Stefano Allievi
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FIFA 2022 in Qatar: il Marocco e i nuovi equilibri mondiali

14/12/2022/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Articoli sull'Islam / Islam Articles, Islam, Società / Society /da Augusta

Comunque vada a finire la coppa del mondo del Qatar, la presenza in semifinale del Marocco, prima volta per una squadra africana, rappresenta un cambiamento storico, non rubricabile a un evento solamente sportivo.

È innanzitutto il simbolo del riscatto di un continente. Non a caso l’Africa tifa compatta per il Marocco, come anni fa aveva tifato Camerun, Senegal o Ghana quando erano arrivati ai quarti di finale. È un segno di equilibri mondiali che si modificano, e che peseranno sempre di più in futuro, economicamente, demograficamente (la Nigeria si avvia a superare gli USA come terzo paese più popoloso del mondo…) e anche politicamente.

Più in specifico, è un riscatto anche del mondo arabo, dove pure si gioca il mondiale, anche contro i paesi suoi ex-colonizzatori: nel caso dell’ex-colonizzato Marocco, battendo direttamente la Spagna, che nel territorio marocchino mantiene le enclaves neo-coloniali di Ceuta e Melilla, il Portogallo (proprio a Ceuta ebbero inizio le guerre marocchino-portoghesi, 600 anni fa), e andando ad affrontare la Francia, il colonizzatore più recente, il cui protettorato sul Marocco ha retto fino a settant’anni fa. Questa solidarietà interna al mondo arabo si è vista anche con la bandiera palestinese esibita dalla nazionale marocchina e da molti tifosi, a ricordare una ferita ancora aperta, che in occidente si tende a dimenticare, ma che nel mondo arabo è vivissima. Non stupisce che ovunque, nei paesi arabi, si tifi Marocco.

È un riscatto anche, in certo modo, dell’islam. I giocatori del Marocco hanno pregato sul terreno erboso dei campi di calcio mondiali, in direzione della Mecca, e anche questo fattore gioca un ruolo sullo scacchiere globale, nei paesi musulmani ma anche tra gli emigrati in paesi occidentali, dove l’islam è spesso malvisto, e non solo a causa del terrorismo. Re Mohamed VI appartiene a una dinastia che reclama una discendenza diretta dalla famiglia del Profeta, e questo è parte importante della sua legittimazione, che si sta attuando anche con una accorta politica di finanziamento di luoghi di culto e di formazione religiosa rivolta a imam e predicatori di tutta l’Africa (e della diaspora occidentale), in concorrenza e contrapposizione con l’islam radicale e salafita.

Riscatto, inoltre, del Marocco stesso, che da molto tempo persegue, con sempre maggiore successo, un ruolo di leadership – innanzitutto economica, attraverso oculati investimenti in sviluppo e infrastrutture – per tutta l’Africa, con particolare attenzione a quella subsahariana. Un ruolo da grande potenza regionale, al contempo in dialogo e collaborazione con l’Unione Europea. Quello che noi chiamiamo Marocco, in arabo maghrib, vuol dire occidente, e questa è dopo tutto la sua collocazione geografica, ma anche il ruolo di tramite che si è scelto, come paese in tumultuosa crescita economica, ma anche attore di una transizione politica che lo porta verso una sempre maggiore democratizzazione e libertà sostanziale.

Riscatto, infine, degli immigrati marocchini in Europa, della cui presenza straniera costituiscono una parte importante (in Italia sono oltre 400mila, terza componente dopo rumeni e albanesi). Non stupisce che sia così. Anche quando l’Italia vinceva contro altri paesi europei in cui erano stati accolti ma anche spesso maltrattati, gli italiani in essi emigrati avevano un motivo in più per gioire. Certo, qua e là c’è stata qualche inaccettabile intemperanza di troppo nel manifestare la propria soddisfazione (anche se, come in Italia, molto inferiore alle intemperanze contro i marocchini). Un surplus di rabbia, o un segnale di malessere, che in paesi come Francia o Belgio è anche una comprensibile protesta contro una integrazione non sempre riuscita, e una marginalizzazione di fatto che questi paesi hanno lasciato crescere nelle loro banlieues, pur in mezzo a evidenti successi di integrazione (a Bruxelles il nome più diffuso, alla nascita, è Muhammad). Ma l’argomento lanciato da qualche politico di destra, come Eric Zemmour, “in Marocco sono scesi nelle piazze pacificamente, in Francia ci sono stati tafferugli” (anche se risibili rispetto alla grande maggioranza di gioia civilmente espressa) rischia di essere scivoloso: più una constatazione di incapacità e impotenza della Francia rispetto al Marocco, dopo tutto. E peraltro le stesse persone, se non ci fosse stato il Marocco a giocare, avrebbero tifato per il paese in cui vivono. Come gli emigranti italiani all’estero quando non gioca l’Italia, dopo tutto.

 

Il riscatto del mondo arabo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 14 dicembre 2022, editoriale, p.1

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Pluralità culturale e intolleranza: a proposito del niqab

10/12/2022/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli sull'Islam / Islam Articles, Islam /da Augusta

Una donna del Bangladesh che vive da 13 anni a Mestre è stata prima insultata e poi aggredita perché portava il niqab, un tipo di velo islamico che lascia scoperti soltanto gli occhi. Non è il primo caso e non sarà purtroppo l’ultimo. Ma il fatto illumina alcuni nodi irrisolti, e vale la pena sottolinearne le implicazioni.

Da un lato abbiamo un rapido processo di pluralizzazione della società, che non è effetto della sola immigrazione, e che produce reazioni spesso oltre il limite della tollerabilità sociale. Le nostre città sono piene di persone che si sentono in diritto di decidere per gli altri che cosa è giusto e che cosa è sbagliato: e se una volta magari stigmatizzavano i capelli lunghi, una gonna corta o un bacio dato per strada, oggi se la pigliano con una coppia dello stesso sesso che si tiene per mano, con un capo di vestiario inusuale, o direttamente con il colore della pelle di una persona. Questi atteggiamenti denotano un’arroganza culturale diffusa, e un malfondato senso di superiorità. Come se fosse ancora possibile dire che esiste una sola cultura (quale?), un solo modo lecito di pensarla e di vivere, una sola religione o una sola ‘razza’ accettabile. E le modalità con cui si manifesta questo atteggiamento (il fatto che venga percepito come lecito aggredire qualcuno strappandogli di dosso un simbolo o capo di vestiario, che sia una sciarpa arcobaleno, una kippah o un velo) mostra quanto questa reazione incivile sia difficile da qualificare altrimenti che intollerante e financo francamente razzista (metteremmo mai le mani addosso ad una persona della ‘nostra’ cultura, etnia e religione per lo stesso motivo, a una suora magari?).

Ma un ragionamento va fatto anche sull’altra faccia della medaglia. Ho assistito personalmente e sostenuto (pagandone anche qualche minimo prezzo polemico) le battaglie delle donne musulmane in Italia per il diritto a portare l’hijab (un indumento a cui la definizione di velo fa torto, dato che non nasconde nient’altro che i capelli: come un foulard, a cui di fatto è assimilabile). Ho appoggiato il diritto al riconoscimento (ottenuto più di vent’anni fa) di poter avere la foto con l’hijab, per chi lo richiede, anche sulla carta d’identità (né più né meno come le suore, e per lo stesso motivo). Ho persino scritto un libro in difesa del burkini (il costume da bagno che è una specie di muta da sub incrociata con una casacca, che portano alcune musulmane, e non solo). Ma la questione del niqab, che copre anche il viso, del chador o a maggior ragione del burqa, pone un altro problema. Che non è di sicurezza: a tutt’oggi, in Europa, non si è visto né un attentato né una rapina attuati grazie ad esso. Ma squisitamente culturale, di estraneità reciproca percepita, e per questo più importante.

Certo, c’è anche un problema di legislazione. Da noi c’è il Testo unico di pubblica sicurezza che impedisce di andare in giro con il volto coperto, e vincola almeno a scoprirlo su richiesta di un pubblico ufficiale. Solo che – come leggi simili in tutta Europa – è regolarmente inapplicato, e non solo a carnevale: dalle sciarpe e passamontagna dei freddolosi, fino ai ricchi turisti della penisola araba che sarebbe imbarazzante (e probabilmente anticostituzionale) fermare alla frontiera. Non solo: in questi anni è stata la legge a ordinarci di coprire il volto, imponendoci la mascherina anti-Covid anche per strada. Segno che le sensibilità cambiano, per i motivi più diversi. E tuttavia i volti, da noi, sono culturalmente importanti, e loro copertura non sta sullo stesso piano di un foulard, perché in termini emozionali e comunicativi sono in un certo senso fondamento e garanzia del legame sociale, del rapporto fiduciario che implica.

Aggiungiamo che non è nemmeno un problema realmente religioso. Non c’è alcun riferimento coranico alla copertura dei volti. La sura XXXIII,59 invita solo le donne dei credenti a ricoprirsi dei loro mantelli – “questo sarà più atto a distinguerle dalle altre e a che non vengano offese”. Poi, ognuno fa l’esegesi che vuole, e non tocca a noi decidere per i musulmani. Ma forse non sarebbe inutile un franco dibattito interno alle comunità islamiche sul perché di questa enfasi recente sulla copertura del volto. Il fatto che nel Corano non ce ne sia traccia lascia pensare che le ragioni siano altre e meno nobili, più legate ai rapporti di genere, o a sovrastrutture ideologiche, dato che si sta diffondendo, a partire da ambienti salafiti, anche in paesi dove era prima inesistente (non è il rispetto di una tradizione, dunque, ma precisamente il suo contrario: un’innovazione). Il che meriterebbe una discussione onesta sulle sue ragioni e i suoi torti.

