Più migranti, e più figli: non è un’alternativa. E a proposito di Nordest…

FACCE DISPARI

Stefano Allievi ci spiega perché “non bastano più figli, servono migranti regolari”

 

FRANCESCO PALMIERI   

Sociologo, studioso dei fenomeni migratori, il suo ultimo libro è il “Dizionario del Nordest”. E dice: “Smettiamola con la retorica dell’invasione: l’allarme è ingiustificato. Solo con nuovi ingressi potremo salvare l’Italia”

Sociologo, studioso dei fenomeni migratori, milanese che ha scelto il Nordest dove vive da venticinque anni, Stefano Allievi è infaticabile autore di saggistica e infaticabile lettore di poesia (“per igiene mentale”). Ordinario di Sociologia all’università di Padova, il suo ultimo libro è il ‘Dizionario del Nordest’ uscito per Ronzani Editore, in cui sostiene, per dirla in sintesi, che il Nordest non esiste più. E poiché è capitato di sentirlo nel giorno degli Stati Generali della Natalità, non si è fatto sfuggire l’occasione per ricordare che, secondo lui, solo con l’arrivo dei migranti il Nordest (esista o meno) e l’Italia si possono salvare

Professore, cos’è il Nordest?

È retorica e aspirazione. Serve a vendere prodotti, soprattutto politici, con il richiamo a una identità molto ampia. Ma tra il Friuli e il Veneto ci sono enormi differenze, per non parlare del Trentino o addirittura dell’Emilia-Romagna, inglobata nella stessa circoscrizione elettorale alle Europee. Il Nordest è una invenzione politica e giornalistica, che ha funzionato per un bel po’ di tempo come chiave di presunta unicità: “Siamo la locomotiva d’Italia, quelli che lavorano più degli altri” e così via. Ma è da una ventina d’anni che il Nordest è un magma senza caratteri comuni, né politici né economici. Nello stesso Veneto, il Polesine, Belluno, Verona o Venezia sono tanti mondi a sé.

Come definire questo “magma”, che esiste ma non c’è?

Una sorta di metropoli diffusa che non è metropoli ma è sparpagliata tra città medie, piccole e campagne. Con un tessuto sociale provinciale, al cui interno ci si conosce bene e non si parla male, in pubblico, degli altri. Ci si protegge reciprocamente, non si è entusiasti di chi viene da fuori e i migranti sono brutti e cattivi, anche se il Veneto registra un saldo demografico negativo e una drammatica carenza di manodopera, perché a differenza della Lombardia il calo della natalità non è compensato dagli afflussi dall’Italia e dall’estero.

Cambieranno le cose con politiche più incisive a favore della natalità?

Sono auspicabili ma insufficienti in un Paese che ha perso in un anno 400 mila persone. Le politiche più “nataliste” del mondo, ammesso che le finanziassimo, avrebbero effetti sul mercato del lavoro tra vent’anni: vuol dire che intanto migliaia di aziende già senza manodopera avranno chiuso o si saranno spostate all’estero, con una enorme perdita di produzione e di ricchezza nazionale. Ci siamo mossi tardi: dell’inverno demografico bisognava accorgersi tanto tempo fa. Invece ci siamo svegliati solo da un paio d’anni, quando oltre a parlare degli sbarchi abbiamo constatato quanti giovani italiani emigrino per non restare in un Paese per vecchi.

Crede che l’arrivo di migranti possa risolvere i problemi economici piuttosto che aggravare quelli sociali?

Smettiamola con la retorica dell’invasione: l’allarme è ingiustificato. E poi gli arrivi irregolari non sono frutto del destino, ma li abbiamo creati noi. Quarant’anni fa non c’erano i barchini perché si poteva andare e tornare dall’Europa, non solo dall’Italia, senza tutte le attuali restrizioni che hanno prodotto evidenti risultati: morti in mare, migranti con livello d’istruzione sempre più basso e aumento dei minori non accompagnati, che rappresenta una bomba sociale. Non avveniva dai tempi di Neanderthal che dalle caverne invece degli adulti uscissero i bambini per procacciare il cibo.

 

 

Porti aperti?

Porti chiusi ai migranti irregolari, aperti ai flussi regolari. La soluzione va cercata negli accordi diretti con i Paesi di origine, stabilendo una quota annua di arrivi per ciascuno. Gli hub in Tunisia non risolvono, rivelano piuttosto una visione ancora sottilmente colonialista rispetto a Paesi che hanno un’opinione pubblica, dei media e un elettorato cui rispondere. Gli accordi diretti permetterebbero anche una selezione a monte e renderebbero realistico l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Non abbiamo bisogno solo di richiedenti asilo, ma dei migranti economici. Chi dice il contrario va contro i giovani italiani. Sembra un’eresia per la vox populi, ma gli addetti ai lavori lo sanno.

Spieghi alla vox populi.

Quando il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati non sarà più di 3 a 2 ma di uno a uno, quella generazione dovrà mettersi sulle spalle un peso insostenibile. All’università i ragazzi mi rispondono: allora anch’io lascio l’Italia. Già oggi, per semplificare con un parametro approssimativo ma facilmente memorizzabile, un giovane di 25 anni guadagna il 25 per cento in meno del suo coetaneo di 25 anni fa.

Perché non si fanno figli?

Non riduciamo tutto a questione di edonismo. In Italia il 45% delle donne in età fertile non ha figli, ma solo il 5% tra loro dichiara di non volerli. È che il nostro, pur essendo un Paese familista, non offre grandi servizi alla famiglia. Dai nidi alle scuole a tempo pieno ai congedi a cose più banali, come i fasciatoi al ristorante o lo skipass gratuito per i piccoli. Difatti le italiane emigrate in Germania o in Olanda fanno figli e li conciliano bene con il lavoro.

Il periodo della pandemia è stato un’occasione di cambiamento sciupata?

Non solo: ha aggravato la situazione, perché le donne hanno sofferto di più la perdita di lavoro e si è aggravato il divario tra garantiti e non garantiti. Non è un dramma all’orizzonte. Ci siamo già dentro.

