Sociologia della lettura

Si può ancora leggere nel mondo moderno? La domanda si coniuga direttamente con un’altra e più intrigante questione: si può ancora leggere il mondo moderno? Ed è la lettura il modo più appropriato di farlo? Il più efficace?

Il primo dato che possiamo produrre è esperienziale. Per la mia generazione, quelli di mezzo secolo o più, la lettura è stata un dato di scoperta del mondo, e di apertura al mondo, sostanzialmente indispensabile. Certo, siamo stati anche la generazione che ha scoperto altre dimensioni e stati d’animo: il viaggio; la fuga dai ruoli dati; la scoperta di altre realtà attraverso l’uso di droghe di cui allora si conoscevano più le potenzialità dei pericoli, l’effetto di apertura a nuovi mondi potenziali che non quello di distruzione di quello reale; la creazione di nuovi mondi – o il tentativo o l’illusione di farlo – attraverso le relazioni costruite nell’impegno politico e sociale. Ma poi, alla fine, era la lettura che sostanziava anche queste esperienze, che ne costituiva, in tutti i casi, il riferimento alto, la giustificazione, la possibilità di scambiarle con altri, il tramite simbolico stesso, in molti casi.

Per spiegare l’intreccio complesso che costituisce il rapporto tra esperienza e lettura, tra realtà reale e realtà presente nelle pagine di un libro, prendo a presto un’immagine di Alessandro Baricco. Che in un suo splendido programma televisivo divulgativo sulla lettura (già questo un intreccio complesso) di qualche anno fa, che si chiamava Pickwick, iniziava le trasmissioni descrivendo l’immagine di un uomo: che, salito sul treno, guarda dal finestrino, contempla il panorama che si svolge sotto i propri occhi; poi, apre un libro, si immerge nella sua lettura, in un altro panorama, aprendo una diversa finestra sul mondo.

Il libro, la lettura, sono stati spesso questo, per me e per molti, e lo sono ancora. Me è ancora necessariamente così? E’ ancora questa la forma di lettura del mondo, di suo approfondimento, di sua contemplazione, privilegiata o da privilegiare? Osservando laicamente le modificazioni del conoscere oggi c’è da porsi più di un dubbio.

Proviamo a farlo a partire da un secondo dato esperienziale. Quello di chi oggi ha meno di vent’anni (o, ancora più giovani: i miei due figli, per esempio, di 15 e 12 anni): quelli che chiamano i nativi digitali; mentre noi, immigrati digitali, dell’immigrato in questo mondo manterremo sempre il senso di spaesamento e di incertezza. Per loro la lettura è competenza accessoria, ma non nella sua essenza, solo nella sua modalità tradizionale. La modalità standard per accedere ad altri mondi non è aprire un libro, è accendere il computer, e collegarsi ai social network. Ma da qui si è poi costretti a leggere (le riflessioni altrui, i loro messaggini, i link a cui ci rimandano), ma anche vedere e sentire (magari via you tube), attraverso un’esperienza sensorialmente più avvincente, coinvolgente e convincente. Ma, da lì, volendo – e qualche volta capita – il rinvio è a un libro, o a un suo pezzo, o a una sua citazione. Spesso, sempre più spesso, per frammenti, per letture trasversali, attraverso i meccanismi dell’ipertesto e quelli dei link, che ne sono una diversa modalità attuativa, più personalizzata – e, certo, più problematica, persino più dubbia non solo, come ovvio, nella sua coerenza, ma anche nella sua correttezza. Il frammento è infatti molto più facilmente manipolabile e falsificabile di un testo lungo e complesso. Detto questo, leggono anche libri, anche se meno di quelli che leggevo io alla loro età, in cui non avevo tutti questi altri media a disposizione, altrettanti accessi al mondo, finestre su di esso.

