Eid al-Adha e macellazione islamica. Qual è veramente il problema?

Puntuale come la festa islamica dell’Eid al-Adha, che commemora il sacrificio di Abramo, celebrata in questi giorni, arriva anche la polemica intorno a essa. Che consiste nella protesta contro lo sgozzamento di agnelli e montoni per celebrare l’occasione: altrettanto rituale del rito stesso.
Ora, possiamo capire che gli animalisti si lamentino: è pur sempre un sacrificio animale. E chi gli animali non li mangia è evidente che non sia d’accordo, ed è sacrosanto che possa manifestare la propria opinione: che non è solo legittima, ma esprime un punto di vista su cui c’è molto da riflettere, anche in termini di sostenibilità del pianeta e del nostro stile di vita. Il che implicherebbe protestare in egual misura sia nei confronti di chi gli animali li uccide e li mangia per motivi religiosi, sia di chi lo fa per il puro piacere del palato, o semplicemente per abitudine e idee diverse in materia.
È quando la protesta è per così dire selettiva, che insospettisce. Come accade sempre più spesso intorno alla festività islamica, detta anche Eid al-Kabir, la festa grande. In primis perché la macellazione halal è esattamente identica, sia nelle motivazioni che nell’aspetto tecnico (lo sgozzamento dell’animale previo taglio della carotide, e il conseguente progressivo dissanguamento) alla macellazione ebraica kosher. Infatti molti di coloro che protestano, quando lo scoprono, si ritirano in buon ordine: anche perché la macellazione kosher è legale da quando esistono gli ebrei, cioè da prima che esistessero i cristiani. Com’è che proteste di fronte ai macelli che lavorano per le comunità ebraiche non ce ne sono? Se invece il problema sono gli agnelli, ricordiamo sommessamente che, in occasione della Pasqua, cristiani e laici ne fanno una strage ben più cospicua ogni anno, con numeri imparagonabili. Infine, in passato, e un po’ di nascosto anche nel presente, l’uccisione per dissanguamento era pratica abitudinaria della civiltà contadina, in particolare per il maiale, animale invece considerato impuro per ebrei e musulmani.
Torniamo all’islam. La pratica è tradizionale e diffusa. Personalmente vi ho assistito in diversi paesi musulmani, e anche da noi. L’importante è che non avvenga in privato, senza rispettare elementari norme igieniche, come occasionalmente accaduto in passato. È per questo, peraltro, che le comunità islamiche, esattamente come quelle ebraiche, hanno siglato degli accordi con i macelli, a termini di legge e nel rigoroso rispetto di tutte le normative. Aggiungiamo, peraltro, che il cibo viene condiviso anche con i poveri e gli indigenti, nella misura di un terzo, essendo un tradizionale atto di elemosina e di condivisione, appunto. Ma proprio per questo è pratica oggi spesso sostituita dal conferimento dell’equivalente del costo dell’animale in opere di carità. Infine, se il problema è la sofferenza dell’animale, ricordiamo che ci sono molti studi e opinioni di veterinari che sostengono come l’animale soffra meno, mediante il dissanguamento. Il che non dovrebbe stupire, visto che – e non è ovviamente un suggerimento – quello per dissanguamento è il modo meno doloroso che conosciamo anche per suicidarci. In più, nel caso degli animali, viene accompagnato da una benedizione: un atto di rispetto a noi ignoto, che pure apprezziamo tra i nativi americani e altre popolazioni indigene.
Parliamo del problema vero, allora, se vogliamo porlo. Che è quello dell’industrializzazione della morte animale nella modernità. Che ha una storia lunga, tutta occidentale e non religiosa: la catena di montaggio non l’ha inventata Henry Ford per le automobili, ma lo Union Stock Yard, il macello di Chicago, da cui Ford prese ispirazione.

Il macello islamico. Indignati con chi e per cosa, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 giugno 2025, editoriale, pp. 1-5

Tra chiesa e moschea. Le trasformazioni del paesaggio religioso.

Nei giorni scorsi, su questo giornale, due istruttive pagine di inchiesta ci informavano, da un lato, sulla crisi della chiesa veneta, e dall’altro, sull’ennesima polemica intorno alla costruzione di una moschea. Due notizie che ci raccontano due pezzi diversi della medesima storia. Che è utile mettere in sequenza, e intorno alle quali costruire un ragionamento.

Il calo delle vocazioni sacerdotali (e di conseguenza il loro invecchiamento) non è solo un problema della chiesa cattolica, ma in essa è particolarmente visibile: circa 6000 in Veneto mezzo secolo fa, 3700 oggi, ma in calo tendenziale ulteriore e drammatico. È presente anche in altre chiese e religioni, e rappresenta la crisi di motivazione di un ruolo in quanto tale sempre meno sentito e considerato meno appagante. Ma in altre forme religiose (dai pentecostali al mondo new age) è invece ancora attrattivo e pregno di significato. Il che ci dice che la forma non è irrilevante, anche rispetto alla possibilità e alla capacità di veicolare un contenuto. Ad esso bisogna aggiungere l’abbandono della tonaca (che peraltro quasi nessuno mette più: è rimasto un modo di dire) da parte di chi prete lo è già, e se ne va via, in fondo per gli stessi motivi per cui altri non vengono più: per una crisi di senso, ma anche per desiderio d’altro (incluso l’amore e la sessualità: che altri magari vivono all’interno e di nascosto). Quello che era un mestiere una volta stimolante, di prestigio e con adeguato riconoscimento sociale, oggi è spesso, in molte sue forme, faticoso e ripetitivo, mentre la sua centralità sociale e la sua influenza sono tracollati, riducendo i preti alla meno attrattiva figura di “funzionari di Dio”, per riprendere il titolo di uno splendido libro di Eugen Drewermann, teologo e psicanalista (e oggi ex-sacerdote), che i suoi confratelli li ha avuti in terapia per una vita. E questo a dispetto dello spessore umano, spesso notevolissimo, di figure sacerdotali che in taluni casi diventano esempi di riferimento anche per il mondo laico, e preziosi costruttori di comunità. Calano anche le vocazioni di monaci e suore, e di conseguenza anche i servizi, da queste ultime in particolare, erogati, talvolta come manodopera a basso costo, nel mondo dell’educazione e dell’assistenza: anche questo un modello da mettere in discussione come tale.

