Stritolato dai crediti inesigibili (Morte di un imprenditore)

La morte dell’imprenditore Giovanni Schiavon è di quelle che lasciano il segno. Perché è la morte dell’innocente, dell’uomo d’onore che si suicida non per i debiti, ma per i crediti non esigibili. Non per la vergogna del proprio operato, ma per quella di non poter onorare degli impegni che sarebbe in grado di onorare, se altri non lo ostacolassero e non glielo impedissero. Non per avere agito male, ma per avere agito bene in un mondo in cui troppi altri non lo fanno.
Si è già detto quasi tutto, di questa morte. Si è espresso il rammarico. Si è manifestato il dolore. Si è urlata la rabbia. Ora si deve cominciare a fare qualcosa. Una proposta ce l’avremmo. Una proposta di sanzione, o meglio due: una morale, e una giuridica e politica. La prima: si pubblichino gli elenchi dei debitori di Schiavon. E poi si vada a indagare, a chiedere conto. Probabilmente si scoprirà che alcuni di quelli che non pagavano non potevano farlo, perché erano imprenditori come lui, presi nella stessa morsa, colpiti dalla stessa crisi, altrettanto sommersi da debiti non pagabili e crediti non esigibili: incolpevoli anch’essi. Ma probabilmente si scoprirà che altri avrebbero potuto e dovuto pagare e non l’hanno fatto: imprenditori più grandi, che campano meglio strangolando i piccoli anche senza necessità, tirando in lungo con i pagamenti oltre l’ammissibile, tanto non pagano pegno perché hanno le spalle forti; e amministrazioni pubbliche, magari vincolate dai patti di stabilità, ma che per principio non dovrebbero campare a spese dei loro cittadini e dei loro contribuenti.
Sarà allora giusto aggiungere questa morte alla lunga lista delle morti bianche: di chi muore sul lavoro, o di chi, come in questo caso, muore di lavoro. Ma sarà giusto chiedere anche per queste morti l’introduzione di leggi che rispettino le persone. Come si è fatto per le normative sulla sicurezza dei lavoratori, ancora troppo spesso non rispettate. Basterebbe poco. Una norma di pochi articoli (già non mancano i disegni di legge, mai discussi, in materia; e l’Unione Europea, dove queste cose non succedono, ce la chiede) che obblighi le pubbliche amministrazioni a pagare ogni prestazione a 30, 60 o 90 giorni al massimo, con sanzioni pesanti se non lo fanno. Perché non è giusto che lo stato e gli enti pubblici sopravvivano spremendo ignobilmente coloro che lavorano per essi, che dovrebbero difendere e rappresentare, e da cui sono mantenuti. E che obblighi i privati a fare altrettanto, salvo motivi fondati e documentabili, e l’accordo delle parti. Ma sanzionando maggiormente, con la leva fiscale, con i costi del contratto, con deducibilità differenziate o quant’altro, chi tira più in lungo. Se i soldi devono girare per far girare l’economia, che girino davvero, non per finta. Basta con un sistema che finisce per essere più oneroso e stressante per tutti, e profondamente ingiusto nei confronti di alcuni, costretti a ricorrere al prestito bancario pur vantando ampi crediti, o peggio costretti al fallimento o, come in questo caso, al suicidio. I parlamentari veneti, tutti e insieme, per dare un segnale forte, se ne facciano promotori: subito. E le associazioni di categoria, le amministrazioni pubbliche, i partiti, i sindacati, la sostengano, pubblicamente, insieme, con iniziative pubbliche unitarie. E’ l’unico modo per uscire da questo meccanismo infernale, che stritola i più piccoli, i più onesti, e paradossalmente coloro che lavorano meglio e i cui servizi sono quindi più richiesti. E’ l’unico modo per pagare almeno un debito, per quanto tardivo, a Giovanni Schiavon.
Stefano Allievi
Allievi S. (2011), Stritolato dai crediti inesigibili (Morte di un imprenditore), in “Il Mattino”, 17 dicembre 2011, pp. 1-14

Il sistema previdenziale va cambiato (Un pacato ragionamento sulle pensioni)

