L’Italia tra demografia e migrazioni. Dialoghi Mediterranei

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L’Italia tra demografia e migrazioni

coverdi Stefano Allievi,  Daniela Melfa

Il testo riprende e amplia la conversazione intercorsa tra Stefano Allievi, autore del volume Governare le migrazioni. Si deve, si può (Laterza, 2023), e Daniela Melfa nel quadro di Presente Alternativo VIII edizione del Festival 38° parallelo, svoltosi a Marsala dal 16 al 18 maggio 2024 con la direzione artistica di Giuseppe Prode. L’incontro si è svolto presso le Cantine “Vite ad Ovest” il 17 maggio 2024 in presenza delle studentesse del Liceo statale Pascasino di Marsala.

Daniela Melfa. Grazie dell’invito e dell’occasione di conversare con Stefano Allievi, autorevole sociologo delle religioni, dell’islam, delle migrazioni. Questa conversazione mi è particolarmente gradita anche perché mi consente di ritornare su interessi di ricerca coltivati da giovane laureanda e neolaureata (l’immigrazione musulmana) e di riannodare i fili di un percorso che è proseguito con una tesi di dottorato sugli italiani di Tunisia (un caso di “migrazione al rovescio”) ed è approdato – come “collocazione” accademica – alla Storia e istituzioni dell’Africa.

L’operazione di connessione è agevolata dalla prospettiva adottata da Stefano, che fa uso sapiente dello zoom e del grandangolo: lo zoom per inquadrare da vicino i migranti, per mettersi nei loro panni – o nelle loro scarpe, direbbero gli inglesi (put yourself in somebody’s shoes), scarpe che oggi sono spesso delle infradito; il grandangolo per ampliare il campo di osservazione dall’Italia all’Africa e all’Europa. Per restare nella metafora, Governare le migrazioni. Si deve, si può fotografa il fenomeno migratorio con un ragionamento piano e intelligente, utile a comprendere, a intelligere appunto, un tema impervio che imperversa nel dibattito pubblico.

Marsala, Il pubblico di Presente Alternativo VIII edizione del Festival 38° parallelo, 17 maggio 2024.

Marsala, Il pubblico di Presente Alternativo VIII edizione del Festival 38° parallelo, 17 maggio 2024

Stefano Allievi. Partirei da una riflessione sulla mobilità, che non riguarda soltanto i migranti di ieri e di oggi. La mobilità, ovvero andare via, trovare nuovi orizzonti, incontrare nuove persone, trovare un abbraccio chissà dove, ricevere uno sguardo è la realtà di sempre più gente. Quando noi parliamo di migrazioni, abbiamo in mente gli sbarchi, ma dimentichiamo che, oltre ai flussi in ingresso, ci sono quelli in uscita. Con tutto il loro carico di sofferenze certo, ma anche, per evitare una visione dolorista, di opportunità. Le immigrazioni sono legate a un’aspettativa di miglioramento, e quindi a una speranza. L’aspettativa di miglioramento e la speranza sono due emozioni e le emozioni sono fondamentali nella vita. Etimologicamente, le e-mozioni sono quelle che ci fanno e-movere, quindi muovere. Tra l’altro, l’aspettativa di miglioramento e la speranza sono capitale sociale, importantissimo. Chi ha speranza s’impegna, lotta, fatica, al contrario di chi non ce l’ha. L’esperienza degli Stati Uniti è emblematica in questo senso: i giovani americani escono presto dalla comfort zone della famiglia, sprigionando preziose energie sociali che servono per fare delle cose. Analogamente, un imprenditore è tale perché ha delle aspettative di miglioramento, ha speranza di cambiare delle cose, quindi è una ricchezza sociale importante, a maggior ragione se viene da fuori. In breve, è la ricerca di opportunità che muove le persone, non solo le esigenze. E l’amore, lo studio, la curiosità sono fattori concomitanti.

D.M. La mobilità, la spinta a cercare nuovi orizzonti segnano e hanno segnato anche la Sicilia. A inizio Novecento Tommaso Carletti, viceconsole italiano in Tunisia, diceva che le province di Palermo e Trapani erano «le fonti vive, […] le due mammelle da cui la colonia [italiana di Tunisia] trae il nutrimento» (Carletti 1906: 333; v. Melfa 2008). I programmi di modernizzazione avviati in Tunisia a partire dall’Ottocento costituivano un potente fattore di attrazione per la popolazione dell’Italia meridionale che aspirava a migliorare le proprie condizioni di vita. Oggi quali opportunità si prospettano ai migranti in Italia o in Europa? Come si combinano i fattori attrattivi ed espulsivi?

Stefano Savona (ph. Anna Fici)

Stefano Allievi (ph. Anna Fici)

S.A. Quando mi chiedono perché gli immigrati vengono in Italia, io rispondo: comincia a pensare ai motivi per cui gli italiani vanno via e poi ne aggiungi degli altri. Gli italiani vanno via fondamentalmente per cercare un lavoro e per avere un salario più alto a parità di lavoro. Questo spiega perché la regione che ha più emigranti non è una regione del sud, ma la regione più ricca d’Italia, cioè la Lombardia. Sia che un giovane abbia una laurea in Ingegneria al Politecnico di Milano o un titolo professionale conseguito all’ITS (Istituto tecnico superiore), è molto più remunerativo andare all’estero. Pochi lo sanno, ma ci sono delle agenzie interinali europee che vanno in giro per i Paesi del sud Europa (Italia, Spagna, ecc.), a ingaggiare i giovani. Così, un diciottenne diplomato ITS in Italia ha la prospettiva di uno stage a 600,00 € al mese, mentre in Olanda può capitare che il salario d’ingresso sia di 3.000,00 €.

Poi, si va via per studio o anche per cercare la civiltà. Per chi viene dal Ghana, dalla Costa d’Avorio, dal Bangladesh, l’Italia è un paradiso. Per un italiano che compara il welfare del proprio Paese a quello tedesco, olandese, scandinavo, ecc., il paradiso è là. I migranti che arrivano in Italia hanno almeno un altro paio di motivi piuttosto rilevanti: le guerre le persecuzioni, il cambiamento climatico, la desertificazione.

E poi interviene anche la voglia di sottrarsi da un intollerabile controllo familiare e sociale. In confidenza, gli immigrati ammettono di volere fare esperienze, girare, vedere, ridere, fare l’amore. La voglia di cambiare è un motivo rilevante per i migranti sia in ingresso sia in uscita, anche se raramente viene esplicitato perché non sembra scientifico.

Daniela Melfi (ph. Anna Fici)

Marsala, Daniela Melfa (ph. Anna Fici)

D.M. Il libro Governare le migrazioni inizia con una «doverosa premessa demografica» (Allievi 2023: 14), fornendo dati rivelatori. Partenze di italiani e arrivi di stranieri non soltanto si inscrivono in un quadro di diffusa mobilità e simili aspettative, ma i fenomeni sono accostati, anche da un punto di vista statistico, per rilevare le tendenze in atto. I giovani italiani si spostano per motivi di studio e di lavoro, mentre l’arrivo di studenti universitari stranieri è una realtà in crescita nel «Paese più vecchio d’Europa» (Allievi 2023: 10) «in [piena] recessione demografica» (ivi: 12). Questi dati si riscontrano anche in un microcosmo quale un corso di studio o un’aula universitari. Nel corso di laurea triennale di Scienze politiche e delle relazioni internazionali dell’Università di Messina, nel quale insegno, il numero di immatricolati nell’anno accademico 2023-24 è stato di 252 nel curriculum in lingua inglese e 50 nel curriculum in lingua italiana: il numero di studenti stranieri è risultato, quindi, cinque volte superiore a quello degli italiani. L’iscrizione universitaria è un canale di accesso al quale – come per le richieste di asilo – i giovani migranti fanno ricorso per mancanza di alternative legali? Oppure il sistema universitario italiano è effettivamente attrattivo e sarebbe lungimirante cogliere questa opportunità? L’immigrazione drena risorse o offre prospettive di crescita anche economica? L’immigrazione toglie l’aria o dà ossigeno?

S.A. Dal mio punto di vista le migrazioni sono come i trasporti, la sanità, l’istruzione, né più né meno; sono un fatto, una cosa che accade nella società e accade sempre di più. Non che non accadesse prima. Mi piace ricordare che noi siamo una specie nomade, se facciamo pari a 24 ore la storia dell’umanità siamo stati nomadi per 23 ore e 54 minuti. Poi abbiamo inventato l’agricoltura, le città, ci siamo sedentarizzati, ma successivamente abbiamo ripreso a muoverci. Oggi per noi non è mai stato così sicuro, così veloce, così economico viaggiare e fare esperienze. Anche i costi psicologici sono diminuiti, grazie al cellulare, a Skype, grazie al fatto che è alla portata di tutti spostarsi per far visita agli amici, rientrare per il compleanno, ecc.

Ma se le migrazioni sono come le altre cose, che cosa le differenzia? Allora, immaginate che nessuno governi i trasporti (bus, ferrovie, auto private), sarebbe un caos. Immaginate che non ci sia un assessorato alla sanità, sarebbe un caos. Perché le migrazioni sono percepite come un caos? Perché abbiamo smesso di governarle, perché non esiste un governo delle migrazioni, perché per molti è più comodo dichiarare di essere contrari alle migrazioni e, quindi, non occuparsene; il che è come dire di essere contro i trasporti, contro la sanità, contro la pubblica istruzione: non c’è senso logico. Non puoi essere pro o contro un fatto, puoi avere soluzioni molto diverse, puoi litigare sulla linea da seguire ma non negare l’esistenza del problema.

Rispetto alle migrazioni, in breve, è accaduto questo. In passato c’era la possibilità di ingresso regolare in questo Paese, anche temporaneo. Progressivamente l’Italia, come tutta l’Europa, ha chiuso i canali di ingresso regolare, perché la pubblica opinione, preoccupata per la concorrenza nel mercato del lavoro o episodi di delinquenza, lo ha chiesto alla politica. Il risultato è che abbiamo approvato delle leggi restrittive.

