno anagrafico – ha concluso Calcagnini – ma sicuramente, per esemplificare il titolo di un recente e fortunato saggio del sociologo Stefano Allievi , “torneremo a percorrere le strade del mondo”».

Il personale amministrativo
Alessandro Gambarara, in rappresentanza del personale tecnico amministrativo, ha evidenziato come quest’ultimo «è sempre stato ed è tuttora in prima linea per profondere le proprie capacità per un proficuo funzionamento dell’istituzione universitaria, rappresentando un collante fondamentale tra docenti e studenti per tornare a vivere, in condivisione, gli spazi e le attività». Federica Titas, presidente del Consiglio degli studenti, ha auspicato «che si rafforzi sempre più l’attenzione dei docenti nei nostri riguardi, essendo noi l’anima di questa città. E, nel contempo, vorrei dai miei colleghi una maggiore partecipazione alla vita universitaria e cittadina, che è molto più dinamica di quel che ci si immagina».

Il progresso tecnologico
Infine Innocenzo Cipolletta con una risposta alla domanda “dove andremo”: «Un mondo aperto, collaborativo, retto da regole condivise, inclusivo e attento ai più deboli, ma favorevole al progresso tecnologico e sociale è la risposta ai molti quesiti che stanno sorgendo a fronte dei cambiamenti sociali e climatici che caratterizzano la nostra epoca. Sta a noi, anche a noi contribuire a costruirlo, se sapremo guardare con spirito aperto ai grandi cambiamenti che ci attendono e se sapremo volgerli a vantaggio di tutti, senza rimanere centrati sui nostri interessi di breve termine e senza cedere alla paura del nuovo e di ciò che ci è straniero».

I costi e la fatica
«Non sono un accademico di professione pur avendo svolto attività didattica per alcuni periodi – così ha esordito Innocenzo Cipolletta – Ho passato gran parte della mia vita ad osservare l’economia partendo dai numeri. In effetti, sono uno statistico che ha iniziato a lavorare sulla congiuntura economica, ossia studiando come evolve l’economia nel breve termine. Ma avendola osservata ormai per quasi 60 anni, alla fine ho finito per avere sotto gli occhi una storia lunga, di evoluzioni e di cambiamenti previsti e non previsti. La pandemia che ci ha colpiti ha generato un processo di reazione che spinge verso nuovi e più profondi cambiamenti. Investire nell’innovazione rappresenta la via principale per crescere. Ma l’investimento nell’innovazione è costoso e faticoso».

 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Femminicidi: il lavoro culturale da fare sui maschi

Se è uno, è un fatto isolato, una notizia, che merita un commento. Se sono una sequenza, ripetuta nel tempo, sono un fatto sociale, che merita un’inchiesta e un approfondimento. Se sono uno stillicidio (oltre 70 da inizio anno, secondo i dati del Viminale, di cui più di 50 per mano del partner o dell’ex-partner), diventano un allarme civile, che pretende un esame di coscienza approfondito. Stiamo parlando dei femminicidi, naturalmente.

Contrariamente a quello che molti pensano, non sono in aumento: al contrario, sono in progressivo ma costante calo, così come gli omicidi. Ma stridono ogni giorno di più con il cambiamento sociale, prendono a pugni una realtà che vorrebbe evolversi nella direzione opposta. Per questo, oltre che per il fatto in sé, fanno sempre più male, e se ne parla di più, con più rabbia, pretendendo con più forza giustizia. E giustizia va fatta. Non solo risarcendo – almeno con le sentenze – le vittime e i loro familiari, quando ormai è troppo tardi. E nemmeno solo proteggendo con maggiore efficacia le vittime potenziali, troppo spesso abbandonate alla mercé degli stalker. Ma discutendo, prevenendo, combattendo su questo tema una battaglia culturale profonda: perché di questo si tratta – di incrostazioni culturali, di assunzioni di ruolo perverse, di meccanismi di potere non affrontati e mal gestiti. Anche quando al femminicidio non si arriva. È un problema di rapporti tra uomini e donne: la base della società. Che ha bisogno di una seria manutenzione straordinaria: e dunque di un dibattito pubblico aperto e onesto.

I cambiamenti nei ruoli femminili, l’indipendenza, l’autonomia, misurate nella scuola (dove le donne riescono meglio degli uomini), conquistate lentamente nel mercato del lavoro, ma ancora faticosamente affrontate nella sfera privata, sono non la causa, ma il segno visibile di una rimessa in discussione dei ruoli di potere tradizionali, maschili. La causa sono gli uomini: è tra loro che bisogno individuare il problema e le sue possibili soluzioni. La violenza del caso individuale, come la logica del branco nel caso dello stupro, hanno origini profonde e lontane: nel maschilismo volgare dei dialoghi a proposito di donne tra amici, a scuola, al bar, al lavoro e negli spogliatoi, nel modo di atteggiarsi, nella complicità quasi omertosa rispetto alle sopraffazioni anche piccole, nella mancanza di critica e di dissociazione interna.

