L’Italia tra demografia e migrazioni. Dialoghi Mediterranei
https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/litalia-tra-demografia-e-migrazioni/
L’Italia tra demografia e migrazioni
di Stefano Allievi, Daniela Melfa
Il testo riprende e amplia la conversazione intercorsa tra Stefano Allievi, autore del volume Governare le migrazioni. Si deve, si può (Laterza, 2023), e Daniela Melfa nel quadro di Presente Alternativo VIII edizione del Festival 38° parallelo, svoltosi a Marsala dal 16 al 18 maggio 2024 con la direzione artistica di Giuseppe Prode. L’incontro si è svolto presso le Cantine “Vite ad Ovest” il 17 maggio 2024 in presenza delle studentesse del Liceo statale Pascasino di Marsala.
Daniela Melfa. Grazie dell’invito e dell’occasione di conversare con Stefano Allievi, autorevole sociologo delle religioni, dell’islam, delle migrazioni. Questa conversazione mi è particolarmente gradita anche perché mi consente di ritornare su interessi di ricerca coltivati da giovane laureanda e neolaureata (l’immigrazione musulmana) e di riannodare i fili di un percorso che è proseguito con una tesi di dottorato sugli italiani di Tunisia (un caso di “migrazione al rovescio”) ed è approdato – come “collocazione” accademica – alla Storia e istituzioni dell’Africa.
L’operazione di connessione è agevolata dalla prospettiva adottata da Stefano, che fa uso sapiente dello zoom e del grandangolo: lo zoom per inquadrare da vicino i migranti, per mettersi nei loro panni – o nelle loro scarpe, direbbero gli inglesi (put yourself in somebody’s shoes), scarpe che oggi sono spesso delle infradito; il grandangolo per ampliare il campo di osservazione dall’Italia all’Africa e all’Europa. Per restare nella metafora, Governare le migrazioni. Si deve, si può fotografa il fenomeno migratorio con un ragionamento piano e intelligente, utile a comprendere, a intelligere appunto, un tema impervio che imperversa nel dibattito pubblico.
Stefano Allievi. Partirei da una riflessione sulla mobilità, che non riguarda soltanto i migranti di ieri e di oggi. La mobilità, ovvero andare via, trovare nuovi orizzonti, incontrare nuove persone, trovare un abbraccio chissà dove, ricevere uno sguardo è la realtà di sempre più gente. Quando noi parliamo di migrazioni, abbiamo in mente gli sbarchi, ma dimentichiamo che, oltre ai flussi in ingresso, ci sono quelli in uscita. Con tutto il loro carico di sofferenze certo, ma anche, per evitare una visione dolorista, di opportunità. Le immigrazioni sono legate a un’aspettativa di miglioramento, e quindi a una speranza. L’aspettativa di miglioramento e la speranza sono due emozioni e le emozioni sono fondamentali nella vita. Etimologicamente, le e-mozioni sono quelle che ci fanno e-movere, quindi muovere. Tra l’altro, l’aspettativa di miglioramento e la speranza sono capitale sociale, importantissimo. Chi ha speranza s’impegna, lotta, fatica, al contrario di chi non ce l’ha. L’esperienza degli Stati Uniti è emblematica in questo senso: i giovani americani escono presto dalla comfort zone della famiglia, sprigionando preziose energie sociali che servono per fare delle cose. Analogamente, un imprenditore è tale perché ha delle aspettative di miglioramento, ha speranza di cambiare delle cose, quindi è una ricchezza sociale importante, a maggior ragione se viene da fuori. In breve, è la ricerca di opportunità che muove le persone, non solo le esigenze. E l’amore, lo studio, la curiosità sono fattori concomitanti.
D.M. La mobilità, la spinta a cercare nuovi orizzonti segnano e hanno segnato anche la Sicilia. A inizio Novecento Tommaso Carletti, viceconsole italiano in Tunisia, diceva che le province di Palermo e Trapani erano «le fonti vive, […] le due mammelle da cui la colonia [italiana di Tunisia] trae il nutrimento» (Carletti 1906: 333; v. Melfa 2008). I programmi di modernizzazione avviati in Tunisia a partire dall’Ottocento costituivano un potente fattore di attrazione per la popolazione dell’Italia meridionale che aspirava a migliorare le proprie condizioni di vita. Oggi quali opportunità si prospettano ai migranti in Italia o in Europa? Come si combinano i fattori attrattivi ed espulsivi?