 

L’alterità culturale del velo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” 10 dicembre 2022, editoriale, p. 1

https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2022/12/donne-musulmane.jpg 340 510 Augusta https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2019/12/logo.png Augusta2022-12-10 08:50:362022-12-11 09:28:18Pluralità culturale e intolleranza: a proposito del niqab

Vivere senza Dio? o pensandolo diversamente? Come cambia il paesaggio religioso

24/01/2022/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Religione / Religion Articles, Religione / Religion /da Augusta

Con questo articolo si conclude la mia rubrica “Il mondo se” sulla rivista Confronti, in cui per tre anni ho provato a ragionare su come sarebbe (o come sarà) il mondo “se” o piuttosto “senza” alcune cose: in questo caso, come si trasformeranno le religioni e il paesaggio religioso delle nostre società

 

Senza religioni?

 

Secolarizzazione, privatizzazione del sentire religioso, pluralizzazione dell’offerta di religioni e religiosità disponibile, globalizzazione, crescente mobilità umana, progressiva perdita di significato dei confini, sono tutti fattori che sono alla base di una trasformazione gigantesca del paesaggio religioso. Non c’è più alcuna corrispondenza reale tra un popolo, un territorio, e un’identificazione religiosa specifica: sempre più sul medesimo territorio si trovano religioni vecchie e nuove, che spuntano per gemmazione o per inclusione, tra gli autoctoni quindi ma anche per effetto delle migrazioni, nonché forme crescenti di areligiosità. Tutto questo fa sì che si moltiplichino le occasioni di incontro, di confronto e anche di scontro: tra individui e comunità religiose, delle religioni tra loro (ma anche al loro interno), e con il contesto istituzionale laico.

Tutto questo accade a livello strutturale, di sistema, macro. A livello comportamentale, di individuo, micro, gli effetti di questa grande trasformazione sono ancora più evidenti. Da un lato le appartenenze tradizionali, diciamo ereditarie, esistono ancora ma sono sempre meno appetibili e accattivanti: una sorta di tradizionalismo debole. Dall’altro si diffondono e sono sempre più pervasive nuove modalità del credere, più esperienziali e spirituali. Come nelle forme di supermercato dei beni religiosi, di religione come fai da te individuale (mi prendo quello che via via mi interessa, un po’ di questo e un po’ di quello, l’oroscopo e le medicine alternative, la credenza nella reincarnazione e l’olismo new age, i tarocchi e l’I Ching, le parabole di Gesù e la meditazione trascendentale, il sufismo e il Dalai Lama…): ma con forme anche consapevoli e non necessariamente superficiali di sincretismo, significative per gli individui. Come nelle modalità di inclusione, di contaminazione cognitiva: mantengo un riferimento in una religione, ma credo e pratico a modo mio, aggiungendo al mio sistema di credenze altri spunti, magari dovuti ad incontri contingenti o di lungo periodo con altre religioni (come nelle amicizie e coppie religiosamente miste, sempre più diffuse). Come nelle scelte di conversione ad altre religioni, spesso impegnative, ma non necessariamente durature, tanto che anche convertirsi e cambiare appartenenza religiosa può diventare una pratica sociale e un modo specifico di essere credente. A margine di tutto ciò troviamo le forme progressive di abbandono della religiosità come contesto significativo, davvero produttore di senso per l’individuo, in favore di altri, non necessariamente legati allo scientismo o alla lettura razionale del mondo: più spesso ad altre pratiche e forme di impegno, e modalità di relazione, sentite come coinvolgenti – dalle pratiche artistiche collettive al consumismo compulsivo, dai rave parties al gaming, da certo pansessualismo al fanatismo politico-religioso, al suprematismo, al razzismo. Questi ultimi, spesso, nella forma di identità reattive sempre più diffuse, effetto dopo tutto della pluralità culturale a sua volta legata alla mobilità di idee e persone: si reagisce alla presenza dell’altro da sé, scagliandosi contro di esso, e trovando in questo una propria ragione d’essere. Un po’ come coloro che riscoprono di essere cristiani da quando ci sono i musulmani, o viceversa i musulmani che in occidente riscoprono confini identitari e forme di appartenenza visibile che nei paesi d’origine non avrebbero avuto ragione di essere sottolineate. Il che significa che lo scontro sociale non è legato alla separatezza e all’alterità, e all’esistenza di solidi confini identitari, come nella lettura huntingtoniana del conflitto come scontro di civiltà, ma semmai, al contrario, agli attraversamenti, alle permeabilità, all’incertezza progressiva dei confini, alla con-vivenza territoriale di diversità culturali.

In fondo, l’abitudine al cambiamento rende le singole scelte di mutamento meno drammatiche, meno rilevanti: un po’ come accade alle relazioni sentimentali. La possibilità di cambiare partner, e il fatto che questo accada sempre più di frequente, rende meno dolorosa le rotture dei legami e sempre possibile la speranza di riannodarne altri. Aggiungiamo che l’enfasi sul conflitto e lo scontro culturale non deve farci dimenticare il molto più frequente e pacifico incontro, e le forme di dialogo e accettazione dell’altro, e della diversità in quanto tale. Anche il dialogo interreligioso è dopo tutto oggi più una prassi di fatto che una teoria dell’incontro. Quasi a prefigurare che sia, in realtà, intrareligioso. Con tutte le implicazioni che questo ha e avrà sulle appartenenze religiose istituzionalizzate tradizionali, le chiese e le religioni storiche.

 

Senza religioni?, in “Confronti”, n. 12, dicembre 2021, p. 37

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Immigrazioni, pluralismo, islam: come cambia il paesaggio religioso in Europa

01/11/2021/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Religione / Religion Articles, Articoli sull'Islam / Islam Articles, Islam, Religione / Religion /da Augusta

Pluralismo religioso in Europa: novità ed elementi di continuità

 

Come cambia il paesaggio religioso in Europa

Il paesaggio religioso in Europa sta cambiando con una rapidità sorprendente, e tuttavia tale cambiamento appare pressoché impercepito, in sé e nelle sue conseguenze. Non è tanto e solo l’aumento dell’offerta religiosa che va rilevato, ma le implicazioni che il pluralismo religioso ha sulle società. Non è tanto importante quindi vedere, paese per paese, numeri e differenze quantitative (in quale paese si manifesta maggiormente questa o quella minoranza, o quanto sta calando l’appartenenza alle antiche maggioranze) che è rilevante: quanto capire le tendenze lunghe in atto.

Per l’Europa il rapporto tra autodefinizione religiosa e stato ha origine almeno dal trattato di Vestfalia (1648), dopo il quale lo stato si è identificato con una religione particolare. È così che la Baviera e Colonia divennero cattoliche, mentre Hannover e il Brandeburgo protestanti, la Danimarca e la Svezia luterane, e la Francia cattolica. Per arrivare a oggi c’è, in mezzo, una lunga storia, in cui, citati alla rinfusa, troviamo Illuminismo, Rivoluzione industriale, capitalismo, sviluppo scientifico e tecnologico, secolarizzazione, progressiva separazione tra la sfera politico-giuridica e quella religiosa, privatizzazione del religioso.

L’Europa di oggi non è dunque più quella di Vestfalia: ma questa identificazione tra stato e (una sola) religione non è sparita dall’orizzonte culturale dell’Europa, dalla sua autodefinizione. Ce lo suggeriscono innanzitutto le diffuse ‘incrostazioni’ istituzionali delle rispettive religioni maggioritarie, che anche se non sempre sono definibili come chiese di stato, sono comunque profondamente inscritte nel patrimonio giuridico-politico, ma anche economico e sociale, dei rispettivi paesi (la regina capo della Chiesa d’Inghilterra, le chiese di stato luterane dei paesi nordici, i concordati in Italia e Spagna, il legame tra ortodossia e nazione in Grecia, ecc.). Non si tratta tuttavia solo di una eredità culturale: un fatto di tradizione, senza conseguenze evidenti sull’oggi. Anche un certo ritorno dell’argomento religioso e del suo rilievo culturale nella definizione della nazione, e anche dell’Europa, sembra mostrare che questa identificazione è tutt’altro che un reperto del passato. Dal finanziamento delle scuole religiose al dibattito sulla bioetica, da certe posizioni politiche neo-conservatrici al recupero di una simbolica pubblica che potremmo considerare una forma di ri-tradizionalizzazione dall’alto, i segni di visibilizzazione istituzionale della religione, talvolta di reinvenzione di forme di civil religion, non mancano. Questo ritorno inoltre deve probabilmente qualcosa, oltre che a dinamiche interne, proprio alla nuova presenza di tradizioni considerate alloctone, tra cui, in primo luogo, l’islam.