Questo meccanismo ha a che fare con un altro problema: la presentificazione degli orizzonti, lo schiacciamento sul presente. Che sappiamo essere una tendenza forte da vari indicatori (che citiamo in maniera random, senza tentativi di classificarne l’importanza e il peso): la sempre più scarsa capacità di contestualizzare i fenomeni e di coglierne le radici, e quindi la difficoltà dello stesso pensare storicamente (anche quando ci si interroga sul futuro); le modalità affettive e relazionali, che sempre più difficilmente si inscrivono all’interno di una storia coerente (non a caso le relazioni durano meno); un’accresciuta mobilità spaziale e non, che rende più problematico lo stesso collocarsi all’interno di una storia (quale? di chi? di dove?); la diminuita propensione al risparmio, che è un indicatore certo di minor investimento sul futuro; e molti altri. Come conseguenza di tutto ciò nella mia professione di docente universitario sono giunto, dagli esiti delle discussioni d’esame, alla conclusione che, grosso modo, per una parte significativa dei miei studenti (e di tutti i giovani) la storia sempre più si divide in due: la preistoria, che è, in maniera indifferenziata e quindi difficilmente collocabile – come una fotografia scattata con lo zoom, in cui tutto è schiacciato alla stessa altezza, e si perde in profondità e differenziazione – tutto quanto accaduto prima della propria nascita; e la storia, o meglio la mia storia, la storia personale di ciascuno, che è ciò di cui posso grosso modo dare contezza e avere verifica perché basato sull’esperienza personale. Il passato è ininteressante e poco esplicativo delle ragioni del mio essere (e spesso è proprio così: la sensazione che tutto sia cambiato molto e molto in fretta, e quindi non c’è più trasmissione – nemmeno dell’esperienza e del sapere – ma solo innovazione, è figlia di questa precomprensione, che ha molte ragioni di capirsi in questo modo). Il presente è l’elemento di maggiore coinvolgimento per ovvi e ottimi motivi, ma anche perché ci si immagina solo in esso di poter conquistare gratificazione personale. Il futuro, sempre più spesso, è qualcosa di lontano, precario, inesorabile ma poco comprensibile e prevedibile, e vagamente minaccioso. Non certo qualcosa su cui una persona sana di mente investirebbe davvero volentieri qualcosa: lo si fa perché si deve, nel caso, non perché davvero lo si vuole.

In tutto questo, le forme digitali di accesso al mondo della conoscenza hanno questo in comune almeno con una forma di lettura, quella letteraria: il recupero della dimensione narrativa della vita , la scoperta del bisogno di raccontare e raccontarsi e il tentativo di farlo – più o meno riuscito, ma questo importa meno. E la dimensione frammentaria di questa conoscenza ha molto in comune con le nostre vite: all’interno delle quali cerchiamo il filo rosso della coerenza, ma sempre ex-post, e a dispetto delle piroette più sconcertanti: ci raccontiamo una continuità e un senso che spesso non c’è, ma perché, come diceva Flaiano, “facciamo finta di tutto”, non perché ci sia davvero, o necessariamente. Ancora: questa dimensione ha moltissimo a che fare con una forma di comprensione del mondo molto moderna, quella degli aforismi. Che, come diceva Karl Kraus con un altro brillante aforisma, “non è mai la verità: o è mezza verità, o è una verità e mezza”. Così è la vita, così è il racconto.

La lettura, nella forma saggistica del discorso scientifico e della speculazione filosofica, ci ha portati mostruosamente avanti in un percorso di progressivo disincarnamento, di astrazione pura. E di innaturale e inumano primato del pensare sull’essere. Quello che Cartesio riassumeva nel “Cogito, ergo sum”. Una balla che ci siamo ripetuti per secoli, che l’occidente ha portato alle estreme conseguenze e all’estrema spersonalizzazione, ma che oggi scopriamo con orrore essere sempre più un’oscena finzione dalle conseguenze devastanti. Semmai, come ha corretto chi è portatore di maggiori competenze psicologiche e sociologiche, “sumus ergo sum”. Siamo innanzitutto e soprattutto perché siamo il prodotto di relazioni, e di relazioni che si narrano, e narrandosi si lasciano incontrare. Se è ancora vero che “il medium è il messaggio”, è indubbio che nonostante la dimensione di menzogna che incorporano, e a cui lasciano spazio (a cominciare dalla menzogna dell’identità, attraverso il nickname e le false generalità), i media digitali incorporano un messaggio relazionale e narrativo. E questo non è male. Del resto, quanto a menzogna, anche il libro non ne è meno portatore. Certo, nei media digitali e nei social networks si impoverirà il linguaggio, ma ci si apre maggiormente all’esperienza e all’interazione. Che diventa, per l’appunto, un diverso modo di leggere il mondo.