S.A. Quando mi chiedono perché gli immigrati vengono in Italia, io rispondo: comincia a pensare ai motivi per cui gli italiani vanno via e poi ne aggiungi degli altri. Gli italiani vanno via fondamentalmente per cercare un lavoro e per avere un salario più alto a parità di lavoro. Questo spiega perché la regione che ha più emigranti non è una regione del sud, ma la regione più ricca d’Italia, cioè la Lombardia. Sia che un giovane abbia una laurea in Ingegneria al Politecnico di Milano o un titolo professionale conseguito all’ITS (Istituto tecnico superiore), è molto più remunerativo andare all’estero. Pochi lo sanno, ma ci sono delle agenzie interinali europee che vanno in giro per i Paesi del sud Europa (Italia, Spagna, ecc.), a ingaggiare i giovani. Così, un diciottenne diplomato ITS in Italia ha la prospettiva di uno stage a 600,00 € al mese, mentre in Olanda può capitare che il salario d’ingresso sia di 3.000,00 €.
Poi, si va via per studio o anche per cercare la civiltà. Per chi viene dal Ghana, dalla Costa d’Avorio, dal Bangladesh, l’Italia è un paradiso. Per un italiano che compara il welfare del proprio Paese a quello tedesco, olandese, scandinavo, ecc., il paradiso è là. I migranti che arrivano in Italia hanno almeno un altro paio di motivi piuttosto rilevanti: le guerre le persecuzioni, il cambiamento climatico, la desertificazione.
E poi interviene anche la voglia di sottrarsi da un intollerabile controllo familiare e sociale. In confidenza, gli immigrati ammettono di volere fare esperienze, girare, vedere, ridere, fare l’amore. La voglia di cambiare è un motivo rilevante per i migranti sia in ingresso sia in uscita, anche se raramente viene esplicitato perché non sembra scientifico.
D.M. Il libro Governare le migrazioni inizia con una «doverosa premessa demografica» (Allievi 2023: 14), fornendo dati rivelatori. Partenze di italiani e arrivi di stranieri non soltanto si inscrivono in un quadro di diffusa mobilità e simili aspettative, ma i fenomeni sono accostati, anche da un punto di vista statistico, per rilevare le tendenze in atto. I giovani italiani si spostano per motivi di studio e di lavoro, mentre l’arrivo di studenti universitari stranieri è una realtà in crescita nel «Paese più vecchio d’Europa» (Allievi 2023: 10) «in [piena] recessione demografica» (ivi: 12). Questi dati si riscontrano anche in un microcosmo quale un corso di studio o un’aula universitari. Nel corso di laurea triennale di Scienze politiche e delle relazioni internazionali dell’Università di Messina, nel quale insegno, il numero di immatricolati nell’anno accademico 2023-24 è stato di 252 nel curriculum in lingua inglese e 50 nel curriculum in lingua italiana: il numero di studenti stranieri è risultato, quindi, cinque volte superiore a quello degli italiani. L’iscrizione universitaria è un canale di accesso al quale – come per le richieste di asilo – i giovani migranti fanno ricorso per mancanza di alternative legali? Oppure il sistema universitario italiano è effettivamente attrattivo e sarebbe lungimirante cogliere questa opportunità? L’immigrazione drena risorse o offre prospettive di crescita anche economica? L’immigrazione toglie l’aria o dà ossigeno?
S.A. Dal mio punto di vista le migrazioni sono come i trasporti, la sanità, l’istruzione, né più né meno; sono un fatto, una cosa che accade nella società e accade sempre di più. Non che non accadesse prima. Mi piace ricordare che noi siamo una specie nomade, se facciamo pari a 24 ore la storia dell’umanità siamo stati nomadi per 23 ore e 54 minuti. Poi abbiamo inventato l’agricoltura, le città, ci siamo sedentarizzati, ma successivamente abbiamo ripreso a muoverci. Oggi per noi non è mai stato così sicuro, così veloce, così economico viaggiare e fare esperienze. Anche i costi psicologici sono diminuiti, grazie al cellulare, a Skype, grazie al fatto che è alla portata di tutti spostarsi per far visita agli amici, rientrare per il compleanno, ecc.
Ma se le migrazioni sono come le altre cose, che cosa le differenzia? Allora, immaginate che nessuno governi i trasporti (bus, ferrovie, auto private), sarebbe un caos. Immaginate che non ci sia un assessorato alla sanità, sarebbe un caos. Perché le migrazioni sono percepite come un caos? Perché abbiamo smesso di governarle, perché non esiste un governo delle migrazioni, perché per molti è più comodo dichiarare di essere contrari alle migrazioni e, quindi, non occuparsene; il che è come dire di essere contro i trasporti, contro la sanità, contro la pubblica istruzione: non c’è senso logico. Non puoi essere pro o contro un fatto, puoi avere soluzioni molto diverse, puoi litigare sulla linea da seguire ma non negare l’esistenza del problema.
