Gli immigrati non sono solo tali. Quelli che nell’immaginario indifferenziato della politica, dei media, e in generale della pubblica opinione sono solo stranieri neo-arrivati (poco importa che magari siano arrivati da vent’anni), nella realtà sono spesso anche altro. Figli di stranieri, ad esempio: le cosiddette seconde generazioni, malamente comprese da questa definizione impropria, dato che sono, in realtà, più che una seconda generazione di immigrati (per lo più, sono nati nel paese di emigrazione dei loro genitori – o ci sono arrivati molto piccoli), la prima generazione di neo-autoctoni.
Oggi, in Europa, siamo spesso già non solo alla seconda, ma alla terza o anche alla quarta generazione: figli di figli di figli di immigrati. E’ evidente che in questi casi la nozione stessa di immigrato non ha più senso (da dove, visto che non si sono mai mossi?). Ma non basta a definirli neanche quella di cittadino, anche perché in molti paesi la cittadinanza faticano nonostante tutto ad acquisirla. E perché a dispetto di tutto molte diversità permangono: quando non è la cittadinanza (se si è acquisita quella del paese di immigrazione), o la religione, o l’appartenenza etnico-linguistica, o il colore della pelle, che spesso si stempera in progressive forme di mixité, rimane pur sempre almeno un cognome a identificarle – e a ributtare su di loro, nonostante tutto, la nozione di straniero. Almeno fino a che, con il passare del tempo, anche un cognome straniero non diventa ‘normale’, o per meglio dire familiare, e dunque privo di un significato specifico e negativo.
Posso raccontare un caso personale, in proposito: sono sposato religiosamente (in seconde nozze, per quel che riguarda mia moglie) e ho per così dire incorporato nella mia vita, per tale via, due bambini. Sono cittadini italiani, figli di due cittadini italiani, uno dei quali è figlio di due cittadini italiani (mia moglie), mentre l’altro (il padre, agnostico, e si capirà più avanti il senso della specificazione) è figlio di una coppia mista: un padre vissuto in Francia quasi tutta la sua vita ma di origine maghrebina (e religiosamente del tutto indifferente), una madre italiana. I due bimbi (e anche i loro genitori) non hanno nulla di straniero, né etnicamente, né dal punto di vista del colore della pelle, né religiosamente (sono entrambi battezzati per loro scelta, il più grande ha appena fatto con grande entusiasmo la prima comunione), né per quanto concerne la cittadinanza. Ma portano un cognome arabo. E questo, volenti o nolenti, li classifica: già dalle elementari, dove può capitare di sentirli apostrofare come ‘arabi’ (magari con l’aggiunta di un aggettivo, di solito non gentile). Parola che per loro non significa nulla, cultura che per loro non evoca nulla, e di cui non sanno nulla né loro né i loro genitori (ironicamente, semmai, ne so qualcosa io per motivi di studio e professione…).
Bene: anche loro, del tutto involontariamente, finiscono per essere talvolta considerati, in qualche modo, ‘seconda generazione’ – a cui può capitare di sentirsi attribuire un epiteto stigmatizzante o di sentirsi proporre di valorizzare la propria cultura o religione ‘d’origine’.
Racconto questo episodio solo per far capire la complessità di un processo come quello di integrazione degli immigrati e dei loro discendenti: nel quale la volontà o i desideri dei medesimi certo conta, ma conta almeno altrettanto la percezione che ne ha la pubblica opinione che, a torto o a ragione, si sente autoctona, o più autoctona degli altri. E dove certo contano le culture, le religioni, le fedeltà plurime, magari anche le doppie cittadinanze, ma contano anche attribuzioni che potremmo definire ‘inerziali’ di appartenenza, anche non sentite o del tutto inesistenti.