Nell’Europa dell’ovest si credeva di aver risolto il problema della separazione tra stato e chiesa grazie alla secolarizzazione, ma alcune dinamiche interne, e la presenza delle minoranze immigrate, creano qualche problema a questa immagine a tinte troppo definite. Nell’est si credeva invece di averlo risolto eliminandolo alla radice, e si nota invece oggi il suo ritorno, dalla Polonia e dall’Ungheria alla Serbia, passando per la Russia.

Non possiamo tuttavia dedurre troppo facili linee di tendenza: assistiamo infatti sia a forme diffuse di privatizzazione del religioso (o di sua esplicita negazione: l’ateismo e l’agnosticismo sono in crescita e costituiscono in molti paesi la seconda ‘religione’), sia, in particolare nella sfera politico-rappresentativa, a forme di politicizzazione e anche di neo-istituzionalizzazione della religione, che progressivamente includono anche le minoranze.

 

Mobilità e pluralità

La mobilità delle religioni è legata, e del resto lo è sempre stata, anche alla mobilità umana. È dunque parte di quella più generale “rivoluzione mobiletica”, che coinvolge il movimento di informazioni, merci, denaro, idee, oltre che uomini e donne, e che è parte a sua volta del più problematizzato processo di globalizzazione. Uno dei suoi effetti è la progressiva maggiore com-presenza sul medesimo territorio di una pluralità culturale e religiosa sempre più ampia, che si sta delineando, pur tra resistenze e reazioni in direzione opposta, nei processi di cambiamento che stanno investendo l’Europa.

Da un lato abbiamo le presenze religiose abituali che costituiscono le costanti: assai più presenti, non fosse che per motivi inerziali, tanto in termini di radicamento sociale e culturale quanto per incardinamento istituzionale, di quanto l’enfasi sul cambiamento, sulle nuove mode religiose o sulla secolarizzazione riesca a comprendere. Dall’altro vi è precisamente il cambiamento, i dinamismi che, più che agitare le acque, ne modificano la composizione.

Il “momento religioso” attualmente vissuto dall’occidente è caratterizzato da due fenomeni concomitanti, e talvolta vissuti, dagli attori sociali che li interpretano, come tra loro concorrenti.

Il primo. Insieme alle religioni tradizionali della vecchia Europa (le varie famiglie cristiane, la presenza ebraica, qualche sopravvivenza che una volta si sarebbe definita pagana), troviamo oggi, sempre più articolati e visibili, altri attori: i nuovi movimenti religiosi che in Europa nascono o che vengono importati da altri fiorenti produttori (gli Stati Uniti, ma anche non pochi paesi asiatici: dall’India al Giappone alla Corea, e altri); un’ampia produzione di spiritualità new age; sette religiose più o meno legate, magari anche solo per opposizione, al vecchio ceppo cristiano; nobili tradizioni altrui da noi importate per iniziativa soprattutto di occidentali e a modo loro (è il caso del buddhismo).

Il secondo. Con l’arrivo di nuove popolazioni immigrate quello che in sociologia è invalso chiamare, con una metafora di derivazione economica forse discutibile ma efficacemente descrittiva, il mercato dei beni religiosi, si è ulteriormente complessificato. L’offerta di beni religiosi, già ampia e in aumento per sue proprie logiche, ha trovato un’ulteriore, feconda nicchia di mercato in cui espandersi, ma anche nuovi imprenditori sociali del sacro, diverse modalità di consumo, e si sono aperti nuovi canali di import-export religioso. Nel concreto, significa che vi è una sempre più marcata presenza di tradizioni religiose vecchie e nuove che sono arrivate insieme agli immigrati: dall’induismo all’islam, passando per le religioni ‘etniche’ (lo shinto, i sikh), l’animismo, forme sincretiche come le cosiddette ‘nuove chiese’ africane, ecc., oltre che nuovi membri, allogeni, di tradizioni religiose già presenti, percepite come indigene (cattolici, denominazioni protestanti, ortodossi, ebrei, ma anche membri stranieri di comunità religiose recenti, come i pentecostali e i testimoni di Geova).

Questi due fenomeni non sono separati e per così dire impermeabili: si intrecciano, si compenetrano, si influenzano reciprocamente, e retroagiscono sulla società in cui si inseriscono (che a sua volta retroagisce su di loro). Queste nuove presenze religiose non sono infatti neutre. E non hanno conseguenze solo per sé stesse. La presenza di questi nuovi ‘inquilini’ è suscettibile di influenzare, e di fatto sta già influenzando, anche i vecchi ‘padroni di casa’: le istituzioni, i sistemi sociali, e, cosa su cui si riflette molto meno, le religioni stesse.

Oggi la com-presenza di svariate entità religiose, resa ancora più visibile e in un certo senso drammatizzata dalla presenza di cospicue comunità di immigrati che si richiamano a religioni più o meno estranee alla storia europea, o almeno percepite come tali, ci costringe a fare i conti con quella che diventa pertinente chiamare, mutuando l’espressione dal dibattito filosofico recente, una diversa “geo-religione” dell’Europa.

 

Immigrati e religioni

 

La presenza di un numero sempre maggiore di immigrati in Europa non è solo un fatto quantitativo, con svariate conseguenze sociali, economiche e culturali. Insieme producono e creano nuove problematiche, nuovi processi di interrelazione: in una parola, un cambiamento qualitativo – niente di meno di un nuovo tipo di società. Alquanto diverso dal modello di stato-nazione come noi lo conosciamo, e dai suoi principi fondatori, che non a caso sono oggi in crisi. Si pensi agli elementi stessi dello stato: un popolo, un territorio, un ordinamento – tutti e tre, per motivi diversi, attualmente in crisi, sotto pressione, in perdita di capacità definitoria e dunque di efficacia. Per non parlare di quell’altro elemento, implicito ma ben reale nella nostra comprensione della società, che si aggiunge ai tre precedenti: una religione.

La pluralizzazione avviene e aumenta già per dinamiche interne alle nostre società. Ma, in più, la presenza di immigrati non è culturalmente né religiosamente neutra. Gli immigrati non arrivano “nudi”: portano con sé, nel loro bagaglio, anche visioni del mondo, tradizioni, credenze, pratiche, tavole di valori, sistemi morali, immagini e simboli. E prima o poi sentono il bisogno, se mai l’hanno perduto, di richiamarsi ad esse come ad indispensabili nuclei di identità; spesso per identificazione, talvolta anche solo per opposizione. Essi spesso giustificano e confermano una specificità e anche una sensibilità religiosa, che una modernità superficiale nelle apparenze e nello stesso tempo profonda e radicale nella sua capacità di scalfire gli stili di vita tradizionali e i convincimenti su cui si basano, apparentemente fa di tutto per cancellare. In una parola, la religione, e ancora di più la religione vissuta collettivamente e comunitariamente, ha un suo spazio e un suo ruolo nella costruzione dell’identità individuale e collettiva di nuclei significativi di immigrati.

Non c’è più, insomma (semmai c’è stata in maniera così totale: in realtà anche questa unitarietà è un mito di origine romantica), un popolo con una propria fede che abita un determinato territorio; ma assistiamo al progressivo prodursi di una realtà molto più articolata, in cui su un medesimo territorio si mischiano (o non si mischiano, ma comunque co-abitano) popoli, religioni, etnie diverse. La pluralità, insomma, da patologia che era si è fatta fisiologia: è diventata, o sta diventando, normale – e progressivamente anche normata. Un effetto anche questo, e tra i meno percepiti, della globalizzazione.

La pluralizzazione avviene dunque su tutti i piani. E non è solo un fatto (ad esempio, la maggiore offerta culturale, sociale, ecc. disponibile). È un processo. Che cambia la società, e dunque ci cambia. Cambia noi, e cambia gli altri attori in gioco, in primo luogo gli immigrati stessi: trasformando le identità individuali e collettive tanto degli immigrati quanto degli autoctoni (e dei nuovi immigrati che progressivamente si autoctonizzano).

 

L’islam come catalizzatore

 

Il caso dell’islam è spesso considerato quello maggiormente problematico, ma non è il solo. Anche se, non foss’altro che per questioni numeriche, nonché a seguito del retaggio storico che il rapporto tra islam e occidente porta con sé, per finire con l’incalzare dell’attualità (il terrorismo e il nuovo ruolo geopolitico dei paesi musulmani), offre notevoli spunti di riflessione, inglobando al suo interno provenienze etniche differenziate, un certo numero di autoctoni (i convertiti), e delle seconde generazioni nate sul suolo europeo e progressivamente inglobate nel mainstream; nonché un’ampia serie di ambiti in cui si propone e ‘fa’ immagine, talvolta suo malgrado: dal rinascere dei fondamentalismi ai rapporti di genere, passando per le relazioni tra stato e comunità religiose.