L’aumento dell’età pensionabile è una scelta dolorosa. La progressiva parificazione tra quella degli uomini e quella delle donne può sembrare punitiva, per chi ha già il carico maggiore del lavoro di cura. Tuttavia sono entrambe inevitabili (mentre non lo è colpire malamente pensioni già basse).
Capiamo la rabbia di chi stava per andare in pensione, nel vedersi allontanare un orizzonte agognato, per il quale ci si era preparati, anche psicologicamente. Ma continuare con il sistema precedente sarebbe stato come dire: vogliamo andare in pensione comunque; non importa se a pagare la nostra pensione saranno trentenni e quarantenni con una vita lavorativa molto più precaria della nostra, già carichi del fardello del debito pubblico che noi abbiamo creato, che godranno di pensioni più basse, e lo sanno come lo sappiamo noi. Una prospettiva non accettabile: che non solo non accettano i più giovani, ma che anche a molti dei più anziani sembra, perché è, profondamente ingiusta. Perché dovrebbero essere i più giovani a pagare con il loro presente e il loro futuro gli errori del nostro passato?
Non solo: l’aspettativa di vita è cresciuta enormemente. Di trent’anni in meno di un secolo, e di quasi due anni solo negli ultimi dieci (e continuerà a crescere grazie ai rapidissimi progressi delle scienze e della medicina). Oltre tutto, fatti salvi i lavori usuranti, per i quali un’eccezione è d’obbligo, oggi si è più giovani e ricchi di risorse, a parità di età anagrafica, rispetto al passato: possiamo fare finta che nulla sia cambiato? E ignorare che altrove si va in pensione più tardi, o in maniera graduale?
Quanto alle donne, vivono in media sette anni più degli uomini. Ha ancora senso ‘difenderle’ per questa via? Con lo scambio umiliante: meno lavoro attivo in cambio di più lavoro di cura? Non sarebbe più degno, più soddisfacente, e anche più economicamente sostenibile, oltre che più civile, offrire, come si fa altrove, ben altro scambio: più lavoro esterno (bene quindi una transitoria defiscalizzazione delle assunzioni al femminile) sostenuto da più servizi pubblici dedicati al lavoro di cura? Più welfare e meno badanti, più asili, più cure domiciliari per anziani, più assistenza sociale per i soggetti deboli? E più flessibilità sul lavoro a richiesta del lavoratore, più part-time, ecc.?
E’ qui che bisogna fare il salto di qualità. Una politica conservatrice non può che cercare di difendere lo status quo, ben sapendo che finirà comunque. Come è stato fatto fino ad ora: colpevolmente, perché le cose sarebbero diverse se a una riforma seria si fosse messa mano venti anni fa, quando le tendenze si sapevano già tutte. Una politica riformatrice deve pensare invece in maniera innovativa. Non solo con le misure individuate, ma immaginando un diverso modo di erogare servizi, con ben altre risorse a disposizione, e in definitiva un diverso modo di immaginare la società.
Conosciamo le obiezioni: prima colpiamo l’evasione, i furbi, i grandi patrimoni. Tutto vero e profondamente giusto. Ma non basta, e per quanto doveroso ciò non esclude un ripensamento profondo del sistema previdenziale. Oggi non è progressista chi difende il sistema attuale; lo è chi promuove un sistema diverso. Ma, certo, chiedendo che una parte delle risorse recuperate vada precisamente a costruire un nuovo patto sociale, e le condizioni (i servizi) per attuarlo. E’ lì che la lotta deve essere più dura. Affinché i giovani e le donne non siano le vittime, ma le risorse del sistema: precisamente ciò che non sono oggi.
Stefano Allievi
Allievi S. (2011), Il sistema previdenziale va cambiato (Un pacato ragionamento sulle pensioni), in “Il Mattino”, 12 dicembre 2011, pp. 1-4