     

    Contro gli sbarchi incontrollati, gestire l’immigrazione regolare. Intervista Radio 1

    Contro gli sbarchi incontrollati e l’immigrazione irregolare, gestire l’immigrazione regolare e i processi di integrazione.

    Nel nostro interesse, e nell’interesse di chi arriva.

    In quest’intervista a Radio Anch’io sintetizzo in un audio di 9 minuti le basi di quella che potrebbe essere una diversa narrazione sull’ #immigrazione e gli #sbarchi a #Lampedusa e altrove: https://av.mimesi.com/play?ij=true&v=44357/ffa3c49c-67f4-4cb0-af33-d1a96231dc6f.mp3

    Video: perché “Torneremo a percorrere le strade del mondo”

    Mobilità umana, migrazioni, turismo e tanto altro: perché torneremo a percorrere le strade del mondo

    Urbino. All’inaugurazione dell’anno accademico, imprevedibilmente, fa capolino un libro…

     CORRIERE ADRIATICO

    Cipolletta all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università di Urbino:
    «Innovazione dalla pandemia»

     

    Mercoledì 20 Ottobre 2021 di Eugenio Gulini

    URBINO – Con la sollecitazione “They call us dreamers but we are the ones who never sleeps” (“Ci chiamano sognatori ma siamo quelli che non dormono mai”) si è aperto ieri, al Teatro Sanzio, l’anno accademico 2021 – 2022 dell’università Carlo Bo di Urbino al 516esimo anno dalla fondazione. Ospite d’onore, con la sua personale lectio magistralis, Innocenzo Cipolletta. Il tema dello statistico ed economista, già direttore generale di Confindustria, era attualissimo e a lui molto caro: “La fatica di innovare”.

    La ripartenza
    Prima di lui il rettore Giorgio Calcagnini si è rivolto agli studenti con «l’augurio che ci si possa avviare verso una normalizzazione che consenta di accogliervi in aule confortevoli piuttosto che in un dialogo a distanza che, pur utile in determinate circostanze, è sicuramente meno rispondente alla mission di una Università come luogo di relazioni. Il nostro obiettivo prefigura una speranza: ripartenza. Forniti di una consapevolezza nuova, di nuove precauzioni, di nuove forme di socialità, dobbiamo essere pronti, con progetti sostenibili, a ripartire per nuove destinazioni, facendo emergere le difformità dei contesti in cui viviamo, annullando le distanze culturali e sanando le disuguaglianze sociali ed economiche. Magari, in questo viaggio, saremo ancora costretti ad esibire un passaporto sanitario piuttosto che uno anagrafico – ha concluso Calcagnini – ma sicuramente, per esemplificare il titolo di un recente e fortunato saggio del sociologo Stefano Allievi , “torneremo a percorrere le strade del mondo”».

    Il personale amministrativo
    Alessandro Gambarara, in rappresentanza del personale tecnico amministrativo, ha evidenziato come quest’ultimo «è sempre stato ed è tuttora in prima linea per profondere le proprie capacità per un proficuo funzionamento dell’istituzione universitaria, rappresentando un collante fondamentale tra docenti e studenti per tornare a vivere, in condivisione, gli spazi e le attività». Federica Titas, presidente del Consiglio degli studenti, ha auspicato «che si rafforzi sempre più l’attenzione dei docenti nei nostri riguardi, essendo noi l’anima di questa città. E, nel contempo, vorrei dai miei colleghi una maggiore partecipazione alla vita universitaria e cittadina, che è molto più dinamica di quel che ci si immagina».

    Il progresso tecnologico
    Infine Innocenzo Cipolletta con una risposta alla domanda “dove andremo”: «Un mondo aperto, collaborativo, retto da regole condivise, inclusivo e attento ai più deboli, ma favorevole al progresso tecnologico e sociale è la risposta ai molti quesiti che stanno sorgendo a fronte dei cambiamenti sociali e climatici che caratterizzano la nostra epoca. Sta a noi, anche a noi contribuire a costruirlo, se sapremo guardare con spirito aperto ai grandi cambiamenti che ci attendono e se sapremo volgerli a vantaggio di tutti, senza rimanere centrati sui nostri interessi di breve termine e senza cedere alla paura del nuovo e di ciò che ci è straniero».

    I costi e la fatica
    «Non sono un accademico di professione pur avendo svolto attività didattica per alcuni periodi – così ha esordito Innocenzo Cipolletta – Ho passato gran parte della mia vita ad osservare l’economia partendo dai numeri. In effetti, sono uno statistico che ha iniziato a lavorare sulla congiuntura economica, ossia studiando come evolve l’economia nel breve termine. Ma avendola osservata ormai per quasi 60 anni, alla fine ho finito per avere sotto gli occhi una storia lunga, di evoluzioni e di cambiamenti previsti e non previsti. La pandemia che ci ha colpiti ha generato un processo di reazione che spinge verso nuovi e più profondi cambiamenti. Investire nell’innovazione rappresenta la via principale per crescere. Ma l’investimento nell’innovazione è costoso e faticoso».

     

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    Allievi: “I garantiti si sono tenuti stretti i privilegi, gli altri ne hanno pagato il prezzo”

    Un’intervista a Venezie Post – 6 marzo 2021

    ANALISI & COMMENTI

    Allievi: “I garantiti si sono tenuti stretti i privilegi, gli altri ne hanno pagato il prezzo” – VeneziePost

    Il suicidio di Omar Rizzato è il disperato grido di una intera categoria di lavoratori dimenticati. Citando Durkheim, anche l’atto individuale per eccellenza ha determinanti sociali: e la totale mancanza di solidarietà e attenzione rispetto al prossimo a cui abbiamo assistito in questi ultimi mesi ne è la dimostrazione. Parla Stefano Allievi, professore di sociologia all’Università di Padova e acuto osservatore delle trasformazioni economico, sociali e culturali del Paese

     

    Prof. Allievi, martedì scorso è uscito sul Corriere del Veneto un suo articolo su “I dimenticati della cultura”. Da cosa è scaturito il bisogno di scriverne?