Ma l’islam non è né più diverso né più ‘estremo’ di altre presenze religiose, concettualmente oltre che geograficamente più lontane dalle derive del cristianesimo europeo (a sua volta fortemente differenziato, oltre che storicamente diverso dalla sua immagine e ruolo passato). Semplicemente, per motivi statistici (è la principale tra le nuove minoranze) e d’attualità, ha inevitabilmente assunto il ruolo di sostituto discorsivo, di oggetto transizionale, rispetto a quello che è il cambiamento vero: la pluralizzazione stessa delle società, appunto. L’impossibilità di comprendere l’Europa, o i singoli stati nazione, in una dimensione di omogeneità, ormai irrimediabilmente perduta. Che è ciò che fa problema, e produce reazioni e rivendicazioni nostalgiche. È così che emergono identità reattive e pulsioni conflittuali che presumono una coerenza interna alle identità religiose non più riscontrabile sul piano empirico, e dissensi e conflitti valoriali attraversano le identità prima ancora che separarle tra di loro. E, soprattutto, non tengono conto delle sempre più rapide trasformazioni in atto. Per tornare al nostro esempio: l’islam in Europa (del resto diversissimo per provenienze e costumi) cambia. Ma, europeizzandosi, diventando un attore sociale interno, cambia anche l’Europa. In più, non essendo solo interno, ma anche – attraverso legami personali e network organizzati, come pure attraverso i media vecchi e nuovi – transnazionale (potendo essere insomma qui e altrove), i musulmani che vivono in quella che potremmo chiamare la parte europea della umma, attraverso numerosi effetti di feedback influenzano anche le zone d’origine dell’islam, e comunque quelle di provenienza delle prime generazioni di immigrati. E al contempo, i nuovi arrivi fanno ricominciare da capo il ciclo. In un processo trasformativo che include forme di sincretismo soggettivo e di mixité (da quella culturale a quella matrimoniale) che sono esse stesse fattori ulteriori di trasformazione. Difficile, dunque, parlare delle entità religiose in astratto: esse vanno sempre osservate nel contesto e nel concreto dei loro dinamismi.

 

Pluralismo religioso in Europa: novità ed elementi di continuità, in Centro Studi Idos, “Dossier Statistico Immigrazione 2021”, Roma, novembre 2021, pp.77-80

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Perché il tema delle migrazioni è così divisivo fra i credenti?

27/08/2021/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Religione / Religion Articles, Religione / Religion /da Augusta

Ho dedicato alle migrazioni oltre trent’anni di studi, ricerche, libri, insegnamento, attivismo politico e animazione sociale. Eppure non ho ancora una risposta alla domanda che mi è stata posta, e che trovate nel titolo. O ne ho molte, ma tutte parziali.

La prima è che non esiste più alcuna omogeneità di pensiero sociale, a maggior ragione politico, tra i cattolici. Inevitabile quindi, normale, e anzi benefico che ci siano posizioni diverse: non solo tra i credenti, del resto. In una società culturalmente plurale, secolarizzata e frammentata, le divisioni non separano più le identità, ma le attraversano.

Le migrazioni sono una questione di dibattito più calda di altre, fortemente mediatizzata e politicamente strumentalizzata, e quindi maggiormente divisiva. Per questo motivo cerco di non fare ricorso solo a valori, ideali, riferimenti scritturali o di magistero, per parlarne. Non perché non siano importanti: lo sono eccome. Ma perché, quando vengono proposti come tali nello spazio pubblico, convincono solo i già convinti. Non sarà un documento della Santa Sede, un’esortazione del papa, un’omelia domenicale sui princìpi, a convincere nessuno: quelle sono occasione preziosissime per ribadire e approfondire, per rassicurare e motivare più saldamente i già convinti e i già impegnati. Agli altri, anche dei nostri (supposto che l’espressione abbia un senso: le identità e le appartenenze sono anch’esse plurali, intermittenti, reversibili – nessuno è mai cattolico e basta), nelle parrocchie e nell’associazionismo, non bastano le parole d’ordine o le esortazioni (“Ama il prossimo tuo…”), dobbiamo spiegare cosa succede, ed è più complicato. O far leva sugli interessi, parola nobile ancorché svilita (deriva da inter-esse, “essere fra”: ciò che costituisce il legame sociale) – cosa che pochi sanno fare. O ancora, far sperimentare sentimenti, incarnando e incrociando esperienze vissute: il resto rischia di essere vuota e inefficace retorica.

Bisogna uscire dalla contrapposizione un po’ da tifo calcistico tra buonisti e cattivisti: entrambi presunti, dato che i primi non sono necessariamente buoni, e i secondi non così cattivi. E non è contrapponendo un omicidio perpetrato da o su un migrante, che si migliora il livello etico della società.

Penso che dobbiamo vivere e raccontare esperienze, e inanellare ragionamenti pacati, senza spirito giudicante. Anche perché di errori ne hanno fatti tutti, anche coloro che si autocollocano nel campo dei buoni (“chi è senza peccato…”). Da molti anni, per spiegarlo, equiparo l’immigrazione a un matrimonio: funziona solo se lo vogliono entrambi i contraenti. E da sempre penso che dovremmo spendere metà delle nostre risorse, tempo, denaro, intelligenza, ad aiutare gli immigrati a inserirsi, e l’altra metà a spiegare agli autoctoni cosa sta succedendo, perché e quali ne sono i vantaggi. L’ascolto delle posizioni altrui – ecco, quello sì – aiuterebbe a rendere la questione meno divisiva. Si faccia un esame di coscienza chiunque di noi, e qualunque associazione, rispetto all’impegno investito in questo sforzo: anche se ci sono molte giustificazioni (l’urgenza, l’emergenza – ma ormai sono quarant’anni che ci sono le immigrazioni…).

Personalmente (e non sono il solo) ci sto provando costruendo una diversa narrazione, più “larga” e comprensiva[1]. Raccontando la storia e l’attualità della mobilità umana (di cui le migrazioni nelle varie direzioni sono solo una parte, e correlata con altre: turismo, affari, studio, curiosità…). Esplicitando cos’hanno in comune emigrazione e immigrazione, e cosa le lega (il che ci aiuterebbe a capire che è normale che la Germania sia contemporaneamente il primo paese europeo per immigrazione e pure il primo per emigrazione, cosa meno nota). Mostrando i legami con la nostra demografia: in questo momento il rapporto tra lavoratori è pensionati è 3 a 2, nel 2040 sarà 1 a 1, e nessuna pur necessaria politica a favore delle famiglie potrà mai riempire quel buco. Spiegando che gli emigranti sono più degli immigrati, e non c’è quindi nessuna invasione in corso. Che tutelando i diritti degli immigrati (ad esempio a un giusto salario) tuteliamo anche i nostri. Dettagliando che gli stranieri sono indispensabili in molti lavori (badanti e colf; bracciantato ma anche ruoli specializzati in agricoltura – impensabile oggi non sono la raccolta del pomodoro, ma la produzione del parmigiano e degli insaccati, senza di loro; manovalanza in edilizia; operai nell’industria; magazzinaggio nell’industria e la logistica; pulizie negli alberghi, negli uffici, nelle case; ristorazione e alberghiero); e non portano via il lavoro a nessuno: al contrario, lo creano (l’80% degli stranieri è operaio – non sarebbero sostituiti dall’80% di persone che entrano nel mercato del lavoro, che sono almeno diplomate, aspirano ad altri mestieri, e nel caso preferiscono l’emigrazione; mentre la presenza nel settore pubblico è dello 0,01%). Mostrando che innalzando muri ci ritroviamo chiusi dentro, e non possiamo più uscire se li innalzano altri. La convivenza aiuta a far capire il resto: il 15% di matrimoni misti mostra quanto, oltra alla fetta di società che non capisce e rifiuta la diversità, ce n’è ormai un’altra a cui piace così tanto che se la sposa. Le dinamiche che coinvolgono le scuole e le nuove generazioni (e i luoghi di integrazione, dallo sport agli oratori) ci mostrano un nuovo mondo.

Forse solo così, coniugando valori e ragione, interessi ed esperienze, potremo rendere l’immigrazione meno divisiva: o almeno passare più tempo a risolvere problemi che non a innescare conflitti. Scoprendo che le soluzioni sono spesso più semplici di quel che crediamo. E fare lo sforzo di proporle e di discuterle, ascoltando le posizioni diverse, è già un primo passo.

Stefano Allievi, sociologo

Perché il tema delle migrazioni è così divisivo fra i credenti?

Lettera diocesana_Sguardi_2021/07

Mensile di comunicazione della Chiesa padovana

[1] Un esempio in Torneremo a percorrere le strade del mondo. Breve saggio sulla mobilità umana, UTET, 2021
https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2020/05/fabrica-tutti.jpg 1103 1654 Augusta https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2019/12/logo.png Augusta2021-08-27 15:16:442021-08-27 15:19:57Perché il tema delle migrazioni è così divisivo fra i credenti?

Fedi e politiche. Per rinnovare un dibattito invecchiato male

02/07/2021/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Religione / Religion Articles, Religione / Religion /da Augusta

Il Forum di Limena mi ha chiesto una riflessione sul rapporto tra fede e politica.

Di seguito la mia risposta.