Rispetto alle migrazioni, in breve, è accaduto questo. In passato c’era la possibilità di ingresso regolare in questo Paese, anche temporaneo. Progressivamente l’Italia, come tutta l’Europa, ha chiuso i canali di ingresso regolare, perché la pubblica opinione, preoccupata per la concorrenza nel mercato del lavoro o episodi di delinquenza, lo ha chiesto alla politica. Il risultato è che abbiamo approvato delle leggi restrittive.
Siamo in una cantina: immaginate che un politico vi arringasse invitandovi a bere grillo e catarratto, perché sono vini siciliani, e a rinunciare a gin, whisky, champagne, o anche ai vini del nord. Anche se molti troverebbero giusto privilegiare i prodotti siciliani, di fatto il protezionismo aprirebbe un gigantesco mercato illegale. Con le migrazioni, chiudendo le frontiere, abbiamo creduto di abolire per legge gli ingressi irregolari, abolendo di fatto gli ingressi regolari. Così i migranti arrivano irregolarmente. Quindi, la prima cosa da fare è riaprire dei canali regolari. Nel 2019, quando Matteo Salvini era ministro dell’Interno, cercava di impedire l’attività delle ONG di soccorso, sostenendo che bisognava chiudere i porti all’immigrazione irregolare. In quel periodo iniziavo spesso le mie conferenze dicendo che ero d’accordo con il ministro: ma l’unico modo di arrivarci era aprire gli aeroporti all’immigrazione regolare. Governare le migrazioni vuol dire esattamente questo.
L’alternativa è trovarsi a fronteggiare continue emergenze. Parlare però di “emergenza sbarchi” è una contraddizione in termini poiché l’immigrazione è un fenomeno fisiologico che dura da ben oltre un quarto di secolo. Anche la categoria di “minori stranieri non accompagnati”, in passato quasi inesistente, è il risultato di politiche restrittive, in quanto l’accesso in Italia è precluso ai genitori, tradizionalmente i breadwinners.
D.M. Osservando le migrazioni in un’ottica speculare, dall’Italia alla Tunisia, si rilevano analoghe dinamiche nel passato. Ancora prima dell’occupazione francese, risalente al 1881, le migrazioni erano flussi spontanei non sottoposti a restrizioni. I fattori di richiamo e l’accoglienza delle cosiddette sociétés d’appel (Henia 2012: 228-229) dell’Africa mediterranea facevano parlare di Tunisi come Paris de Barbarie o Versailles islamique (Triulzi 1971: 170-171). Alla fine dell’Ottocento iniziarono a essere introdotte delle leggi in materia migratoria. Un primo decreto del 13 aprile 1898 richiedeva agli stranieri, sia nuovi arrivati che vecchi residenti, di presentarsi davanti all’autorità di polizia locale per effettuare una dichiarazione di soggiorno. Disposizioni più restrittive seguirono sotto la pressione di una crescente disoccupazione provocata dalla Grande depressione degli anni Trenta. La legge del 20 febbraio 1930 condizionava l’ingresso dei migranti in territorio tunisino al possesso di un contratto di lavoro validato dalle autorità francesi. Nel luglio del 1953 un ulteriore decreto stabiliva a un anno la durata massima del contratto di lavoro, prima non specificata, istituiva una tassa sui contratti dei lavoratori immigrati e richiedeva certificati di alloggio. Quali furono i risvolti di queste politiche restrittive? Anche in questo caso, il risultato fu l’immigrazione clandestina, stavolta da nord a sud. All’epoca erano gli italiani, i siciliani soprattutto, che a bordo di barconi percorrevano un tratto di mare abbastanza breve, perché la penisola del Capo Bon dista dalla Sicilia 150 km circa. L’attraversamento illegale del Canale di Sicilia faceva notizia all’epoca, persino dopo la Seconda guerra mondiale. Il termine utilizzato per riferirsi a questa migrazione clandestina era esattamente lo stesso impiegato oggi. In arabo si parla di harqa (da haraqa, letteralmente “bruciare”): bruciare i documenti d’identità, ma anche bruciare le tappe in cerca di un’esistenza dignitosa (Cordova 2022: 171). La logica, dunque, è la stessa: la limitazione degli ingressi produce, in assenza di alternative, immigrazione irregolare. E poi interveniva la questione demografica: allora era l’esubero di manodopera, soprattutto nel meridione d’Italia, che spingeva tra l’altro l’Italia a costruire colonie di popolamento in Africa. Oggi come si inscrive l’immigrazione nel quadro demografico?