Il dibattito sulle seconde generazioni in Europa soffre di molti equivoci e di una certa insoddisfazione definitoria, ma anche di opposte interpretazioni ideologiche, che fanno delle seconde generazioni la loro posta in gioco. Da un lato l’interpretazione irenica e buonista, che vede in loro il primo tassello di una società gioiosamente multicolore, in cui in un processo di integrazione riuscito le diversità si stemperano e i conflitti svaniscono; dall’altro l’interpretazione essenzialista hard, che vede nei figli sempre e solo il ritratto dei genitori: di lingua, cultura, nazionalità e religione diversa, e quindi altri, alieni, inintegrabili, incompatibili, con i quali e tra i quali il conflitto sarebbe sostanzialmente inevitabile. In mezzo, da qualche parte, la realtà dei processi sociali e culturali: dalle forme contraddittorie e dagli esiti ambigui, per nulla predeterminati e spesso sorprendenti.
Sgombriamo innanzitutto l’analisi da un equivoco: l’integrazione delle seconde generazioni sostanzialmente procede, piaccia o non piaccia, lo si voglia o meno. Dove l’avverbio indica un ‘grosso modo’ disinvolto ma non meglio definibile: bene secondo alcuni (molti) indicatori, male secondo altri. E soprattutto: bene per alcuni (molti), male per altri. Ma il fatto che proceda, pur non essendo privo di significato (al contrario!), non è interpretabile né in una direzione né in un’altra: accade, semplicemente. Perché è normale che accada. Così come è normale che la norma abbia eccezioni. Accade, perché la società accade: più o meno come è normale che uno stomaco digerisca, anche se, con cibi diversi, digerirebbe più o meno bene, o più o meno in fretta – ma, sostanzialmente, digerirebbe. Così la società, così la città.
Ma quali problemi incontra l’integrazione delle seconde generazioni? Diversi, ovviamente. Il primo è quello della definizione dell’identità culturale. Problema che, peraltro, in forme diverse è tale per tutti (non solo le seconde generazioni, non solo gli immigrati). E che nella letteratura scientifica trova opposti sostegni di tipo ideologico: a seconda di che cosa si cerca, si trovano infatti facilmente indicatori per dimostrare la molteplicità, la pluralità, la discontinuità delle identità – meglio sarebbe dire: dei riferimenti identitari – (stili di vita, consumi, aspettative, ma anche religione, cultura, lingua, propensione all’esogamia), o al contrario l’omogeneità, la monoliticità, la continuità (religione, cultura, lingua, propensione all’endogamia, ma anche stili di vita, consumi, aspettative). Il problema è che tutti questi indicatori vanno poi declinati, al loro interno, al plurale: possiamo tranquillamente trovarli rovesciati (continuità di stili di vita e discontinuità linguistiche ed esogamia), o accoppiati in maniera non facilmente collocabile all’interno dei quadri interpretativi più diffusi (ad esempio mantenimento di una forte identità religiosa e riuscitissima performance scolastica e integrazione sociale). Non solo: gli indicatori più sensibili dal punto di vista del dibattito, quelli culturali e religiosi, sono assai più polisemici di quanto siamo abituati a pensare. L’etichetta ‘musulmano’, ad esempio, se autoattribuita da un esponente delle seconde generazioni, può significare tanto continuità quanto ribellione alla tradizione e innovazione teologica a partire dal contesto europeo; e se attribuita da qualcun altro può anche non significare nulla, o meglio significare qualcosa di molto diverso per chi la da’ e per chi la riceve (magari, come spesso accade, attribuendo di default ad essa molte più conseguenze, da parte del primo).
Una seconda famiglia di problemi è di tipo sociale ed economico, misurabile attraverso gli indicatori più classici e diffusi di integrazione: titolo di studio, reddito, classe sociale di appartenenza, indicatori di marginalità e devianza.
E forse, a guardarli più da vicino, scopriremmo che, più che sui dati strettamente culturali di cui ci piace parlare, su questi indicatori si gioca davvero il processo di integrazione delle seconde generazioni. Che non va, non va mai, solo in una direzione: e, come dicevamo, non è determinato dalle sole volontà di integrazione.