A parole il rimedio sarebbe coinvolgere i laici. Ma poi, nella pratica, i parroci si tengono stretti potere decisionale e cassa, e gerarchia delle priorità, lasciando i laici, pure indispensabili nella gestione concreta, in posizione ancillare e subordinata (non vero coinvolgimento, mai alla pari, e soprattutto niente ruoli decisionali anche simbolicamente rilevanti per le donne, senza la cui presenza e il cui lavoro, pure, le parrocchie non starebbero in piedi): anche per responsabilità dei fedeli, che continuano ad avere un’idea di chiesa clericocentrica e quindi de-responsabilizzante per loro stessi.

Il ruolo del prete finisce per essere soprattutto rassicurante, in particolare per gli anziani, che oggi costituiscono la presenza maggioritaria alle funzioni: li tranquillizza che nulla è cambiato. Ma non è così, e gli altri allora non entrano nemmeno più, perché non riconoscono l’ambiente come proprio. L’effetto è il crollo della partecipazione settimanale, ormai ridotta a meno di un quinto della popolazione (molto meno, nelle città) e di conseguenza dei contributi economici, cioè a dire della fiducia.

Il Covid ha dato il colpo di grazia a un processo che sarebbe avvenuto comunque (anche perché viene da molto lontano: i primi studi sulla secolarizzazione risalgono agli anni Sessanta), ma più gradualmente. La disaffezione dei giovani è cresciuta, e la prevalenza di anziani che rispondono a una fede espressa in maniera tradizionalista, non più comprensibile per le nuove generazioni (anche nelle cose minute, come nella punitiva insistenza a mantenere gli orari delle messe al mattino in orari incompatibili per i giovani che il sabato fanno legittimamente tardi), allontanandole ulteriormente.

Gli altri dati completano il quadro. Educazione religiosa al massimo fino alla cresima, matrimoni civili in crescita esponenziale (da un decimo mezzo secolo fa a due terzi oggi: e molti di quel terzo rimasto, per motivi che spesso hanno a che fare più con l’estetica che con la fede), convivenze in aumento, nascite al di fuori del matrimonio che sono oltre la metà tra le coppie giovani, riducendo a fortiori il numero di battesimi.

Eppure la domanda di spiritualità non è diminuita, e nuove forme di religiosità si fanno strada. All’interno della chiesa cattolica e al suo esterno. Incluso nelle nuove religioni arrivate per via migratoria, di cui quella che fa più discutere è l’islam, ma che tutte testimoniano un nuovo e vivace pluralismo religioso. Esse non pongono alcun problema di concorrenza, e peraltro sono soggette alle medesime tendenze in precedenza evidenziate: solo in maniera meno visibile e più lenta. Ma a proposito dell’islam detta ancora legge, o per lo meno urla più forte, lo schema leghista della protesta a prescindere. Anche se si assiste a una maturazione altrove, incluso tra le forze politiche di centrodestra, meno disposte a farsi trascinare sul terreno di un inutile scontro, e nella società. Qui la religione, e concretamente la moschea, gioca un ruolo di integrazione, e dunque di maggiore sicurezza, come attestano anche le forze dell’ordine, mentre è il pregiudizio che ad esse si oppone che produce dis-integrazione e conflitto sociale. La discriminazione è sempre e solo riferita a musulmani e moschee, contro le quali la regione si è già prodotta in una legge discriminatoria (contro cui si sono schierate tutte le comunità religiose, dai cattolici agli ebrei) quanto inutile. Ma la moschea fa sentire i musulmani più cittadini in quanto riconosciuti anche nella loro specificità religiosa (peraltro costituzionalmente protetta, come quella di tutti) e quindi più integrati. E a chi, per giustificare la sua contrarietà, richiede prima un accordo con lo Stato, rispondiamo, per esperienza (ero membro del Consiglio per l’islam italiano, presso il Ministero dell’interno), che è lo Stato (rappresentato dagli stessi partiti che localmente invocano un accordo che nazionalmente impediscono) che non lo vuole. Le organizzazioni islamiche lo firmerebbero domani. Chiedessero dunque, nel caso, ai loro rappresentanti di darsi una mossa.

 

La chiesa e le nuove religioni, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 14 maggio 2025, editoriale, pp.1-7

Di bambini, moschee, polemiche politiche e identità reattive

La questione della visita dei bambini di una scuola cattolica a una moschea (non importano i nomi e i luoghi) ha avuto una eco molto forte, così come il nostro editoriale di ieri l’altro sul tema. Decine di condivisioni, ma anche diversi educati interventi critici dei nostri lettori. Segno che è un tema sensibile, su cui si ha voglia di discutere. Proviamo, allora, a tirare le fila delle critiche. E a rispondere, per quanto possibile nei limiti di un articolo, quando al tema ho dedicato libri interi.

Un primo livello di discussione riguarda la scelta della scuola, e la sua autonomia decisionale. Può una scuola frequentata da molti bambini musulmani fare un approfondimento, con visita guidata, su quella religione? Lo può decidere solo lei. Non i genitori: che pure, in questo caso, sono stati consultati preventivamente e hanno espresso il loro assenso. Lo stesso per l’educazione all’affettività e sessuale: si può fare solo se i genitori sono d’accordo? Sicuri? Se di educazione sul tema abbiamo bisogno, si fa, punto. E poi come si quantifica il disaccordo? Sarebbe democratico se bastasse l’opposizione di uno per ledere l’interesse di tutti? Così come non si consultano i genitori, e nemmeno la politica, sui programmi di italiano. Molti genitori pensano che la matematica non serva a niente, altri considerano pericolosa persino la biologia perché si parla di genere, ma non per questo si smette di insegnarle. Quando è stato introdotto l’obbligo scolastico, molti genitori erano contro: lo stato non interveniva con comprensione, ma mandava i carabinieri a prelevare in casa i bambini per portarli a scuola.

Le strumentalizzazioni della politica hanno le loro ragioni. Ma non hanno nulla a che fare con il merito delle questioni. La politica vive di contrapposizioni, e il consenso si costruisce meglio se hai un nemico, come insegnava Machiavelli. Se poi il nemico è una minoranza stigmatizzata (che siano gli ebrei in altre epoche, o gli immigrati, o i musulmani oggi, ma potrebbero essere i gay – o magari i conservatori o i razzisti o semplicemente quelli con un’opinione diversa dalla nostra, i presunti cattivi giudicati dai presunti buoni), si chiama capro espiatorio, e serve per acchiappare voti. Non è nobile, ma funziona, e la politica lo sa benissimo, e ne usa a man bassa. Tanto più perché le minoranze contano meno, e spesso hanno meno diritti, incluso quello di voto in questo caso, per cui non si paga pegno: si guadagnano i voti di chi è contro, senza perdere quelli dei diretti interessati. È un meccanismo che mostrano bene le identità reattive: quelle che si formano in reazione, o contro, qualcuno. Come la pletora di persone che hanno scoperto di essere cristiane da quando ci sono i musulmani: prima non se ne erano accorte. Tuttora i politici che tuonano di più di radici cristiane sono quelli che in chiesa vedete meno, e a cui il contenuto del messaggio evangelico interessa meno. Ma vale anche per altre minoranze etniche, religiose, politiche, sessuali: tanto che i conflitti più forti spesso non sono tra gruppi, ma al loro interno, a proposito degli altri.