S.A. Noi viviamo in un’inconsapevolezza assoluta di che Paese siamo: siamo il Paese più anziano d’Occidente, ma non abbiamo idea delle dimensioni di questa catastrofe. Il rapporto ISTAT 2024 segnala quest’anno un ulteriore record: non ci sono mai state così poche nascite. La differenza tra nati e morti è ogni anno di circa 250.000 persone; per capirci, una città delle dimensioni di Padova evapora ogni anno. Il dibattito è recente ma il problema risale ai primi anni Novanta. Un altro dato, spesso ignorato è che gli emigranti, in alcuni momenti, sono stati sostanzialmente equivalenti agli immigrati. Si tratta di un fenomeno che non ha precedenti storici, poiché di solito un Paese ha degli emigranti perché ha un eccesso di popolazione, mentre noi abbiamo un difetto di popolazione. In questo momento, ci sono tre lavoratori attivi ogni due inattivi in Italia. Nel 2040 il rapporto sarà di uno a uno. Di fronte a questi dati, i giovani hanno una ragione in più per partire. Vivere in una società di vecchi, anzitutto, non è sostenibile dal punto di vista previdenziale, ovvero non è sostenibile che i giovani si facciano carico di una popolazione anziana in aumento.
Chi è contro l’immigrazione, in realtà, è contro i propri figli, è contro i giovani, perché l’immigrazione vuol dire forza lavoro in più, gente che lavora, che produce ricchezza, che produce PIL, che paga tasse. Siamo un Paese in cui ci sono più figli che si prendono cura dei genitori che genitori che si prendono cura dei figli. Detto ancora più brutalmente: siamo un Paese, l’unico in Europa, in cui si vendono più pannoloni che pannolini. Questa è la prospettiva. L’immigrazione si inscrive in questa cornice. Questo succede perché oltre alla differenza tra morti e nati, c’è la differenza tra chi entra e chi esce nel mercato del lavoro. Ogni anno il numero di chi va in pensione è superiore al numero di giovani italiani che dovrebbero sostituirli. Il numero esiguo di giovani italiani crea dei buchi, dei vuoti che, come confermano Confindustria, Confartigianato, Coldiretti, sono gli immigrati a colmare. Il fabbisogno stimato di nuovi lavoratori in Italia è di 250.000 all’anno. Questa cifra è superiore a quella degli ingressi di immigrati. In altre parole, noi abbiamo bisogno di più forza lavoro di quella che arriva, ma abbiamo bisogno che arrivino in maniera diversa, in certa misura anche persone diverse. In molti denunciano la mancanza di qualificazione e titoli di studio universitari degli immigrati, ma non è questo il punto. Il problema è che noi i laureati li esportiamo. Tra gli italiani che vanno a vivere all’estero, il tasso di laureati è doppio rispetto alla media nazionale, perché la laurea vale, e la vai a incassare dove ti pagano di più. La domanda di lavoro è alta per figure come braccianti, colf e badanti, edilizia, logistica. Un’altra categoria carente, particolarmente nel Nord Italia, è quella degli operai, per i quali non si pone solo un problema di formazione, indisponibilità al lavoro manuale o salari troppo bassi bensì proprio di mancanza di effettivi. E se un’azienda non dispone di forza lavoro delocalizza.
D.M. Hai evocato le guerre, le condizioni climatiche, la disoccupazione, a proposito dei fattori espulsivi. A questo proposito, mi chiedo se la questione della sicurezza che tanto campeggia nel dibattito, può essere definita anche con riferimento alla sicurezza dei migranti. Ai nostri occhi, le migrazioni sono strettamente legate a delinquenza e terrorismo e, nel libro, le ragioni dei numeri elevati di migranti nelle carceri sono dettagliatamente esposte. Considerato il carattere multidimensionale della sicurezza, è possibile declinare il problema tenendo conto del punto di vista dei migranti? I migranti mettono a rischio la loro vita nel tragitto, sfuggono da situazioni di insicurezza, quali la desertificazione, le guerre.