Il ‘fattore T’, come tempo, è certamente decisivo, nell’analizzare gli esiti di un processo di integrazione. Ma non basta: il tempo, da solo, non ne determina la direzione, o il successo. E i problemi non mancano: nell’emarginazione di alcune comunità etniche in alcuni paesi che continua anche nelle seconde generazioni, negli alti tassi di problematicità socioeconomici che persistono in alcune situazioni, negli squilibri tra aspettative e loro effettiva soddisfazione nel mercato del lavoro, nelle presenze sovradimensionate nelle sacche di marginalità o nel sottobosco della devianza. Da ciò tensioni sociali neanche tanto latenti, e conflitti.
E proprio sui conflitti è utile spendere qualche considerazione.
Il conflitto è spesso a proposito di culture, più che di comportamenti e pratiche sociali: e vive e si alimenta di simboli, più che di realtà – talvolta, anche a dispetto della realtà. I conflitti sono spesso visti solo all’interno di un quadro, ideologico più che interpretativo, incentrato su culture, religioni, valori. La società, in un certo senso, mostra un’attenzione selettiva nei confronti del conflitto indotto dalle presenze definite come ‘altre’ nella società: e sceglie la chiave interpretativa all’interno della quale leggerlo. Una chiave interpretativa che spesso privilegia i fattori culturali (sui quali è più facile scaricare il peso della diversità) anziché quelli economici e sociali.
E’ difficile parlare di questi conflitti con serenità. Un po’ perché tanto nel mondo cattolico che in molta cultura di sinistra (e, un po’ meno, di destra) il conflitto, dopo molte dure lezioni della storia, non ultime le guerre mondiali e i conflitti ideologici del novecento, è considerato un male in sé: un conflitto è quasi per definizione solo qualcosa che deve essere evitato. E un po’ perché chi si è appropriato del conflitto nella propria elaborazione teorica ne ha fatto spesso un’arma per il medesimo (si pensi alle più diffuse declinazioni del clash of civilizations, spesso inquietantemente simili a una profezia che si autorealizza).
Tuttavia, una prima cosa da tenere a mente è che il conflitto ha, sociologicamente, una funzione positiva. Ed è comunque fondativo, ineliminabile. La crisi, dopo tutto, serve per discutere – sempre troppo tardi, ma sempre meglio tardi che mai – di un problema. La crisi, il conflitto, serve anche per scoprire i limiti fino ai quali ci si può spingere, i confini sociali e culturali che non è possibile oltrepassare. Nel conflitto si formano le leadership. Nel conflitto ci si deve interrogare intorno a un senso di responsabilità comune, che non produca eccessi dannosi, che possono ritorcersi su chi li produce: si misura la propria forza reale, ma anche quella dell’altro, e quella della società, delle sue regole, dei suoi strumenti di regolazione. Attraverso il conflitto si sperimenta chi è ‘noi’, ma anche chi è l’altro, e l’idea stessa di pluralità. Nel conflitto impariamo a misurare la differenza tra ciò che siamo, ciò che vogliamo, e ciò che possiamo ottenere. Il conflitto, inoltre è un mezzo per far affiorare alla superficie della coscienza ciò che giace e ribolle in profondità. L’estremizzazione delle opinioni ha dopo tutto una funzione, ed è precisamente questa: rendere visibile il non solitamente visibile, conscio l’inconscio, e consapevole l’inconsapevole. Lasciare che le parole dicano il non abitualmente detto.
Come avviene nelle coppie, nelle famiglie. Quelle sane non sono quelle dove non esiste il conflitto (un caso …inesistente), ma quelle dove il conflitto trova canali per emergere e per essere affrontato e risolto. Dove ciò non accade, le famiglie si spezzano: oppure ci si vivrà all’interno infelicemente, e neanche questa è una buona soluzione, un esito auspicabile.
Come avviene nella democrazia: che, dopo tutto, è un metodo non per evitare il conflitto, ma precisamente per incanalarlo, per affrontarlo in maniera non (troppo) cruenta. Invece di uccidere il mio avversario, voto.
Come avviene nel conflitto sociale, ad esempio nel mondo del lavoro. Il conflitto c’è ed è inevitabile: ma si può affrontarlo, invece che con una rivoluzione, con lo sciopero.