    “Mi sento molto vicino alle persone che sono state direttamente colpite dalle situazioni di forte ingiustizia causate non tanto dalla pandemia in sé, ma piuttosto dalle misure che sono state messe in atto per contrastarla. Il suicidio di Omar Rizzato, imprenditore dello spettacolo che si è tolto la vita all’interno della sua azienda ferma da un anno, è il disperato grido di una intera categoria di lavoratori, appunto, dimenticati. Citando Durkheim, anche l’atto individuale per eccellenza ha determinanti sociali: e la totale mancanza di solidarietà e attenzione rispetto al prossimo a cui abbiamo assistito in questi ultimi mesi ne è la dimostrazione. Le categorie più garantite si sono tenute strette i propri privilegi, e tutti gli altri ne hanno pagato un caro prezzo. Ad Omar Rizzato, così come a tutti i lavoratori della cultura e dello spettacolo, è stato tolto persino il diritto di affogare i propri dispiaceri nel lavoro. E così, come molti altri prima di lui, non ha avuto alcuna valvola di sfogo per i propri dispiaceri.”

    Ritiene che i lavoratori della cultura siano stati abbandonati a sé stessi?

    “In questi mesi si è parlato molto di alcune categorie lavorative, come quelle della ristorazione e del turismo, ma quella della cultura sembra non interessare nessuno. Tutto ciò che questa categoria di lavoratori ha ricevuto, in un anno di silenzio, sono stati dei ristori a dir poco ridicoli. Ma si tratta di persone che per anni hanno pagato un prezzo di precariato già molto alto: chi fa questi lavori spesso lo fa per passione e senza alcuna garanzia di successo, ma da un anno a questa parte non è permesso fare nemmeno questo. E le conseguenze di questo disinteressamento si vedono: nella città in cui io lavoro, Padova, c’è un potenziale di creatività straordinario dovuto alla presenza di moltissimi giovani studenti; ma l’apertura è poca e l’immobilità si fa sentire. Questo è uno dei motivi che portano al tanto discusso fenomeno della fuga dei cervelli.”

    Crede che il disinteressamento sistematico rispetto alla categoria dei lavoratori dello spettacolo possa essere un sintomo della tendenza, tutta italiana, a sminuire il valore della cultura?

    “Non ho dubbi su questo. Il nostro è il Paese con il più alto tasso di patrimonio storico e culturale del mondo, eppure non lo tuteliamo. La cultura è il petrolio della nostra economia, ma non la valorizziamo. Allo stesso modo, invece di dare valore ai nostri giovani laureati, mettiamo loro i bastoni tra le ruote e li costringiamo a prendere la decisione di emigrare all’estero. In testa alle classiche sull’emigrazione non ci sono le regioni del sud, ma quelle del nord produttivo: l’Emilia-Romagna costituisce una felice eccezione, in quanto è riuscita a ridurre la cosiddetta emigrazione intellettuale grazie a degli investimenti ad hoc nei settori produttivi e nei distretti. La Lombardia, pur prima regione come emigrazione, ha comunque un saldo positivo. La situazione del Veneto, invece, è agghiacciante: esportiamo verso l’estero e le regioni connanti più laureati di quanti ne importiamo dall’estero o dal sud, e siamo così l’unica grande regione del nord ad avere un saldo negativo. Nonostante la tragicità di tutto ciò, però, l’unico fenomeno che sembra interessare il dibattito politico è quello dell’immigrazione, che per inciso, se confrontiamo gli sbarchi con gli emigranti, riguarda numeri di circa venti volte più piccoli rispetto a quelli dell’emigrazione. Il nostro è un Paese che disprezza l’istruzione: l’analfabetismo funzionale colpisce quasi un italiano su tre, il doppio della media europea, e abbiamo la metà dei laureati, ma il dibattito pubblico non sembra considerarlo un problema. Da un tessuto sociale di questo tipo, che non comprende l’importanza di un investimento massivo in cultura, istruzione, ricerca, non ci si può aspettare che la politica comprenda i benefici collettivi che questo potrebbe apportare all’intera società.”

    La crisi dell’ultimo anno non ha colpito tutte le categorie demografiche allo stesso modo. Ha fatto scalpore il dato Istat di dicembre 2020: 101 mila posti di lavoro persi in un solo mese, 99 mila dei quali occupati da donne. Cosa pensa rispetto al divario di genere e alla sua relazione con quello generazionale?

    “Le discriminazioni di quelle che io chiamo le “3 G” si intersecano in continuazione: i divari di genere e generazionali si incrociano con quello tra garantiti e non garantiti. E così il discorso sul divario di genere non può prescindere da quello del conitto generazionale, né tantomeno da quello del lavoro precario o invisibile. Soprattutto in un momento di profonda crisi come quello attuale. La nostra è una società a misura di anziani: i pensionati rappresentano la metà degli iscritti a sindacati e parte preponderante degli iscritti e della constituency dei partiti, per cui non sorprende che si facciano sempre più leggi a favore di categorie che già possiedono molte garanzie. Giovani e donne dovranno anche fare i conti con l’immobilismo e la mancanza di meritocrazia, le piaghe moderne che afiggono la nostra società. La lotta per la meritocrazia da parte di tutte le categorie svantaggiate non può che giovare all’intero sistema Paese, ma credo sarebbe salubre anche una maggiore dose di conitto intergenerazionale e di genere rispetto all’attuale allocazione delle risorse.”

     

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    “Fratelli tutti”: un commento

    Com’è arduo essere Fratelli tutti… Padre Francesco Occhetta e Stefano Allievi commentano l’enciclica di papa Francesco

    L’enciclica. Padre Francesco Occhetta e il prof. Stefano Allievi commentano il documento, complesso, di papa Francesco. Dalla necessità di meditare il testo per superare facili slogan al rischio dell'”occidentocentrismo”

    Com'è arduo essere Fratelli tutti... Padre Francesco Occhetta e Stefano Allievi commentano l'enciclica di papa Francesco

    C’è la parabola del Buon Samaritano al centro di Fratelli tutti, la terza enciclica di papa Francesco incentrata «sulla fraternità e l’amicizia sociale». Nelle sintesi della stampa tanti sono gli elementi che hanno colpito, emozionato o semplicemente fatto discutere: dalla critica verso il populismo agli eccessi del pensiero neo-liberista, dalla condanna finale verso la pena di morte fino alla necessità degli organismi internazionali contro i rigurgiti del nazionalismo identitario. Ma nel cuore, nel cuore vero, di questo documento chiamato a sistematizzare il magistero di Francesco su tali argomenti, c’è sempre l’icona evangelica dello straniero che si china sull’uomo incappato nei briganti e versa olio e vino sulle sue ferite.