L’insicurezza costruiamola insieme. Il questionario della Provincia

“La sicurezza costruiamola insieme”. Si intitola così il messaggio che accompagna il questionario voluto dalla Provincia di Padova. Una operazione politica mascherata da sondaggio, metodologicamente opinabile, scientificamente implausibile.
La sicurezza è nel titolo, ma si parla solo di immigrazione. E accoppiare le due cose è già dare la tesi. Dimenticando tutte le altre cause di insicurezza: dalla crisi economica alla criminalità organizzata, dalla mancanza di servizi ai reati finanziari (che minano alla radice la fiducia collettiva), dalla mafia alla corruzione e all’incompetenza della politica, dalla mancanza di prospettive all’aumento del costo della vita, dal precariato diffuso alle catastrofi climatiche e ambientali, dal crollo delle borse alla perdita di fiducia nelle istituzioni (cominciando dalla Provincia, magari: si chieda in giro, con o senza questionario), dalle povertà relazionali che ci rendono più fragili al ruolo dei media che enfatizzano le paure che la politica mette all’ordine del giorno. Tutto questo, chissà perché, con l’insicurezza non c’entra.
Ecco perché si tratta di un’operazione elettorale, niente di più. Per vendere ai cittadini il proprio prodotto, secondo uno sperimentato meccanismo: 1) induciamo paura e insicurezza; 2) diciamo che serve più legge e ordine; 3) diciamo che noi glielo daremmo e gli altri no; 4) chiediamo il voto per noi; 5) per poi non risolvere il problema, perché non è alla nostra portata, avendo offerto la soluzione sbagliata (un capro espiatorio) ma comoda per noi: cosa che peraltro ci conviene perché potremo sempre dire che occorre più legge e ordine di quella che ci hanno dato; 6) finché l’elettore non si accorge di essere stato preso per i fondelli…
E’ così che, nelle domande, i fattori che contribuiscono a creare una percezione di insicurezza sono solo la presenza di immigrati clandestini, i furti nelle abitazioni, lo spaccio e le rapine. E’ così che, alla domanda su cosa dovrebbero fare gli enti locali, si può scegliere solo tra: costruire nuove caserme; pretendere più Forze dell’Ordine; promuovere gruppi di volontari; sostenere l’utilizzo della Forze Armate; armare i corpi di Polizia Municipale; promuovere la realizzazione di un CIE per clandestini – praticamente, il programma elettorale delle forze politiche di centro-destra che governano la Provincia, con cui si può solo essere d’accordo.
Significativa anche la domanda sulle zone della città maggiormente a rischio: nell’ordine la zona della stazione, le piazze, il Portello e l’Arcella, le altre non sono nemmeno nominate, dando già una precisa indicazione e gerarchia di importanza.
Si passa poi alle domande sugli immigrati e sul loro livello di (mancata) integrazione, a causa di: diverse abitudini; problemi linguistici; differenze religiose; mancanza di lavoro; considerazione del ruolo della donna. Mischiando a caso problemi etnici, sociali, religiosi, e dimenticando del tutto l’altra metà del processo di integrazione, che è sempre un rapporto a due: il ruolo e il comportamento della società, delle istituzioni, dei partiti. Per dire, provate voi a integrarvi in un posto dove vi dicono tutti i giorni che non vi vogliono, anche con apposito questionario dove si dice che siete voi il problema…
Infine, un questionario con risposte volontarie non è rappresentativo per definizione, e non ha alcun valore statistico. Basta orchestrare un po’ le risposte, far rispondere agli amici e agli iscritti da parte delle forze politiche che hanno interesse nel sondaggio, per orientarne i risultati. Niente di serio. Niente di utile.
Stefano Allievi
19/11/2011

Quarta puntata. La nuova classe dirigente: Non possono essere sempre le stesse facce