C’è chi, nel merito, chiede di difendere i valori cattolici. Legittimo. Forse la domanda vera è se a minacciarli è il nemico che ci viene messo di fronte, l’islam, o quello che ci sta alle spalle, apparentemente nostro alleato: la secolarizzazione, l’individualismo, il consumismo e quant’altro. E se i religiosi di altre comunità non siano semmai dei potenziali alleati. Anche perché, poi, il problema vero è chi decide quali sono, i valori cattolici: per qualcuno tutto si riduce all’aborto, per altri all’accoglienza degli immigrati, mentre probabilmente le cose sono un po’ più complesse.

C’è chi ha sollevato il tema della reciprocità. Comprensibile, ma nel caso in questione mal posto, visto che è un ambiente cattolico, dove si prega e ci si fa il segno della croce con regolarità. Anche questo tema, tuttavia, è più complesso: in Marocco o in Senegal, per fare un esempio, i cattolici godono di piena libertà di culto, in Afghanistan no – dobbiamo prendercela con i marocchini che sono da noi perché gli afghani che non sono da noi non ce la danno? Anche la polemica sul fatto che i bambini in moschea si sono inginocchiati e hanno mimato il gesto della preghiera, appare fuorviante: i bambini fanno e imparano così, e cinque minuti dopo se ne sono dimenticati, ed è il loro bello, e la loro libertà, da cui avremmo molto da imparare. A scuola si fa questo. Se lo chiamiamo indottrinamento, come dovremmo chiamare l’allenatore che porta i ragazzi a tifare per la squadra che piace a lui, o l’insegnante (o il parroco, o l’assessore) che gli fa leggere un libro o li porta a teatro a vedere un autore che ha un proprio specifico punto di vista: che li indottrina, o che gli offre delle opportunità e li abitua alla pluralità dei punti di vista?

Il problema vero, alla fine, è l’islam, o meglio il nostro modo di percepirlo. Se siamo convinti che vogliono islamizzarci per via demografica, o vogliono imporci la sharia (da cui spesso sfuggono, proprio per vivere più liberi da noi), o vogliono togliere il crocifisso o il presepe dalle scuole (mai successo per iniziativa dei musulmani, che iscrivono i loro figli e ancor più figlie pure a scuole cattoliche), anche se è un sentito dire, non cambieremo idea neanche di fronte all’evidenza.

Il problema è la questione femminile? Molto giusto. Ma perché la nostra attenzione è selettiva? Perché a proposito dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina non islamiche non protestiamo? Perché se un marito o un padre pakistano è violento con la propria moglie o figlia diciamo che è colpa dell’islam, mentre se è rumeno non diamo colpa all’ortodossia, e se è italiano al cattolicesimo? E se il problema è la democrazia (problema serissimo), siamo sicuri che certi hindu, protestanti o ebrei siano più democratici? Non è un problema di modello di sviluppo, di singolo paese, di epoca storica, più che di religione? Avremmo giudicato il cattolicesimo compatibile con la democrazia, nell’Europa degli anni ’30, quando la chiesa era alleata di Mussolini, Franco, Salazar, o trent’anni fa in America Latina, quando sosteneva le peggiori dittature centro e sud americane?

Certo, nell’islam ci sono dei problemi. Il terrorismo jihadista ce lo ha insegnato (peraltro trent’anni fa il terrorismo da noi era politico, oggi nel mondo è spesso anche indipendentista, etnicista, e pure suprematista e razzista, e quando è religioso non è solo islamico). Lo combattono anche la maggioranza dei musulmani. È giusto parlarne e sollevare il problema. Per affrontarlo insieme, nell’interesse di tutti. Non per combattere i fedeli di una religione, in nome di un’altra, o forse solo di una presunzione di superiorità. Che si dovrebbe dimostrare nei fatti.

La società, le religioni, la politica, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 maggio 2025, editoriale, pp. 1-5

Scuola cattolica e visita in moschea. Il problema è l’ignoranza della politica

Di fronte all’ignoranza – nella sua accezione etimologica di mancanza di conoscenza – sono possibili due atteggiamenti. Uno è quello che potremmo definire dantesco: lasciar perdere (“non ragioniam di lor ma guarda e passa”, come si suggerisce nel canto terzo dell’Inferno a proposito “di coloro che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo”). L’altro è quello di provare a ragionare nonostante tutto, anche se l’oggetto del contendere è risibile, e non è facile. Anche perché c’è un’ignoranza per così dire pura, con cui si può interloquire (appunto perché è solo una carenza di conoscenze), e una che è mossa dalla strumentalizzazione politica contro un presunto nemico, che è facile trasformare in capro espiatorio, e che è più difficile da sradicare.

La (non) notizia di partenza è quella della visita dei bambini di una cattolicissima scuola paritaria parrocchiale a una vicina moschea, frequentata anche da molti genitori i cui figli frequentano la scuola in questione: in cui peraltro ci si fa il segno della croce prima di pranzo e spesso si recitano le preghiere in aula.

L’ignoranza ha naturalmente protestato. Ignorando, per l’appunto, che la nostra società è composta da molte diversità: per dire, oltre il dieci percento delle persone (di più, in Veneto) che vivono da noi sono immigrate. E appartengono, tra le altre cose, a minoranze religiose diverse (cattolici, musulmani, ortodossi). E che frequentarle, studiarle, includerle, rapportarcisi, è l’abc della vita sociale, oltre che del patto costituzionale. Mentre stigmatizzarle favorisce la raccolta di un facile consenso, ma non fa un buon servizio alla società.