Siamo in una cantina: immaginate che un politico vi arringasse invitandovi a bere grillo e catarratto, perché sono vini siciliani, e a rinunciare a gin, whisky, champagne, o anche ai vini del nord. Anche se molti troverebbero giusto privilegiare i prodotti siciliani, di fatto il protezionismo aprirebbe un gigantesco mercato illegale. Con le migrazioni, chiudendo le frontiere, abbiamo creduto di abolire per legge gli ingressi irregolari, abolendo di fatto gli ingressi regolari. Così i migranti arrivano irregolarmente. Quindi, la prima cosa da fare è riaprire dei canali regolari. Nel 2019, quando Matteo Salvini era ministro dell’Interno, cercava di impedire l’attività delle ONG di soccorso, sostenendo che bisognava chiudere i porti all’immigrazione irregolare. In quel periodo iniziavo spesso le mie conferenze dicendo che ero d’accordo con il ministro: ma l’unico modo di arrivarci era aprire gli aeroporti all’immigrazione regolare. Governare le migrazioni vuol dire esattamente questo.

L’alternativa è trovarsi a fronteggiare continue emergenze. Parlare però di “emergenza sbarchi” è una contraddizione in termini poiché l’immigrazione è un fenomeno fisiologico che dura da ben oltre un quarto di secolo. Anche la categoria di “minori stranieri non accompagnati”, in passato quasi inesistente, è il risultato di politiche restrittive, in quanto l’accesso in Italia è precluso ai genitori, tradizionalmente i breadwinners.

Alievi e Melfi (ph. Anna Fici)

Marsala, Allievi e Melfa (ph. Anna Fici)

D.M. Osservando le migrazioni in un’ottica speculare, dall’Italia alla Tunisia, si rilevano analoghe dinamiche nel passato. Ancora prima dell’occupazione francese, risalente al 1881, le migrazioni erano flussi spontanei non sottoposti a restrizioni. I fattori di richiamo e l’accoglienza delle cosiddette sociétés d’appel (Henia 2012: 228-229) dell’Africa mediterranea facevano parlare di Tunisi come Paris de Barbarie Versailles islamique (Triulzi 1971: 170-171). Alla fine dell’Ottocento iniziarono a essere introdotte delle leggi in materia migratoria. Un primo decreto del 13 aprile 1898 richiedeva agli stranieri, sia nuovi arrivati che vecchi residenti, di presentarsi davanti all’autorità di polizia locale per effettuare una dichiarazione di soggiorno. Disposizioni più restrittive seguirono sotto la pressione di una crescente disoccupazione provocata dalla Grande depressione degli anni Trenta. La legge del 20 febbraio 1930 condizionava l’ingresso dei migranti in territorio tunisino al possesso di un contratto di lavoro validato dalle autorità francesi. Nel luglio del 1953 un ulteriore decreto stabiliva a un anno la durata massima del contratto di lavoro, prima non specificata, istituiva una tassa sui contratti dei lavoratori immigrati e richiedeva certificati di alloggio. Quali furono i risvolti di queste politiche restrittive? Anche in questo caso, il risultato fu l’immigrazione clandestina, stavolta da nord a sud. All’epoca erano gli italiani, i siciliani soprattutto, che a bordo di barconi percorrevano un tratto di mare abbastanza breve, perché la penisola del Capo Bon dista dalla Sicilia 150 km circa. L’attraversamento illegale del Canale di Sicilia faceva notizia all’epoca, persino dopo la Seconda guerra mondiale. Il termine utilizzato per riferirsi a questa migrazione clandestina era esattamente lo stesso impiegato oggi. In arabo si parla di harqa (da haraqa, letteralmente “bruciare”): bruciare i documenti d’identità, ma anche bruciare le tappe in cerca di un’esistenza dignitosa (Cordova 2022: 171). La logica, dunque, è la stessa: la limitazione degli ingressi produce, in assenza di alternative, immigrazione irregolare. E poi interveniva la questione demografica: allora era l’esubero di manodopera, soprattutto nel meridione d’Italia, che spingeva tra l’altro l’Italia a costruire colonie di popolamento in Africa. Oggi come si inscrive l’immigrazione nel quadro demografico?

S.A. Noi viviamo in un’inconsapevolezza assoluta di che Paese siamo: siamo il Paese più anziano d’Occidente, ma non abbiamo idea delle dimensioni di questa catastrofe. Il rapporto ISTAT 2024 segnala quest’anno un ulteriore record: non ci sono mai state così poche nascite. La differenza tra nati e morti è ogni anno di circa 250.000 persone; per capirci, una città delle dimensioni di Padova evapora ogni anno. Il dibattito è recente ma il problema risale ai primi anni Novanta. Un altro dato, spesso ignorato è che gli emigranti, in alcuni momenti, sono stati sostanzialmente equivalenti agli immigrati. Si tratta di un fenomeno che non ha precedenti storici, poiché di solito un Paese ha degli emigranti perché ha un eccesso di popolazione, mentre noi abbiamo un difetto di popolazione. In questo momento, ci sono tre lavoratori attivi ogni due inattivi in Italia. Nel 2040 il rapporto sarà di uno a uno. Di fronte a questi dati, i giovani hanno una ragione in più per partire. Vivere in una società di vecchi, anzitutto, non è sostenibile dal punto di vista previdenziale, ovvero non è sostenibile che i giovani si facciano carico di una popolazione anziana in aumento.

Chi è contro l’immigrazione, in realtà, è contro i propri figli, è contro i giovani, perché l’immigrazione vuol dire forza lavoro in più, gente che lavora, che produce ricchezza, che produce PIL, che paga tasse. Siamo un Paese in cui ci sono più figli che si prendono cura dei genitori che genitori che si prendono cura dei figli. Detto ancora più brutalmente: siamo un Paese, l’unico in Europa, in cui si vendono più pannoloni che pannolini. Questa è la prospettiva. L’immigrazione si inscrive in questa cornice. Questo succede perché oltre alla differenza tra morti e nati, c’è la differenza tra chi entra e chi esce nel mercato del lavoro. Ogni anno il numero di chi va in pensione è superiore al numero di giovani italiani che dovrebbero sostituirli. Il numero esiguo di giovani italiani crea dei buchi, dei vuoti che, come confermano Confindustria, Confartigianato, Coldiretti, sono gli immigrati a colmare. Il fabbisogno stimato di nuovi lavoratori in Italia è di 250.000 all’anno. Questa cifra è superiore a quella degli ingressi di immigrati. In altre parole, noi abbiamo bisogno di più forza lavoro di quella che arriva, ma abbiamo bisogno che arrivino in maniera diversa, in certa misura anche persone diverse. In molti denunciano la mancanza di qualificazione e titoli di studio universitari degli immigrati, ma non è questo il punto. Il problema è che noi i laureati li esportiamo. Tra gli italiani che vanno a vivere all’estero, il tasso di laureati è doppio rispetto alla media nazionale, perché la laurea vale, e la vai a incassare dove ti pagano di più. La domanda di lavoro è alta per figure come braccianti, colf e badanti, edilizia, logistica. Un’altra categoria carente, particolarmente nel Nord Italia, è quella degli operai, per i quali non si pone solo un problema di formazione, indisponibilità al lavoro manuale o salari troppo bassi bensì proprio di mancanza di effettivi. E se un’azienda non dispone di forza lavoro delocalizza.

Daniela Melfa (ph. Anna Fici)

Daniela Melfa (ph. Anna Fici)

D.M. Hai evocato le guerre, le condizioni climatiche, la disoccupazione, a proposito dei fattori espulsivi. A questo proposito, mi chiedo se la questione della sicurezza che tanto campeggia nel dibattito, può essere definita anche con riferimento alla sicurezza dei migranti. Ai nostri occhi, le migrazioni sono strettamente legate a delinquenza e terrorismo e, nel libro, le ragioni dei numeri elevati di migranti nelle carceri sono dettagliatamente esposte. Considerato il carattere multidimensionale della sicurezza, è possibile declinare il problema tenendo conto del punto di vista dei migranti? I migranti mettono a rischio la loro vita nel tragitto, sfuggono da situazioni di insicurezza, quali la desertificazione, le guerre.

S.A. Sì, hai ragione a dire multidimensionale. Il problema della sicurezza dei migranti è effettivo ma irrilevante per l’opinione pubblica preoccupata anzitutto della propria sicurezza. Noi in genere associamo la sicurezza alla piccola delinquenza, ai furti per strada o in casa, rispecchiando la retorica politica. Bisognerebbe, piuttosto, imparare a declinare la parola sicurezza in riferimento ad altri ambiti. Avrò una pensione? Il sistema sanitario garantisce cure e assistenza? Questi sono elementi importanti della sicurezza, che fanno la differenza, tant’è vero che molti italiani vanno a vivere altrove. In Italia il 45% delle donne in età fertile non ha figli, la metà della popolazione femminile praticamente. Tra quelle che migrano il tasso di natalità è enormemente più alto, perché in altri Paesi è possibile lavorare e avere figli. E poi c’è, è vero, la delinquenza spicciola, alla quale ho voluto dedicare il capitolo più lungo per decostruire la retorica su questo argomento. Il dato, apparentemente allarmante, è che il 30% delle persone in carcere è costituito da stranieri. Siccome gli stranieri sono il 10% della popolazione, se ne deduce, matematicamente, che questi ultimi delinquono il triplo degli italiani. Se si guardano con attenzione (e senza pregiudizio) i dati, si scopre che ci sono comunità che delinquono più degli italiani e moltissime comunità che sono praticamente assenti dalle statistiche sulla delinquenza. Quindi la discriminante non è l’essere stranieri. Gli italiani non sono in carcere perché, quando commettono reati, hanno accesso alle pene alternative, in particolare gli arresti domiciliari. Gli immigrati, essendo spesso sprovvisti di domicilio, non ne beneficiano. Inoltre, la scarsa conoscenza della lingua non agevola la difesa, così come il basso reddito rende inevitabile il ricorso agli avvocati d’ufficio. Aggiungete un po’ di pregiudizio, che si riscontra in tutte le categorie professionali, poliziotti, giudici, giornalisti, ecc. Ma la vera notizia è che comunità intere, come i rumeni, fino a qualche anno fa all’apice delle classifiche sulla delinquenza e tacciati, con facili antropologismi, di essere violenti, adesso sono agli ultimi posti. La svolta si è registrata dopo che la Romania ha firmato gli accordi di libera circolazione della manodopera con l’Unione Europea prima ancora che vi entrasse. Allora il problema non è che essere stranieri fa delinquere di più. Certo la delinquenza esiste tra gli stranieri, come abbiamo sperimentato nella nostra emigrazione negli Stati Uniti, dove le autorità e la società americane si lamentavano esattamente della stessa cosa. Il problema esiste perché è relativamente normale per un immigrato arrangiarsi finché non è integrato. Più si è integrati, meno si delinque. Gli stranieri sono sovra-rappresentati tra i giovani e tra i non sposati. E i giovani e i non sposati, anche tra gli italiani, delinquono di più degli anziani e degli sposati. La vera distinzione è essere regolari o irregolari. Il grosso di chi è in galera è irregolare. Allora, se vogliamo lavorare alla nostra sicurezza, dobbiamo puntare sull’integrazione. Per me è un assioma. A più B uguale C. Più sicurezza richiede di non marginalizzare, non chiudere nei centri, ma esattamente l’opposto.