S.A. Sì, hai ragione a dire multidimensionale. Il problema della sicurezza dei migranti è effettivo ma irrilevante per l’opinione pubblica preoccupata anzitutto della propria sicurezza. Noi in genere associamo la sicurezza alla piccola delinquenza, ai furti per strada o in casa, rispecchiando la retorica politica. Bisognerebbe, piuttosto, imparare a declinare la parola sicurezza in riferimento ad altri ambiti. Avrò una pensione? Il sistema sanitario garantisce cure e assistenza? Questi sono elementi importanti della sicurezza, che fanno la differenza, tant’è vero che molti italiani vanno a vivere altrove. In Italia il 45% delle donne in età fertile non ha figli, la metà della popolazione femminile praticamente. Tra quelle che migrano il tasso di natalità è enormemente più alto, perché in altri Paesi è possibile lavorare e avere figli. E poi c’è, è vero, la delinquenza spicciola, alla quale ho voluto dedicare il capitolo più lungo per decostruire la retorica su questo argomento. Il dato, apparentemente allarmante, è che il 30% delle persone in carcere è costituito da stranieri. Siccome gli stranieri sono il 10% della popolazione, se ne deduce, matematicamente, che questi ultimi delinquono il triplo degli italiani. Se si guardano con attenzione (e senza pregiudizio) i dati, si scopre che ci sono comunità che delinquono più degli italiani e moltissime comunità che sono praticamente assenti dalle statistiche sulla delinquenza. Quindi la discriminante non è l’essere stranieri. Gli italiani non sono in carcere perché, quando commettono reati, hanno accesso alle pene alternative, in particolare gli arresti domiciliari. Gli immigrati, essendo spesso sprovvisti di domicilio, non ne beneficiano. Inoltre, la scarsa conoscenza della lingua non agevola la difesa, così come il basso reddito rende inevitabile il ricorso agli avvocati d’ufficio. Aggiungete un po’ di pregiudizio, che si riscontra in tutte le categorie professionali, poliziotti, giudici, giornalisti, ecc. Ma la vera notizia è che comunità intere, come i rumeni, fino a qualche anno fa all’apice delle classifiche sulla delinquenza e tacciati, con facili antropologismi, di essere violenti, adesso sono agli ultimi posti. La svolta si è registrata dopo che la Romania ha firmato gli accordi di libera circolazione della manodopera con l’Unione Europea prima ancora che vi entrasse. Allora il problema non è che essere stranieri fa delinquere di più. Certo la delinquenza esiste tra gli stranieri, come abbiamo sperimentato nella nostra emigrazione negli Stati Uniti, dove le autorità e la società americane si lamentavano esattamente della stessa cosa. Il problema esiste perché è relativamente normale per un immigrato arrangiarsi finché non è integrato. Più si è integrati, meno si delinque. Gli stranieri sono sovra-rappresentati tra i giovani e tra i non sposati. E i giovani e i non sposati, anche tra gli italiani, delinquono di più degli anziani e degli sposati. La vera distinzione è essere regolari o irregolari. Il grosso di chi è in galera è irregolare. Allora, se vogliamo lavorare alla nostra sicurezza, dobbiamo puntare sull’integrazione. Per me è un assioma. A più B uguale C. Più sicurezza richiede di non marginalizzare, non chiudere nei centri, ma esattamente l’opposto.
D.M. Vi sarete resi perfettamente conto di qual è l’approccio di Stefano in questo libro. È un approccio pragmatico che osserva le migrazioni in termini di costi e benefici, che prende le mosse dalle posizioni degli avversari per sviluppare il ragionamento. Il libro, quindi, non derubrica gli argomenti anti-immigrazione, non minimizza gli umori e le paure «di chi gli immigrati li vede arrivare» (Allievi 2023: 3). Un atteggiamento difensivo è comprensibile, poiché «[n]oi abbiamo bisogno di confini (identitari, culturali, prima ancora che territoriali)» (Allievi 2023: 28); «le famiglie, le culture, le specificità etniche, linguistiche e religiose hanno bisogno di spazi autonomi di riproduzione, per esistere e per potersi relazionare con altri» (Allievi 2023: 30). Asserire la necessità dei confini culturali non equivale a difendere a spada tratta le radici giudeo-cristiane dell’identità europea o ad agitare lo spauracchio della sostituzione etnica. I confini sono necessari ma sono anche valicabili e mutevoli. Le identità non sono entità cristallizzate e soprattutto non è auspicabile che lo siano. La paura è normale, risponde a un impulso istintivo. Altrettanto normale, inevitabile, e persino desiderabile, è la contaminazione? Stefano Allievi scrive: «non sono le radici che contano, ma i frutti». I tempi sono maturi per operare un ribaltamento di prospettiva, per accogliere seriamente le parole di Gesù nel vangelo di Matteo: “dai loro frutti li riconoscerete” (Allievi 2023: 86)? Nella docu-serie della BBC, The Africans: A Triple Heritage, prodotta negli anni Ottanta, Ali Mazroui sostiene che l’Africa è segnata da apporti esterni, quali quello islamico ed europeo, oltre che dalle tradizioni originarie. Lo studioso keniano iscrive l’identità del continente al crocevia di diverse tradizioni, riconoscendo i frutti dell’incontro anche se le migrazioni, e i contatti, sono avvenuti – per limitarci all’Otto-Novecento – in un quadro di dominio coloniale.