Con i criteri dell’ignoranza non ci dovrebbero essere moschee (in effetti la regione ha approvato una legge contro, perfettamente inapplicabile, e infatti le moschee ci sono). Gli oratori non dovrebbero accogliere i bambini musulmani (una ricerca a Milano li quantificava intorno a un terzo degli utenti). Nelle scuole non se ne dovrebbe discutere e guai a fare visite di conoscenza (che peraltro, laddove davvero i musulmani fossero come li descriviamo avrebbero un effetto controproducente). E la diversità non dovrebbe essere nemmeno presa in considerazione: quindi niente visita anche alle sinagoghe, ma nemmeno alle chiese, visto che pure esse (lo ricordiamo a chi non se ne rendesse ancora conto) rappresentano oggi non una presunta maggioranza, ma solo la più grande e storicamente importante delle minoranze religiose.

Quella della chiusura alle culture altrui – incarnate in persone, in questo caso – è sempre una scelta ottusa e perdente: che non ci arricchisce, ma al contrario ci impoverisce (proviamo a immaginare se ci nutrissimo solo di letteratura, musica, cinematografia italiana, o peggio veneta, per non rischiare contaminazioni). Peraltro non ci salva nemmeno dai conflitti culturali, ma al contrario ne produce di nuovi e perfettamente inutili. Ricordiamo, en passant, che la Serenissima, cui molti degli oppositori alla visita in moschea amano nominalmente richiamarsi, aveva consentito la costruzione sul Canal Grande di un Fondaco (da funduq, parola araba ancora oggi usata per albergo) dei Turchi, inaugurato nel 1621 e durato fino al 1838, in cui era presente una moschea (anche allora, nel 1602, un anonimo cittadino veneziano promosse una petizione contro: ma perse… e oggi è il civico museo di storia naturale, che l’ignoranza potrà visitare con profitto). Che il Corano verrà dato alle stampe per la prima volta, in arabo, sempre a Venezia, nel 1537, e una sua prima traduzione seguirà dieci anni dopo (mentre la traduzione più nota e importante per la cultura europea sarà stampata a Padova nel 1698 a cura di padre Ludovico Marracci). Dobbiamo vergognarci, di questa eredità, o al contrario vantarcene? E ci sarebbe stata, se gli attori di questi processi avessero avuto la mentalità di chi non vorrebbe nemmeno far visitare una moschea? O non sarà questa la stessa radice culturale che fa rispondere molti italiani, a domanda se sarebbero disposti a utilizzare i numeri arabi, che loro no, mai, che sarebbe una vergogna, una inaccettabile sottomissione a una cultura nemica? (per sicurezza, ci teniamo a precisare che i numeri arabi sono quelli che usiamo d’abitudine …).

Persino il Mussolini cui si richiamano altri locali nemici verbali dell’islam definiva l’Italia, in un discorso del 1928, come “amica del mondo islamico e conscia delle sue funzioni di grande Potenza mussulmana”; aggiungendo nel 1938, dopo aver ricevuto in dono in Libia la ‘spada dell’islam’, a proposito delle popolazioni dell’italico impero, di voler assicurare “la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto delle leggi del Profeta” e “dimostrare la sua simpatia ai Musulmani e all’Islam del mondo intero”.

Ecco, ci sembra che le reazioni odierne di ottusa chiusura di fronte a un fatto banale siano quelle che fanno andare il Veneto sulle pagine nazionali per i motivi sbagliati. Magari è il caso di rendersene conto.

 

Bimbi e religioni. L’abc della vita sociale, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 6 maggio 2025, editoriale, pp. 1-5

Il niqab a Monfalcone: tra diritti, tradizione e repressione. Aprire il dibattito senza chiudere gli occhi

Monfalcone torna alla ribalta della cronaca, per un problema che è bene ci poniamo tutti noi. Il caso è quello delle studentesse del Bangladesh che vestono il niqab, una forma di velo islamico che copre anche il viso, lasciando visibili solo gli occhi: e che vengono quindi identificate all’ingresso dell’istituto scolastico che frequentano.

Premessa: il velo islamico di cui parliamo normalmente è l’higiab – sostanzialmente un foulard, che copre solo i capelli. E che non può fare problema, proprio perché non ha altre implicazioni, fa parte della nostra cultura tradizionale, ed è assimilabile alla copertura del capo adottata dalle suore (o dai sikh): il suo uso rientra nella libertà di vestirsi di ciascuno. Il niqab invece copre anche, come abbiamo detto, il viso. E qui il problema c’è.

I dirigenti scolastici fanno quello che possono, in assenza di una normativa, e nel rispetto dell’autonomia loro garantita, per assicurare la continuità scolastica delle ragazze, identificandole e facendole entrare con il niqab: il rischio, altrimenti, è che non vadano più a scuola. Ma una normativa occorre. Perché occorre educare anche le comunità, e noi stessi. La questione della visibilità del volto è seria non, come si dice, per questioni di sicurezza (ci sono anche quelle, ma non è per quello che si solleva il problema), ma perché nella cultura europea e occidentale, storicamente, è attraverso i volti che si crea la relazione: viviamo di apertura, non di chiusura – e abbiamo avuto occasione di rifletterci sopra proprio nel periodo in cui tutti siamo stati obbligati a portare una mascherina, e ne abbiamo subìto le implicazioni, anche emotive e relazionali. Tra l’altro, non è neanche questione di rispetto di tradizioni altrui. Fino a ieri, il niqab era presente solo in piccole aree del Golfo, e poco altro. E ci sono paesi islamici dove l’higiab è maggioritariamente diffuso, ma il niqab è addirittura vietato per legge. Esattamente come è vietato in alcuni paesi europei. Lo stesso Bangladesh ignorava l’uso del niqab fino a qualche decennio fa: non è tradizione, ma innovazione. La sua recente diffusione tra le popolazioni islamiche anche in luoghi dove non c’è mai stato, in Asia, in Africa o nei Balcani (e in Europa occidentale), è dovuta infatti al manifestarsi di correnti religiose particolarmente conservatrici, sostenute dal denaro e dalle istituzioni educative proprio dei paesi del Golfo, incidentalmente nostri alleati: chi va là a studiare l’islam (e sono moltissimi, grazie ai fondi a disposizione, al prestigio dei luoghi santi di Mecca e Medina, e ai molti incentivi offerti), spesso torna introducendo e talvolta imponendo una usanza prima inesistente, e non islamica, di per sé. Ecco perché bisognerebbe intavolare una discussione seria sul tema, insieme e non contro le comunità islamiche: parlando con loro, non a proposito di loro e contro di loro. Per averle studiate e frequentate abbastanza a lungo, mi azzardo ad affermare che se si facesse un referendum, la maggioranza dei musulmani, e una travolgente maggioranza delle musulmane, sarebbe a favore dell’higiab, ma contro il niqab. E un serio dibattito sul suo eventuale divieto potrebbe essere un modo per aiutare chi è contro a poterlo dire ad alta voce: cosa non facile, perché significa, mettersi contro un pezzo della propria comunità. Soprattutto, anche chi non lo usa e non lo vuole, difende il diritto di altre a portarlo, se percepisce che il problema è sollevato solo in chiave polemica, anti-islamica, magari da parte di chi si attiva anche per chiudere (spesso violando la legge oltre che i principi costituzionali) pure le moschee. Il problema è che le strumentalizzazioni ci sono, e invece di aiutare a risolvere il problema lo aggravano. Se la battaglia contro il niqab la agitano i soliti noti che non perdono occasione per continuare le proprie battaglie discriminatorie anti-immigrati e anti-musulmani, alimentando un facile consenso che effettivamente porta visibilità e fortuna elettorale, non andiamo lontano. A costoro vorremmo solo rispondere che c’è una differenza tra l’agitare i problemi per affrontarli e risolverli, o farlo per lucrare un facile consenso mettendo i propri elettori contro gli immigrati, che nel caso in questione sono un terzo della popolazione di Monfalcone (gioco facile anche perché i primi votano, i secondi in maggioranza no, e quindi conculcare i loro diritti è un’operazione a rischio zero). Bisogna uscire da questa dinamica. Ma non avere paura di sollevare temi che possono anche essere scomodi, ma che è necessario affrontare. Proprio per evitare polemiche future. E soprattutto per mettere le basi di un patto sociale solido e condiviso, anche in una società culturalmente e religiosamente sempre più plurale.