Ci si può lavorare sopra, oltre tutto, sull’interazione tra la lettura e l’esperienza. In un corso di ‘Globalizzazione e pluralismo culturale’ che tengo da qualche anno all’interno di una laurea specialistica, a miei studenti faccio leggere dei libri, che discutiamo in aula. Ma loro non li devono riassumere: li devono incarnare, rappresentandoli, rappresentandone in prima persona gli autori, e intervenendo nel dibattito in quanto incarnazione delle tesi contenute nei libri, non in quanto portatori del loro contenuto. Non sarà una rivoluzione: ma alla fine del corso ciascuno ha letto solo due libri (uno che incarna, l’altro di cui incarna un potenziale discussant), ma tutti hanno non solo sentito ma ‘visto’ dibattere tra loro una trentina di libri importanti che rappresentano alcune delle punte più avanzate di riflessione sul tema. Se li avessero letti tutti, probabilmente ne saprebbero di meno.

Così è per i media, in ogni caso. Come noto, l’invenzione di ogni nuovo medium e di ogni nuova tecnica conoscitiva, che per gli apocalittici è sempre stato il preludio alla scomparsa delle precedenti, nella maggior parte dei casi ha portato alla loro somma e quindi a un pluralismo sempre maggiore dei media, non alla loro sostituzione per ondate successive. Il giornale non ha ucciso il libro, la radio non ha ucciso il giornale, la televisione non ha ucciso la radio, il computer non ha sostituito nessuno dei precedenti, cominciando semmai progressivamente a incorporarli, mantenendone tuttavia e in un certo senso rendendone visibile ed esperibile la pluralità e la diversità. Sì, certo, il long playing non esiste quasi più, sostituito dal compact disc. E questo a sua volta sta per essere del tutto sostituito dall’mp3. E poi altro arriverà. Ma questi sono meri cambiamenti tecnici, come l’aver trovato il modo di attaccare un motore a un carro e trasformarlo in automobile (car come char, eredità di cui ci resta il carro attrezzi, il paracarro, ecc.): mentre la pluralità di esperienze è salvaguardata. Inclusa quella, volendo, di guidare un carro trainato da cavalli e di ascoltare un lp.

L’ultima invenzione è quella che ci consente di leggere i libri in formato elettronico, ma in maniera portatile, proprio come un libro: Kindle, collegata ad Amazon, e l’Ipad. Ci sono arrivato da poco. E certo è esperienza diversa, non tattile, con l’oggetto libro. Ma se rinuncio a qualche romanticismo, comunque con un Kindle del costo di 100 euro, che oggi con un ingombro minimo è in grado di stoccare 2500 libri, scopro che con 4-500 euro sarei in grado di contenere in pochi decimetri quadri la mia intera biblioteca, risparmiando un locale delle dimensioni di un fienile e i costi di librerie e rafforzamento dei tramezzi. E comunque non ne butterò via uno, dei miei vecchi libri, e continuo a comprare anche cartaceo. Ma oltre tutto so che ogni mia sottolineatura elettronica, a differenza della amata e indispensabile matita, è in grado di registrare e mantenere in memoria tutte le mie sottolineature e i miei commenti. Questo non fa di me un sapiente, se questo sapere non è memorizzato e introiettato, e per così dire ruminato a lungo dentro di me. Ma un utilizzatore più leggero e felice, e sicuramente più comodo, forse sì. Non è farsi prendere da entusiasmo ingenuo per la tecnologia, e nemmeno fare pubblicità subliminale, volerlo sottolineare: sottolineando anche gli elementi di diffusione e di democraticizzazione del sapere che queste tecnologie incorporano. Oltre tutto, sostituendo con status symbol da poco prezzo quello status symbol da ricchi che sono spesso le grandi biblioteche private, che l’invitato vedendole fa “oh” per lo stupore. E oltre tutto non sempre letti: ricordo ancora con umorismo la visita alla casa di un arricchito amico di famiglia, appena sistemata dall’architetto, con intere collane Einaudi ancora incellophanate nelle librerie intonse…