    Spiega padre Francesco Occhetta, gesuita, coordinatore del cammino di formazione alla politica Connessioni: «La pagina di Vangelo è la chiave per interpretare l’enciclica, prima dei frutti occorre nutrirsi della radice. Il samaritano disprezzato dalla cultura giudaica, rovescia la logica del prossimo che è il proprio vicino, egli “non ci chiama a domandarci chi sono quelli vicini a noi, bensì a farci noi vicini, prossimi”, scrive il papa». Va letta così, insomma: «È per questo che l’enciclica richiede una meditazione personale, non è un testo sociologico o politologico come molti pensano, ma dialoga con il mondo a partire dalla prospettiva del Vangelo. “Volete onorare il corpo di Cristo? Non disprezzatelo quando è nudo”, ribadisce l’enciclica. In questo senso Fratelli tutti elenca tutte le situazioni in cui gli uomini e le donne soffrono come vittime dei sistemi sociali e politici e, come sempre, la Chiesa presta la sua voce a chi non ce l’ha».

    Papa Francesco non usa mezze misure per attaccare sia il populismo sia gli eccessi del neoliberismo tecnocratico. C’è chi ha addirittura parlato di una “Terza via” di Francesco. «La “terza via” della Chiesa – osserva padre Occhetta – è quella di sempre, non è un’alternativa politica, ma un’ispirazione per tutti per far sì che la comprensione della coscienza sociale evolva verso la dimensione della fraternità intesa come processo. Il papa invita i politici a riconoscere che la fede nel “mercato non risolve tutto”, il modello consumista ci ha ormai consumati e logorati; occorre rilanciare una politica popolare, riconoscere le false promesse del populismo, denunciare i limiti della visione del liberismo inteso come teoria economica e non come filosofia politica. L’alternativa? È costruire comunità inclusive locali e globali che difendano la dignità umana, l’antidoto è il popolarismo».

    «I populismi sono come burrasche che si infrangono su Governi e istituzioni e si presentano come movimenti storici ciclici – riassume padre Occhetta – Viviamo immersi in una corrente culturale che nega il pluralismo e le minoranze interne; venera i leader come padri e padroni che appaiono nei media come uniche voci; esalta il nazionalismo e il sovranismo; ignora gli enti intermedi nella società, come la Chiesa, i sindacati, le associazioni e così via; predilige la democrazia diretta su quella rappresentativa; forma la pubblica opinione attraverso appelli, a emozioni e a credenze personali; confonde la destra e la sinistra e fa apparire il Nord contro il Sud, il “noi” contro loro; semplifica a slogan soluzioni complesse, come “il reddito di cittadinanza”; contrappone tra le categorie di “popolo puro” e di “comunità politica”». Ed è proprio in questo contesto che ritorna in auge una parola divenuta per molti parolaccia: la parola popolo. «Occorre ritornare all’arte della mediazione che aiuta a trovare soluzioni complesse, essere competente sui temi, prediligere il “noi” politico sull’io che porta a forme di potere distorte e alla corruzione. Per chi amministra il “ritorno alla compassione” è la condizione per la buona politica, come la chiama Francesco».

    Il papa arriva addirittura a parlare di “amore politico: «Sembra una contraddizione, visto anche cosa succede a Roma, ma la Chiesa non è il Vaticano. Prima di insegnare l’amore al mondo occorre renderlo testimonianza possibile e credibile a partire dalle comunità cristiane, occorre “riconoscere ogni essere umano come un fratello o una sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non sono mere utopie” (n.180). Ma c’è di più, l’amore cristiano è dire “eccomi” più che tanti falsi “ti amo”, per questo il mondo lo si cambia dai piccoli gesti: “Se qualcuno aiuta un anziano ad attraversare un fiume – e questo è squisita carità –il politico gli costruisce un ponte, e anche questo è carità. Se qualcuno aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro, ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica (n. 186). I credenti impegnati in politica devono abbandonare i vecchi schemi, formarsi davvero insieme attraverso una nuova cultura della fraternità. Ci sono molte realtà che lo stanno facendo, personalmente mi sento di suggerire l’esperienza di Comunità di Connessioni e la neonata Base che connettono volti nuovi, competenze e un nuovo metodo di formazione in sintonia con l’enciclica».

    E ai massimi livelli, papa Francesco, citando l’Unione Europea, l’integrazione nell’America Latina e le Nazioni Unite invita a governare la globalizzazione: «Nel secolo XXI – leggiamo nell’enciclica – si “assiste a una perdita di potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politica. In questo contesto, diventa indispensabile lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate, con autorità designate in maniera imparziale mediante accordi tra i governi nazionali e dotate del potere di sanzionare” (n. 172)».

    Un’enciclica ricca di «temi e parole chiave molto legate all’attualità. Forse anche troppo». Stefano Allievi, docente di sociologia all’Università di Padova, riconosce: «L’enciclica privilegia alcuni temi, come la lotta alle diseguaglianze, l’accoglienza degli stranieri, la possibilità di rendere universali i diritti umani che esistono solo per una minoranza. Il documento, anche a partire dagli esempi citati, però, corre il rischio dell’”occidentocentrismo”. Le encicliche hanno sì il bisogno di attualizzare il messaggio evangelico nell’oggi, però l’effetto collaterale è quello di cedere a interpretazioni episodiche, che valgano solo per il momento presente». Per Allievi è un limite ridurre tutta l’enciclica a un attacco al populismo e a certi leader: «Mi sembra sia sprecarne e rovinarne il messaggio. Il richiamo più importante dell’enciclica sta nel bisogno di ricostruire legame sociale e di ricostruire comunità intorno a una visione di società, a un progetto inclusivo. Gli attacchi contro un modo di pensare per cui qualcuno possa restare indietro sono forti e insistiti, ed è importantissimo ribadirlo oggi. Esistono però anche, nel nostro tessuto sociale, tante proposte che stanno andando nella stessa direzione inclusiva: si tratta di forze che esistono già e che forse non si notano molto, mentre si notano di più i bersagli polemici».