 

Il velo e la regola che manca, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 9 febbraio 2025, editoriale, pp. 1-5

I cattolici e l’autonomia. Cosa c’entra la fede?

Il carteggio tra il presidente della regione Veneto Zaia e il presidente della conferenza episcopale monsignor Zuppi si presta a qualche considerazione, oltre che sul merito dell’autonomia, sul ruolo della chiesa e dei cattolici in politica. Cominciamo da quest’ultimo punto.

Contano ancora i cattolici nella politica italiana? Molto poco, nel senso dell’orientamento dell’opinione pubblica e del comportamento in cabina elettorale. Un voto cattolico, spostabile secondo gli umori della chiesa, non esiste sostanzialmente più, tanto che non esiste più nemmeno un partito cattolico, come era, fin dal nome, la Democrazia Cristiana. La sua eredità la pretendono in molti, un po’ a sinistra e molto a destra, dove si fa a gara a esibire e dichiarare un cattolicesimo non necessariamente praticato: non diciamo nelle camere da letto e nella formazione delle famiglie (ormai su questo punto lo scollamento è totale e nemmeno più nascosto), ma anche nelle scelte di orientamento valoriale in ambito pubblico. E non ci riferiamo solo a grandi temi sociali, come la solidarietà, il contenimento delle diseguaglianze, l’attenzione ai più poveri (non nominiamo nemmeno gli immigrati), ma anche a indicatori più generici, come evitare la menzogna (che del resto è parte integrante della pratica politica, a qualunque latitudine) o la disonestà (gli ‘atti impuri’ della pubblica amministrazione, per così dire). La chiesa non orienta più il voto anche perché è diminuito di molto il suo pubblico, la sua audience. I cattolici, anche se si ostinano a non accorgersene, o fanno finta, sono una minoranza, nel paese: sempre meno rilevante (i praticanti vanno da un terzo scarso della popolazione nei piccoli paesi a meno di un decimo nelle grandi città, in crollo verticale tra le generazioni più giovani). Ma soprattutto sono divisi al loro interno tanto quanto i non credenti, e il loro voto lo decidono sulla base di considerazioni che maturano altrove che non in parrocchia: nel foro interiore della coscienza (incluso i pregiudizi che ciascuno di noi cova), nel proprio portafoglio, o in vaghe idee in cui ha un ruolo più il telegiornale che la lettura dei vangeli (attività non particolarmente praticata, anche dai praticanti, come dimostrato da molte ricerche).

Quello che è vero in termini analitici non è però vero in ambito pubblico. La chiesa non solo si interroga su moltissimi temi, facendo in questo nient’altro che il suo dovere: ma le sue considerazioni vengono usate nel dibattito pubblico, dalla politica e dai partiti, come pezze d’appoggio per le proprie posizioni. E così è tutto un tirare per la giacchetta, o per la tonaca, tale o talaltra frase del papa, o appunto della conferenza episcopale. Solo che si tratta di una mera strumentalizzazione senza alcun radicamento effettivo. E fa più tristezza che scandalo vedere politici che dell’opinione dei vescovi semplicemente si disinteressano nella normalità della loro vita, usarle eccitati se danno ragione (o sembrano anche solo lontanamente farlo) alle proprie posizioni. Come se questo contasse ancora. E così vediamo le stesse persone (diciamo, per comodità, di sinistra) che aborrono le posizioni della chiesa sull’omosessualità o sull’aborto, incensarla quando si parla di autonomia. E le stesse persone (diciamo, per comodità, di destra) che aborrono le posizioni della chiesa sugli immigrati, incensarla quando si parla di genere, o di difesa di una famiglia tradizionale che non praticano nemmeno loro.

Sull’autonomia siamo alla stessa impasse. La conferenza episcopale prende una posizione dura contro di essa, utile come opinione, ma poco fondabile evangelicamente (basti pensare all’autonomismo e al federalismo quasi militanti di don Sturzo, fondatore del Partito Popolare, che sapeva coniugarsi con una buona dose di meridionalismo). La sinistra esulta e usa l’argomento per sostenere la propria proposta di referendum contro l’autonomia, e i cattolici di sinistra esaltano le dure posizioni, condite di molta retorica, di mons. Savino, vice di Zuppi e vescovo di Cassano all’Jonio (gli stessi cattolici di sinistra, e la stessa sinistra, che bollavano le posizioni di mons. Ruini come ingerenze). Mentre Zaia prende carta e penna e reagisce, spostando il ragionamento dai principi ai contenuti pratici, proponendo un tavolo tecnico. Dimenticando tuttavia che in Veneto l’autonomia è stata usata precisamente come arma retorica per decenni. E, soprattutto, sente il bisogno, pur avendo posizioni sideralmente distanti da quelle ecclesiali su temi come omosessualità o fine vita, quando si tratta di autonomia, di rispondere da presidente e autonomista ma anche ‘da cattolico’. Non si sa mai.