 

FEDI E POLITICHE

Per provare a rinnovare un dibattito invecchiato male

 

 

Ho fatto in tempo a vivere il fervore delle discussioni su “fede e politica” negli anni ’70 e ‘80. Conservo ancora un po’ di testi su questo tema, con questo esatto titolo (che non ho mai più sentito il bisogno di prendere in mano, e non lo farò ora). E non riesco a sfuggire alla sensazione che si tratti di un dibattito – come molti di quei tempi – irrimediabilmente datato. Non vecchio di quarant’anni, ma proprio di un altro evo (del resto, di un altro secolo si tratta). Lontanissimo…

Datato nella terminologia, nella solidità quasi ‘rocciosa’ che attribuisce presuntivamente alle categorie in questione. E anche per l’essere un tema quasi esclusivamente declinato al maschile. Che è il genere tuttora dominante nel mondo cattolico (inteso come gerarchia e funzionariato), nella teologia che pensa la politica, e anche nella politica (poca e poco profonda) che pensa la religione. Lo è statisticamente, percentualmente. Ma ho anche la sensazione che lo sia nella predilezione per temi totalmente astratti e quasi sempre disincarnati – cartesiani, mi viene da dire (“fede e politica” è tipicamente uno di questi temi). Ma Cartesio era quello che diceva cogito ergo sum quando sappiamo che nella vita è esattamente il contrario, per dire. Un filosofo, anche lui, tutto al maschile, oltre che maschio.

Dico questo per spiegare perché, quando sono stato invitato a riflettere su questo tema, ho subito accettato, ma anche contemporaneamente pensato che non avrei avuto molto da dire. O che, almeno, la pars destruens avrebbe preso decisamente il sopravvento sulla pars construens.

 

Cominciamo dai termini. Usare il singolare significa usare il retrovisore. Non posso riassumere qui lunghi processi in poche frasi (ho scritto parecchio di queste cose, visto che l’essere un sociologo delle religioni è uno dei miei mestieri). Ma possiamo e dobbiamo almeno dire che secolarizzazione, privatizzazione del religioso e pluralizzazione dell’offerta non sono passati invano. Né per la fede né per la politica, che è bene a questo punto cominciare a declinare entrambe al plurale.

 

Le fedi: perché il pluralismo interno al mondo cristiano, e ancora di più quello esterno, insieme alla soggettivizzazione del rapporto con il religioso, hanno di fatto reso sempre più frequenti nella nostra vita pratiche che non si riducono alla scelta tra essere credenti oppure no. Si può credere senza appartenere (e persino il contrario…), ci si può costruire di fatto, senza nemmeno accorgersene, la propria religione sulla base di elementi disparati raccolti lungo la strada (supermarket delle religioni, fai da te: un po’ di reminiscenze cattoliche, l’oroscopo, lo yoga, i cristalli, la guarigione attraverso l’imposizione delle mani, la cristalloterapia, la meditazione zen, il guru orientale e il santo cristiano…), si possono adottare processi di inclusione o di contaminazione (sono cattolico ma credo anche nella reincarnazione, o qualcos’altro), e ci si può convertire (e de-convertire) anche più volte (tanto per far capire che non è così strano, un venerato maestro della chiesa come sant’Agostino si è convertito al manichesimo e poi al neoplatonismo prima di approdare al cristianesimo) – e tutto questo lo si può fare in maniera intermittente e reversibile, e di fatto caratterizza la vita di molti noi, e sempre più dei nostri figli.

 

Le politiche: perché si comportano allo stesso modo, se sono “fedi laiche”, e finiscono per essere ancor più soggette alla logica della frammentazione se non lo sono (e di solito non lo sono più). Il rapporto del cittadino con le forze politiche è più debole, comunque meno fideistico (c’è meno credenza, e ancor meno appartenenza), spesso è mediato dal leader e passa attraverso di lui (e come ci si innamora, magari intensamente, con la stessa frequenza ci si disamora), c’è una notevole volubilità di opinioni, da parte delle stesse leadership, senza che questo incrini minimamente l’appartenenza, per i militanti, ma anche sempre meno militanza (una quota sempre più ampia di votanti oltre tutto decide in cabina elettorale). Dunque, anche in politica tutto vive uno statuto provvisorio e reversibile: a cominciare dalle stesse forze politiche, che hanno una durata sempre più breve, con ovvie conseguenze sulla fidelizzazione del voto (io per esempio nella mia vita sono stato iscritto a tre partiti, per lo più tuttavia non sono stato iscritto a nessuno, e ho simpatizzato e votato per almeno un paio d’altri – la stragrande maggioranza delle persone, di “fede” o meno, non si iscriverà mai a nessuno).

 

Non che non ci sia motivo di collegarle, allora, fede e politica: c’è sempre. Ma bisogna prendere atto che vanno declinate al plurale, e il cambiamento di opinioni è la nuova normalità, come lo è la mancanza di appartenenze stabili e dunque di comunità significative di riferimento. E non sono affatto convinto che sia necessariamente un male, un regresso, un passo indietro. Non solo, fedi e politiche pesano meno nella vita delle persone: tranne in quelle che hanno scelto professionalmente l’uno o l’altra, o tutt’e due. Perché ciascuno ha altre identità e appartenenze di riferimento significative (il sociale, la famiglia, la professione, il volontariato, i gruppi di simili perché interessati alle stesse cose, che siano hobbies, sport, ecologia o quant’altro). E quelli per cui sono determinanti le due di cui stiamo parlando sono una minoranza, di fatto un ceto di specialisti: con il rischio che il gergo con cui ci si esprime sia poco appetibile per il resto del volgo. Di fatto, è spesso più interessante coniugare le fedi con altre cose (prendiamo ad esempio la preoccupazione per l’ambiente) o le politiche con altre cose, che non fede e politica tra loro.

Di più, l’esperienza che tutti oramai facciamo, fin dai banchi di scuola o dai luoghi di lavoro, della pluralità (esperienze che fanno meno proprio le identità religiose e politiche, che tendono ad essere escludenti e a chiedere una militanza totalizzante, anche se pochi poi la praticano effettivamente), ci ha resi meno inclini a credere che i “nostri” siano necessariamente migliori degli altri, e che il semplice fatto di essere dei “nostri” non è per nulla una garanzia di comportamento migliore. Troppe controtestimonianze non ci consentono più una fiducia cieca, e neanche miope: occorre mettersi gli occhiali, se del caso, e non fidarsi di nessuno a scatola chiusa.

 

Faccio due esempi. Uno sul lato della politica: la Banca d’Italia – che è stata ed è per fortuna ancora un’istanza etica e una fondamentale riserva valoriale della repubblica (probabilmente la principale del nostro paese), dalla quale abbiamo attinto diversi tra i migliori nostri politici (ed è indicativo: gente cresciuta a fare conti, non a disquisire di valori). Direi che i momenti migliori li ha vissuti in mano a laici laicissimi, o a cattolici assai discreti: quando è finita in mano a pii teoreti, che amavano farsi vedere in compagnia di porporati, ha dato il peggio di sé e ha avuto uno sbandamento che ha rischiato di minarne radicalmente la credibilità. L’altro, sul lato della fede: penso ai ‘cappellani del parlamento’ – bravissimi nelle pubbliche relazioni e nell’organizzare incontri e pellegrinaggi in cui soprattutto i laici potevano ostentare la loro vicinanza, salvo la totale incapacità di aver fatto crescere una leadership cattolica presentabile, per non parlare di qualcosa che potesse assomigliare a una politica cristiana, qualunque, ma proprio qualunque cosa possa voler dire quest’espressione.

 

Quanto precede probabilmente spiega perché vivo una lontananza radicale da questo dibattito, e riesco a suggerire solo una soluzione individuale. Sia cattolico (o altro) chi lo è o si sente di esserlo, faccia politica chi vuole o pensa di poter dare un contributo, la faccia con chi c’è cercando di incrociarle come meglio riesce la sua attività con il fondamento delle sue radici valoriali. E addio nominalismi, addio retorica, basta ambigui pseudoriconoscimenti sulla base di un’appartenenza che, anche per i praticanti (e molti di noi lo sono a periodi alterni, peraltro – e trovo non ci sia nulla di male in ciò), non è più solida come in passato. E i luoghi di incontro, a prevalenza laica o cattolica (preziosissimi: tra questi anche quello che ci ospita) siano un contributo alla costruzione di un supplemento d’anima: meglio per temi che per princìpi. Esercitandosi empiricamente a fornire soluzioni. Che, si scoprirà, sono fondate anche su valori. Ma il confronto avvenga lì, non sui valori in sé.

 

Nel concreto. Ogni tentativo di creare una forza politica centrista, qualunque cosa significhi, per iniziativa di una rete di cattolici trasversali alle appartenenze partitiche, è in quanto tale destinato a fallire. Qualunque progetto potrà nascere solo in presenza di una qualche leadership carismatica – che in questo momento nel mondo cattolico impegnato in politica non si vede, domani può darsi, ma non è detto – e del sostegno di una base di interessi che per definizione non potrà coagularsi intorno a un’appartenenza fortemente modificata nelle sue architetture organizzative e men che meno intorno a una fede inevitabilmente evanescente. Tradotto: dubito che in futuro si potranno eleggere persone in un ipotetico partito “valoriale” o nei vari partiti esistenti solo perché vicine al vescovo o a una qualche associazione. Dati molti precedenti in cui ho avuto occasione di incocciare, meglio così. Basta con l’essere cattolico come rendita, anzi sinecura, magari per fare meno fatica nel trovare consensi per la propria piattaforma politica. Non abbiamo nessuna garanzia che gli altri siano meglio, certo, ma almeno non avremo alcuna complicità nell’aver scelto il peggio.