S.A. Mi piace molto com’è posta la domanda, perché è uno snodo fondamentale. Per cominciare dalla fine, i tempi sono maturi, ma noi non ancora, mettiamola così. Rispetto all’osservazione iniziale, io ho un approccio totalmente non ideologico, non parlo mai di valori perché, sebbene importanti, hanno presa solo su chi già vi aderisce. Per rivolgermi a chi non è convinto parlo molto di interessi, che tra l’altro è una bella parola, se guardiamo l’etimologia. Per un sociologo, “interesse” è nocciolo del legame sociale: “essere inter”, “essere tra”. Per cui io sdoganerei gli interessi come qualcosa di bello e legittimo, contro la connotazione negativa di espressioni come “fare qualcosa per interesse”, “matrimonio di interesse”. E poi prendo sul serio le paure cercando di capirne le ragioni. All’inizio del libro faccio un esempio tratto dalla mia esperienza familiare. Se un bambino ha paura del buio, non risolvo il problema mostrandogli una statistica e dicendogli che di buio non è mai morto nessuno; o, ancora peggio, dandogli del cretino (che è l’equivalente di quelli che si ritengono buoni, e accusano quindi gli avversari di razzismo e xenofobia, creando distanza comunicativa). Questo esempio è utile perché permette di individuare la soluzione. Se io mio figlio lo ascolto, lo prendo sul serio, gli dico che la sua paura è legittima, lo abbraccio, insieme possiamo prendere una decisione come quella di lasciare la luce accesa in corridoio per un po’. Non è razionale, è pure costoso, quindi tecnicamente sembra sbagliato: ma non lo è. In altri termini, anche se si è assolutamente convinti di essere nel giusto, il modo migliore di affrontare i problemi non è quello di imporre le proprie idee, bensì di trovare una soluzione accettabile anche da chi non è d’accordo con noi. Bisogna prendere sul serio l’elettore impaurito. La spocchia in un certo mondo progressista e cattolico che crede di possedere la verità o le opinioni “giuste” è controproducente, perché l’integrazione è come un matrimonio, funziona solo se la vogliono tutti e due i coniugi. Se il migrante vuole integrarsi, ma la società lo respinge non ci sarà mai integrazione. Quindi noi dovremmo dedicare la metà del tempo, della fantasia, dell’interesse, persino del denaro per parlare agli italiani. Cosa che è stata sottovalutata.
E vengo alla metafora nello specifico. La parola “radici” nel Vangelo non c’è, quindi, quando sentite parlare di radici cristiane, lasciate perdere. Matteo diceva “dai loro frutti li riconoscerete”, cioè da quello che fate. La metafora giusta invece è quella del fiume con i vari affluenti. In fondo, noi cosa siamo? E, generalizzando, voi siciliani cosa siete? Quanti affluenti hanno forgiato la vostra identità? Gli arabi hanno lasciato traccia nei nomi delle città, nella fisionomia delle persone, nel folklore, nella lingua, e molti altri sono arrivati prima e dopo di loro. Noi siamo figli di tanti apporti e diventiamo un’altra cosa da quello che eravamo o credevamo di essere. L’idea della sostituzione etnica mi fa sorridere perché se la prendiamo un po’ più alla lontana veniamo tutti dall’Africa. Gli Erectus, gli Habilis, i Neanderthal e i Sapiens di cui tutti quanti, alcuni abusivamente, ci sentiamo eredi, sono venuti dall’Africa in ondate diverse. Tra l’altro, i Neanderthal, che sono precedenti, sono andati via dall’Africa prima e, quando sono andati via i Sapiens, nel Medio Oriente si sono incontrati con i Neanderthal; noi abbiamo anche dei geni Neanderthal perché le prime coppie miste, in fondo, sono di quel periodo lì.
E a proposito, le coppie miste sono dei laboratori interessanti perché in famiglia inventano delle soluzioni che possono essere buone per la società: accolgo pezzi della tua cultura o della tua religione e non altri, cambio io la mia cultura, la cambia l’altro, le pratichiamo tutte e due, mangiamo sia l’una che l’altra cosa, diamo il nome ai figli, ne diamo due, ne diamo uno che non è né della mia cultura né della tua. La media nazionale di coppie miste, cioè persone di Paesi diversi è già al 15%, e naturalmente è più alta laddove è più antica l’immigrazione.