 

La chiesa tirata per la giacca, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 settembre 2024, editoriale, pp. 1-5

Dante, Maometto e la Divina Commedia. La strada per l’inferno (dantesco) è lastricata di buone intenzioni

Quando di una vicenda si appropria la politica per alimentare una presunta guerra culturale, la notizia vera (peraltro, datata: risalirebbe a qualche mese fa) sparisce dietro le polemiche e le strumentalizzazioni. Per cui prendiamola per come ci è pervenuta. Mi riferisco all’esonero di due studenti musulmani di una scuola media di Treviso dallo studio della Divina Commedia, per rispetto della loro fede religiosa, dato che Dante colloca il profeta dell’islam all’inferno.

Nei resoconti stampa si parla dell’iniziativa di un o una insegnante, di una spiegazione data alle famiglie su cosa i figli avrebbero studiato (che quindi, richieste di un parere, hanno preferito l’esonero), o di una richiesta delle famiglie stesse – e le versioni diverse già nascondono differenti opinioni politiche e opzioni ideologiche.

Due considerazioni sul fatto in sé, e un ragionamento sulle sue conseguenze. Il fatto. Se è avvenuto come descritto, naturalmente è – prima che grave – sciocco e superficiale. Perché in generale non si chiede un parere alle famiglie su ciò che i figli debbono o non debbono studiare: il programma è lì per tutti, e guai se la scuola comincia ad aprire una trattativa sui contenuti. E perché non se ne può più – quando si tratta di pluralismo religioso – di fare le cose male a fin di bene: come noto, la strada dell’inferno, anche quello dantesco, è lastricata di buone intenzioni. D’altro canto, una qualunque famiglia, di qualsiasi religione (anche cattolica), magari di livello culturale modesto, posta di fronte all’alternativa se studiare un autore di cui non sa nulla ma che parla male della fede in cui crede, oppure no, sceglierebbe la seconda opzione. Anche se – se è vero che l’alternativa è stata Boccaccio – viene da sorridere pensando ai risvolti moralmente più problematici e per l’appunto boccacceschi della vicenda. Dettaglio ironico ulteriore: lo studio di Dante sarebbe potuto servire per aprire alla comprensione della cultura islamica. Uno dei primi libri che ho preso in mano, quando ho cominciato a occuparmi di islam, per cercare di leggere il mondo dal punto di vista altrui e ragionare sulle reciproche influenze culturali, insieme a “Storici arabi delle Crociate”, pubblicato da un grande orientalista italiano, Francesco Gabrieli, fu proprio “L’escatologia islamica nella Divina Commedia” di Miguel Asín Palacios, in una preziosa edizione in due volumi (quasi settecento pagine di ponderosa erudizione) che dava conto anche della polemica seguita alla pubblicazione del libro: non sorprendente, dato che l’autore intendeva dimostrare come il poema dantesco fosse fortemente ispirato a fonti islamiche, e in particolare all’ascensione miracolosa di Muhammad al cielo, che i musulmani celebrano in una ricorrenza ad essa dedicata. Tesi rafforzata da ulteriori successive scoperte letterarie e traduzioni. Le vie della cultura sono infinite, e spesso sorprendenti.

Le conseguenze di queste polemiche sono tuttavia sociali e culturali. Perché innescano un riflesso condizionato di polemiche su una ipotetica ‘cancel culture’, e soprattutto di accuse ai musulmani. Vale la pena notare, allora, che per lo più non sono stati loro a fare richieste di rifiuto o cancellazione: che si trattasse del presepe o della recita di Natale, in cui i bimbi musulmani, pur di partecipare, farebbero volentieri anche la parte di Gesù (venerato profeta dell’islam, secondo di importanza solo a Muhammad) o di Maria (cui è dedicata una delle sure più importanti del Corano). Peraltro molti minori musulmani sono iscritti a scuole cattoliche per scelta proprio dei genitori, che – come molti italiani, più o meno credenti – preferiscono a torto o a ragione un ambiente educativo religioso a uno laico. Queste iniziative sono state sempre proposte da insegnanti di buone intenzioni e discutibili valutazioni, senza consultare i musulmani, al loro posto e a loro insaputa. Ma grazie al tam tam mediatico e alla strumentalizzazione politica si inscrivono nella memoria di ciascuno come inaccettabili pretese dei musulmani che non vogliono integrarsi: e allora, che se ne tornassero a casa loro… È questo il peggior servizio che si potrebbe fare ai musulmani, e il maggior danno che iniziative irriflesse come queste producono. Sarebbe il caso che anche gli insegnanti ci ragionassero sopra, dato che finiscono per ottenere il risultato opposto a quello auspicato.

Il caso Dante. Chi pensa di aiutare l’islam, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 28 maggio 2024, editoriale, pp, 1-2

Ramadan a scuola e al lavoro: la distanza tra società e politica (e tra realtà e ideologia)

Ieri si è festeggiato l’Aid al-Fitr, la festa di fine Ramadan. Per i musulmani è un po’ come il Natale: oltre alla festa religiosa, che è anche un importante momento di socialità per la comunità, ci si ritrova con le famiglie allargate, si preparano piatti speciali, si fanno doni ai bambini. Ed è molto sentito, non foss’altro perché arriva alla conclusione di un mese di digiuno – reale, nonostante le ironie di qualcuno – dall’alba al tramonto. Se spiritualmente ciò che caratterizza il Ramadan è precisamente il digiuno – raccomandato peraltro, come pratica ascetica, in molte religioni – sociologicamente ciò che lo caratterizza è la sua rottura (con l’iftar, un momento conviviale in cui si mangia qualcosa insieme, celebrato quando possibile in famiglia o in moschea), e anche il desiderio di vedere riconosciuta pubblicamente la propria identità sociale, celebrandolo in luoghi pubblici sufficientemente ampi da contenere un afflusso maggiore di quello abituale, e invitando le autorità civili e religiose. A testimoniare il ruolo sociale del Ramadan è anche il fatto che, nonostante la secolarizzazione operi anche nelle seconde generazioni musulmane (e già nelle prime), cala la frequentazione delle moschee, la preghiera quotidiana, la lettura del Corano, ma non, o molto poco, il rispetto del digiuno. È anche un mese in cui – come si fa anche nel mondo cattolico, con i ‘fioretti’ durante la quaresima – la mortificazione autoinflitta del digiuno viene trasformata in condivisione, raccolta di elemosine per i più poveri, cena gratuitamente offerta a tutti, in particolare ai più bisognosi, da parte di chi ha maggiore disponibilità.