Credo sia utile impegnarsi in politica (io lo faccio) – ognuno rispondendo al proprio foro interiore, non certo alla curia (o alla parrocchia, a livello locale), né al movimento di turno – dove ci si trova a proprio agio (e cambiando ‘parrocchia’ – l’espressione è significativa – se non ci si sente più a proprio agio: ho fatto anche questo). Nessuna predilezione particolare per nessuna forza politica, quindi nessuna cogente indicazione di voto (che tanto non sarebbe rispettata), direi quasi nessuna esclusione, salvo alcune nette barriere valoriali (per dire, pur collocandomi personalmente in un campo che potremmo definire liberal-progressista, non vedrei affatto male la presenza di persone valorialmente solide nello schieramento di centro-destra: con cui collaborare non in quanto cattoliche, ma in quanto ragionevoli e che hanno maturato capacità dialogiche). E per il resto, buon lavoro, buona fortuna, con i compagni di viaggio che ciascuno troverà sul proprio cammino.

 

Stefano Allievi

https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2021/07/download-7.jpg 225 225 Augusta https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2019/12/logo.png Augusta2021-07-02 17:56:062021-07-02 17:56:06Fedi e politiche. Per rinnovare un dibattito invecchiato male

Saman: cosa pensarne, cosa fare

02/06/2021/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Religione / Religion Articles, Articoli di Società / Society Articles, Articoli sull'Islam / Islam Articles, Islam, Religione / Religion, Società / Society /da Augusta

Saman Abbas: 18 anni e una vita davanti. Che una famiglia bigotta e la minaccia di un matrimonio imposto hanno cambiato per sempre. Come, lo sapremo alla conclusione delle indagini.

È una storia comune, quella del conflitto che ha vissuto. Che si presenta spesso nelle famiglie “tradizionaliste”, quale che sia la tradizione di riferimento (religiosa, etnica, tribale, in ogni caso popolare, da qualche parte, e tramandata come si tramandano le tradizioni, per inerzia e imitazione), ma che normalmente si risolve in altro modo: passando attraverso conflitti familiari dopo tutto fisiologici, che servono a inghiottire la novità, la libertà e il riconoscimento dei diritti individuali, non a rifiutarli o conculcarli fino alla soppressione della vita.

Le tradizioni che vanno contro la legge vanno denunciate. Con forza. Quelle che vanno contro la morale diffusa e il senso comune vanno ingaggiate in una discussione senza reticenze. Ma serve pensiero, non retorica. E pratiche di integrazione, non capri espiatori.

Il problema non è denunciare l’immigrazione, o l’islam (come se fosse pratica abituale tra immigrati e musulmani uccidere le figlie! E il matrimonio combinato non fosse presente alle più diverse latitudini, e peraltro come pratica ancestrale prima che come costume religioso). Mettere sotto attacco le culture in quanto tali porta spesso a una chiusura intracomunitaria ancora più ferrea. Il cammino giusto è fare l’opposto: bisogna incontrare le comunità, parlare, dialogare, coinvolgere – in una parola, integrare. Mettendole di fronte all’orrore di casi come questo, collaborando a trovare mezzi e vie d’uscita, combattendo insieme un’omertà comunitaria difensiva che è essa stessa parte del problema. Coinvolgendo come attori privilegiati proprio le nuove generazioni, i figli degli immigrati, che sono in prima linea in questo confronto/scontro culturale.

In altri paesi europei, quando è emersa la piaga dei matrimoni forzati, è aumentato l’impegno e l’investimento in attività di integrazione, non diminuito. E lo si è fatto non contro le comunità, ma con loro, coinvolgendone i vertici nazionali e locali, sia etnici che religiosi (di molte etnie e religioni: la piaga è diffusa, e il confine tra matrimonio combinato e matrimonio forzato non sempre facilmente discernibile), in concrete iniziative sul territorio, nei quartieri e nelle scuole a rischio, facendo iniziative congiunte di educazione, cioè prevenzione, cioè integrazione, cioè il bene di tutti.

In passato altri casi (e purtroppo altri omicidi) si sono visti, soprattutto in Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, cioè le regioni più sviluppate e avanzate del paese. Non è una contraddizione. Non potrebbe essere che così, visto che qui vivono la maggior parte degli immigrati, dando un contributo percentualmente assai superiore al loro numero alla produzione di ricchezza di queste aree, in cui si sono spesso inseriti bene. Tanto bene da fare famiglia – cioè proiezione (anche se inconsapevole) sul futuro – qui. È in questa realtà che si trovano a vivere i loro figli, e una delle contraddizioni (e delle occasioni di litigio familiare) è che i genitori vivono spesso voltati all’indietro: la loro cultura è quella d’origine, e il paese dove sperano di ritornare anche. Per i loro figli e figlie (ché le donne – il corpo e la volontà delle donne – sono sempre il terreno privilegiato di scontro delle culture che non a caso definiamo patriarcali) le cose stanno in maniera completamente diversa: sono proiettati qui, e questo è il loro paese, di cui a giusto titolo vorrebbero la cittadinanza (che, incidentalmente, aiuterebbe nell’affermazione di una consapevolezza e di una volontà autonoma, anche simbolicamente diversa e slegata da quella dei genitori).

È dunque questo paese – il loro – che deve reagire. Denunciando senza ambigue comprensioni e tolleranze l’inaccettabilità e persino l’indicibilità di comportamenti che coartano la volontà individuale, e ogni e qualsiasi tipo di violenza e sopraffazione. Reagendo con fermezza, forza e autorevolezza contro le discriminazioni interne alle comunità (nei confronti delle donne, in primo luogo) – e, per coerenza e maggiore legittimazione di questo suo sforzo, quelle esterne (nei confronti degli immigrati stessi). E dando una mano, anche e proprio rafforzando i soggetti deboli (le donne e i figli) con pratiche di empowerment e di integrazione diffusa. Solo così si risolvono i conflitti attuali. E si prevengono quelli futuri.

 

Saman e lo scontro culturale, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 2 giugno 2021, editoriale, p.1

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Islam in Europa. Tra violenza e pregiudizio: il dialogo possibile

04/12/2020/in Anno / Year, Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Religione / Religion Articles, Articoli sull'Islam / Islam Articles, Islam, Religione / Religion /da Augusta

Prima l’uccisione orribile dell’insegnante Samuel Paty, nella regione di Parigi. Poi l’attentato a Vienna, con la sua scia di vittime innocenti. Nel giro di due settimane, lo spettro della violenza di matrice islamica ha ripreso ad agitare un’Europa che credeva di essersela lasciata alle spalle con la sconfitta sul terreno dell’ISIS. Non è così: l’ISIS è stato (ed è ancora) solo una delle forme – la più violenta, la più esplicita, la più organizzata – di un problema più ampio, con cui dobbiamo fare i conti. Devono farli le società europee. E devono farli i musulmani che le abitano.

Cominciamo da questi ultimi. Che, in quanto tali, non sono – e non possono essere considerati – corresponsabili di questi orrori. Come non potevano esserlo i socialisti europei del terrorismo delle BR, i cattolici o i protestanti irlandesi delle bombe dell’IRA e degli orangisti, la popolazione basca di quelle dell’ETA. Ma, come in tutti i casi che abbiamo citato, il terrorismo è stato sconfitto, più che con la repressione, che certo è stata importante, con una grande battaglia culturale interna, condotta dalle persone di quei mondi contrarie invece all’ideologia della violenza, e conclusasi con la loro vittoria. Per limitarci al primo esempio, ma è vero per tutti, il terrore brigatista è stato sconfitto quando – nei mondi limitrofi, di quelli che avevano ideali in parte comuni – si è smesso di dire che si trattava di provocatori o infiltrati al soldo di altri interessi (cioè non erano dei ‘nostri’), poi che non erano ‘veri’ comunisti perché questi non agiscono così, poi che erano compagni che sbagliavano nel metodo ma comunque avevano le loro buone e giustificabili ragioni, poi condannando esplicitamente qualunque ricerca di legittimazione da parte dei violenti, infine isolandoli, denunciandoli e combattendoli come nemici dichiarati, pagando anche il prezzo della marginalizzazione (e in qualche caso della morte – pensiamo a Guido Rossa) per averlo fatto. È su tutti questi terreni che va condotta la battaglia. Ed è quello che sta avvenendo anche nel mondo islamico europeo, dove queste idee circolano tutte, ma per fortuna con percentuali molto diverse di sostegno: e un benefico conflitto interno è già in atto. Bisogna ricordarlo, perché solo la chiarezza di visione e l’onestà dello sguardo dei molti possono aprire delle crepe nell’oscurantismo di alcuni. E farci accorgere delle piccole e grandi collaborazioni a questa violenza. Pensiamo al caso Paty: i genitori che hanno protestato contro l’insegnante senza conoscere il merito, i leader associativi e gli imam in cerca di visibilità che hanno indicato la via della stigmatizzazione personale, chi sui social ha condiviso la gogna, gli indignati in servizio permanente effettivo del vittimismo e dell’islamofobia, chi ha amplificato il nemico per interessi di parte o di nazione (anche dall’estero), fino agli studenti che hanno indicato l’insegnante all’attentatore, e a chi di fronte a tutto questo è stato zitto. In questo senso non si può parlare di attentatore isolato, anche se la responsabilità è solo sua: sarebbe un’offesa alla verità.