Occorre una ecologia del linguaggio all’altezza del tema. Inaccettabile sentire ancora parlare di amore malato, di gelosia. L’amore non c’entra niente, il potere moltissimo. Ancora più grave la derubricazione al gesto di follia, al raptus: quando tutto è premeditato in maniera minuziosa, fin da quando si decide di mettersi un’arma in tasca per andare a un appuntamento. Eppure lo si sente ancora: in bocca ai giudici e nelle sentenze, dove naturalmente è più grave, sui giornali e tra i cittadini comuni, magari i vicini chiamati a dire la loro davanti a una telecamera.

C’entra uno squilibrio di genere ancora troppo accentuato nelle professioni: troppi maschi tra giudici, poliziotti e giornalisti – che non hanno maturato loro stessi una consapevolezza di ciò di cui parlano. Lo dimostrano le frange negazioniste, ancora molto presenti: quelli che dicono che il femminicidio non esiste, o è fortemente esagerato. Probabilmente, se esistesse un fenomeno a parti invertite, della stessa entità, se fossero i maschi a morire di maschicidio, vittime delle loro partner, se ne parlerebbe molto di più.

C’è dunque un problema di educazione al genere, e di educazione ai sentimenti, all’amore in primo luogo, molto più urgente dell’educazione sessuale o della generica accettazione della diversità. Che spetta alla società, e alla scuola, affrontare. Prima ancora che alla famiglia, essa stessa invischiata più fortemente in ruoli tradizionali, malamente messi in discussione. E ci vuole personale specializzato per farlo: che racconti le trasformazioni della sessualità e della famiglia, la possibilità di fare esperienze e quindi di scegliere, di dire dei no. Che bisogna imparare ad accettare, e a gestire. Il nuovo cameratismo tra sessi che vediamo nei più giovani, la maggiore accettazione della diversità, non solo di orientamento sessuale, la messa in questione dei ruoli, sono il segnale incoraggiante che le cose possono cambiare. Ma se ne riconosciamo l’importanza, non possiamo lasciare a sé stessi questi processi.

 

La battaglia culturale che serve, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 17 settembre 2021, editoriale, p.1

I prof contro il green pass: sull’appello dei trecento

Il comico americano John Oliver, in una puntata di qualche anno fa del suo show Last Week Tonight, per mostrare le storture mediatiche del dibattito sul cambiamento climatico – che spesso vedeva intervistati un interlocutore a favore e uno che lo negava – ha inscenato una rappresentazione realistica del dibattito. E poiché oltre il 99% degli scienziati sostiene che il processo stia avvenendo e sia causato dall’uomo, ha riempito lo studio di 99 camici bianchi a favore, e uno contro.

Ci piacerebbe che fosse così anche per il dibattito sui vaccini, ma purtroppo i media continuano a riprodurre la stessa logica. Per cui le posizioni antivacciniste, o contrarie alle misure prese per contrastare la diffusione del Covid, ricevono inevitabilmente un’attenzione spropositata. È avvenuto per le manifestazioni no vax davanti alle stazioni, in cui il numero di manifestanti era largamente inferiore a quello di giornalisti e poliziotti (a Padova due persone, tra cui un ex docente del Bo oggi in pensione). Sta avvenendo per gli appelli e i manifesti contro il green pass in università (ma vale anche altrove): come attesta il rumore che sta facendo l’appello dei 300 docenti (su oltre 64.000 professori e ricercatori, esclusi i docenti a contratto: lo 0,46%), e in scala locale i suoi firmatari dell’università in cui insegno, il Bo (17, di cui 10 di ruolo, su quasi 2300: lo 0,43%).

Certo, tra i docenti critici ci sono nomi famosi, come quelli di Cacciari e Barbero. Peccato che la lista dei nomi famosi favorevoli al green pass sarebbe lunga molte pagine, se venisse stilata, ma semplicemente non compare. E forse è anche sorprendente che le voci critiche vengano da una categoria che al momento in cui è stata vaccinata – tra le prime, per indubbio privilegio, nonostante i rischi più modesti corsi rispetto ad altre professioni – pare non aver alzato la voce con la stessa foga contro la corsia preferenziale accordatale. Anzi, in molti abbiamo comunicato della nostra vaccinazione via social, proprio come incentivo anche per gli altri a vaccinarsi.

