Questioni di bioetica. Sul fine vita.
Samantha D’Incà, una giovane di Feltre, si trova in stato vegetativo. Non tra la vita e la morte: ma in un altrove che mi riesce difficile definire. La famiglia chiede di porre fine alla nutrizione artificiale. Credo sia un caso sul quale valga la pena riflettere. Ciascuno di noi, individualmente: magari per attivare una dichiarazione anticipata di volontà – io lo farò. E come cittadini ed elettori, chiedendo che si legiferi sul tema. Mi è stato chiesto di commentare il caso. Di seguito, le mie considerazioni.
Samantha ha trent’anni. È in stato vegetativo da sei mesi. Ci resterà per tutta la vita. Se è vita. Viene idratata e nutrita artificialmente, con una sonda infilata nello stomaco. Non ha coscienza, non ha conoscenza, non ha consapevolezza. Se non fosse supportata dalla tecnica, che la tiene letteralmente in vita – se è vita – sarebbe già morta.
La sua è una storia come sarebbe potuta accadere a ciascuno di noi. Una banale scivolata, la frattura di una gamba. Ordinaria amministrazione. Ma ci sono state delle complicazioni, che l’hanno portata dove è adesso: altrove. Una brutta polmonite, i polmoni collassati, il cervello rimasto senza ossigeno per troppo tempo, l’inutile trasporto in elicottero verso un altro ospedale. Proprio per la sua banalità il suo caso è importante. Perché serve a identificarci. È in casi come questo che la discussione sul fine vita mostra di non essere una disciplina per specialisti, ma questione essenziale per tutti noi, come singoli e come collettività che su questo dovrebbe legiferare e in ogni caso è chiamata a decidere: bioetica popolare, affare pubblico.
In questo momento Samantha è un corpo tenuto artificialmente in vita. La sua famiglia chiede di “scollegarla”: brutta espressione che significa lasciarla andare dove sarebbe andata naturalmente. Altrove. E anche in questo caso, come in quello di Beppino Englaro – che ho avuto l’onore di conoscere e rispettare per la sua testimonianza, continuata anche quando la sua vicenda privata era finita, a nome e per conto degli altri – sono i familiari più stretti, le persone che l’hanno amata di più, a farsi carico non di una battaglia, ma di una pacifica civile richiesta, che ai più appare di buon senso: pur mentre hanno già un dolore insopportabile e una domanda inevasa di senso da doversi gestire. Come fa la mamma di Samantha, descrivendo con parole semplici e per questo strazianti il suo limitarsi ad accarezzare la testa di sua figlia, perché altro non si può fare, di fronte ad una adulta che ha la coscienza di un neonato, e che secondo i medici potrebbe al massimo, se tutto andasse bene, acquisire quella di un bimbo di due mesi. E chiedendo quello di cui aveva parlato con la figlia, proprio discutendo con lei del caso Englaro, senza che tuttavia Samantha lasciasse una volontà esplicitata per iscritto: come non stupisce non abbia fatto una trentenne che credeva di avere una vita davanti, e come non fa la maggior parte di noi, anche molto più anziani.
Ci sono cose peggiori della morte. L’ossessione di (far) rimanere in vita è una di queste. Una forma estrema e inconsapevole di volontà di potenza, medica e giudiziaria (ma anche teologica, o parlamentare, a seconda di quali attori entrano in gioco). Un accanimento che non è nemmeno terapeutico, perché non è in grado di curare. Facile essere a favore di un simulacro di vita, se non è la propria, e se la decisione è demandata ad altri, per giunta: che sia la magistratura o la téchne ospedaliera. Facile sentirsi generosi, aperti alla vita, con il corpo altrui.
Lo sappiamo, sono scelte drammatiche. Difficili. E nessuna è veramente “giusta”. Nessuno, almeno, lo può sapere con certezza. Proprio per questo abbiamo il dovere di lasciar decidere chi a queste persone ha voluto bene, se non sono – come Samantha non sarà mai più – in grado di decidere da sé. Già la scelta è un peso difficile da portare. Il peso della lotta contro la legge, la tecnica, pezzi di opinione pubblica, un sistema che invece vuole imprigionare il corpo in un “per sempre” indefinito e senza speranza, lo è ancora di più.
L’ha detto un filosofo cattolicissimo come Giovanni Reale, meglio di chiunque altro: con la scusa di sacralizzare la vita, si finisce per sacralizzare la tecnica che permette di farla proseguire artificiosamente – perché senza la tecnica non ci sarebbe alcuna vita. Non vita degna: vita, proprio.
“Incerta omnia. Sola mors certa”, diceva Sant’Agostino. Oggi non è più così. Non sappiamo più qual è il confine tra la vita e la morte. È l’aspetto negativo dei progressi straordinariamente positivi delle scienze e della medicina. Presuppone la responsabilità di decidere, di scegliere, e anche di legiferare. È ora di farlo.
Fine vita, il peso della decisione, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 maggio 2021, editoriale, p. 1