La società è conflittuale: per definizione. In senso proprio, per nulla paradossale, il conflitto è il solo modo che abbiamo per evitare la guerra. La sua presa in considerazione, la sua gestione, è precisamente ciò che ci permette di evitare l’esplodere della violenza.
Ma, se abbiamo imparato a regolare il conflitto politico (democrazia rappresentativa) e quello sociale (relazioni industriali), non abbiamo ancora un sistema stabile e comunemente accettato per regolare il conflitto dovuto alla pluralità etnica, culturale e religiosa – il che è spiegabile, essendo questa una relativa novità, nella maggior parte dei paesi europei, e particolarmente nel nostro. Non per caso, in questa fase, i predicatori di conflitto, di cultural clash, godono di buone rendite di posizione. Ed è per questo che quella che potrebbe essere una fisiologia (non senza costi, naturalmente) del conflitto sociale e culturale, rischia di diventare una patologia: è sempre così, quando e finché chi dal conflitto ci guadagna è in numero superiore o semplicemente sa giocare meglio le sue carte di chi, invece, vorrebbe che il conflitto fosse non azzerato (perché non è possibile) ma semplicemente regolato, e reso un po’ meno ‘gridato’. E ci sarà comunque sempre qualcuno che avrà interesse a far crescere, o al limite a creare, a ‘inventare’ il conflitto laddove non c’è, o potrebbe comunque essere ridotto, accompagnato, gestito.
Le seconde generazioni si trovano nell’incomoda posizione di essere contemporaneamente attori del conflitto e terreno di scontro del medesimo: vivono spesso nella propria carne, nella propria vita, entrambi (ammesso e non concesso che siano solo due) i valori e i modelli supposti in conflitto tra loro, e questo perché esse sono un soggetto in cambiamento ma anche un vettore di cambiamento.
Non è impensabile immaginare che proprio nelle loro fila si sperimentino forme originali di fuoriuscita dal conflitto medesimo. Che, forse, varrebbe la pena di osservare più da vicino. E, magari, trarne anche qualche lezione. Sapendo che non tutte saranno positive. Che, alcuni, saranno errori da cui imparare per non ripeterli.
Peraltro il conflitto non è solo, e forse non è principalmente tra gruppi, etnie, culture e religioni, o meglio tra i loro esponenti; ma è interno ai medesimi. La società oggi si divide su questioni diverse da quelle del passato: oggi ci si divide, sempre più spesso, su fattori di inclusione ed esclusione, spesso molto materiali (spese, interessi, costi e benefici, tasse, servizi, uso del welfare), ma altrettanto spesso ammantati di giustificazioni etniche, razziali, culturali o pseudo-culturali, e religiose.
D’altro canto, proprio perché, per le ragioni evidenziate, il conflitto è necessario, costitutivo della società, fisiologico ed inevitabile (in particolare in presenza di cambiamenti così significativi), possiamo ipotizzare che, nella sua forma attuale, di forte radicalizzazione e visibilità, e incentrato sugli aspetti culturali, esso sia solo una fase inevitabile, anche se probabilmente non sarà breve (né forse ha ancora raggiunto il suo culmine), in attesa di trovare le forme di regolazione più adatte per il conflitto stesso. In questo senso si può tentare di guardare alla fuoriuscita dal conflitto con qualche ragionevole e fondata speranza.
Lo mostrano in un certo senso proprio le seconde generazioni: all’interno delle quali troviamo forme marcate di quella che molto genericamente potremmo chiamare europeizzazione (sul piano dei comportamenti e delle pratiche sociali, così come dei contenuti culturali) e di adattamento al suo quadro culturale e normativo, ma anche modalità di riproduzione culturale su base transnazionale (grazie ai media, ai networks, ecc.), e infine forme originali di cambiamento, di trasformazione, di meticciato culturale, che finiscono per toccare e coinvolgere anche le popolazioni autoctone – probabilmente molto al di là di quanto esse abbiano consapevolezza, per non parlare della loro volontà.
Stefano Allievi
Allievi S. (2005), Seconda generazione, il nuovo volto dell’islam, in “Vita e Pensiero”, n.3, LXXXVIII, giugno 2005, pp. 108-114;