Allievi e Melfi (ph. Antonio Messina)

Marsala, Allievi e Melfa (ph. Antonio Messina)

D.M. Vi sarete resi perfettamente conto di qual è l’approccio di Stefano in questo libro. È un approccio pragmatico che osserva le migrazioni in termini di costi e benefici, che prende le mosse dalle posizioni degli avversari per sviluppare il ragionamento. Il libro, quindi, non derubrica gli argomenti anti-immigrazione, non minimizza gli umori e le paure «di chi gli immigrati li vede arrivare» (Allievi 2023: 3). Un atteggiamento difensivo è comprensibile, poiché «[n]oi abbiamo bisogno di confini (identitari, culturali, prima ancora che territoriali)» (Allievi 2023: 28); «le famiglie, le culture, le specificità etniche, linguistiche e religiose hanno bisogno di spazi autonomi di riproduzione, per esistere e per potersi relazionare con altri» (Allievi 2023: 30). Asserire la necessità dei confini culturali non equivale a difendere a spada tratta le radici giudeo-cristiane dell’identità europea o ad agitare lo spauracchio della sostituzione etnica. I confini sono necessari ma sono anche valicabili e mutevoli. Le identità non sono entità cristallizzate e soprattutto non è auspicabile che lo siano. La paura è normale, risponde a un impulso istintivo. Altrettanto normale, inevitabile, e persino desiderabile, è la contaminazione? Stefano Allievi scrive: «non sono le radici che contano, ma i frutti». I tempi sono maturi per operare un ribaltamento di prospettiva, per accogliere seriamente le parole di Gesù nel vangelo di Matteo: “dai loro frutti li riconoscerete” (Allievi 2023: 86)? Nella docu-serie della BBC, The Africans: A Triple Heritage, prodotta negli anni Ottanta, Ali Mazroui sostiene che l’Africa è segnata da apporti esterni, quali quello islamico ed europeo, oltre che dalle tradizioni originarie. Lo studioso keniano iscrive l’identità del continente al crocevia di diverse tradizioni, riconoscendo i frutti dell’incontro anche se le migrazioni, e i contatti, sono avvenuti – per limitarci all’Otto-Novecento – in un quadro di dominio coloniale.

S.A. Mi piace molto com’è posta la domanda, perché è uno snodo fondamentale. Per cominciare dalla fine, i tempi sono maturi, ma noi non ancora, mettiamola così. Rispetto all’osservazione iniziale, io ho un approccio totalmente non ideologico, non parlo mai di valori perché, sebbene importanti, hanno presa solo su chi già vi aderisce. Per rivolgermi a chi non è convinto parlo molto di interessi, che tra l’altro è una bella parola, se guardiamo l’etimologia. Per un sociologo, “interesse” è nocciolo del legame sociale: “essere inter”, “essere tra”. Per cui io sdoganerei gli interessi come qualcosa di bello e legittimo, contro la connotazione negativa di espressioni come “fare qualcosa per interesse”, “matrimonio di interesse”. E poi prendo sul serio le paure cercando di capirne le ragioni. All’inizio del libro faccio un esempio tratto dalla mia esperienza familiare. Se un bambino ha paura del buio, non risolvo il problema mostrandogli una statistica e dicendogli che di buio non è mai morto nessuno; o, ancora peggio, dandogli del cretino (che è l’equivalente di quelli che si ritengono buoni, e accusano quindi gli avversari di razzismo e xenofobia, creando distanza comunicativa). Questo esempio è utile perché permette di individuare la soluzione. Se io mio figlio lo ascolto, lo prendo sul serio, gli dico che la sua paura è legittima, lo abbraccio, insieme possiamo prendere una decisione come quella di lasciare la luce accesa in corridoio per un po’. Non è razionale, è pure costoso, quindi tecnicamente sembra sbagliato: ma non lo è. In altri termini, anche se si è assolutamente convinti di essere nel giusto, il modo migliore di affrontare i problemi non è quello di imporre le proprie idee, bensì di trovare una soluzione accettabile anche da chi non è d’accordo con noi. Bisogna prendere sul serio l’elettore impaurito. La spocchia in un certo mondo progressista e cattolico che crede di possedere la verità o le opinioni “giuste” è controproducente, perché l’integrazione è come un matrimonio, funziona solo se la vogliono tutti e due i coniugi. Se il migrante vuole integrarsi, ma la società lo respinge non ci sarà mai integrazione. Quindi noi dovremmo dedicare la metà del tempo, della fantasia, dell’interesse, persino del denaro per parlare agli italiani. Cosa che è stata sottovalutata.

E vengo alla metafora nello specifico. La parola “radici” nel Vangelo non c’è, quindi, quando sentite parlare di radici cristiane, lasciate perdere. Matteo diceva “dai loro frutti li riconoscerete”, cioè da quello che fate. La metafora giusta invece è quella del fiume con i vari affluenti. In fondo, noi cosa siamo? E, generalizzando, voi siciliani cosa siete? Quanti affluenti hanno forgiato la vostra identità? Gli arabi hanno lasciato traccia nei nomi delle città, nella fisionomia delle persone, nel folklore, nella lingua, e molti altri sono arrivati prima e dopo di loro. Noi siamo figli di tanti apporti e diventiamo un’altra cosa da quello che eravamo o credevamo di essere. L’idea della sostituzione etnica mi fa sorridere perché se la prendiamo un po’ più alla lontana veniamo tutti dall’Africa. Gli Erectus, gli Habilis, i Neanderthal e i Sapiens di cui tutti quanti, alcuni abusivamente, ci sentiamo eredi, sono venuti dall’Africa in ondate diverse. Tra l’altro, i Neanderthal, che sono precedenti, sono andati via dall’Africa prima e, quando sono andati via i Sapiens, nel Medio Oriente si sono incontrati con i Neanderthal; noi abbiamo anche dei geni Neanderthal perché le prime coppie miste, in fondo, sono di quel periodo lì.

E a proposito, le coppie miste sono dei laboratori interessanti perché in famiglia inventano delle soluzioni che possono essere buone per la società: accolgo pezzi della tua cultura o della tua religione e non altri, cambio io la mia cultura, la cambia l’altro, le pratichiamo tutte e due, mangiamo sia l’una che l’altra cosa, diamo il nome ai figli, ne diamo due, ne diamo uno che non è né della mia cultura né della tua. La media nazionale di coppie miste, cioè persone di Paesi diversi è già al 15%, e naturalmente è più alta laddove è più antica l’immigrazione.

D.M. Per governare le migrazioni auspichi «scenari di maggiore cooperazione intergovernativa, mutuamente vantaggiosi, capaci di implementare la fiducia tra governi e tra Paesi, basati su un riconoscimento di pari dignità tra partner» (Allievi 2023: 44). In occasione del summit Italia-Africa 2024, svoltosi a Roma, il rappresentante dell’Unione Africana, Moussa Faki, ha lamentato la mancanza di consultazione della controparte africana. La prima questione è capire in cosa consiste esattamente la cooperazione. La creazione di hot-spot rientra nel quadro della cooperazione? Vi rientrano gli accordi di Danimarca e Gran Bretagna con il Ruanda, Paese con discutibili livelli di democrazia e diritti umani, per la gestione delle richieste di asilo? L’altra questione riguarda il riconoscimento dei partner africani come eguali. Enrico Mattei cercava effettivamente un rapporto paritario con i Paesi produttori di petrolio ma la vicenda del summit rivela la persistenza di un retaggio coloniale o neocoloniale. Il linguaggio tradisce l’esistenza di gerarchie laddove usiamo termini di derivazione coloniale quali “etnia”, “tribù”, “razza” per differenziare le “primitive” società africane dalle “evolute” società europee, organizzate in nazioni e Stati. Anche i giornalisti più accorti, animati dalle migliori intenzioni, ripropongono certi automatismi. Nel libro La speranza africana, Federico Rampini, ad esempio, rileva, i «segnali sorprendenti» provenienti dalla diaspora africana negli Stati Uniti a cui si riferisce in termini di “gruppo etnico” (Rampini 2023: 7). La nozione di etnia africana si accompagna ad una visione evoluzionista delle civiltà, all’idea eurocentrica che le società occidentali siano «il cuore e il motore della storia» (Gentili 1995: 14), mentre i Paesi africani permangono allo stadio di Paesi sottosviluppati o in via di sviluppo. Non è sorprendente, allora, l’opinione di un mio studente secondo il quale, se i programmi scolastici non includono l’Africa è perché la storia dell’Africa non è caratterizzata da eventi rilevanti meritevoli di attenzione.

