Il niqab a Monfalcone: tra diritti, tradizione e repressione. Aprire il dibattito senza chiudere gli occhi
Monfalcone torna alla ribalta della cronaca, per un problema che è bene ci poniamo tutti noi. Il caso è quello delle studentesse del Bangladesh che vestono il niqab, una forma di velo islamico che copre anche il viso, lasciando visibili solo gli occhi: e che vengono quindi identificate all’ingresso dell’istituto scolastico che frequentano.
Premessa: il velo islamico di cui parliamo normalmente è l’higiab – sostanzialmente un foulard, che copre solo i capelli. E che non può fare problema, proprio perché non ha altre implicazioni, fa parte della nostra cultura tradizionale, ed è assimilabile alla copertura del capo adottata dalle suore (o dai sikh): il suo uso rientra nella libertà di vestirsi di ciascuno. Il niqab invece copre anche, come abbiamo detto, il viso. E qui il problema c’è.
I dirigenti scolastici fanno quello che possono, in assenza di una normativa, e nel rispetto dell’autonomia loro garantita, per assicurare la continuità scolastica delle ragazze, identificandole e facendole entrare con il niqab: il rischio, altrimenti, è che non vadano più a scuola. Ma una normativa occorre. Perché occorre educare anche le comunità, e noi stessi. La questione della visibilità del volto è seria non, come si dice, per questioni di sicurezza (ci sono anche quelle, ma non è per quello che si solleva il problema), ma perché nella cultura europea e occidentale, storicamente, è attraverso i volti che si crea la relazione: viviamo di apertura, non di chiusura – e abbiamo avuto occasione di rifletterci sopra proprio nel periodo in cui tutti siamo stati obbligati a portare una mascherina, e ne abbiamo subìto le implicazioni, anche emotive e relazionali. Tra l’altro, non è neanche questione di rispetto di tradizioni altrui. Fino a ieri, il niqab era presente solo in piccole aree del Golfo, e poco altro. E ci sono paesi islamici dove l’higiab è maggioritariamente diffuso, ma il niqab è addirittura vietato per legge. Esattamente come è vietato in alcuni paesi europei. Lo stesso Bangladesh ignorava l’uso del niqab fino a qualche decennio fa: non è tradizione, ma innovazione. La sua recente diffusione tra le popolazioni islamiche anche in luoghi dove non c’è mai stato, in Asia, in Africa o nei Balcani (e in Europa occidentale), è dovuta infatti al manifestarsi di correnti religiose particolarmente conservatrici, sostenute dal denaro e dalle istituzioni educative proprio dei paesi del Golfo, incidentalmente nostri alleati: chi va là a studiare l’islam (e sono moltissimi, grazie ai fondi a disposizione, al prestigio dei luoghi santi di Mecca e Medina, e ai molti incentivi offerti), spesso torna introducendo e talvolta imponendo una usanza prima inesistente, e non islamica, di per sé. Ecco perché bisognerebbe intavolare una discussione seria sul tema, insieme e non contro le comunità islamiche: parlando con loro, non a proposito di loro e contro di loro. Per averle studiate e frequentate abbastanza a lungo, mi azzardo ad affermare che se si facesse un referendum, la maggioranza dei musulmani, e una travolgente maggioranza delle musulmane, sarebbe a favore dell’higiab, ma contro il niqab. E un serio dibattito sul suo eventuale divieto potrebbe essere un modo per aiutare chi è contro a poterlo dire ad alta voce: cosa non facile, perché significa, mettersi contro un pezzo della propria comunità. Soprattutto, anche chi non lo usa e non lo vuole, difende il diritto di altre a portarlo, se percepisce che il problema è sollevato solo in chiave polemica, anti-islamica, magari da parte di chi si attiva anche per chiudere (spesso violando la legge oltre che i principi costituzionali) pure le moschee. Il problema è che le strumentalizzazioni ci sono, e invece di aiutare a risolvere il problema lo aggravano. Se la battaglia contro il niqab la agitano i soliti noti che non perdono occasione per continuare le proprie battaglie discriminatorie anti-immigrati e anti-musulmani, alimentando un facile consenso che effettivamente porta visibilità e fortuna elettorale, non andiamo lontano. A costoro vorremmo solo rispondere che c’è una differenza tra l’agitare i problemi per affrontarli e risolverli, o farlo per lucrare un facile consenso mettendo i propri elettori contro gli immigrati, che nel caso in questione sono un terzo della popolazione di Monfalcone (gioco facile anche perché i primi votano, i secondi in maggioranza no, e quindi conculcare i loro diritti è un’operazione a rischio zero). Bisogna uscire da questa dinamica. Ma non avere paura di sollevare temi che possono anche essere scomodi, ma che è necessario affrontare. Proprio per evitare polemiche future. E soprattutto per mettere le basi di un patto sociale solido e condiviso, anche in una società culturalmente e religiosamente sempre più plurale.
Il velo e la regola che manca, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 9 febbraio 2025, editoriale, pp. 1-5