Quando l’università ha non solo subìto, ma richiesto l’obbligatorietà del green pass, ha fatto una scelta coerente con la sua vocazione scientifica: a molti rifiutare la logica del vaccino apparirebbe altrettanto folcloristico quanto un astrofisico che fosse contrario alla gravità. E infatti non è contro di esso che si scagliano i docenti di cui parliamo, che si limitano a contestare l’obbligatorietà del documento che lo attesta. Che però è coerente con un altro principio, che è quello della tutela della salute pubblica. Suona pretestuoso criticare l’obbligo del green pass per poi accusare di ipocrisia (come fa Barbero, tra gli altri) il decisore pubblico perché non ha il coraggio di imporre direttamente l’obbligatorietà del vaccino. Poiché il green pass è un passo significativo in quella direzione, basterebbe che si ottemperasse al primo per evitare il secondo, che ha implicazioni maggiori, anche al di là della sfera lavorativa, conculcando maggiormente le libertà personali (per non parlare della maggiore complessità politica dell’imposizione del secondo, che i firmatari fanno finta di ignorare). Sembra di sentire il disco rotto di quelli – ci sono sempre – contrari a una riforma in nome di una riforma più radicale, secondo loro facilissima da approvare, e che puntualmente non si farà mai (e contro la quale probabilmente protesterebbero).

Peraltro, poiché come noto la libertà individuale non è assoluta, ma limitata da quella altrui (ci si ricordi delle discussioni sul divieto di fumo, poi accettato e introiettato come misura persino banale di civiltà), stupisce che nell’appello si parli per l’appunto solo della libertà dei non vaccinati, e non di quella altrui (e senza mezza riga di considerazione sulla vaccinazione come atto altruistico di costruzione del bene comune, per evitare non solo di infettare gli altri, ma anche di costringerli a lockdown o didattiche a distanza). E suona semplicemente vergognoso, tanto è implausibile (tanto più da parte di un docente di storia), il richiamo a “precedenti storici che mai avremmo voluto ripercorrere”, peraltro senza nemmeno il coraggio di nominarli per la fondatissima paura di sprofondare nel ridicolo. La parola stessa scelta per rifiutare l’obbligo – discriminazione, con cui si conclude il testo  – ha un suono, in questo quadro, contraddittorio e fastidiosamente unilaterale.

L’unica cosa condivisibile dell’appello è l’auspicio dell’avvio di un serio dibattito sul tema. È vero: c’è molto da discutere, intorno alla vicenda della pandemia e delle misure prese per contrastarla. Ci pare che l’appello non sia propriamente la base migliore per avviare la discussione, ma siamo certi che si troveranno altri modi.

 

L’ipocrisia corre in ateneo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 9 settembre 2021, editoriali, p. 1

L’ipocrisia dei prof no pass, in “Corriere di Bologna”, id.

Afghanistan: quel che possiamo fare

L’avventura afghana è finita male, malissimo. Per l’Afghanistan, in primo luogo. E per l’Occidente, che nonostante il tempo impiegato, il cospicuo investimento economico e militare, e nel nostro caso il dignitoso comportamento del contingente italiano, che ha contato i suoi eroi e le sue vittime, vedrà purtroppo crollare la sua credibilità sul piano geopolitico e su quello morale.

È una sconfitta, inutile girarci intorno. C’è un solo modo per salvare il salvabile della nostra dignità, della nostra coscienza, delle ragioni dichiarate della nostra presenza lì: aiutare gli afghani. Per l’Afghanistan come stato non possiamo fare più nulla, almeno nell’immediato. Ma per i singoli cittadini di quel martoriato paese possiamo fare ancora molto.

La prima cosa è far entrare in Italia tutti quelli che hanno collaborato a vario titolo con il contingente italiano, hanno fatto da interpreti ai nostri giornalisti, hanno lavorato con le nostre ONG, e i parenti a rischio di chi è già qui, integrato da noi (come avvenuto nel caso di Zahra Ahmedi, che ha raggiunto il fratello ristoratore a Venezia – e, non ne dubitiamo, si integrerà benissimo – grazie a una mobilitazione e a una solidarietà corale, dal presidente della regione Zaia in giù). Lo abbiamo promesso, e dobbiamo agire di conseguenza, e in fretta: come già si è cominciato encomiabilmente a fare. Di conseguenza occorre sospendere la richiesta dei visti d’ingresso, e implementare il ponte aereo già attivato.