La crisi italiana non aspetta: l’intervento chirurgico dovrà essere profondo ed esteso. Pari almeno alla gravità della malattia: alla decomposizione del sistema politico, alla crisi di quello economico, alla senescenza delle istituzioni, al degrado complessivo del sistema paese.
Se è vero che ci troviamo in una sorta di dopoguerra, a ricostruire il Paese dalla sue fondamenta e con le sue macerie, in un clima quasi costituente, dobbiamo innanzitutto essere capaci di trovare le risorse migliori per guidare questo processo, liberando le tante energie inespresse (o compresse) e il desiderio di ricostruzione morale e materiale che nonostante tutto lo attraversa. Ma questo non può farlo una leadership che è già stata condannata dalla storia, e dai suoi risultati. Un problema che è del ceto politico nel suo complesso, non solo di un partito, anche se il disastro economico e la bancarotta civile non sono equamente distribuiti: qualcuno (la coalizione uscente) porta evidentemente una responsabilità maggiore.
Non è immaginabile che a guidare la nuova stagione politica del Paese siano le stesse persone che l’hanno occupato – più che guidato – fino ad ora. Andreste dal medico che ha già sbagliato tante volte nel diagnosticare la vostra malattia, e non ha mai azzeccato la cura? Iscrivereste vostro figlio a una scuola dove l’incompetenza, la superficialità e il pressapochismo sono la norma? Comprereste un’auto da un concessionario che sapete essere un parolaio e un mentitore? Fareste progettare la vostra casa ad architetti dalle parcelle altisonanti, e usi alla percentuale, ma scelti non per capacità e merito, inesperti e per di più arroganti? Vi fidereste di un manager che dice la sua su ogni cosa senza mai chiedere consiglio a chi ne sa di più, incapace di visione, con un orizzonte temporale che non va al di là della prossima chiusura di bilancio (le elezioni), incapace di progettare a lungo termine, di pensare alle prossime generazioni? Ebbene: può, allora, la stessa classe politica che ha portato l’Italia nel baratro, può un ceto politico autocentrato, separato dal resto della società da privilegi che ne hanno fatto una casta, convinto della propria insostituibilità, incapace di lettura della realtà, pretendere di continuare a governare questo Paese? No, evidentemente.
Occorre dunque un ceto politico diverso, attraverso meccanismi nuovi di selezione delle leadership, possibilità di scelta da parte dei cittadini, limiti di mandato per favorire il ricambio, fine dei privilegi che richiamano alla politica i lupi affamati e gli arrivisti senza qualità. Come arrivarci? Con un patto sulle regole. Cambiando sistema elettorale, per cominciare. Consentendo ai cittadini di scegliere, altrimenti non è democrazia. Favorendo la battaglia delle idee e delle persone. Attraverso collegi uninominali, o il doppio turno, o almeno il ritorno delle preferenze.
Ma scegliere tra i peggiori è ancora troppo poco. Occorre favorire l’emergere dei migliori, e la possibilità di conoscerli e di selezionarli. Attraverso forme di partecipazione del corpo elettorale, non solo degli iscritti ai partiti: che sono preziosi ma sono sempre meno (salvo gli usuali miracoli pre-congressuali che chissà come ne decuplicano il numero) e troppo spesso inascoltati, usati solo come megafoni di decisioni calate dall’alto, per promuovere carriere e leadership selezionate in maniera opaca. Le primarie sono un sistema efficiente: perché consentono di svecchiare un ceto dirigente inevitabilmente arroccato sulla propria difesa, favorendo la partecipazione di forze che fanno altrimenti fatica ad emergere. Merito al PD di averle introdotte in Italia con successo, tanto che anche il PDL comincia a pensarci, e altri pensano addirittura di renderle obbligatorie per legge. Non a caso tuttavia molti si adoperano per svuotarle di contenuto, con regolamenti che tendono ad escludere anziché ad includere, o affidando le ‘preselezioni’ alle gerarchie, magari attraverso forme di democrazia interna più o meno controllata.
Un altro mezzo fondamentale è il limite al numero di mandati elettivi nello stesso ruolo: per favorire la mobilità e il ricambio, non solo generazionale, e farla finita con i politici a vita. Le quote di genere possono ulteriormente favorire lo scopo di portare aria e persone nuove, non foss’altro che obbligando una parte dei gerontocrati maschi a farsi da parte.
La fine dei privilegi, dei vitalizi, dei pensionamenti dorati, della distribuzione di prebende attraverso l’occupazione abusiva delle risorse e delle istituzioni pubbliche, gli enti e i consigli di amministrazioni inutili, sono il corollario finale.
Possiamo pensare che chi ha prodotto la situazione attuale voglia davvero cambiarla, e quand’anche lo volesse, lo sappia fare? La risposta è ancora no: per cui dobbiamo cambiare loro. La sfida è cruciale. Si tratta dell’ultimo treno in partenza per la riforma democratica del nostro Paese.
4 – fine
Stefano Allievi
“Appunti dalla crisi italiana” è ora anche un blog sulla home page del “Mattino”:
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Allievi S. (2011), Quarta puntata. La nuova classe dirigente: Non possono essere sempre le stesse facce, in “Il Mattino”, 17 novembre 2011, p. 39