Oggi, a seguito della loro maggiore presenza quantitativa, e al numero crescente di famiglie, la visibilità delle pratiche religiose islamiche diventa vita quotidiana e prassi consolidata, quando non abitudine. Alcuni luoghi di lavoro con manodopera immigrata chiudono o concedono festività per l’occasione, ricevendone in cambio un beneficio di gratitudine e riconoscenza (peraltro c’è chi, da decenni, fa già di più: la prima fabbrica di cui ho notizia che abbia concesso uno spazio interno per svolgere la preghiera di venerdì è veneta e risale agli anni Novanta, quasi tutte quelle che hanno la mensa hanno introdotto senza proteste un’alternativa vegetariana o senza maiale, mentre ci sono imprenditori che scambiano volentieri la vacanza dei dipendenti in agosto con quella nel mese di Ramadan, per chi ha la famiglia nel paese d’origine, con vantaggio reciproco). Molte parrocchie e diocesi si scambiano visite con le moschee e gli imam, partecipando alle rispettive festività e non di rado concedendo spazi per la celebrazione dell’Aid. Non pochi sindaci, sull’esempio del presidente Mattarella, hanno inserito i messaggi di auguri e saluti alle comunità religiose minoritarie nel loro calendario istituzionale. E, infine, alcune scuole con popolazione immigrata numerosa, cominciano a considerare anche questa come una festività possibile (non in sostituzione di altre, men che meno quelle cristiane, ma tra le poche autonomamente decidibili dalla scuola), come si è visto quest’anno, con il solito contorno di polemiche da parte della politica.

Ecco, in tutto questo, quello che colpisce di più è proprio il contrasto tra la normalità sociale del fenomeno – la società cambia, e se ne prende atto – e l’eccezionalismo che costruisce la politica. Tra l’incontro fattuale che avviene sul lavoro, nelle scuole, nello sport, nel tempo libero, in cui persone di diverse culture, religioni, colore della pelle, partecipano agli stessi momenti di condivisione, dalle feste di compleanno in su. E lo scontro reale che producono infuocate parole d’ordine che incitano di fatto all’odio sociale, paventando inesistenti attentati contro l’identità cristiana del paese. Peraltro, in maniera singolare, mentre parroci e vescovi si prodigano nella costruzione di momenti di incontro, i presunti difensori di questa identità (autoimpostisi come tali, anche se di rado li si vede in chiesa, peraltro) costruiscono occasioni di conflitto sociale sulla pelle delle persone, stigmatizzando intere comunità, solo per conquistare un quarto d’ora di visibilità, da giocarsi alle prossime elezioni: inviterei a sostituire, in certi veementi discorsi politici o articoli di giornale, la parola musulmani con la parola ebrei, per vedere l’effetto che fa.

La società è dunque più avanti della politica che pretende di rappresentarla. E forse è il caso di cominciare a farlo presente al ceto politico: dietro il loro uso disinvolto e mirato di divieti e proibizioni c’è un problema etico e civile grosso come una casa. E dovremmo ricordare ai nostri rappresentanti che sono pagati per risolvere problemi, non per crearne.

 

Le feste di fine ramadan, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 11 aprile 2024, editoriale, pp. 1-6

FIFA 2022 in Qatar: il Marocco e i nuovi equilibri mondiali

Comunque vada a finire la coppa del mondo del Qatar, la presenza in semifinale del Marocco, prima volta per una squadra africana, rappresenta un cambiamento storico, non rubricabile a un evento solamente sportivo.

È innanzitutto il simbolo del riscatto di un continente. Non a caso l’Africa tifa compatta per il Marocco, come anni fa aveva tifato Camerun, Senegal o Ghana quando erano arrivati ai quarti di finale. È un segno di equilibri mondiali che si modificano, e che peseranno sempre di più in futuro, economicamente, demograficamente (la Nigeria si avvia a superare gli USA come terzo paese più popoloso del mondo…) e anche politicamente.

Più in specifico, è un riscatto anche del mondo arabo, dove pure si gioca il mondiale, anche contro i paesi suoi ex-colonizzatori: nel caso dell’ex-colonizzato Marocco, battendo direttamente la Spagna, che nel territorio marocchino mantiene le enclaves neo-coloniali di Ceuta e Melilla, il Portogallo (proprio a Ceuta ebbero inizio le guerre marocchino-portoghesi, 600 anni fa), e andando ad affrontare la Francia, il colonizzatore più recente, il cui protettorato sul Marocco ha retto fino a settant’anni fa. Questa solidarietà interna al mondo arabo si è vista anche con la bandiera palestinese esibita dalla nazionale marocchina e da molti tifosi, a ricordare una ferita ancora aperta, che in occidente si tende a dimenticare, ma che nel mondo arabo è vivissima. Non stupisce che ovunque, nei paesi arabi, si tifi Marocco.

È un riscatto anche, in certo modo, dell’islam. I giocatori del Marocco hanno pregato sul terreno erboso dei campi di calcio mondiali, in direzione della Mecca, e anche questo fattore gioca un ruolo sullo scacchiere globale, nei paesi musulmani ma anche tra gli emigrati in paesi occidentali, dove l’islam è spesso malvisto, e non solo a causa del terrorismo. Re Mohamed VI appartiene a una dinastia che reclama una discendenza diretta dalla famiglia del Profeta, e questo è parte importante della sua legittimazione, che si sta attuando anche con una accorta politica di finanziamento di luoghi di culto e di formazione religiosa rivolta a imam e predicatori di tutta l’Africa (e della diaspora occidentale), in concorrenza e contrapposizione con l’islam radicale e salafita.

Riscatto, inoltre, del Marocco stesso, che da molto tempo persegue, con sempre maggiore successo, un ruolo di leadership – innanzitutto economica, attraverso oculati investimenti in sviluppo e infrastrutture – per tutta l’Africa, con particolare attenzione a quella subsahariana. Un ruolo da grande potenza regionale, al contempo in dialogo e collaborazione con l’Unione Europea. Quello che noi chiamiamo Marocco, in arabo maghrib, vuol dire occidente, e questa è dopo tutto la sua collocazione geografica, ma anche il ruolo di tramite che si è scelto, come paese in tumultuosa crescita economica, ma anche attore di una transizione politica che lo porta verso una sempre maggiore democratizzazione e libertà sostanziale.