Stefano Allievi (ph. Anna Fici)

Marsala, Stefano Allievi (ph. Anna Fici)

S.A. È prevedibile che tra pochissimi anni vi sarà una fortissima emigrazione, che peraltro è già cominciata, dall’Europa verso l’Africa. Anzitutto perché andiamo ad aprire fabbriche in Africa, ma poi anche per altri motivi, come già un’emigrazione di livello medio-alto si registra verso gli Emirati. È sempre utile rovesciare la prospettiva. Una mia collega che ha lavorato sugli italiani a Berlino rilevava che alcuni andavano in Germania con un progetto, altri, che lei chiamava gli avventurieri, andavano via senza arte né parte, senza avere alcuna idea, senza conoscere la lingua. Un altro cambiamento che si registrerà tra pochissimi anni è che il terzo Paese più popoloso al mondo sarà la Nigeria, che supererà gli Stati Uniti. Ci sono zone dell’Africa dove, in controtendenza con quanto avviene in Europa, i tassi di crescita annuale del PIL sono a due cifre. I ritmi di crescita africani attirano anche gli europei, che cercheranno di trarne profitto. Rovesciare la prospettiva vuol dire osservare questi cambiamenti. Recentemente ho visto una attivista che indossava una maglietta con la frase: «Illegal immigration started in» e la data era il 1492 – anche questo un rovesciamento di prospettiva.

A proposito di cooperazione, tre sono le cose che dovremmo fare per governare l’immigrazione. La prima è fare degli accordi con i Paesi d’origine per aprire dei canali regolari d’ingresso. Solo in questo modo è possibile ridurre l’immigrazione irregolare, che oggi rappresenta la quasi totalità degli ingressi per via dell’assenza di canali legali alternativi. Se andate online e digitate “Passport Index”, troverete in quanti Paesi noi possiamo andare senza visto: sono 177. L’Italia ha il secondo più forte passaporto al mondo, insieme ad altri Paesi europei. In una situazione ancora migliore si trovano gli Emirati Arabi Uniti. Se a qualcuno di noi venisse voglia di andare in Ghana, semplicemente perché gli piace il nome, anche senza alcun progetto, acquisterebbe online un biglietto low cost e in sei ore di aereo sarebbe ad Accra. Un cittadino ghanese non potrebbe fare la stessa cosa, perché noi richiediamo un visto che concediamo solo in casi molto particolari. I Paesi con condizioni di vita peggiori sono quelli che hanno i passaporti peggiori: Yemen, Somalia, Etiopia, Iraq, Pakistan, Siria, Libia, ecc.: Paesi dove ci sono dei conflitti (nei quali spesso c’è il nostro zampino) o risorse minerarie importanti. Un bellissimo proverbio africano dice che se uno ruba il miele dall’alveare, le api lo seguono, che è una bella interpretazione delle migrazioni. Fare degli accordi è l’unica strada possibile. A differenza di quelli già stipulati gli accordi devono prevedere come prima cosa il rilascio di un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro. Avere un lavoro prima dell’ingresso regolare in Italia è una finzione perché il mercato del lavoro funziona diversamente. Come fai ad avere un lavoro in Italia se stai ad Accra? Come fai a conoscere un datore di lavoro se stai altrove? È solo dopo avere cambiato le leggi che è ragionevole chiedere la collaborazione dei Paesi partner per trattenere gli irregolari, e solo in quel caso peraltro i Paesi di partenza accetteranno i rimpatri di quelli che delinquono. E gli accordi vanno fatti su base paritaria. Quando i politici italiani affermano di volere aprile gli hotspot in Tunisia, sembrano trascurare il fatto che gli Stati africani sono Paesi sovrani ai quali spetta la decisione. L’accordo sull’Albania dà l’idea del nonsenso degli hotspot. L’accordo consiste tecnicamente nel costruire delle basi a spese nostre per mandare in Albania delle persone, che sono già a Lampedusa, con personale italiano (poliziotti, infermieri, ecc.) che viene pagato di più, perché è in trasferta, per gestire le pratiche. Se si tratta di richiedenti asilo, questi vanno riportati in Italia, se non lo sono cercheranno di arrivare irregolarmente con un barcone dall’Albania oppure via terra dai Balcani. In breve, è come se noi per diminuire le code nella sanità, aprissimo un ospedale a Tirana e ci portassimo sia i malati che i medici e gli infermieri.

Enrico Mattei era un sincero democratico, un partigiano cattolico liberale che voleva fare accordi paritari riconoscendo ai Paesi produttori il 50% degli utili. Per questo Mattei era un personaggio scomodo che ha portato avanti una politica contraria agli interessi delle Sette sorelle, le società petrolifere degli Stati Uniti e di altri Paesi europei, ed è stato ammazzato. Per cui io sono felicissimo che un governo si ispiri a Mattei, ma questo vuol dire seguirne l’approccio, ovvero dialogare con i diretti interessati, altrimenti è come fare una festa a casa di altri imponendo ospiti e menù. La logica degli accordi è quella giusta, ma fare accordi implica avere un’idea dell’Africa diversa rispetto a quella corrente, secondo cui gli africani non hanno mai inventato niente o non hanno cultura. Provate a immaginare di leggere solo libri italiani: gli scrittori italiani guadagnerebbero di più, ma noi perderemmo non solo il piacere della lettura, ma soprattutto il punto di vista di un’altra cultura che è quello che ci serve. E lo stesso vale per la pittura, la musica, il cinema. Inoltre, molti che lavorano sul cambiamento climatico sostengono che, per sopravvivere come specie, gli occidentali dovrebbero imparare dalle culture cosiddette “inferiori”, dalle culture native, che hanno mantenuto un rapporto sano con l’ambiente. Analogo discorso vale per le religioni. Le idee diffuse sull’islam sono approssimative e i musulmani non vi si riconoscono così come i cristiani non accettano di essere descritti semplicisticamente come europei privi di morale, che esibiscono nudità femminili senza pudore. La realtà è diversa, la nostra civilizzazione, come la loro, è più complicata.

D.M. L’integrazione presuppone il riconoscimento, l’accettazione dell’Altro, e chiama in causa la società ospitante. Tu scrivi che «gli autoctoni hanno bisogno che venga loro spiegato quello che succede nei loro quartieri, la novità che porta lì nuove popolazioni e culture» (Allievi 2023: 60). A che punto siamo su questo fronte, si registrano buone prassi o segnali in questo senso?

S.A. Vi riporto l’esperienza della Germania che era il Paese più vecchio d’Europa insieme all’Italia. Nel 2015, in un solo anno, ha consentito l’ingresso di quasi un milione e mezzo di persone. L’arrivo di centinaia o migliaia di richiedenti asilo anche in percentuali rilevanti è stato preparato informando la popolazione dei vantaggi che ne sarebbero derivati. Cinquecento persone in più in un paese, poniamo, equivale a cinquecento clienti in più per i negozi, duecento appartamenti in più da affittare o costruire, pazienti in più per i medici, nuove sezioni a scuola per accogliere i bambini. Oggi la Germania ha recuperato il gap demografico con un vantaggio anche economico, puntando con pragmatismo non sugli slogan ma sui numeri.

L’integrazione si può anche non volerla per interessi politici ma per fortuna accade lo stesso. Le scuole sono laboratori di integrazione. La presenza di allievi immigrati suscita allarme ma sarebbe da considerare un fattore positivo, come avviene con gli indicatori di internazionalizzazione all’università. A scuola, fino alla seconda, terza elementare, non si manifestano problemi di rapporti tra gruppi etnici, linguistici o religiosi: cominciano quando sentono cosa si dice in casa. Nella nostra società ci sono gli immigrati e i nativi della pluralità culturale: gli immigrati sono le prime generazioni che arrivano, ma anche le prime generazioni che li vedono arrivare; i nativi sono quelli che si ritrovano a scuola insieme, e hanno, appunto, un punto di vista diverso. Questo mi fa essere lievemente più ottimista di quanto sarei guardandomi intorno, guardando solo gli adulti.

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Riferimenti bibliografici
Allievi S., Governare le migrazioni. Si deve, si può, Bari-Roma, Laterza, 2023.
Carletti T., La Tunisia e l’emigrazione italiana (marzo 1903), in Ministero degli Affari esteri, Emigrazione e colonie. Raccolta di rapporti dei rr. agenti diplomatici e consolari, Roma, Tipografia dell’unione cooperativa editrice, 1906, vol. II: 297-409.
Cordova G., Karim e gli altri. La gioventù tunisina dopo la primavera, Torino, Rosenberg & Sellier, 2022.
Gentili A.M., Il leone e il cacciatore. Storia dell’Africa sub-sahariana, Roma, Carocci, 1995.
Henia A., Le rôle des étrangers dans la dynamique sociopolitique de la Tunisie (XVIIe-XVIIIe siècle). Un problème d’historiographie, in «Cahiers de la Méditerranée», n. 84, 2012 : 213-233.
Melfa D., Migrando a sud. Coloni italiani in Tunisia (1881-1939), Roma, Aracne, 2008.
Rampini F., La speranza africana. La terra africana: concupita, incompresa, sorprendente, Milano, Mondadori, 2023
Rivera A., Il fuoco della rivolta. Torce umane dal Maghreb all’Europa, Bari, Edizioni Dedalo, 2012.
Triulzi A., Italian-speaking Communities in Early Nineteenth Century Tunis, in «Revue de l’Occident musulman et de la Méditerranée», n. 9, 1971: 153-84.
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Stefano Allievi, è professore ordinario di Sociologia all’Università di Padova, e direttore del master in Religion, Politics and Global Society. È specializzato nello studio dei fenomeni migratori, in sociologia delle religioni (con particolare attenzione alla presenza dell’islam in Europa) e in studi sul mutamento culturale. Svolge anche un’intensa attività di divulgatore, come autore e performer. Tra i suoi ultimi libri Governare le migrazioni (2023), Il sesto continente (2023) e Torneremo a percorrere le strade del mondo. Breve saggio sull’umanità in movimento (2021) www.stefanoallievi.it
Daniela Melfa,è professoressa ordinaria di Storia e istituzioni dell’Africa presso il Dipartimento di Scienze politiche e giuridiche dell’Università di Messina. Nel 2008 ha pubblicato la tesi di dottorato sui viticoltori italiani nel protettorato tunisino, mentre del 2019 è il volume Rivoluzionari responsabili. Militanti comunisti in Tunisia (1956-93). Ha ricoperto la carica di presidente della Società per gli Studi sul Medio Oriente (2017-2019) ed è vicepresidente dell’Associazione di Studi Africani in Italia (2021-24).

