Femminicidi: il lavoro culturale da fare sui maschi

Se è uno, è un fatto isolato, una notizia, che merita un commento. Se sono una sequenza, ripetuta nel tempo, sono un fatto sociale, che merita un’inchiesta e un approfondimento. Se sono uno stillicidio (oltre 70 da inizio anno, secondo i dati del Viminale, di cui più di 50 per mano del partner o dell’ex-partner), diventano un allarme civile, che pretende un esame di coscienza approfondito. Stiamo parlando dei femminicidi, naturalmente.

Contrariamente a quello che molti pensano, non sono in aumento: al contrario, sono in progressivo ma costante calo, così come gli omicidi. Ma stridono ogni giorno di più con il cambiamento sociale, prendono a pugni una realtà che vorrebbe evolversi nella direzione opposta. Per questo, oltre che per il fatto in sé, fanno sempre più male, e se ne parla di più, con più rabbia, pretendendo con più forza giustizia. E giustizia va fatta. Non solo risarcendo – almeno con le sentenze – le vittime e i loro familiari, quando ormai è troppo tardi. E nemmeno solo proteggendo con maggiore efficacia le vittime potenziali, troppo spesso abbandonate alla mercé degli stalker. Ma discutendo, prevenendo, combattendo su questo tema una battaglia culturale profonda: perché di questo si tratta – di incrostazioni culturali, di assunzioni di ruolo perverse, di meccanismi di potere non affrontati e mal gestiti. Anche quando al femminicidio non si arriva. È un problema di rapporti tra uomini e donne: la base della società. Che ha bisogno di una seria manutenzione straordinaria: e dunque di un dibattito pubblico aperto e onesto.

I cambiamenti nei ruoli femminili, l’indipendenza, l’autonomia, misurate nella scuola (dove le donne riescono meglio degli uomini), conquistate lentamente nel mercato del lavoro, ma ancora faticosamente affrontate nella sfera privata, sono non la causa, ma il segno visibile di una rimessa in discussione dei ruoli di potere tradizionali, maschili. La causa sono gli uomini: è tra loro che bisogno individuare il problema e le sue possibili soluzioni. La violenza del caso individuale, come la logica del branco nel caso dello stupro, hanno origini profonde e lontane: nel maschilismo volgare dei dialoghi a proposito di donne tra amici, a scuola, al bar, al lavoro e negli spogliatoi, nel modo di atteggiarsi, nella complicità quasi omertosa rispetto alle sopraffazioni anche piccole, nella mancanza di critica e di dissociazione interna.

Occorre una ecologia del linguaggio all’altezza del tema. Inaccettabile sentire ancora parlare di amore malato, di gelosia. L’amore non c’entra niente, il potere moltissimo. Ancora più grave la derubricazione al gesto di follia, al raptus: quando tutto è premeditato in maniera minuziosa, fin da quando si decide di mettersi un’arma in tasca per andare a un appuntamento. Eppure lo si sente ancora: in bocca ai giudici e nelle sentenze, dove naturalmente è più grave, sui giornali e tra i cittadini comuni, magari i vicini chiamati a dire la loro davanti a una telecamera.

C’entra uno squilibrio di genere ancora troppo accentuato nelle professioni: troppi maschi tra giudici, poliziotti e giornalisti – che non hanno maturato loro stessi una consapevolezza di ciò di cui parlano. Lo dimostrano le frange negazioniste, ancora molto presenti: quelli che dicono che il femminicidio non esiste, o è fortemente esagerato. Probabilmente, se esistesse un fenomeno a parti invertite, della stessa entità, se fossero i maschi a morire di maschicidio, vittime delle loro partner, se ne parlerebbe molto di più.

C’è dunque un problema di educazione al genere, e di educazione ai sentimenti, all’amore in primo luogo, molto più urgente dell’educazione sessuale o della generica accettazione della diversità. Che spetta alla società, e alla scuola, affrontare. Prima ancora che alla famiglia, essa stessa invischiata più fortemente in ruoli tradizionali, malamente messi in discussione. E ci vuole personale specializzato per farlo: che racconti le trasformazioni della sessualità e della famiglia, la possibilità di fare esperienze e quindi di scegliere, di dire dei no. Che bisogna imparare ad accettare, e a gestire. Il nuovo cameratismo tra sessi che vediamo nei più giovani, la maggiore accettazione della diversità, non solo di orientamento sessuale, la messa in questione dei ruoli, sono il segnale incoraggiante che le cose possono cambiare. Ma se ne riconosciamo l’importanza, non possiamo lasciare a sé stessi questi processi.

 

La battaglia culturale che serve, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 17 settembre 2021, editoriale, p.1