Più in generale, occorre aprire corridoi umanitari mirati, in particolare per le categorie più a rischio: giovani donne, minoranze etniche, attivisti e attiviste. Chi ne ha già esperienza (Sant’Egidio, la chiesa cattolica e quella valdese) si è detto pronto ad agire: dietro di loro c’è un tessuto di volontariato e società civile attivo ed efficiente, che ha già dato ottima prova di sé per le altre persone arrivate in questo modo, meglio e più velocemente integrate di coloro che passano per gli ex-Sprar, e a costo zero per lo stato. Le organizzazioni islamiche in Italia sono pronte a collaborare aggiungendo la loro rete di solidarietà. Si tratta di riprendere idealmente quanto fatto in passato per i boat people vietnamiti, con numeri più ampi (allora, poco più di quarantadue anni fa, furono 907 i profughi salvati dalla Marina Militare, mandata appositamente nelle acque del golfo del Siam), ma comunque sostenibili. L’ANCI (l’associazione dei comuni), e molti sindaci di diverso colore politico, si sono già detti disponibili ad attivarsi, ed è un segnale che va colto: le regioni potrebbero e dovrebbero agire per semplificare loro la vita, aggiungendo risorse proprie. Reti di famiglie, associazioni e ONG sono pronte a mettersi a disposizione per collaborare, con ospitalità, raccolte fondi, corsi di lingua, inclusione in attività associative, ecc. Si tratta di agevolare la gestione di queste iniziative, più che di attivarle.

Per quelli che sono già qui, ci sono poche precise cose da fare: sospendere l’esame delle richieste di asilo pendenti nelle commissioni, approvandole in blocco. E sospendere le espulsioni dei richiedenti asilo afghani non riconosciuti come tali. Anche per loro, famiglie e associazionismo, organizzati, potrebbe dare una grossa mano. Ma c’è spazio anche per altri attori sociali. Le università, che già attivano progetti di accoglienza di studenti rifugiati, possono lanciare un piano straordinario di ospitalità di studenti e studentesse, e anche di docenti, provenienti dall’Afghanistan: il modo migliore per combattere la guerra nel solo modo efficace – con l’istruzione, per ragazzi e ragazze, invece che con le armi. Fondazioni bancarie e mondo delle imprese potrebbero fare la loro parte, in maniera mirata, nel sostenere tali iniziative.

Infine, occorrerà continuare a sostenere i cooperanti e le associazioni italiane presenti nel paese, tra cui gli ospedali di Emergency, e chi lavora nel campo dell’istruzione e dell’empowerment femminile, almeno finché potranno svolgere il proprio ruolo, che oltre a essere prezioso in sé, se non altro riverbera un’immagine positiva dell’Occidente: la migliore diplomazia.

Non spenderemo più soldi in una opinabile missione di pace (solo la parola, peace enforcing, contiene una contraddizione patente). Sarebbe un segnale di maturità dirottarli per attività, come quelle descritte, che la pace aiutano davvero a costruirla.

 

Che cosa possiamo fare noi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 20 agosto 2021, editoriale, p. 1

Il ruolo educativo di Gino Strada e di Emergency

Catania, incontro nazionale di EMERGENCY, 2019: decine di eventi, centinaia di volontari, migliaia di giovani. L’organizzazione compiva allora 25 anni, ed era al suo 18° incontro nazionale. Poco più che maggiorenne, insomma.
C’è anche questo nella storia di Gino Strada e di Emergency: l’elemento educativo. Non era e non è ‘solo’ (solo?) questione di aiutare chi ha avuto meno privilegi non giustificati da nulla, di salvare – molto concretamente e materialmente – vite umane ferite, non solo nel corpo. È stato ed è anche questione di coinvolgere persone e personaggi, di creare consapevolezza, di motivare azioni e collaborazioni, di far maturare solidarietà collettive.
In questo il carisma di Gino Strada, il suo ‘estremismo’ costruttivo, il suo essere forse suo malgrado personaggio ‘pop’, anche se preferiva di gran lunga tornare in sala operatoria, hanno aiutato molti, proprio sul piano educativo, della maturazione, del convincimento, del cambiamento anche interiore.
In un mondo che ha un disperato bisogno di simboli positivi, di esempi, di eroi anche, Gino Strada ha giocato questo ruolo: soprattutto in ambienti dove forse era meno usuale – dove c’era magari tanta disponibilità umana ma poche occasioni per esercitarla concretamente. E lo ha giocato perché non è stato solo un individuo più in gamba di altri, ma ha fatto nascere un’organizzazione, un marchio del bene se si vuole, un brand positivo, che ha consentito a tanti di sentirsi coinvolti e di coinvolgersi. Che è uno dei ruoli fondamentali dell’educazione propriamente intesa.

Torneremo a percorrere le strade del mondo – Recensione Marino Niola

robinson-recensione

Robinson – supplemento Repubblica, 19 giugno 2021, pp.14-15

 

https://www.utetlibri.it/libri/torneremo-a-percorrere-le-strade-del-mondo/