Più migranti, e più figli: non è un’alternativa. E a proposito di Nordest…

FACCE DISPARI

Stefano Allievi ci spiega perché “non bastano più figli, servono migranti regolari”

 

FRANCESCO PALMIERI   

Sociologo, studioso dei fenomeni migratori, il suo ultimo libro è il “Dizionario del Nordest”. E dice: “Smettiamola con la retorica dell’invasione: l’allarme è ingiustificato. Solo con nuovi ingressi potremo salvare l’Italia”

Sociologo, studioso dei fenomeni migratori, milanese che ha scelto il Nordest dove vive da venticinque anni, Stefano Allievi è infaticabile autore di saggistica e infaticabile lettore di poesia (“per igiene mentale”). Ordinario di Sociologia all’università di Padova, il suo ultimo libro è il ‘Dizionario del Nordest’ uscito per Ronzani Editore, in cui sostiene, per dirla in sintesi, che il Nordest non esiste più. E poiché è capitato di sentirlo nel giorno degli Stati Generali della Natalità, non si è fatto sfuggire l’occasione per ricordare che, secondo lui, solo con l’arrivo dei migranti il Nordest (esista o meno) e l’Italia si possono salvare

Professore, cos’è il Nordest?

È retorica e aspirazione. Serve a vendere prodotti, soprattutto politici, con il richiamo a una identità molto ampia. Ma tra il Friuli e il Veneto ci sono enormi differenze, per non parlare del Trentino o addirittura dell’Emilia-Romagna, inglobata nella stessa circoscrizione elettorale alle Europee. Il Nordest è una invenzione politica e giornalistica, che ha funzionato per un bel po’ di tempo come chiave di presunta unicità: “Siamo la locomotiva d’Italia, quelli che lavorano più degli altri” e così via. Ma è da una ventina d’anni che il Nordest è un magma senza caratteri comuni, né politici né economici. Nello stesso Veneto, il Polesine, Belluno, Verona o Venezia sono tanti mondi a sé.

Come definire questo “magma”, che esiste ma non c’è?

Una sorta di metropoli diffusa che non è metropoli ma è sparpagliata tra città medie, piccole e campagne. Con un tessuto sociale provinciale, al cui interno ci si conosce bene e non si parla male, in pubblico, degli altri. Ci si protegge reciprocamente, non si è entusiasti di chi viene da fuori e i migranti sono brutti e cattivi, anche se il Veneto registra un saldo demografico negativo e una drammatica carenza di manodopera, perché a differenza della Lombardia il calo della natalità non è compensato dagli afflussi dall’Italia e dall’estero.

Cambieranno le cose con politiche più incisive a favore della natalità?

Sono auspicabili ma insufficienti in un Paese che ha perso in un anno 400 mila persone. Le politiche più “nataliste” del mondo, ammesso che le finanziassimo, avrebbero effetti sul mercato del lavoro tra vent’anni: vuol dire che intanto migliaia di aziende già senza manodopera avranno chiuso o si saranno spostate all’estero, con una enorme perdita di produzione e di ricchezza nazionale. Ci siamo mossi tardi: dell’inverno demografico bisognava accorgersi tanto tempo fa. Invece ci siamo svegliati solo da un paio d’anni, quando oltre a parlare degli sbarchi abbiamo constatato quanti giovani italiani emigrino per non restare in un Paese per vecchi.

Crede che l’arrivo di migranti possa risolvere i problemi economici piuttosto che aggravare quelli sociali?

Smettiamola con la retorica dell’invasione: l’allarme è ingiustificato. E poi gli arrivi irregolari non sono frutto del destino, ma li abbiamo creati noi. Quarant’anni fa non c’erano i barchini perché si poteva andare e tornare dall’Europa, non solo dall’Italia, senza tutte le attuali restrizioni che hanno prodotto evidenti risultati: morti in mare, migranti con livello d’istruzione sempre più basso e aumento dei minori non accompagnati, che rappresenta una bomba sociale. Non avveniva dai tempi di Neanderthal che dalle caverne invece degli adulti uscissero i bambini per procacciare il cibo.

 

 

Porti aperti?

Porti chiusi ai migranti irregolari, aperti ai flussi regolari. La soluzione va cercata negli accordi diretti con i Paesi di origine, stabilendo una quota annua di arrivi per ciascuno. Gli hub in Tunisia non risolvono, rivelano piuttosto una visione ancora sottilmente colonialista rispetto a Paesi che hanno un’opinione pubblica, dei media e un elettorato cui rispondere. Gli accordi diretti permetterebbero anche una selezione a monte e renderebbero realistico l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Non abbiamo bisogno solo di richiedenti asilo, ma dei migranti economici. Chi dice il contrario va contro i giovani italiani. Sembra un’eresia per la vox populi, ma gli addetti ai lavori lo sanno.

Spieghi alla vox populi.

Quando il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati non sarà più di 3 a 2 ma di uno a uno, quella generazione dovrà mettersi sulle spalle un peso insostenibile. All’università i ragazzi mi rispondono: allora anch’io lascio l’Italia. Già oggi, per semplificare con un parametro approssimativo ma facilmente memorizzabile, un giovane di 25 anni guadagna il 25 per cento in meno del suo coetaneo di 25 anni fa.

Perché non si fanno figli?

Non riduciamo tutto a questione di edonismo. In Italia il 45% delle donne in età fertile non ha figli, ma solo il 5% tra loro dichiara di non volerli. È che il nostro, pur essendo un Paese familista, non offre grandi servizi alla famiglia. Dai nidi alle scuole a tempo pieno ai congedi a cose più banali, come i fasciatoi al ristorante o lo skipass gratuito per i piccoli. Difatti le italiane emigrate in Germania o in Olanda fanno figli e li conciliano bene con il lavoro.

Il periodo della pandemia è stato un’occasione di cambiamento sciupata?

Non solo: ha aggravato la situazione, perché le donne hanno sofferto di più la perdita di lavoro e si è aggravato il divario tra garantiti e non garantiti. Non è un dramma all’orizzonte. Ci siamo già dentro.

     

    Contro gli sbarchi incontrollati, gestire l’immigrazione regolare. Intervista Radio 1

    Contro gli sbarchi incontrollati e l’immigrazione irregolare, gestire l’immigrazione regolare e i processi di integrazione.

    Nel nostro interesse, e nell’interesse di chi arriva.

    In quest’intervista a Radio Anch’io sintetizzo in un audio di 9 minuti le basi di quella che potrebbe essere una diversa narrazione sull’ #immigrazione e gli #sbarchi a #Lampedusa e altrove: https://av.mimesi.com/play?ij=true&v=44357/ffa3c49c-67f4-4cb0-af33-d1a96231dc6f.mp3

    Video: perché “Torneremo a percorrere le strade del mondo”

    Mobilità umana, migrazioni, turismo e tanto altro: perché torneremo a percorrere le strade del mondo

    Urbino. All’inaugurazione dell’anno accademico, imprevedibilmente, fa capolino un libro…

     CORRIERE ADRIATICO

    Cipolletta all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università di Urbino:
    «Innovazione dalla pandemia»

     

    Mercoledì 20 Ottobre 2021 di Eugenio Gulini

    URBINO – Con la sollecitazione “They call us dreamers but we are the ones who never sleeps” (“Ci chiamano sognatori ma siamo quelli che non dormono mai”) si è aperto ieri, al Teatro Sanzio, l’anno accademico 2021 – 2022 dell’università Carlo Bo di Urbino al 516esimo anno dalla fondazione. Ospite d’onore, con la sua personale lectio magistralis, Innocenzo Cipolletta. Il tema dello statistico ed economista, già direttore generale di Confindustria, era attualissimo e a lui molto caro: “La fatica di innovare”.

    La ripartenza
    Prima di lui il rettore Giorgio Calcagnini si è rivolto agli studenti con «l’augurio che ci si possa avviare verso una normalizzazione che consenta di accogliervi in aule confortevoli piuttosto che in un dialogo a distanza che, pur utile in determinate circostanze, è sicuramente meno rispondente alla mission di una Università come luogo di relazioni. Il nostro obiettivo prefigura una speranza: ripartenza. Forniti di una consapevolezza nuova, di nuove precauzioni, di nuove forme di socialità, dobbiamo essere pronti, con progetti sostenibili, a ripartire per nuove destinazioni, facendo emergere le difformità dei contesti in cui viviamo, annullando le distanze culturali e sanando le disuguaglianze sociali ed economiche. Magari, in questo viaggio, saremo ancora costretti ad esibire un passaporto sanitario piuttosto che uno anagrafico – ha concluso Calcagnini – ma sicuramente, per esemplificare il titolo di un recente e fortunato saggio del sociologo Stefano Allievi , “torneremo a percorrere le strade del mondo”».

    Il personale amministrativo
    Alessandro Gambarara, in rappresentanza del personale tecnico amministrativo, ha evidenziato come quest’ultimo «è sempre stato ed è tuttora in prima linea per profondere le proprie capacità per un proficuo funzionamento dell’istituzione universitaria, rappresentando un collante fondamentale tra docenti e studenti per tornare a vivere, in condivisione, gli spazi e le attività». Federica Titas, presidente del Consiglio degli studenti, ha auspicato «che si rafforzi sempre più l’attenzione dei docenti nei nostri riguardi, essendo noi l’anima di questa città. E, nel contempo, vorrei dai miei colleghi una maggiore partecipazione alla vita universitaria e cittadina, che è molto più dinamica di quel che ci si immagina».

    Il progresso tecnologico
    Infine Innocenzo Cipolletta con una risposta alla domanda “dove andremo”: «Un mondo aperto, collaborativo, retto da regole condivise, inclusivo e attento ai più deboli, ma favorevole al progresso tecnologico e sociale è la risposta ai molti quesiti che stanno sorgendo a fronte dei cambiamenti sociali e climatici che caratterizzano la nostra epoca. Sta a noi, anche a noi contribuire a costruirlo, se sapremo guardare con spirito aperto ai grandi cambiamenti che ci attendono e se sapremo volgerli a vantaggio di tutti, senza rimanere centrati sui nostri interessi di breve termine e senza cedere alla paura del nuovo e di ciò che ci è straniero».