    Stefano Allievi non nega che però anche la parola comunità sia un’arma a doppio taglio: «È una parola problematica, perché tende a presupporre dei confini tra chi è dentro e chi è fuori la comunità. Ma questa non è l’idea di comunità di papa Francesco: la sua è quella di una comunità a misura delle persone, anche di chi non ce la fa, dove ci si possa salvare tutti insieme. E qui dentro c’è anche tutto il grande tema delle migrazioni». I riferimenti alla pandemia da Covid-19 per Allievi non sono altro che un ulteriore esempio attorno al quale il papa orienta il suo messaggio: «Francesco non ci illumina sulla pandemia, del resto l’emergenza Covid viene letta in modo diverso in tutto il mondo, ma per il papa la pandemia è l’occasione per ribadire il fatto che “siamo fratelli tutti, dobbiamo salvarci tutti assieme”, e che quando ci sarà il vaccino questo dovrà essere disponibile per tutti, non solo per i privilegiati».

    Il riferimento all’amore politico è in assoluta continuità con il magistero degli ultimi 50 anni: «È apprezzabile il fatto che non c’è mai stata negli ultimi pontificati una demonizzazione della politica. La politica, come diceva Paolo VI, è la più alta forma di carità, ma lo è soltanto se è capace di leggere bene i segni dei tempi, i segni del presente. Ciò che fa questa enciclica è leggere, nell’universo di significati a cui guardiamo dalla nostra finestra sul mondo, alcuni criteri interpretativi e attraverso di essi fare delle scelte in termini di “amore politico”, un atteggiamento di prossimità verso tutti gli esseri umani. C’è un richiamo all’agire politicamente: il bene comune è il riferimento, ma il bene comune lo si produce agendo, non solo pensando».

    Comunità cristiane, invito al dialogo con l’islam

    Fratelli tutti è un’enciclica di cui «si parlerà molto, ma che sarà assai più discussa della Laudato Si’». Per Stefano Allievi, docente di sociologia all’Università di Padova, papa Francesco ha voluto affrontare, parlando della fraternità e l’amicizia sociale, temi assai più delicati rispetto a quelli dell’ecologia integrale. «Almeno a parole – spiega Allievi – siamo tutti a favore della salvaguardia dell’ambiente. In Fratelli tutti, invece, ci sono alcuni bersagli precisi». «Per le comunità ecclesiali – conclude Allievi – sarà forte il riferimento al dialogo interreligioso, in particolare con l’Islam, con il riferimento al grande imam Ahmad Al-Tayyeb, con cui Francesco ha firmato il documento di Abu Dhabi».

    Numerosi i riferimenti nel testo alla pandemia mondiale

    Papa Francesco ha voluto firmare la sua terza enciclica, “Fratelli Tutti”, direttamente sulla tomba del santo di cui porta il nome, alla vigilia della sua festa, il 3 ottobre. Molti i riferimenti alla pandemia da Coronavirus, che «ha messo in luce le nostre false sicurezze» e la nostra «incapacità di vivere insieme». Sulla scorta del suo magistero durante la pandemia papa Francesco auspica «che non sia stato l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare», e «che non ci dimentichiamo degli anziani morti per mancanza di respiratori. Che un così grande dolore non sia inutile. Che facciamo un salto verso un nuovo modo di vivere e scopriamo una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri”. Forte, nel quinto capitolo, il richiamo alla buona politica contro il «populismo irresponsabile».

    “La Difesa del Popolo”, 26 ottobre 2020

    La spirale del sottosviluppo. Intervista a Stefano Allievi.

    (Intervista a cura di Claudio Paravati)

    “La spirale del sottosviluppo” è un titolo impegnativo, per un libro che tratteggia la situazione dell’Italia di oggi. Che cosa intende dire?

    Ho cominciato a scrivere il libro quasi due anni fa, ben prima del Covid, e l’ho concluso durante il lockdown. Quello che emergeva, man mano che affrontavo i capitoli di cui si compone il libro – demografia, immigrazione, emigrazione, istruzione e lavoro – è la loro stretta interconnessione: ed è proprio questa che spiega – molto più che l’approfondimento di ogni singolo argomento – il declino italiano. Molte cose le studiavo da anni (i primi tre temi, in particolare); gli altri li ho maggiormente approfonditi in questa occasione. E man mano che li mettevo in correlazione il quadro peggiorava: come se l’uno spingesse l’altro verso il basso. Da qui anche il sottotitolo: “Perché (così) l’Italia non ha futuro”.

    Con l’arrivo del Coronavirus, naturalmente, tutti gli indicatori sono peggiorati, e non poteva essere altrimenti. Per questo, pur sapendo di essere in un momento in cui c’era un legittimo bisogno di speranza, d’accordo con l’editore abbiamo mantenuto questo titolo duro: è – volutamente – uno schiaffo dato al lettore, ma a fin di bene. Non per fare del male, ma al contrario per svegliare finalmente alla consapevolezza: un po’ come si fa con le persone svenute, prive di sensi. Perché ho la sensazione – che per me è una certezza, dopo tanti mesi di approfondimento dei fondamentali del nostro paese – che non usciremo dall’emergenza affrontando l’emergenza, ma solo e soltanto affrontando i mali strutturali del sistema Italia, che sono quelli che descrivo nel libro. E che erano presenti già prima del Covid.