D.M. Per governare le migrazioni auspichi «scenari di maggiore cooperazione intergovernativa, mutuamente vantaggiosi, capaci di implementare la fiducia tra governi e tra Paesi, basati su un riconoscimento di pari dignità tra partner» (Allievi 2023: 44). In occasione del summit Italia-Africa 2024, svoltosi a Roma, il rappresentante dell’Unione Africana, Moussa Faki, ha lamentato la mancanza di consultazione della controparte africana. La prima questione è capire in cosa consiste esattamente la cooperazione. La creazione di hot-spot rientra nel quadro della cooperazione? Vi rientrano gli accordi di Danimarca e Gran Bretagna con il Ruanda, Paese con discutibili livelli di democrazia e diritti umani, per la gestione delle richieste di asilo? L’altra questione riguarda il riconoscimento dei partner africani come eguali. Enrico Mattei cercava effettivamente un rapporto paritario con i Paesi produttori di petrolio ma la vicenda del summit rivela la persistenza di un retaggio coloniale o neocoloniale. Il linguaggio tradisce l’esistenza di gerarchie laddove usiamo termini di derivazione coloniale quali “etnia”, “tribù”, “razza” per differenziare le “primitive” società africane dalle “evolute” società europee, organizzate in nazioni e Stati. Anche i giornalisti più accorti, animati dalle migliori intenzioni, ripropongono certi automatismi. Nel libro La speranza africana, Federico Rampini, ad esempio, rileva, i «segnali sorprendenti» provenienti dalla diaspora africana negli Stati Uniti a cui si riferisce in termini di “gruppo etnico” (Rampini 2023: 7). La nozione di etnia africana si accompagna ad una visione evoluzionista delle civiltà, all’idea eurocentrica che le società occidentali siano «il cuore e il motore della storia» (Gentili 1995: 14), mentre i Paesi africani permangono allo stadio di Paesi sottosviluppati o in via di sviluppo. Non è sorprendente, allora, l’opinione di un mio studente secondo il quale, se i programmi scolastici non includono l’Africa è perché la storia dell’Africa non è caratterizzata da eventi rilevanti meritevoli di attenzione.
S.A. È prevedibile che tra pochissimi anni vi sarà una fortissima emigrazione, che peraltro è già cominciata, dall’Europa verso l’Africa. Anzitutto perché andiamo ad aprire fabbriche in Africa, ma poi anche per altri motivi, come già un’emigrazione di livello medio-alto si registra verso gli Emirati. È sempre utile rovesciare la prospettiva. Una mia collega che ha lavorato sugli italiani a Berlino rilevava che alcuni andavano in Germania con un progetto, altri, che lei chiamava gli avventurieri, andavano via senza arte né parte, senza avere alcuna idea, senza conoscere la lingua. Un altro cambiamento che si registrerà tra pochissimi anni è che il terzo Paese più popoloso al mondo sarà la Nigeria, che supererà gli Stati Uniti. Ci sono zone dell’Africa dove, in controtendenza con quanto avviene in Europa, i tassi di crescita annuale del PIL sono a due cifre. I ritmi di crescita africani attirano anche gli europei, che cercheranno di trarne profitto. Rovesciare la prospettiva vuol dire osservare questi cambiamenti. Recentemente ho visto una attivista che indossava una maglietta con la frase: «Illegal immigration started in» e la data era il 1492 – anche questo un rovesciamento di prospettiva.
A proposito di cooperazione, tre sono le cose che dovremmo fare per governare l’immigrazione. La prima è fare degli accordi con i Paesi d’origine per aprire dei canali regolari d’ingresso. Solo in questo modo è possibile ridurre l’immigrazione irregolare, che oggi rappresenta la quasi totalità degli ingressi per via dell’assenza di canali legali alternativi. Se andate online e digitate “Passport Index”, troverete in quanti Paesi noi possiamo andare senza visto: sono 177. L’Italia ha il secondo più forte passaporto al mondo, insieme ad altri Paesi europei. In una situazione ancora migliore si trovano gli Emirati Arabi Uniti. Se a qualcuno di noi venisse voglia di andare in Ghana, semplicemente perché gli piace il nome, anche senza alcun progetto, acquisterebbe online un biglietto low cost e in sei ore di aereo sarebbe ad Accra. Un cittadino ghanese non potrebbe fare la stessa cosa, perché noi richiediamo un visto che concediamo solo in casi molto particolari. I Paesi con condizioni di vita peggiori sono quelli che hanno i passaporti peggiori: Yemen, Somalia, Etiopia, Iraq, Pakistan, Siria, Libia, ecc.: Paesi dove ci sono dei conflitti (nei quali spesso c’è il nostro zampino) o risorse minerarie importanti. Un bellissimo proverbio africano dice che se uno ruba il miele dall’alveare, le api lo seguono, che è una bella interpretazione delle migrazioni. Fare degli accordi è l’unica strada possibile. A differenza di quelli già stipulati gli accordi devono prevedere come prima cosa il rilascio di un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro. Avere un lavoro prima dell’ingresso regolare in Italia è una finzione perché il mercato del lavoro funziona diversamente. Come fai ad avere un lavoro in Italia se stai ad Accra? Come fai a conoscere un datore di lavoro se stai altrove? È solo dopo avere cambiato le leggi che è ragionevole chiedere la collaborazione dei Paesi partner per trattenere gli irregolari, e solo in quel caso peraltro i Paesi di partenza accetteranno i rimpatri di quelli che delinquono. E gli accordi vanno fatti su base paritaria. Quando i politici italiani affermano di volere aprile gli hotspot in Tunisia, sembrano trascurare il fatto che gli Stati africani sono Paesi sovrani ai quali spetta la decisione. L’accordo sull’Albania dà l’idea del nonsenso degli hotspot. L’accordo consiste tecnicamente nel costruire delle basi a spese nostre per mandare in Albania delle persone, che sono già a Lampedusa, con personale italiano (poliziotti, infermieri, ecc.) che viene pagato di più, perché è in trasferta, per gestire le pratiche. Se si tratta di richiedenti asilo, questi vanno riportati in Italia, se non lo sono cercheranno di arrivare irregolarmente con un barcone dall’Albania oppure via terra dai Balcani. In breve, è come se noi per diminuire le code nella sanità, aprissimo un ospedale a Tirana e ci portassimo sia i malati che i medici e gli infermieri.