    I costi e la fatica
    «Non sono un accademico di professione pur avendo svolto attività didattica per alcuni periodi – così ha esordito Innocenzo Cipolletta – Ho passato gran parte della mia vita ad osservare l’economia partendo dai numeri. In effetti, sono uno statistico che ha iniziato a lavorare sulla congiuntura economica, ossia studiando come evolve l’economia nel breve termine. Ma avendola osservata ormai per quasi 60 anni, alla fine ho finito per avere sotto gli occhi una storia lunga, di evoluzioni e di cambiamenti previsti e non previsti. La pandemia che ci ha colpiti ha generato un processo di reazione che spinge verso nuovi e più profondi cambiamenti. Investire nell’innovazione rappresenta la via principale per crescere. Ma l’investimento nell’innovazione è costoso e faticoso».

     

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    Allievi: “I garantiti si sono tenuti stretti i privilegi, gli altri ne hanno pagato il prezzo”

    Un’intervista a Venezie Post – 6 marzo 2021

    ANALISI & COMMENTI

    Allievi: “I garantiti si sono tenuti stretti i privilegi, gli altri ne hanno pagato il prezzo” – VeneziePost

    Il suicidio di Omar Rizzato è il disperato grido di una intera categoria di lavoratori dimenticati. Citando Durkheim, anche l’atto individuale per eccellenza ha determinanti sociali: e la totale mancanza di solidarietà e attenzione rispetto al prossimo a cui abbiamo assistito in questi ultimi mesi ne è la dimostrazione. Parla Stefano Allievi, professore di sociologia all’Università di Padova e acuto osservatore delle trasformazioni economico, sociali e culturali del Paese

     

    Prof. Allievi, martedì scorso è uscito sul Corriere del Veneto un suo articolo su “I dimenticati della cultura”. Da cosa è scaturito il bisogno di scriverne?

    “Mi sento molto vicino alle persone che sono state direttamente colpite dalle situazioni di forte ingiustizia causate non tanto dalla pandemia in sé, ma piuttosto dalle misure che sono state messe in atto per contrastarla. Il suicidio di Omar Rizzato, imprenditore dello spettacolo che si è tolto la vita all’interno della sua azienda ferma da un anno, è il disperato grido di una intera categoria di lavoratori, appunto, dimenticati. Citando Durkheim, anche l’atto individuale per eccellenza ha determinanti sociali: e la totale mancanza di solidarietà e attenzione rispetto al prossimo a cui abbiamo assistito in questi ultimi mesi ne è la dimostrazione. Le categorie più garantite si sono tenute strette i propri privilegi, e tutti gli altri ne hanno pagato un caro prezzo. Ad Omar Rizzato, così come a tutti i lavoratori della cultura e dello spettacolo, è stato tolto persino il diritto di affogare i propri dispiaceri nel lavoro. E così, come molti altri prima di lui, non ha avuto alcuna valvola di sfogo per i propri dispiaceri.”

    Ritiene che i lavoratori della cultura siano stati abbandonati a sé stessi?

    “In questi mesi si è parlato molto di alcune categorie lavorative, come quelle della ristorazione e del turismo, ma quella della cultura sembra non interessare nessuno. Tutto ciò che questa categoria di lavoratori ha ricevuto, in un anno di silenzio, sono stati dei ristori a dir poco ridicoli. Ma si tratta di persone che per anni hanno pagato un prezzo di precariato già molto alto: chi fa questi lavori spesso lo fa per passione e senza alcuna garanzia di successo, ma da un anno a questa parte non è permesso fare nemmeno questo. E le conseguenze di questo disinteressamento si vedono: nella città in cui io lavoro, Padova, c’è un potenziale di creatività straordinario dovuto alla presenza di moltissimi giovani studenti; ma l’apertura è poca e l’immobilità si fa sentire. Questo è uno dei motivi che portano al tanto discusso fenomeno della fuga dei cervelli.”

    Crede che il disinteressamento sistematico rispetto alla categoria dei lavoratori dello spettacolo possa essere un sintomo della tendenza, tutta italiana, a sminuire il valore della cultura?

    “Non ho dubbi su questo. Il nostro è il Paese con il più alto tasso di patrimonio storico e culturale del mondo, eppure non lo tuteliamo. La cultura è il petrolio della nostra economia, ma non la valorizziamo. Allo stesso modo, invece di dare valore ai nostri giovani laureati, mettiamo loro i bastoni tra le ruote e li costringiamo a prendere la decisione di emigrare all’estero. In testa alle classiche sull’emigrazione non ci sono le regioni del sud, ma quelle del nord produttivo: l’Emilia-Romagna costituisce una felice eccezione, in quanto è riuscita a ridurre la cosiddetta emigrazione intellettuale grazie a degli investimenti ad hoc nei settori produttivi e nei distretti. La Lombardia, pur prima regione come emigrazione, ha comunque un saldo positivo. La situazione del Veneto, invece, è agghiacciante: esportiamo verso l’estero e le regioni connanti più laureati di quanti ne importiamo dall’estero o dal sud, e siamo così l’unica grande regione del nord ad avere un saldo negativo. Nonostante la tragicità di tutto ciò, però, l’unico fenomeno che sembra interessare il dibattito politico è quello dell’immigrazione, che per inciso, se confrontiamo gli sbarchi con gli emigranti, riguarda numeri di circa venti volte più piccoli rispetto a quelli dell’emigrazione. Il nostro è un Paese che disprezza l’istruzione: l’analfabetismo funzionale colpisce quasi un italiano su tre, il doppio della media europea, e abbiamo la metà dei laureati, ma il dibattito pubblico non sembra considerarlo un problema. Da un tessuto sociale di questo tipo, che non comprende l’importanza di un investimento massivo in cultura, istruzione, ricerca, non ci si può aspettare che la politica comprenda i benefici collettivi che questo potrebbe apportare all’intera società.”

    La crisi dell’ultimo anno non ha colpito tutte le categorie demografiche allo stesso modo. Ha fatto scalpore il dato Istat di dicembre 2020: 101 mila posti di lavoro persi in un solo mese, 99 mila dei quali occupati da donne. Cosa pensa rispetto al divario di genere e alla sua relazione con quello generazionale?

    “Le discriminazioni di quelle che io chiamo le “3 G” si intersecano in continuazione: i divari di genere e generazionali si incrociano con quello tra garantiti e non garantiti. E così il discorso sul divario di genere non può prescindere da quello del conitto generazionale, né tantomeno da quello del lavoro precario o invisibile. Soprattutto in un momento di profonda crisi come quello attuale. La nostra è una società a misura di anziani: i pensionati rappresentano la metà degli iscritti a sindacati e parte preponderante degli iscritti e della constituency dei partiti, per cui non sorprende che si facciano sempre più leggi a favore di categorie che già possiedono molte garanzie. Giovani e donne dovranno anche fare i conti con l’immobilismo e la mancanza di meritocrazia, le piaghe moderne che afiggono la nostra società. La lotta per la meritocrazia da parte di tutte le categorie svantaggiate non può che giovare all’intero sistema Paese, ma credo sarebbe salubre anche una maggiore dose di conitto intergenerazionale e di genere rispetto all’attuale allocazione delle risorse.”

     

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    “Fratelli tutti”: un commento

    Com’è arduo essere Fratelli tutti… Padre Francesco Occhetta e Stefano Allievi commentano l’enciclica di papa Francesco

    L’enciclica. Padre Francesco Occhetta e il prof. Stefano Allievi commentano il documento, complesso, di papa Francesco. Dalla necessità di meditare il testo per superare facili slogan al rischio dell'”occidentocentrismo”

    Com'è arduo essere Fratelli tutti... Padre Francesco Occhetta e Stefano Allievi commentano l'enciclica di papa Francesco

    C’è la parabola del Buon Samaritano al centro di Fratelli tutti, la terza enciclica di papa Francesco incentrata «sulla fraternità e l’amicizia sociale». Nelle sintesi della stampa tanti sono gli elementi che hanno colpito, emozionato o semplicemente fatto discutere: dalla critica verso il populismo agli eccessi del pensiero neo-liberista, dalla condanna finale verso la pena di morte fino alla necessità degli organismi internazionali contro i rigurgiti del nazionalismo identitario. Ma nel cuore, nel cuore vero, di questo documento chiamato a sistematizzare il magistero di Francesco su tali argomenti, c’è sempre l’icona evangelica dello straniero che si china sull’uomo incappato nei briganti e versa olio e vino sulle sue ferite.

    Spiega padre Francesco Occhetta, gesuita, coordinatore del cammino di formazione alla politica Connessioni: «La pagina di Vangelo è la chiave per interpretare l’enciclica, prima dei frutti occorre nutrirsi della radice. Il samaritano disprezzato dalla cultura giudaica, rovescia la logica del prossimo che è il proprio vicino, egli “non ci chiama a domandarci chi sono quelli vicini a noi, bensì a farci noi vicini, prossimi”, scrive il papa». Va letta così, insomma: «È per questo che l’enciclica richiede una meditazione personale, non è un testo sociologico o politologico come molti pensano, ma dialoga con il mondo a partire dalla prospettiva del Vangelo. “Volete onorare il corpo di Cristo? Non disprezzatelo quando è nudo”, ribadisce l’enciclica. In questo senso Fratelli tutti elenca tutte le situazioni in cui gli uomini e le donne soffrono come vittime dei sistemi sociali e politici e, come sempre, la Chiesa presta la sua voce a chi non ce l’ha».

    Papa Francesco non usa mezze misure per attaccare sia il populismo sia gli eccessi del neoliberismo tecnocratico. C’è chi ha addirittura parlato di una “Terza via” di Francesco. «La “terza via” della Chiesa – osserva padre Occhetta – è quella di sempre, non è un’alternativa politica, ma un’ispirazione per tutti per far sì che la comprensione della coscienza sociale evolva verso la dimensione della fraternità intesa come processo. Il papa invita i politici a riconoscere che la fede nel “mercato non risolve tutto”, il modello consumista ci ha ormai consumati e logorati; occorre rilanciare una politica popolare, riconoscere le false promesse del populismo, denunciare i limiti della visione del liberismo inteso come teoria economica e non come filosofia politica. L’alternativa? È costruire comunità inclusive locali e globali che difendano la dignità umana, l’antidoto è il popolarismo».