Terza puntata. Il dopo Silvio: Perché per il Pd c’è poco da gongolare

La destra scende, ma la sinistra non sale. E se il Partito Democratico, principale forza di opposizione, appare essere il primo partito (tra i votanti: perché nel corpo elettorale il primo partito è il non voto), ciò accade più per demeriti altrui che per meriti propri: un consenso volatile, quindi. Non l’adesione convinta a una proposta di governo, ma una scelta del meno peggio. Non l’adesione entusiasta a uno schieramento capace di sedurre con le sue ragioni, le sue pratiche politiche e i suoi leader, ma la disillusione per una proposta politica che ha fallito, lasciando il Paese in una situazione drammatica. Un ancoraggio debole, frutto del disancoraggio dalla precedente illusione, non il richiamo forte dell’alternativa.
In questo scenario, pur disastroso per la coalizione uscente, il Partito Democratico non sembra ancora in grado di candidarsi con il consenso necessario al ruolo cui in questa situazione sarebbe naturalmente destinato, quello di perno di una coalizione alternativa: non per le proprie divisioni interne o la debolezza di leadership, su cui c’è fin troppa enfasi mediatica (e del resto altri non stanno meglio), ma per l’incertezza della prospettiva di coalizione, e per la non sufficiente chiarezza della proposta riformatrice. E’ per questo che si cerca un governo tecnico: perché manca la politica. Il governo non c’è più, ma l’opposizione non c’è ancora.
Per capire come mai questo stia accadendo, occorre fare un passo indietro. Il progetto e l’intuizione che è all’origine del Partito Democratico è così riassumibile: unire le principali tradizioni riformiste italiane, aprendosi nel contempo con larghezza, intelligenza e generosità alla parte migliore della società civile, allo scopo di iniziare una stagione di modernizzazione radicale del Paese, attraverso un grande piano di riforme. Se la prima parte del progetto (unire le principali tradizioni politiche riformiste) sembra essere andata in qualche modo in porto, seppure in un amalgama imperfetto, in cui le nostalgie e le inerzie ideologiche e progettuali prevalgono su un autentico confronto, la seconda (aprirsi alla parte più innovatrice della società civile) sembra lontana dal realizzarsi, ed anzi in regresso.
Il PD sembra essersi ripiegato sulle due componenti principali da cui deriva (quella PCI-PDS-DS e quella DC-Popolari-Margherita), sottovalutando la terza, composta da quei militanti, iscritti e personale politico che, senza essere mai stati membri di quei partiti, che magari votavano senza troppa soddisfazione, hanno creduto nel PD come a un soggetto nuovo e riformatore. Sono proprio i rappresentanti di questa terza componente, insieme agli appartenenti alle altre due che si sono davvero messi in gioco per costruire un soggetto politico nuovo (una parte significativa di essi l’ha semplicemente subìto), a costituire la parte più innovativa del PD; ed è la loro perdita, la loro diaspora, la loro emorragia, che si sta rapidamente consumando in questi mesi, a costituire per esso la perdita maggiore, non solo di voti e di iscritti, ma di energia, di motivazione e di capacità progettuale, nonché di connessione con la parte più attiva, moderna e ricca di conoscenze del Paese. Senza di loro, il PD può restare un partito forte, che mantiene un peso significativo negli equilibri politici del Paese, con un ceto dirigente mediamente più preparato di altri e capace di mettersi a servizio delle istituzioni (e non è poco), ma perde centralità propositiva.
Il processo non è aiutato dagli altri attori dello schieramento riformatore, gli alleati dichiarati o potenziali. Tra cui prevalgono i ripiegamenti populistici, la collusione con la rabbia urlata dell’antipolitica – assai fondata ma vacua nella proposta costruttiva – di cui si cercano di cavalcare le sirene, la vaghezza della proposta politica che si tenta di mascherare con la perentorietà dei toni (cose di cui è spesso esempio Italia dei Valori), o il tentativo di lucrare la propria posizione concorrenziale erodendo qualche consenso al soggetto maggioritario dello schieramento, cioè al PD, invece di cercarlo altrove (come spesso ha fatto Sinistra Ecologia e Libertà). Mentre crescono le proposte alternative e ‘contro tutti’ (Movimento 5 Stelle), ed è scomparsa, caso quasi unico in Europa, la componente politica ambientalista, che una dimensione progettuale ce l’avrebbe. E così il discorso sul progetto per il Paese finisce per cedere il posto a quello sulle alleanze per governarlo: per cui diventa più importante interloquire con il Terzo Polo o polemizzare con il Partito Radicale (perdendo, anche qui, una componente progettuale, minoritaria ma non irrilevante) che non dire al Paese dove lo si vuole portare. Solo che non è così che si affascina l’elettorato, e lo si convince: anche a fare scelte costose, ingurgitando medicine amare, come il momento richiederebbe, ma con la prospettiva di un avvenire migliore, di un Paese radicalmente cambiato, in cui davvero voler vivere, e con orgoglio.
Per far questo ci vorrebbe una proposta politica forte, e un cambiamento drastico di classe dirigente. Di cui parleremo nella prossima e ultima puntata di analisi della ‘crisi italiana’.
3 – continua
Allievi S. (2011), Terza puntata. Il dopo Silvio: Perché per il Pd c’è poco da gongolare, In “Il Mattino”, 15 novembre 2011, p. 13