    In compenso, visto che nel libro sono indicate anche alcune delle ricette necessarie per uscire dalla spirale, e per invertirla, passando da un circolo vizioso ad uno virtuoso, la conferenza-spettacolo che ho tratto dal libro, insieme ai giovani artisti di Fabrica che ne hanno preparato la parte audiovisuale (presentata online durante il lockdown, e che adesso comincia a girare nei teatri e nei festival), ho voluto intitolarla “Ri/partire. L’Italia dopo il Coronavirus”: con un’enfasi sui due significati del termine ripartire – ricominciare, ma anche fare le parti, suddividere, diversamente da come si è fatto fino ad oggi. Perché con il Covid non è solo che stiamo peggio: è che si sono aggravate enormemente le ingiustizie sociali, quelle che chiamo le 3G che dividono il Paese – tra garantiti e non garantiti, tra generi e tra generazioni. E bisogna sanarle.

    L’età media della popolazione italiana è sopra i 44 anni; più della media europea (41,6); si pensi che, come dice lei nel libro, quella del mondo è 29,6 e quella africana 19,4. E ancora: nel 1980 – ci dice a p. 11 – in Italia c’erano 17 milioni di under 20, e 10 milioni di over 60; nel 2015 i dati sono rovesciati: abbiamo 10 milioni di under 20, e 17 milioni di over 60. Di fronte a dati come questi, come si fa a immaginare qualsiasi prospettiva futura? Innovazione, nuove tecnologie… ma anche solo, “banalmente”, la forza lavoro che per natura è forte in età giovanile? 

    La demografia è uno dei temi fondamentali: per questo sono partito da lì. Siamo il paese più vecchio e messo peggio d’Europa (e tra quelli messi peggio al mondo). I bambini diminuiscono (mai così pochi nati dalla Seconda guerra mondiale), la popolazione attiva cala, aumentano solo gli anziani: i non autosufficienti rischiano di essere un decimo della popolazione tra meno di un decennio. Solo un paio d’anni fa il rapporto tra lavoratori e pensionati era di 3 a 2: sarà di 1 a 1 tra pochi anni. Il gap con il resto d’Europa sta aumentando. Eppure, mentre in altri paesi è oggetto di dibattito – in oggettivo collegamento con le riflessioni sull’immigrazione – da noi non ne parlano né la politica né i media. C’è un silenzio assordante e inquietante, che deriva dall’analfabetismo demografico anche delle classi dirigenti. Mentre dovrebbe essere al centro dell’attenzione, con infuocate discussioni sulle politiche da attuare e i progetti da inventare. Da questo dipende tutto: le politiche sulla famiglia (che non ci sono proprio), quelle sul lavoro, sull’istruzione, la riforma previdenziale, e naturalmente una sana ed equilibrata gestione delle migrazioni. E invece si va avanti senza alcun quadro delle priorità, con provvedimenti spot, nella loro quasi totalità a favore degli anziani: si pensi a Quota 100, tra gli altri. Il motivo c’è, e spiega molte cose: gli anziani sono di più dei giovani, e votano in percentuale maggiore (del resto sono la constituency principale tanto dei partiti che dei sindacati); inoltre hanno una capacità di spesa maggiore, e sono al centro di molti interessi economici, a cominciare da quelli legati alla sanità. I giovani invece hanno un reddito medio che è un quarto in meno di quello che avevano i loro coetanei un quarto di secolo fa, e nessuna speranza di ottenere i benefici di cui godono o godranno i loro genitori e i loro nonni, di cui pagano peraltro il prezzo. Ma nessuno se ne occupa. E infatti hanno ricominciato ad emigrare in numeri sempre più significativi…

    Il cortocircuito negativo è complesso, in effetti: non solo più morti che nati, ma anche più emigranti che immigrati.

    Sì, è la prima volta nella nostra storia che sono negativi sia il saldo naturale che quello migratorio: più morti che nati, e dal 2018 più emigranti che immigrati. Non è in corso nessuna invasione: un’evasione, semmai. Per dire: l’anno scorso gli emigranti erano stimati in circa 285.000. Sempre nel 2019, gli sbarchi sono stati poco più di 13.000. Con queste cifre davanti, ci rendiamo meglio conto della sproporzione tra l’attenzione dedicata all’uno e all’altro fenomeno.

    Ci stiamo svuotando, ma purtroppo partono soprattutto giovani e famiglie, quindi l’invecchiamento della popolazione, il suo squilibrio interno, si accresce. In più il tasso di emigrazione è doppio nella popolazione laureata e diplomata, implicando una grossa perdita anche di capitale umano. Con effetti devastanti per l’economia del paese, per l’equilibrio del sistema previdenziale, ma soprattutto per la società, per i suoi orizzonti di riferimento, e anche per i suoi valori guida. Siamo un paese sempre più impaurito, incattivito, chiuso, culturalmente conservatore: normale, se i portatori di speranza, di innovazione e di futuro diminuiscono, o collocano le loro speranze altrove.

    Lei parla di fattore “C”, da conoscenza: ma con la cultura dunque si mangia? A p. 120 scrive: «sarà sempre più importante… è il più potente fattore di sviluppo e moltiplicatore di investimenti e guadagni a disposizione di individui e paesi». Davvero è così? Non servono semmai fabbriche, metalli, grandi aziende? 

    L’istruzione è una grande questione nazionale, forse il principale dei problemi del paese. Abbiamo in media la metà dei laureati d’Europa, e il doppio degli analfabeti funzionali: il 30%, contro il 15% che è la media europea. Tra l’altro è una questione collegata alla demografia: più si è anziani e più si abbassano i livelli di istruzione. Ma soprattutto, questo paese (e le sue classi dirigenti, in particolare quelle politiche) non ne capiscono la centralità e l’urgenza: del resto, la selezione, e non solo in politica, quasi mai passa attraverso la meritocrazia e la conoscenza. Siamo un paese di leggendaria immobilità sociale (conta di chi sei figlio, non cosa sai o sai fare). Se poi si è fatta carriera – politica, burocratica, ma non di rado anche nell’economia e nell’impresa – perché si è amici di, figli di, fedeli di, o perché si è vinta la lotteria del voto, senza alcuna capacità, e senza avere studiato, mai o quasi mai si ha la consapevolezza di quanto l’istruzione sia invece importante. Conoscenza chiama conoscenza: ma anche la sua mancanza, purtroppo, si riproduce. E un paese che non la cerca, o non la programma, per definizione non la trova. Il che è un problema enorme, in una knowledge economy che, da sola, produce più ricchezza anche per i meno istruiti: per capirci, nelle città e nei paesi dove ci sono molti impieghi nei settori innovativi, che presuppongono alti livelli di formazione, peraltro ben pagati, guadagnano di più anche baristi, commessi o carpentieri. E ogni posto di lavoro nei settori avanzati ne crea cinque nei settori tradizionali, cosa che non succede nella manifattura, dove il moltiplicatore è molto più basso. Se noi non investiamo in questo, perdiamo competitività nei confronti dei nostri partner europei e dei paesi sviluppati. E non a caso, infatti, siamo in coda in quasi tutti gli indicatori economico-sociali dell’UE e dell’OCSE.