Ma poi c’è l’Europa. Che non è innocente anche quando è inconsapevole: e per le stesse ragioni. Pure lei ha le sue colpe rimosse e i pregiudizi inconfessati: non accettando che i musulmani in Europa siano ciò che sono, ovvero come tutti gli altri residenti e cittadini, con gli stessi diritti e doveri e garanzie costituzionali; che non possono dunque essere stigmatizzati in quanto tali, e devono anzi essere arruolati come partner in una battaglia che è comune, di reciproco interesse e basata sui medesimi valori, che vede dalla stessa parte le società europee e la stragrande maggioranza dei musulmani che in esse vivono, e che peraltro pagano per primi il prezzo della reazione al terrore. Questa collaborazione deve essere aperta, esplicita e dichiarata. Perché anche una parte dell’Europa ha mostrato il volto della stigmatizzazione a senso unico, delle campagne d’odio nei confronti dei musulmani, della discriminazione istituzionale, del doppiopesismo, dell’offesa gratuita e generalizzata, dell’esclusione, di un diffuso e inaccettabile pregiudizio anti-islamico (molto meno, va detto, del terrore). E anche qui ci sono molti complici silenzi.

C’è bisogno di fiducia, di collaborazione nel concreto, di gesti coraggiosi – anche pubblici e  istituzionali – di apertura reciproca, di dialogo onesto. Solo così si sconfiggerà un nemico che è comune.

 

Lo spettro del terrorismo che ancora aleggia sull’Europa, in “Confronti”, n. 12, 2020, editoriale, p.7

https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2020/12/is.jpg 228 341 Augusta https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2019/12/logo.png Augusta2020-12-04 13:17:462020-12-04 13:17:46Islam in Europa. Tra violenza e pregiudizio: il dialogo possibile

“Fratelli tutti”: un commento

28/10/2020/in Altro / Unpublished Materials, Anno / Year, Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Religione / Religion Articles, Interviste / Interviews, Religione / Religion /da Augusta

Com’è arduo essere Fratelli tutti… Padre Francesco Occhetta e Stefano Allievi commentano l’enciclica di papa Francesco

L’enciclica. Padre Francesco Occhetta e il prof. Stefano Allievi commentano il documento, complesso, di papa Francesco. Dalla necessità di meditare il testo per superare facili slogan al rischio dell'”occidentocentrismo”

Com'è arduo essere Fratelli tutti... Padre Francesco Occhetta e Stefano Allievi commentano l'enciclica di papa Francesco
24/10/2020

C’è la parabola del Buon Samaritano al centro di Fratelli tutti, la terza enciclica di papa Francesco incentrata «sulla fraternità e l’amicizia sociale». Nelle sintesi della stampa tanti sono gli elementi che hanno colpito, emozionato o semplicemente fatto discutere: dalla critica verso il populismo agli eccessi del pensiero neo-liberista, dalla condanna finale verso la pena di morte fino alla necessità degli organismi internazionali contro i rigurgiti del nazionalismo identitario. Ma nel cuore, nel cuore vero, di questo documento chiamato a sistematizzare il magistero di Francesco su tali argomenti, c’è sempre l’icona evangelica dello straniero che si china sull’uomo incappato nei briganti e versa olio e vino sulle sue ferite.

Spiega padre Francesco Occhetta, gesuita, coordinatore del cammino di formazione alla politica Connessioni: «La pagina di Vangelo è la chiave per interpretare l’enciclica, prima dei frutti occorre nutrirsi della radice. Il samaritano disprezzato dalla cultura giudaica, rovescia la logica del prossimo che è il proprio vicino, egli “non ci chiama a domandarci chi sono quelli vicini a noi, bensì a farci noi vicini, prossimi”, scrive il papa». Va letta così, insomma: «È per questo che l’enciclica richiede una meditazione personale, non è un testo sociologico o politologico come molti pensano, ma dialoga con il mondo a partire dalla prospettiva del Vangelo. “Volete onorare il corpo di Cristo? Non disprezzatelo quando è nudo”, ribadisce l’enciclica. In questo senso Fratelli tutti elenca tutte le situazioni in cui gli uomini e le donne soffrono come vittime dei sistemi sociali e politici e, come sempre, la Chiesa presta la sua voce a chi non ce l’ha».

Papa Francesco non usa mezze misure per attaccare sia il populismo sia gli eccessi del neoliberismo tecnocratico. C’è chi ha addirittura parlato di una “Terza via” di Francesco. «La “terza via” della Chiesa – osserva padre Occhetta – è quella di sempre, non è un’alternativa politica, ma un’ispirazione per tutti per far sì che la comprensione della coscienza sociale evolva verso la dimensione della fraternità intesa come processo. Il papa invita i politici a riconoscere che la fede nel “mercato non risolve tutto”, il modello consumista ci ha ormai consumati e logorati; occorre rilanciare una politica popolare, riconoscere le false promesse del populismo, denunciare i limiti della visione del liberismo inteso come teoria economica e non come filosofia politica. L’alternativa? È costruire comunità inclusive locali e globali che difendano la dignità umana, l’antidoto è il popolarismo».

«I populismi sono come burrasche che si infrangono su Governi e istituzioni e si presentano come movimenti storici ciclici – riassume padre Occhetta – Viviamo immersi in una corrente culturale che nega il pluralismo e le minoranze interne; venera i leader come padri e padroni che appaiono nei media come uniche voci; esalta il nazionalismo e il sovranismo; ignora gli enti intermedi nella società, come la Chiesa, i sindacati, le associazioni e così via; predilige la democrazia diretta su quella rappresentativa; forma la pubblica opinione attraverso appelli, a emozioni e a credenze personali; confonde la destra e la sinistra e fa apparire il Nord contro il Sud, il “noi” contro loro; semplifica a slogan soluzioni complesse, come “il reddito di cittadinanza”; contrappone tra le categorie di “popolo puro” e di “comunità politica”». Ed è proprio in questo contesto che ritorna in auge una parola divenuta per molti parolaccia: la parola popolo. «Occorre ritornare all’arte della mediazione che aiuta a trovare soluzioni complesse, essere competente sui temi, prediligere il “noi” politico sull’io che porta a forme di potere distorte e alla corruzione. Per chi amministra il “ritorno alla compassione” è la condizione per la buona politica, come la chiama Francesco».

Il papa arriva addirittura a parlare di “amore politico: «Sembra una contraddizione, visto anche cosa succede a Roma, ma la Chiesa non è il Vaticano. Prima di insegnare l’amore al mondo occorre renderlo testimonianza possibile e credibile a partire dalle comunità cristiane, occorre “riconoscere ogni essere umano come un fratello o una sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non sono mere utopie” (n.180). Ma c’è di più, l’amore cristiano è dire “eccomi” più che tanti falsi “ti amo”, per questo il mondo lo si cambia dai piccoli gesti: “Se qualcuno aiuta un anziano ad attraversare un fiume – e questo è squisita carità –il politico gli costruisce un ponte, e anche questo è carità. Se qualcuno aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro, ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica (n. 186). I credenti impegnati in politica devono abbandonare i vecchi schemi, formarsi davvero insieme attraverso una nuova cultura della fraternità. Ci sono molte realtà che lo stanno facendo, personalmente mi sento di suggerire l’esperienza di Comunità di Connessioni e la neonata Base che connettono volti nuovi, competenze e un nuovo metodo di formazione in sintonia con l’enciclica».

E ai massimi livelli, papa Francesco, citando l’Unione Europea, l’integrazione nell’America Latina e le Nazioni Unite invita a governare la globalizzazione: «Nel secolo XXI – leggiamo nell’enciclica – si “assiste a una perdita di potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politica. In questo contesto, diventa indispensabile lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate, con autorità designate in maniera imparziale mediante accordi tra i governi nazionali e dotate del potere di sanzionare” (n. 172)».

Un’enciclica ricca di «temi e parole chiave molto legate all’attualità. Forse anche troppo». Stefano Allievi, docente di sociologia all’Università di Padova, riconosce: «L’enciclica privilegia alcuni temi, come la lotta alle diseguaglianze, l’accoglienza degli stranieri, la possibilità di rendere universali i diritti umani che esistono solo per una minoranza. Il documento, anche a partire dagli esempi citati, però, corre il rischio dell’”occidentocentrismo”. Le encicliche hanno sì il bisogno di attualizzare il messaggio evangelico nell’oggi, però l’effetto collaterale è quello di cedere a interpretazioni episodiche, che valgano solo per il momento presente». Per Allievi è un limite ridurre tutta l’enciclica a un attacco al populismo e a certi leader: «Mi sembra sia sprecarne e rovinarne il messaggio. Il richiamo più importante dell’enciclica sta nel bisogno di ricostruire legame sociale e di ricostruire comunità intorno a una visione di società, a un progetto inclusivo. Gli attacchi contro un modo di pensare per cui qualcuno possa restare indietro sono forti e insistiti, ed è importantissimo ribadirlo oggi. Esistono però anche, nel nostro tessuto sociale, tante proposte che stanno andando nella stessa direzione inclusiva: si tratta di forze che esistono già e che forse non si notano molto, mentre si notano di più i bersagli polemici».