Riscatto, infine, degli immigrati marocchini in Europa, della cui presenza straniera costituiscono una parte importante (in Italia sono oltre 400mila, terza componente dopo rumeni e albanesi). Non stupisce che sia così. Anche quando l’Italia vinceva contro altri paesi europei in cui erano stati accolti ma anche spesso maltrattati, gli italiani in essi emigrati avevano un motivo in più per gioire. Certo, qua e là c’è stata qualche inaccettabile intemperanza di troppo nel manifestare la propria soddisfazione (anche se, come in Italia, molto inferiore alle intemperanze contro i marocchini). Un surplus di rabbia, o un segnale di malessere, che in paesi come Francia o Belgio è anche una comprensibile protesta contro una integrazione non sempre riuscita, e una marginalizzazione di fatto che questi paesi hanno lasciato crescere nelle loro banlieues, pur in mezzo a evidenti successi di integrazione (a Bruxelles il nome più diffuso, alla nascita, è Muhammad). Ma l’argomento lanciato da qualche politico di destra, come Eric Zemmour, “in Marocco sono scesi nelle piazze pacificamente, in Francia ci sono stati tafferugli” (anche se risibili rispetto alla grande maggioranza di gioia civilmente espressa) rischia di essere scivoloso: più una constatazione di incapacità e impotenza della Francia rispetto al Marocco, dopo tutto. E peraltro le stesse persone, se non ci fosse stato il Marocco a giocare, avrebbero tifato per il paese in cui vivono. Come gli emigranti italiani all’estero quando non gioca l’Italia, dopo tutto.

 

Il riscatto del mondo arabo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 14 dicembre 2022, editoriale, p.1

Pluralità culturale e intolleranza: a proposito del niqab

Una donna del Bangladesh che vive da 13 anni a Mestre è stata prima insultata e poi aggredita perché portava il niqab, un tipo di velo islamico che lascia scoperti soltanto gli occhi. Non è il primo caso e non sarà purtroppo l’ultimo. Ma il fatto illumina alcuni nodi irrisolti, e vale la pena sottolinearne le implicazioni.

Da un lato abbiamo un rapido processo di pluralizzazione della società, che non è effetto della sola immigrazione, e che produce reazioni spesso oltre il limite della tollerabilità sociale. Le nostre città sono piene di persone che si sentono in diritto di decidere per gli altri che cosa è giusto e che cosa è sbagliato: e se una volta magari stigmatizzavano i capelli lunghi, una gonna corta o un bacio dato per strada, oggi se la pigliano con una coppia dello stesso sesso che si tiene per mano, con un capo di vestiario inusuale, o direttamente con il colore della pelle di una persona. Questi atteggiamenti denotano un’arroganza culturale diffusa, e un malfondato senso di superiorità. Come se fosse ancora possibile dire che esiste una sola cultura (quale?), un solo modo lecito di pensarla e di vivere, una sola religione o una sola ‘razza’ accettabile. E le modalità con cui si manifesta questo atteggiamento (il fatto che venga percepito come lecito aggredire qualcuno strappandogli di dosso un simbolo o capo di vestiario, che sia una sciarpa arcobaleno, una kippah o un velo) mostra quanto questa reazione incivile sia difficile da qualificare altrimenti che intollerante e financo francamente razzista (metteremmo mai le mani addosso ad una persona della ‘nostra’ cultura, etnia e religione per lo stesso motivo, a una suora magari?).

Ma un ragionamento va fatto anche sull’altra faccia della medaglia. Ho assistito personalmente e sostenuto (pagandone anche qualche minimo prezzo polemico) le battaglie delle donne musulmane in Italia per il diritto a portare l’hijab (un indumento a cui la definizione di velo fa torto, dato che non nasconde nient’altro che i capelli: come un foulard, a cui di fatto è assimilabile). Ho appoggiato il diritto al riconoscimento (ottenuto più di vent’anni fa) di poter avere la foto con l’hijab, per chi lo richiede, anche sulla carta d’identità (né più né meno come le suore, e per lo stesso motivo). Ho persino scritto un libro in difesa del burkini (il costume da bagno che è una specie di muta da sub incrociata con una casacca, che portano alcune musulmane, e non solo). Ma la questione del niqab, che copre anche il viso, del chador o a maggior ragione del burqa, pone un altro problema. Che non è di sicurezza: a tutt’oggi, in Europa, non si è visto né un attentato né una rapina attuati grazie ad esso. Ma squisitamente culturale, di estraneità reciproca percepita, e per questo più importante.

Certo, c’è anche un problema di legislazione. Da noi c’è il Testo unico di pubblica sicurezza che impedisce di andare in giro con il volto coperto, e vincola almeno a scoprirlo su richiesta di un pubblico ufficiale. Solo che – come leggi simili in tutta Europa – è regolarmente inapplicato, e non solo a carnevale: dalle sciarpe e passamontagna dei freddolosi, fino ai ricchi turisti della penisola araba che sarebbe imbarazzante (e probabilmente anticostituzionale) fermare alla frontiera. Non solo: in questi anni è stata la legge a ordinarci di coprire il volto, imponendoci la mascherina anti-Covid anche per strada. Segno che le sensibilità cambiano, per i motivi più diversi. E tuttavia i volti, da noi, sono culturalmente importanti, e loro copertura non sta sullo stesso piano di un foulard, perché in termini emozionali e comunicativi sono in un certo senso fondamento e garanzia del legame sociale, del rapporto fiduciario che implica.

Aggiungiamo che non è nemmeno un problema realmente religioso. Non c’è alcun riferimento coranico alla copertura dei volti. La sura XXXIII,59 invita solo le donne dei credenti a ricoprirsi dei loro mantelli – “questo sarà più atto a distinguerle dalle altre e a che non vengano offese”. Poi, ognuno fa l’esegesi che vuole, e non tocca a noi decidere per i musulmani. Ma forse non sarebbe inutile un franco dibattito interno alle comunità islamiche sul perché di questa enfasi recente sulla copertura del volto. Il fatto che nel Corano non ce ne sia traccia lascia pensare che le ragioni siano altre e meno nobili, più legate ai rapporti di genere, o a sovrastrutture ideologiche, dato che si sta diffondendo, a partire da ambienti salafiti, anche in paesi dove era prima inesistente (non è il rispetto di una tradizione, dunque, ma precisamente il suo contrario: un’innovazione). Il che meriterebbe una discussione onesta sulle sue ragioni e i suoi torti.

 

L’alterità culturale del velo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” 10 dicembre 2022, editoriale, p. 1