Quando il sovranismo fa male alla nazione. Su carne, insetti e altre sciocchezze
La sovranità alimentare rischia di essere una bella battaglia ideologica, e un boomerang pratico. Rischia infatti di ritorcersi contro la patria economia, oltre che contro la nazionale intelligenza.
Intanto: il nemico. Non c’è. Non c’è nessuna Europa che vuole obbligarci a mangiare grilli o deglutire carne sintetica. Anche perché non c’è nessun obbligo: semmai un aumento della libertà individuale e di scelta di ciascuno. Con tutte le precauzioni, etichettature e informazioni del caso, come giusto che sia, e che già l’Europa prevede, peraltro. Dietro ci sono buonissime ragioni. Perché insetti e grilli sono una risorsa di proteine abbondante e a disposizione: e peraltro fanno parte della dieta alimentare dell’uomo dall’inizio della sua storia. Ho mangiato in Africa termiti e cavallette, e non vedo una differenza di principio, e nemmeno di superiore civiltà, rispetto all’inghiottire moeche, lumache o gamberetti, francamente. Dopodiché, siamo liberi di non farlo, se non ci va. Ma anche di scegliere il cibo che più ci piace, compatibilmente con le nostre tasche, come già accade: siamo infatti i più importanti consumatori di sushi d’Europa, e i terzi per il kebab (nonostante le ordinanze sovraniste contro di esso…), pur godendo le decantate meraviglie della dieta mediterranea.
Quella contro la carne e le proteine sintetiche è una battaglia, se possibile, ancora più implausibile. Immaginiamo che, per coerenza, i sovranisti nostrani rifiutino anche le vitamine sintetiche, inghiottendo quando hanno il raffreddore solo quintalate di arance anziché comode compresse solubili in acqua (incidentalmente, anche arance, limoni e mandarini sono originari dall’estremo oriente: come faremmo se li avessimo sovranisticamente rifiutati in passato?).
La dico semplice. Il nutrimento per tutti, a prezzi abbordabili, sarebbe una svolta gigantesca nella storia dell’umanità. L’uscita dal bisogno, e letteralmente dalla fame, che ancora attanaglia molti. E non solo. La carne sintetica avrebbe (ha già) un impatto ambientale molto minore degli allevamenti intensivi (con le conseguenze devastanti che conosciamo, in termini di inquinamento, di salute, di consumo di territorio, risorse, acqua, antibiotici e altri farmaci non proprio naturali, di conseguenze più ampie sul cambiamento climatico – e magari di condizioni degli animali). L’ho assaggiata: e, francamente, non è più artificiale della maggior parte del cibo che compriamo al supermercato – che, peraltro, di naturale spesso ha molto poco (visto che siamo in periodo di Vinitaly, vale la pena ricordare che la viticoltura è la più grande consumatrice di chimica dell’agroalimentare europeo). Non solo: impedirne la produzione in Italia, vantando la primazia mondiale del divieto, mentre il mondo va nella direzione opposta, significa danneggiare le imprese italiane che già lavorano nel settore – altri andranno avanti nella ricerca, nella produzione e nella vendita e faranno profitti, noi contempleremo sovranamente il nostro ombelico impoverito. Salvo importare prodotti altrui, quando ci servirà.
Semmai, immagino altri scenari, legati a diseguaglianze fattuali più che a vaghi principi ideali. È solo questione di poco perché vi sia un ordinario doppio mercato, due filiere parallele: la carne artificiale per i più, nel consumo ordinario, da grande distribuzione, casalingo, e quella ‘vera’, più cara, per le occasioni speciali, magari al ristorante. Un po’ come già oggi sono separate la filiera del cibo ordinario e di quello biologico, o del pesce allevato e quello pescato. Il mercato del lusso e quello della gente comune. Sapendo che già oggi la chimica, tra additivi, integratori e quant’altro, è quella che rende i nostri anziani più restii ad abbandonare questa terra – e noi tutti più longevi. Immaginiamo che i sovranisti alimentari, coerentemente, non ne facciano uso.
Dopodiché, tutto ciò non è in contraddizione con la doverosa valorizzazione dei prodotti del territorio, il km zero, la biodiversità, la sostenibilità, la lotta per un consumo equo, per un pagamento giusto dei lavoratori della terra, la promozione dei sistemi locali del cibo, l’agricoltura familiare, la pesca e l’allevamento tradizionali (che non hanno nulla a che fare con gli allevamenti intensivi di carne pur nostrana, tuttavia).
Sono due binari paralleli, che vanno percorsi entrambi. E lo si può fare. Anche importando costumi e prodotti altrui integrandoli nella nostra cultura. L’abbiamo sempre fatto, del resto. Il pomodoro è peruviano, la melanzana indiana, il peperoncino della Guyana, il mais messicano, il riso arabo, il pesco cinese, la patata americana, come il tabacco – e potremmo continuare. Oggi li produciamo noi, come il kiwi di cui siamo il maggiore produttore al mondo. Non credo che ne faremmo volentieri a meno, in nome di una discutibile dieta sovranista.
No alla sovranità alimentare, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 31 marzo 2023, editoriale p.1