Stefano Allievi non nega che però anche la parola comunità sia un’arma a doppio taglio: «È una parola problematica, perché tende a presupporre dei confini tra chi è dentro e chi è fuori la comunità. Ma questa non è l’idea di comunità di papa Francesco: la sua è quella di una comunità a misura delle persone, anche di chi non ce la fa, dove ci si possa salvare tutti insieme. E qui dentro c’è anche tutto il grande tema delle migrazioni». I riferimenti alla pandemia da Covid-19 per Allievi non sono altro che un ulteriore esempio attorno al quale il papa orienta il suo messaggio: «Francesco non ci illumina sulla pandemia, del resto l’emergenza Covid viene letta in modo diverso in tutto il mondo, ma per il papa la pandemia è l’occasione per ribadire il fatto che “siamo fratelli tutti, dobbiamo salvarci tutti assieme”, e che quando ci sarà il vaccino questo dovrà essere disponibile per tutti, non solo per i privilegiati».

Il riferimento all’amore politico è in assoluta continuità con il magistero degli ultimi 50 anni: «È apprezzabile il fatto che non c’è mai stata negli ultimi pontificati una demonizzazione della politica. La politica, come diceva Paolo VI, è la più alta forma di carità, ma lo è soltanto se è capace di leggere bene i segni dei tempi, i segni del presente. Ciò che fa questa enciclica è leggere, nell’universo di significati a cui guardiamo dalla nostra finestra sul mondo, alcuni criteri interpretativi e attraverso di essi fare delle scelte in termini di “amore politico”, un atteggiamento di prossimità verso tutti gli esseri umani. C’è un richiamo all’agire politicamente: il bene comune è il riferimento, ma il bene comune lo si produce agendo, non solo pensando».

Comunità cristiane, invito al dialogo con l’islam

Fratelli tutti è un’enciclica di cui «si parlerà molto, ma che sarà assai più discussa della Laudato Si’». Per Stefano Allievi, docente di sociologia all’Università di Padova, papa Francesco ha voluto affrontare, parlando della fraternità e l’amicizia sociale, temi assai più delicati rispetto a quelli dell’ecologia integrale. «Almeno a parole – spiega Allievi – siamo tutti a favore della salvaguardia dell’ambiente. In Fratelli tutti, invece, ci sono alcuni bersagli precisi». «Per le comunità ecclesiali – conclude Allievi – sarà forte il riferimento al dialogo interreligioso, in particolare con l’Islam, con il riferimento al grande imam Ahmad Al-Tayyeb, con cui Francesco ha firmato il documento di Abu Dhabi».

Numerosi i riferimenti nel testo alla pandemia mondiale

Papa Francesco ha voluto firmare la sua terza enciclica, “Fratelli Tutti”, direttamente sulla tomba del santo di cui porta il nome, alla vigilia della sua festa, il 3 ottobre. Molti i riferimenti alla pandemia da Coronavirus, che «ha messo in luce le nostre false sicurezze» e la nostra «incapacità di vivere insieme». Sulla scorta del suo magistero durante la pandemia papa Francesco auspica «che non sia stato l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare», e «che non ci dimentichiamo degli anziani morti per mancanza di respiratori. Che un così grande dolore non sia inutile. Che facciamo un salto verso un nuovo modo di vivere e scopriamo una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri”. Forte, nel quinto capitolo, il richiamo alla buona politica contro il «populismo irresponsabile».

“La Difesa del Popolo”, 26 ottobre 2020

https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2019/12/logo.png 0 0 Augusta https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2019/12/logo.png Augusta2020-10-28 13:10:052020-10-28 13:10:05"Fratelli tutti": un commento

Covid e dintorni: i musulmani e il diritto alla sepoltura

24/06/2020/in Anno / Year, Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Articoli sull'Islam / Islam Articles, Islam, Società / Society /da Augusta

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Dove seppelliamo i nostri morti?

di Bianca Maria Pezzini

cimitero islamico

Cimitero islamico a Marrakech

“Dove seppelliamo i nostri morti?” In questo periodo di emergenza sanitaria è un interrogativo non privo di inquietudine tanto per i cattolici quanto per i credenti di minoranze religiose. Tra queste, la comunità musulmana è particolarmente toccata dal problema e sono mesi che i giornali ne parlano. In realtà però, è da tempo che si discute per trovare una soluzione: dall’inizio degli anni Duemila si tenta di trovare un’intesa tra comunità islamica e stato italiano, ma ad oggi non sono stati raggiunti grandi risultati. Su circa 8 mila comuni italiani sono presenti solo 58 cimiteri islamici – destinati peraltro ai residenti nel comune in cui si trova il cimitero – e dovrebbero far fronte alle esigenze di una comunità di circa 2 milioni di credenti.

È evidente che anche senza Covid-19 il problema presto o tardi si sarebbe dovuto affrontare e risolvere in maniera definitiva.

L’attuale situazione, rendendo impossibile il rimpatrio delle salme a causa della chiusura di rotte aeree e marittime, non ha fatto altro che acuire una problematica già presente, creando emergenza nell’emergenza.

Per comprendere meglio la necessità di realizzare aree cimiteriali islamiche, abbiamo intervistato il professor Stefano Allievi, docente di sociologia dell’università di Padova.

“Noi diciamo che i migranti tendono a rimandare i corpi dei defunti nel paese di origine, ma questo accade solo in una prima fase, ovvero quando si sentono migranti temporanei. Man mano che risiedono per periodi più lunghi nel paese di immigrazione, e tanto più se ci fanno famiglia, la loro proiezione diventa il luogo in cui vivono. È quindi normale che desiderino essere seppelliti nel territorio dove hanno vissuto e dove si trovano i loro parenti più stretti” spiega il professor Allievi.

Ne consegue che questo vale anche per i musulmani e non bisogna dunque stupirsi se il loro obiettivo diventi quello di realizzare cimiteri islamici.

“Tuttavia in Italia sono ancora pochi e spesso i defunti vengono deposti in aree acattoliche; ma via via che la comunità cresce diventa necessario, banale, fisiologico, aprire spazi a loro dedicati. Questo produce opposizione da parte dei sindaci o delle amministrazioni perché il diritto alla sepoltura, che è un diritto umano, è sentito come un processo di invasione. In definitiva, il desiderio di essere sepolti nella terra in cui si è vissuto per la maggior parte della propria vita non è altro che un processo di integrazione post mortem”.

Intervista al professor Stefano Allievi, docente di sociologia dell’università di Padova sul problema delle sepolture dei musulmani in Italia

Dunque, quella che sembra essere un’esigenza specifica dei musulmani assume un carattere universale che abbraccia tutte le minoranze religiose. La richiesta di aree riservate dove seppellire i propri morti “è tipica delle comunità religiose sia minoritarie che maggioritarie”. Il fatto è, che nei confronti dei musulmani si è creata l’idea che il professor Allievi definisce con l’espressione “processo di eccezionalismo dell’islam”, ovvero “pensare sempre che questa religione rappresenti un caso eccezionale; in realtà non lo è affatto. Bisogna calcolare che alcune identificazioni più forti sono legate al fatto di essere una minoranza e quindi valgono anche per le altre. Le comunità minoritarie soffrono di non essere riconosciute, mentre quelle maggioritarie lo sono di fatto dalle leggi, dalle istituzioni, dal paesaggio, dall’urbanistica, dalla politica”. La mancanza di questo riconoscimento per le prime si esplica nel “bisogno di sancire in maniera più forte gli obblighi, ma questo vale per tutte le minoranze”. In Italia l’esigenza della comunità musulmana viene intesa come esclusiva rivendicazione di un non-diritto (ovvero il diritto alla sepoltura), quando ad altre minoranze religiose (valdesi, ebrei) la medesima necessità non solo è riconosciuta, ma è anche garantita.

Dunque, se non c’è niente di strano in questa richiesta da parte dei musulmani, perché loro “vogliono” e “chiedono” come fanno esattamente gli altri gruppi minoritari, qual è il problema?

Facciamoci aiutare da una notizia e da qualche numero (in costante aumento). La notizia riguarda il progetto di realizzare un cimitero islamico nel comune di Fiumicino su un terreno di 400 ettari. I numeri, invece, sono relativi all’appartenenza religiosa degli immigrati presenti in Italia (stimati di poco superiori ai 5 milioni). Secondo le stime del Dossier statistico immigrazione relative all’anno 2019, gli ortodossi sono circa 1,5 milioni; i protestanti 232 mila; gli induisti 158 mila; i buddhisti 120 mila; atei e agnostici 248 mila.

Se si uniscono le due informazioni, ci si rende ben conto che nel momento in cui tutti giustamente “chiedono”, viene a crearsi un problema di spazio. A questa problematica se ne lega un’altra: le sepolture permanenti. “All’inizio venivano negate per motivi di spazio” spiega il professor Allievi “ma poi sono state autorizzate, poiché la popolazione europea è in decrescita e il bisogno di aree cimiteriali non è così impellente. Tuttavia, le richieste di comunità religiose minoritarie come quella musulmana, ha innescato una richiesta anche in quelle maggioritarie, tra cui i cattolici”.

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Stefano Allievi

E’ autore di oltre un centinaio di pubblicazioni in vari paesi e di numerosi articoli e interviste su dibattiti di attualità. Suoi testi sono stati tradotti in varie lingue europee, in arabo e in turco.

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