Enrico Mattei era un sincero democratico, un partigiano cattolico liberale che voleva fare accordi paritari riconoscendo ai Paesi produttori il 50% degli utili. Per questo Mattei era un personaggio scomodo che ha portato avanti una politica contraria agli interessi delle Sette sorelle, le società petrolifere degli Stati Uniti e di altri Paesi europei, ed è stato ammazzato. Per cui io sono felicissimo che un governo si ispiri a Mattei, ma questo vuol dire seguirne l’approccio, ovvero dialogare con i diretti interessati, altrimenti è come fare una festa a casa di altri imponendo ospiti e menù. La logica degli accordi è quella giusta, ma fare accordi implica avere un’idea dell’Africa diversa rispetto a quella corrente, secondo cui gli africani non hanno mai inventato niente o non hanno cultura. Provate a immaginare di leggere solo libri italiani: gli scrittori italiani guadagnerebbero di più, ma noi perderemmo non solo il piacere della lettura, ma soprattutto il punto di vista di un’altra cultura che è quello che ci serve. E lo stesso vale per la pittura, la musica, il cinema. Inoltre, molti che lavorano sul cambiamento climatico sostengono che, per sopravvivere come specie, gli occidentali dovrebbero imparare dalle culture cosiddette “inferiori”, dalle culture native, che hanno mantenuto un rapporto sano con l’ambiente. Analogo discorso vale per le religioni. Le idee diffuse sull’islam sono approssimative e i musulmani non vi si riconoscono così come i cristiani non accettano di essere descritti semplicisticamente come europei privi di morale, che esibiscono nudità femminili senza pudore. La realtà è diversa, la nostra civilizzazione, come la loro, è più complicata.
D.M. L’integrazione presuppone il riconoscimento, l’accettazione dell’Altro, e chiama in causa la società ospitante. Tu scrivi che «gli autoctoni hanno bisogno che venga loro spiegato quello che succede nei loro quartieri, la novità che porta lì nuove popolazioni e culture» (Allievi 2023: 60). A che punto siamo su questo fronte, si registrano buone prassi o segnali in questo senso?
S.A. Vi riporto l’esperienza della Germania che era il Paese più vecchio d’Europa insieme all’Italia. Nel 2015, in un solo anno, ha consentito l’ingresso di quasi un milione e mezzo di persone. L’arrivo di centinaia o migliaia di richiedenti asilo anche in percentuali rilevanti è stato preparato informando la popolazione dei vantaggi che ne sarebbero derivati. Cinquecento persone in più in un paese, poniamo, equivale a cinquecento clienti in più per i negozi, duecento appartamenti in più da affittare o costruire, pazienti in più per i medici, nuove sezioni a scuola per accogliere i bambini. Oggi la Germania ha recuperato il gap demografico con un vantaggio anche economico, puntando con pragmatismo non sugli slogan ma sui numeri.
L’integrazione si può anche non volerla per interessi politici ma per fortuna accade lo stesso. Le scuole sono laboratori di integrazione. La presenza di allievi immigrati suscita allarme ma sarebbe da considerare un fattore positivo, come avviene con gli indicatori di internazionalizzazione all’università. A scuola, fino alla seconda, terza elementare, non si manifestano problemi di rapporti tra gruppi etnici, linguistici o religiosi: cominciano quando sentono cosa si dice in casa. Nella nostra società ci sono gli immigrati e i nativi della pluralità culturale: gli immigrati sono le prime generazioni che arrivano, ma anche le prime generazioni che li vedono arrivare; i nativi sono quelli che si ritrovano a scuola insieme, e hanno, appunto, un punto di vista diverso. Questo mi fa essere lievemente più ottimista di quanto sarei guardandomi intorno, guardando solo gli adulti.