    «I populismi sono come burrasche che si infrangono su Governi e istituzioni e si presentano come movimenti storici ciclici – riassume padre Occhetta – Viviamo immersi in una corrente culturale che nega il pluralismo e le minoranze interne; venera i leader come padri e padroni che appaiono nei media come uniche voci; esalta il nazionalismo e il sovranismo; ignora gli enti intermedi nella società, come la Chiesa, i sindacati, le associazioni e così via; predilige la democrazia diretta su quella rappresentativa; forma la pubblica opinione attraverso appelli, a emozioni e a credenze personali; confonde la destra e la sinistra e fa apparire il Nord contro il Sud, il “noi” contro loro; semplifica a slogan soluzioni complesse, come “il reddito di cittadinanza”; contrappone tra le categorie di “popolo puro” e di “comunità politica”». Ed è proprio in questo contesto che ritorna in auge una parola divenuta per molti parolaccia: la parola popolo. «Occorre ritornare all’arte della mediazione che aiuta a trovare soluzioni complesse, essere competente sui temi, prediligere il “noi” politico sull’io che porta a forme di potere distorte e alla corruzione. Per chi amministra il “ritorno alla compassione” è la condizione per la buona politica, come la chiama Francesco».

    Il papa arriva addirittura a parlare di “amore politico: «Sembra una contraddizione, visto anche cosa succede a Roma, ma la Chiesa non è il Vaticano. Prima di insegnare l’amore al mondo occorre renderlo testimonianza possibile e credibile a partire dalle comunità cristiane, occorre “riconoscere ogni essere umano come un fratello o una sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non sono mere utopie” (n.180). Ma c’è di più, l’amore cristiano è dire “eccomi” più che tanti falsi “ti amo”, per questo il mondo lo si cambia dai piccoli gesti: “Se qualcuno aiuta un anziano ad attraversare un fiume – e questo è squisita carità –il politico gli costruisce un ponte, e anche questo è carità. Se qualcuno aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro, ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica (n. 186). I credenti impegnati in politica devono abbandonare i vecchi schemi, formarsi davvero insieme attraverso una nuova cultura della fraternità. Ci sono molte realtà che lo stanno facendo, personalmente mi sento di suggerire l’esperienza di Comunità di Connessioni e la neonata Base che connettono volti nuovi, competenze e un nuovo metodo di formazione in sintonia con l’enciclica».

    E ai massimi livelli, papa Francesco, citando l’Unione Europea, l’integrazione nell’America Latina e le Nazioni Unite invita a governare la globalizzazione: «Nel secolo XXI – leggiamo nell’enciclica – si “assiste a una perdita di potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politica. In questo contesto, diventa indispensabile lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate, con autorità designate in maniera imparziale mediante accordi tra i governi nazionali e dotate del potere di sanzionare” (n. 172)».

    Un’enciclica ricca di «temi e parole chiave molto legate all’attualità. Forse anche troppo». Stefano Allievi, docente di sociologia all’Università di Padova, riconosce: «L’enciclica privilegia alcuni temi, come la lotta alle diseguaglianze, l’accoglienza degli stranieri, la possibilità di rendere universali i diritti umani che esistono solo per una minoranza. Il documento, anche a partire dagli esempi citati, però, corre il rischio dell’”occidentocentrismo”. Le encicliche hanno sì il bisogno di attualizzare il messaggio evangelico nell’oggi, però l’effetto collaterale è quello di cedere a interpretazioni episodiche, che valgano solo per il momento presente». Per Allievi è un limite ridurre tutta l’enciclica a un attacco al populismo e a certi leader: «Mi sembra sia sprecarne e rovinarne il messaggio. Il richiamo più importante dell’enciclica sta nel bisogno di ricostruire legame sociale e di ricostruire comunità intorno a una visione di società, a un progetto inclusivo. Gli attacchi contro un modo di pensare per cui qualcuno possa restare indietro sono forti e insistiti, ed è importantissimo ribadirlo oggi. Esistono però anche, nel nostro tessuto sociale, tante proposte che stanno andando nella stessa direzione inclusiva: si tratta di forze che esistono già e che forse non si notano molto, mentre si notano di più i bersagli polemici».

    Stefano Allievi non nega che però anche la parola comunità sia un’arma a doppio taglio: «È una parola problematica, perché tende a presupporre dei confini tra chi è dentro e chi è fuori la comunità. Ma questa non è l’idea di comunità di papa Francesco: la sua è quella di una comunità a misura delle persone, anche di chi non ce la fa, dove ci si possa salvare tutti insieme. E qui dentro c’è anche tutto il grande tema delle migrazioni». I riferimenti alla pandemia da Covid-19 per Allievi non sono altro che un ulteriore esempio attorno al quale il papa orienta il suo messaggio: «Francesco non ci illumina sulla pandemia, del resto l’emergenza Covid viene letta in modo diverso in tutto il mondo, ma per il papa la pandemia è l’occasione per ribadire il fatto che “siamo fratelli tutti, dobbiamo salvarci tutti assieme”, e che quando ci sarà il vaccino questo dovrà essere disponibile per tutti, non solo per i privilegiati».

    Il riferimento all’amore politico è in assoluta continuità con il magistero degli ultimi 50 anni: «È apprezzabile il fatto che non c’è mai stata negli ultimi pontificati una demonizzazione della politica. La politica, come diceva Paolo VI, è la più alta forma di carità, ma lo è soltanto se è capace di leggere bene i segni dei tempi, i segni del presente. Ciò che fa questa enciclica è leggere, nell’universo di significati a cui guardiamo dalla nostra finestra sul mondo, alcuni criteri interpretativi e attraverso di essi fare delle scelte in termini di “amore politico”, un atteggiamento di prossimità verso tutti gli esseri umani. C’è un richiamo all’agire politicamente: il bene comune è il riferimento, ma il bene comune lo si produce agendo, non solo pensando».

    Comunità cristiane, invito al dialogo con l’islam

    Fratelli tutti è un’enciclica di cui «si parlerà molto, ma che sarà assai più discussa della Laudato Si’». Per Stefano Allievi, docente di sociologia all’Università di Padova, papa Francesco ha voluto affrontare, parlando della fraternità e l’amicizia sociale, temi assai più delicati rispetto a quelli dell’ecologia integrale. «Almeno a parole – spiega Allievi – siamo tutti a favore della salvaguardia dell’ambiente. In Fratelli tutti, invece, ci sono alcuni bersagli precisi». «Per le comunità ecclesiali – conclude Allievi – sarà forte il riferimento al dialogo interreligioso, in particolare con l’Islam, con il riferimento al grande imam Ahmad Al-Tayyeb, con cui Francesco ha firmato il documento di Abu Dhabi».

    Numerosi i riferimenti nel testo alla pandemia mondiale

    Papa Francesco ha voluto firmare la sua terza enciclica, “Fratelli Tutti”, direttamente sulla tomba del santo di cui porta il nome, alla vigilia della sua festa, il 3 ottobre. Molti i riferimenti alla pandemia da Coronavirus, che «ha messo in luce le nostre false sicurezze» e la nostra «incapacità di vivere insieme». Sulla scorta del suo magistero durante la pandemia papa Francesco auspica «che non sia stato l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare», e «che non ci dimentichiamo degli anziani morti per mancanza di respiratori. Che un così grande dolore non sia inutile. Che facciamo un salto verso un nuovo modo di vivere e scopriamo una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri”. Forte, nel quinto capitolo, il richiamo alla buona politica contro il «populismo irresponsabile».

    “La Difesa del Popolo”, 26 ottobre 2020

    La spirale del sottosviluppo. Intervista a Stefano Allievi.

    (Intervista a cura di Claudio Paravati)

    “La spirale del sottosviluppo” è un titolo impegnativo, per un libro che tratteggia la situazione dell’Italia di oggi. Che cosa intende dire?

    Ho cominciato a scrivere il libro quasi due anni fa, ben prima del Covid, e l’ho concluso durante il lockdown. Quello che emergeva, man mano che affrontavo i capitoli di cui si compone il libro – demografia, immigrazione, emigrazione, istruzione e lavoro – è la loro stretta interconnessione: ed è proprio questa che spiega – molto più che l’approfondimento di ogni singolo argomento – il declino italiano. Molte cose le studiavo da anni (i primi tre temi, in particolare); gli altri li ho maggiormente approfonditi in questa occasione. E man mano che li mettevo in correlazione il quadro peggiorava: come se l’uno spingesse l’altro verso il basso. Da qui anche il sottotitolo: “Perché (così) l’Italia non ha futuro”.

    Con l’arrivo del Coronavirus, naturalmente, tutti gli indicatori sono peggiorati, e non poteva essere altrimenti. Per questo, pur sapendo di essere in un momento in cui c’era un legittimo bisogno di speranza, d’accordo con l’editore abbiamo mantenuto questo titolo duro: è – volutamente – uno schiaffo dato al lettore, ma a fin di bene. Non per fare del male, ma al contrario per svegliare finalmente alla consapevolezza: un po’ come si fa con le persone svenute, prive di sensi. Perché ho la sensazione – che per me è una certezza, dopo tanti mesi di approfondimento dei fondamentali del nostro paese – che non usciremo dall’emergenza affrontando l’emergenza, ma solo e soltanto affrontando i mali strutturali del sistema Italia, che sono quelli che descrivo nel libro. E che erano presenti già prima del Covid.

    In compenso, visto che nel libro sono indicate anche alcune delle ricette necessarie per uscire dalla spirale, e per invertirla, passando da un circolo vizioso ad uno virtuoso, la conferenza-spettacolo che ho tratto dal libro, insieme ai giovani artisti di Fabrica che ne hanno preparato la parte audiovisuale (presentata online durante il lockdown, e che adesso comincia a girare nei teatri e nei festival), ho voluto intitolarla “Ri/partire. L’Italia dopo il Coronavirus”: con un’enfasi sui due significati del termine ripartire – ricominciare, ma anche fare le parti, suddividere, diversamente da come si è fatto fino ad oggi. Perché con il Covid non è solo che stiamo peggio: è che si sono aggravate enormemente le ingiustizie sociali, quelle che chiamo le 3G che dividono il Paese – tra garantiti e non garantiti, tra generi e tra generazioni. E bisogna sanarle.