    Che cosa intende con l’espressione “paradosso di Ventotene”?

    È una metafora che uso nel libro, che prendo da un esempio concreto. L’isola che ha ospitato al confino Altiero Spinelli, padre del federalismo europeo, che proprio lì scrisse il suo manifesto europeista, si è trovata all’incrocio di tutte le variabili di cui tratto nel libro: demografia in calo ed emigrazione hanno portato alla necessità di chiudere la scuola per mancanza di bambini, e al rifiuto di evitarla grazie alla ‘importazione’ di poche famiglie e bambini stranieri, per paura di perdere il lavoro. È una forma possibile di “spirale del sottosviluppo” di cui tratto nel libro, che finisce per impoverire gli autoctoni. E proprio per questo è un esempio efficace: perché le cose, come spiego nel libro, non sarebbero diverse se parlassimo di una regione qualsiasi d’Italia o d’Europa. È un esempio chiaro, direi trasparente – proprio perché lo si vede in un contesto piccolo – di come ci facciamo del male da soli (e soprattutto lo facciamo ai nostri figli, alle generazioni che ci seguiranno), nella totale inconsapevolezza e persino innocenza, se non abbiamo contezza delle connessioni tra i problemi che dobbiamo affrontare.

    Nel libro in effetti emerge con chiarezza come la spirale del sottosviluppo passi dalla concatenazione tra questi fenomeni: demografia, istruzione, immigrazione, emigrazione, lavoro. Nel capitolo conclusivo sono azzardate delle conclusioni di tipo concreto, operativo. Cosa si può fare per non arrendersi al processo di decrescita che è in atto? 

    Innanzitutto prenderne atto: averne consapevolezza, anche nei dettagli, e con dati a supporto. Farne il centro della propria riflessione, direi anche del proprio impegno, civile e politico. C’è bisogno di una riscossa anche morale, e direi di un risveglio – e di un impegno – di tutti, dalle élite (troppo spesso disincantate: tanto, loro, si salvano) in giù. Dobbiamo volerlo, innanzitutto, un paese migliore: e, francamente, non lo darei per scontato. Ci sono troppe persone a cui la situazione va benissimo così, troppi interessi legati all’immobilismo attuale, al non mettere in discussione gli equilibri raggiunti: e non parlo di oscure lobby, ma di banali contrapposizioni assai quotidiane, che ormai spesso dividono, all’interno delle famiglie, gli interessi dei genitori (o dei nonni) da quelli dei figli e ancor più delle figlie. Poi, sui singoli temi, le ricette ci sono, e sono percorribili, senza fare necessariamente la rivoluzione. Nel libro le elenco capitolo per capitolo, e sono cose pragmatiche, fattibili. Quello che manca ancora è la comprensione dell’ampiezza del disastro, della necessità di rivedere le scale di priorità: una visione lucida, se vogliamo. E di lungo periodo, non di breve momento. Per ritornare a quanto dicevo all’inizio, non usciremo dall’emergenza Covid occupandoci di essa e delle sue conseguenze. O affronteremo i mali strutturali del paese riconoscendoli e chiamandoli con il loro nome, o le emergenze si ripeteranno: sempre più spesso, sempre più gravi. Non voglio assumermi la responsabilità di consegnare un paese così, ai miei figli. È il motivo per cui ho scritto il libro e vado in giro a parlarne. Ma è di una riscossa collettiva, trasversale, quello di cui c’è bisogno. Non basta che lo percepiscano gli svantaggiati, che le cose non vanno bene: loro lo sanno già, lo sperimentano sulla propria pelle (anche se spesso se la prendono con le persone e i capri espiatori sbagliati). Bisogna che anche gli avvantaggiati (o i meno svantaggiati), capiscano che se le cose andranno avanti così, sarà peggio per tutti. Anche per le certezze di chi ne ha ancora qualcuna.

    Stefano Allievi

    Stefano Allievi

    Sociologo, Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.

    5 Agosto 2020

    La società aperta e la spirale del sottosviluppo

    una società aperta ci salverà (leggi qui l’intervista)

    Il sociologo Stefano Allievi: «Nessuna ripartenza: io vedo solo due Italie»