Il discorso sulle librerie mi richiama a un gusto tipico del lettore colto di libri: quello della citazione. Che oggi con i nuovi media si rinnova con un quid di snobismo in meno. La citazione che mi sovviene è la seguente, di Marguerite Yourcenar: “Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri”. Oggi contano ancora, ma ci sono anche altri luoghi natii fuori da sé, dati da altri media. Che possono aiutarci, anch’essi, a uscire fuori dai particolarismi, dai nazionalismi chiusi, dai localismi claustrofobici. Perché questo dovrebbe fare la conoscenza. E così dovrebbe essere per le persone, con esse, attraverso di esse. E questo probabilmente dovrebbe essere l’università. Un luogo dove si fanno esperienze e si costruiscono relazioni tra persone, tra pensieri, tra cose, e tra le une e le altre e le altre ancora: non solo, in maniera disincarnata, tra concetti. Perché questo significa sentire le cose intensamente, profondamente. Conoscere vuol dire avere un contatto immediato, diretto. L’università, il luogo dove si formano i processi di conoscenza più ancora che dove si trasmettono le conoscenze (che spesso nascono al di fuori di esse) dovrebbe essere un luogo così: un universo di contatti, stimoli, di relazioni im-mediate, cioè non mediate. Che aiuti a farsi le giuste domande. Perché, come ricordava Canetti, “l’ignoranza non deve impoverirsi con il sapere”, e quindi bisognerebbe essere capaci, per ogni risposta, di farsi almeno due nuove domande. Come in una nota storiella ebraica: un gentile domanda a un ebreo perché gli ebrei hanno l’abitudine di rispondere a una domanda sempre con un’altra domanda; e l’ebreo risponde: “e perché no?”. La conoscenza è il luogo delle domande e delle risposte che aprono a nuove domande. E questo nei rapporti tra i compagni così come con i libri o con i docenti e con chiunque ci sia o ci possa essere di riferimento, magari anche di guida.

Bisogna assaggiare il mondo, non solo leggerlo. Sapere deriva da sàpere: che ha sapore. Il sapere vero dunque non si legge e non si studia: lo si incontra, lo si tocca con mano, ci si discute insieme, ci si nutre di esso, ce ne si innamora, magari. Si provano, con esso, e-mozioni: che fanno muovere, appunto – uscire da sé e dal proprio mondo per entrare in un mondo più grande e più intenso.

Non vogliamo, con queste note sparse – frammenti, ancora una volta – convincere nessuno. “Accontentiamoci di far riflettere, senza tentare di convincere” (Georges Braque). Invitiamo semplicemente a non compiangere precocemente la scomparsa del leggere come noi l’abbiamo conosciuto. Ci sono altri modi di leggere il libro del mondo. Che possono aiutarci, oltre tutto, a leggere meglio i libri sul mondo.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Sociologia della lettura, in “Servitium”, n. 193, gennaio-febbraio 2011, pp.47-53

Post scriptum. Per scrivere questo articolo non ho consultato, letto o riletto alcun libro. Ho ragionato, mi sono basato sulla mia memoria e le mie considerazioni. Ma ho consultato internet, via Google. Non per bisogno, ma per curiosità, per vedere se trovavo stimoli interessanti. Non ne ho trovati. Ma ho letto qualcosa in rete: poco, e in maniera frammentaria, trasversale, veloce. In ogni caso, adesso ne so di più.