    L’età media della popolazione italiana è sopra i 44 anni; più della media europea (41,6); si pensi che, come dice lei nel libro, quella del mondo è 29,6 e quella africana 19,4. E ancora: nel 1980 – ci dice a p. 11 – in Italia c’erano 17 milioni di under 20, e 10 milioni di over 60; nel 2015 i dati sono rovesciati: abbiamo 10 milioni di under 20, e 17 milioni di over 60. Di fronte a dati come questi, come si fa a immaginare qualsiasi prospettiva futura? Innovazione, nuove tecnologie… ma anche solo, “banalmente”, la forza lavoro che per natura è forte in età giovanile? 

    La demografia è uno dei temi fondamentali: per questo sono partito da lì. Siamo il paese più vecchio e messo peggio d’Europa (e tra quelli messi peggio al mondo). I bambini diminuiscono (mai così pochi nati dalla Seconda guerra mondiale), la popolazione attiva cala, aumentano solo gli anziani: i non autosufficienti rischiano di essere un decimo della popolazione tra meno di un decennio. Solo un paio d’anni fa il rapporto tra lavoratori e pensionati era di 3 a 2: sarà di 1 a 1 tra pochi anni. Il gap con il resto d’Europa sta aumentando. Eppure, mentre in altri paesi è oggetto di dibattito – in oggettivo collegamento con le riflessioni sull’immigrazione – da noi non ne parlano né la politica né i media. C’è un silenzio assordante e inquietante, che deriva dall’analfabetismo demografico anche delle classi dirigenti. Mentre dovrebbe essere al centro dell’attenzione, con infuocate discussioni sulle politiche da attuare e i progetti da inventare. Da questo dipende tutto: le politiche sulla famiglia (che non ci sono proprio), quelle sul lavoro, sull’istruzione, la riforma previdenziale, e naturalmente una sana ed equilibrata gestione delle migrazioni. E invece si va avanti senza alcun quadro delle priorità, con provvedimenti spot, nella loro quasi totalità a favore degli anziani: si pensi a Quota 100, tra gli altri. Il motivo c’è, e spiega molte cose: gli anziani sono di più dei giovani, e votano in percentuale maggiore (del resto sono la constituency principale tanto dei partiti che dei sindacati); inoltre hanno una capacità di spesa maggiore, e sono al centro di molti interessi economici, a cominciare da quelli legati alla sanità. I giovani invece hanno un reddito medio che è un quarto in meno di quello che avevano i loro coetanei un quarto di secolo fa, e nessuna speranza di ottenere i benefici di cui godono o godranno i loro genitori e i loro nonni, di cui pagano peraltro il prezzo. Ma nessuno se ne occupa. E infatti hanno ricominciato ad emigrare in numeri sempre più significativi…

    Il cortocircuito negativo è complesso, in effetti: non solo più morti che nati, ma anche più emigranti che immigrati.

    Sì, è la prima volta nella nostra storia che sono negativi sia il saldo naturale che quello migratorio: più morti che nati, e dal 2018 più emigranti che immigrati. Non è in corso nessuna invasione: un’evasione, semmai. Per dire: l’anno scorso gli emigranti erano stimati in circa 285.000. Sempre nel 2019, gli sbarchi sono stati poco più di 13.000. Con queste cifre davanti, ci rendiamo meglio conto della sproporzione tra l’attenzione dedicata all’uno e all’altro fenomeno.

    Ci stiamo svuotando, ma purtroppo partono soprattutto giovani e famiglie, quindi l’invecchiamento della popolazione, il suo squilibrio interno, si accresce. In più il tasso di emigrazione è doppio nella popolazione laureata e diplomata, implicando una grossa perdita anche di capitale umano. Con effetti devastanti per l’economia del paese, per l’equilibrio del sistema previdenziale, ma soprattutto per la società, per i suoi orizzonti di riferimento, e anche per i suoi valori guida. Siamo un paese sempre più impaurito, incattivito, chiuso, culturalmente conservatore: normale, se i portatori di speranza, di innovazione e di futuro diminuiscono, o collocano le loro speranze altrove.

    Lei parla di fattore “C”, da conoscenza: ma con la cultura dunque si mangia? A p. 120 scrive: «sarà sempre più importante… è il più potente fattore di sviluppo e moltiplicatore di investimenti e guadagni a disposizione di individui e paesi». Davvero è così? Non servono semmai fabbriche, metalli, grandi aziende? 

    L’istruzione è una grande questione nazionale, forse il principale dei problemi del paese. Abbiamo in media la metà dei laureati d’Europa, e il doppio degli analfabeti funzionali: il 30%, contro il 15% che è la media europea. Tra l’altro è una questione collegata alla demografia: più si è anziani e più si abbassano i livelli di istruzione. Ma soprattutto, questo paese (e le sue classi dirigenti, in particolare quelle politiche) non ne capiscono la centralità e l’urgenza: del resto, la selezione, e non solo in politica, quasi mai passa attraverso la meritocrazia e la conoscenza. Siamo un paese di leggendaria immobilità sociale (conta di chi sei figlio, non cosa sai o sai fare). Se poi si è fatta carriera – politica, burocratica, ma non di rado anche nell’economia e nell’impresa – perché si è amici di, figli di, fedeli di, o perché si è vinta la lotteria del voto, senza alcuna capacità, e senza avere studiato, mai o quasi mai si ha la consapevolezza di quanto l’istruzione sia invece importante. Conoscenza chiama conoscenza: ma anche la sua mancanza, purtroppo, si riproduce. E un paese che non la cerca, o non la programma, per definizione non la trova. Il che è un problema enorme, in una knowledge economy che, da sola, produce più ricchezza anche per i meno istruiti: per capirci, nelle città e nei paesi dove ci sono molti impieghi nei settori innovativi, che presuppongono alti livelli di formazione, peraltro ben pagati, guadagnano di più anche baristi, commessi o carpentieri. E ogni posto di lavoro nei settori avanzati ne crea cinque nei settori tradizionali, cosa che non succede nella manifattura, dove il moltiplicatore è molto più basso. Se noi non investiamo in questo, perdiamo competitività nei confronti dei nostri partner europei e dei paesi sviluppati. E non a caso, infatti, siamo in coda in quasi tutti gli indicatori economico-sociali dell’UE e dell’OCSE.

    Che cosa intende con l’espressione “paradosso di Ventotene”?

    È una metafora che uso nel libro, che prendo da un esempio concreto. L’isola che ha ospitato al confino Altiero Spinelli, padre del federalismo europeo, che proprio lì scrisse il suo manifesto europeista, si è trovata all’incrocio di tutte le variabili di cui tratto nel libro: demografia in calo ed emigrazione hanno portato alla necessità di chiudere la scuola per mancanza di bambini, e al rifiuto di evitarla grazie alla ‘importazione’ di poche famiglie e bambini stranieri, per paura di perdere il lavoro. È una forma possibile di “spirale del sottosviluppo” di cui tratto nel libro, che finisce per impoverire gli autoctoni. E proprio per questo è un esempio efficace: perché le cose, come spiego nel libro, non sarebbero diverse se parlassimo di una regione qualsiasi d’Italia o d’Europa. È un esempio chiaro, direi trasparente – proprio perché lo si vede in un contesto piccolo – di come ci facciamo del male da soli (e soprattutto lo facciamo ai nostri figli, alle generazioni che ci seguiranno), nella totale inconsapevolezza e persino innocenza, se non abbiamo contezza delle connessioni tra i problemi che dobbiamo affrontare.

    Nel libro in effetti emerge con chiarezza come la spirale del sottosviluppo passi dalla concatenazione tra questi fenomeni: demografia, istruzione, immigrazione, emigrazione, lavoro. Nel capitolo conclusivo sono azzardate delle conclusioni di tipo concreto, operativo. Cosa si può fare per non arrendersi al processo di decrescita che è in atto? 

    Innanzitutto prenderne atto: averne consapevolezza, anche nei dettagli, e con dati a supporto. Farne il centro della propria riflessione, direi anche del proprio impegno, civile e politico. C’è bisogno di una riscossa anche morale, e direi di un risveglio – e di un impegno – di tutti, dalle élite (troppo spesso disincantate: tanto, loro, si salvano) in giù. Dobbiamo volerlo, innanzitutto, un paese migliore: e, francamente, non lo darei per scontato. Ci sono troppe persone a cui la situazione va benissimo così, troppi interessi legati all’immobilismo attuale, al non mettere in discussione gli equilibri raggiunti: e non parlo di oscure lobby, ma di banali contrapposizioni assai quotidiane, che ormai spesso dividono, all’interno delle famiglie, gli interessi dei genitori (o dei nonni) da quelli dei figli e ancor più delle figlie. Poi, sui singoli temi, le ricette ci sono, e sono percorribili, senza fare necessariamente la rivoluzione. Nel libro le elenco capitolo per capitolo, e sono cose pragmatiche, fattibili. Quello che manca ancora è la comprensione dell’ampiezza del disastro, della necessità di rivedere le scale di priorità: una visione lucida, se vogliamo. E di lungo periodo, non di breve momento. Per ritornare a quanto dicevo all’inizio, non usciremo dall’emergenza Covid occupandoci di essa e delle sue conseguenze. O affronteremo i mali strutturali del paese riconoscendoli e chiamandoli con il loro nome, o le emergenze si ripeteranno: sempre più spesso, sempre più gravi. Non voglio assumermi la responsabilità di consegnare un paese così, ai miei figli. È il motivo per cui ho scritto il libro e vado in giro a parlarne. Ma è di una riscossa collettiva, trasversale, quello di cui c’è bisogno. Non basta che lo percepiscano gli svantaggiati, che le cose non vanno bene: loro lo sanno già, lo sperimentano sulla propria pelle (anche se spesso se la prendono con le persone e i capri espiatori sbagliati). Bisogna che anche gli avvantaggiati (o i meno svantaggiati), capiscano che se le cose andranno avanti così, sarà peggio per tutti. Anche per le certezze di chi ne ha ancora qualcuna.

    Stefano Allievi

    Stefano Allievi

    Sociologo, Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.

    5 Agosto 2020

    La società aperta e la spirale del sottosviluppo

    una società aperta ci salverà (leggi qui l’intervista)