    PADOVA – Nel suo sito personale cita Wislawa Szymborska, la poetessa premio Nobel nel 1996: Meglio il prezzo che il valore/e il titolo che il contenuto./ Meglio il numero di scarpa, che non dove va / colui per cui ti scambiano. E poi ha deciso di sintetizzare così se stesso: «di mestiere, professore e sociologo / di percorso, bibliofago ondivago/d’altro: padre, marito, e poligrafo. Come dire intellettuale a tutto tondo, Lui, Stefano Allievi, milanese, classe 1958, è giornalista, scrittore, docente universitario. Dal 2018, professore ordinario di Sociologia all’Università di Padova. In questi giorni ha esordito in una conferenza-spettacolo in quel di Fabrica a Villorba dal titolo Ri/partire. L’Italia dopo il Coronavirus.
    Professore, soddisfatto di questo primo appuntamento?
    «Sì, senz’altro è stata un’occasione per riflettere. Ed è stato molto importante perchè oggi siamo davvero ad un bivio. Ci sono due modi per ripartire. Quello a breve termine e quello a lungo termine.
    Lei che dice?
    «Occorre scegliere e non ripartire senza sapere dove si va. Ed è un problema serio. Ho l’impressione che oggi non abbiamo ancora consapevolezza di quanto ci è accaduto. Insomma, il peggio deve ancora venire».
    Ci siamo liberati del Covid-19 solo in parte?
    «Ho l’impressione che i veri problemi emergeranno in autunno, quando il virus magari riprenderà vigore. Lo vedremo. Il peggio riguarderà il mondo che ci circonda: quando le aziende si ritroveranno davvero in difficoltà; quando la cassa integrazione si trasformerà in licenziamento… Ho la sensazione che non abbiamo ancora contezza di quello che possa accadere».
    Scenari pesanti, sarà un nuovo Dopoguerra secondo alcuni.
    «Il Dopoguerra è stato complessivamente meno difficile. In tutto questo tempo non abbiamo condiviso un bel nulla, se non la retorica dei canti sui balconi, ma non abbiamo approfondito quando è capitato a noi come collettività».
    Da cosa lo intuisce?
    «Dal fatto che vedo due Italie. Ce n’è una che non si è accorta di nulla. E lo si capisce dalle reazioni legate alla riapertura in quei settori che si ritengono garantiti, e che alle volte si comportano in modo isterico. E poi c’è una seconda Italia che sta pagando e pagherà un prezzo elevato. Ecco non c’è consapevolezza di questa drammatica divisione».
    Difficile avere una ripartenza concreta, quindi. Siamo solo davanti a degli slogan?
    «Perchè ci sia una ripartenza vera occorre una visione. Occorre avere uno sguardo di insieme su almeno alcune questioni aperte: lavoro, istruzione, demografia, migrazione/emigrazione. E questo al momento manca. Perchè diciamocelo il nostro Paese stava già vivendo un momento di catastrofe prima. E ora occorrerebbe, invece, un’operazione verità».
    Ovvero?
    «Prendiamo la demografia. Siamo un Paese vecchio e con pochi bambini. La percentuale è di 3 a 2; nel 2045 sarà di uno a uno. Se continueremo ad avere questo trend andrà a finire che non reggeremo. Abbiamo bisogno di manodopera, ma al tempo stesso non abbiamo nemmeno posti per gli istruiti, i quali se ne vanno all’estero. Ci ritroviamo un Paese che si avvinghia nella discussione sugli immigrati e si trova ai primi posti per emigrazione…»
    Altro che rientro dei cervelli in fuga, quindi.
    «Già. Se ne vanno i giovani, se ne vanno gli universitari, se ne vanno addirittura le famiglie con bimbi piccoli. E che dire degli studenti Erasmus che se ne rimangono all’estero? E gli anziani che vivono bene con la loro pensione alle Canarie? Possono bastare questi dati per riflettere su cosa ci aspetta post Covid 19».
    E questo si ripercuote su istruzione e lavoro.
    «Infatti come italiani siamo scarsamente informati, poco alfabetizzati, poco istruiti. Non abbiamo investito e non stiamo investendo nella knowledge economy, nell’economia della conoscenza. Chi lo sta facendo si trova al passo con il resto d’Europa, chi non se ne è mai curato, fatica. Guardi come ci stiamo comportando con la scuola».
    Abbiamo fatto la corsa ad ostacoli per garantire la didattica a distanza…
    «In realtà non abbiamo fatto nulla. Anzi, la politica ha fatto addirittura l’opposto. La pandemia ha messo a nudo due settori vitali: sanità e istruzione. E allo stesso tempo si sono dati benefici al ceto dei garantiti con una pioggia di soldi, circa tre miliardi di euro; molto meno è andato a chi doveva davvero essere garantito, e che non lo è stato affatto. Poco più di un miliardo per le scuole, ad esempio. Non è un caso, nemmeno, che si sia deciso di non farle ricominciare».
    Perchè?
    «Si pensa che non sia rilevante».
    Problemi di contagio, però, è stato detto.
    «Non mi troverà a dare la colpa ai politici. È uno sport facile che non mi appartiene. Però è tutto parte di una visione che non abbiamo. Si dice che siamo l’ottava nazione più industrializzata al mondo. Poi si svolgono solo i G7, dove non ci siamo; e i G21 dove facciamo parte di un consesso troppo ampio e che alla fine è quello che è. Vorrà pure dire qualcosa».
    Questione più ampia, quindi.
    «Questione di classe dirigente che non ha la consapevolezza del valore dell’istruzione».
    Ma ci sarà pur qualche effetto positivo no?
    «Certo, le eccellenze non mancano, in alcuni settori sono avanzatissime. Ma la questione è un’altra: perchè la Spagna che è più debole di noi, ma che ci assomiglia per indole, per storia, per comunanza, sta meglio di noi? Semplice. Perchè ha modernizzato il suo sistema burocratico, le pubbliche amministrazioni, ha velocizzato i tempi della giustizia, ha sviluppato l’e-commerce».
    È questa la sua operazione verità?
    «Sì, occorrono scelte radicali. Proprio perchè non andrà tutto bene. Occorrerebbe indicare delle priorità: capacità imprenditoriale, resilienza, riforma del sistema scolastico, mondo della ricerca. La gente capace di tutto questo c’è. bisogna solo farla emergere».
    Come sociologo lei si occupato anche dei cambiamenti che l’emergenza Covid-19 ha comportato sulla religiosità.
    «Credo che il mondo delle religioni possa fare un buon uso delle crisi sapendo distinguere quello che è orpello da ciò che è fede. Ed è una questione centrale e di senso per ogni comunità. Si è capito e si va capendo ciò che è fondamentale e ciò che può risultare accessorio. E questo lo stiamo provando sulla nostra pelle a seconda del proprio credo».
    Professore, come è stata ed è la sua Quarantena?
    «È stato un periodo molto fecondo. Ho lavorato molto anche se è stato rattristato dalla morte naturale di mia madre. Con questo episodio ho sentito in prima persona il dramma della morte in solitudine. Tutto ciò mi ha solo permesso di riflettere ancor di più su quello che ci è accaduto»
    Paolo Navarro Dina
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