Fare opposizione nello Zaiastan

La battuta è stata del leader dell’opposizione, Lorenzoni, quando gli è stato chiesto come commentava le elezioni: “in bulgaro o in italiano?”. È un vecchio vizio di chi non si identifica con i vincitori, e guarda attonito – tra l’allibito e l’invidioso (nel caso di Lorenzoni, forse solo autoironico) – il travolgente successo di Zaia in Veneto, tirare in ballo le “percentuali bulgare”, Lukashenko o lo zar Putin. Ma qui non c’è nessun autoritarismo, nessuna tentazione totalitaria, nessun dominio di partito unico: il consenso sale dal basso, e la leadership di governo qui è purissimo soft power. Carezzevole, persino. Attentissimo a non prender posizione, semmai, non a prenderle forti. Più ascoltare che dire, e magari fare. Se c’è qualcosa di cui non si può proprio accusare Zaia, è di volersi imporre: tanto meno con le maniere forti, o con le percentuali truccate. Non ne ha bisogno.

Tuttavia, il Veneto è davvero lo Zaiastan: fenomeno irripetibile, nemmeno esportabile al resto d’Italia, e che finirà con lui. E in questa landa chi si oppone finisce per essere, o meglio per sentirsi, minoranza etnica: divisa, separata – metà ragionevole e moderata, distaccata e benevolmente scettica, metà invece rancorosa e incattivita. Posizioni tipiche di chi sa di contare poco o nulla, e forse di poterci o saperci fare poco o nulla. Basta vedere le bolle social dell’opposizione: un po’ di autocritica (poca, in realtà, non proporzionale alle dimensioni dell’irrilevanza), molti silenzi (in parte perché non si ha effettivamente niente da dire, non capendo quello che succede), e qualche sfogo caratteriale (qui un insulto o un’interiezione esclamativa, là un’accusa ai veneti di volersela e di meritarsela, la loro sorte ingrata).

Ma forse è il caso che chi fa (o volesse davvero fare, d’ora in poi: finora non c’è stata) opposizione, si guardi dentro, e intorno. Il Partito Democratico, il principale dell’opposizione, fa il peggiore risultato di sempre. Il leader dell’opposizione anche. L’intera coalizione di centrosinistra pure. Gli altri non pervenuti. Il civismo, tanto decantato, e obiettivamente generoso nello spendersi e nel metterci letteralmente la faccia, ha allargato la coalizione di un misero due per cento, all’interno di un calo senza precedenti, dovuto anche al suo mancato radicamento. Una leadership inventata all’ultimo – e provinciale in senso tecnico: conosciuta solo in una provincia, o meglio in una città – non ha saputo e potuto fare di meglio: non c’erano le basi; come del resto le precedenti leadership inventate all’ultimo, ma peggio, nella logica impietosa dei numeri (dal passato non si è evidentemente imparato niente: la storia sarà anche maestra di vita, ma gli uomini sono pessimi scolari). Gli altri partiti di centro-sinistra fanno quasi tutti peggio persino dei no vax. Le illusioni ultraautonomiste, di destra e di sinistra, che reclamano per il Veneto una SVP sul modello altoatesino o una CSU alla bavarese, si scontrano con l’evidenza che c’è già, e si chiama Lista Zaia.

Cosa concluderne? Si è accusato spesso Zaia di non avere una visione, cosa che l’interessato peraltro contesta. La domanda giusta all’opposizione sarebbe: qual è la sua? Dove si è vista? Dove è scritta? In quali programmi, parole d’ordine, simboli, bandiere? Ecco, il problema forse è lì: se il Veneto a trazione Zaia non ha una visione, per l’opposizione è vero al quadrato, o forse al cubo. E non ci si può accontentare di ripetersi stancamente che c’è, ma gli elettori non l’hanno vista. Se è passata inosservata, forse è proprio perché non c’era nulla da vedere. Uno sguardo appena onesto anche solo alle ultime due legislature, quelle in cui il dominus era Zaia, lo dimostra. C’è qualcosa di significativo da ricordarsi, da quelle parti? Forse solo, e non è una medaglia, un pallido e impersonale “sì critico” al referendum sull’autonomia…

È un problema di leadership? Certamente, anche. Il carisma, come il coraggio per don Abbondio, se uno non ce l’ha, non se lo può certo dare. Dalle parti dell’opposizione non se ne vede l’ombra, in nessun partito. Ma il problema è più profondo. Di lettura del reale: e forse proprio di sua conoscenza, di presenza al suo interno. Se non lo riscopre, l’opposizione continuerà ad attraversare il deserto: ma senza risorse, senza bussola, sempre più debole e affaticata, senza un Mosé a guidarla e una terra promessa come orizzonte. Non stupisce che la gente non ci voglia stare, in quella situazione.

 

L’alibi bulgaro di chi perde, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 23 settembre 2020, editoriale, p.1