Seconda puntata. La rivoluzione mancata: Il centrodestra e il sogno infranto

Se il governo piange (e il Paese con lui, e a causa sua), l’opposizione non ride. Di fronte al precipitare degli eventi, e a una situazione senza precedenti, con una verticale caduta di credibilità dell’intero ceto politico (la ‘casta’ ormai per tutti, non a caso), più grave ancora di quella seguita alle vicende di Tangentopoli, l’opposizione sembra non saper offrire, così com’è adesso, l’auspicata soluzione di ricambio, il governo alternativo di cui il Paese ha bisogno. Tanto che molti sospettano che il governo tecnico sia la soluzione auspicata da tutti, maggioranza e opposizione: per non dover gestire la crisi con misure inevitabilmente impopolari, ma anche per una presa di coscienza delle proprie rispettive difficoltà interne, della propria inadeguatezza, e per alcuni della propria assoluta incompetenza.
L’elettorato sembra essere consapevole di questa situazione: e i sondaggi ne sono lo specchio. Da un lato indicano in testa, assai di misura, il Partito Democratico sul Popolo delle Libertà (un risultato che sorprende per lo scarso distacco, alla luce del disastro italiano). Dall’altro indicano in crescita i partiti minori del centro-sinistra e altre espressioni del voto di protesta o anti-sistema, ma soprattutto l’astensionismo, il partito del non voto (che ormai rappresenta oltre un terzo dell’elettorato, ed è quindi il primo ‘partito’ d’Italia), e gli indecisi. Cresce anche il centro: l’eterno centro intorno a cui la politica italiana continua nonostante tutto a ruotare, pescando al bisogno, nonostante il tentativo di ingresso del Paese nel mondo del maggioritario e del bipartitismo, risultato assai più imperfetto di quanto si potesse prevedere. Segno di un’offerta politica non soddisfacente.
Cominciamo l’analisi dal centro-destra. Un capitolo che potremmo intitolare: il sogno infranto. Sia che si parli del Popolo delle Libertà che della Lega Nord.
Questo centro-destra, come progetto politico di governo, nasce con la speranza berlusconiana. La famosa discesa in campo del ’94. Uno stile nuovo, un progetto di riforma in senso liberale, una comunicazione dirompente. E la capacità pragmatica di costruire alleanze al di là delle ideologie: sdoganando Fini, e includendo la Lega. Inutile ripercorrerne le disavventure, pur all’interno di un’epopea personale esaltante e di una narrazione per lungo tempo risultata vincente. Limitiamoci alla storia recente, e all’epilogo. Che vede quello stesso centro-destra, dopo 17 anni, in agonia conclamata. Il progetto di riforma liberale non è partito, o non è andato lontano: segnali di rottura ci sono stati, ma la vera rivoluzione liberale non è stata mai nemmeno impostata. La comunicazione è risultata fine a se stessa, e sempre più opaca. Lo stile, all’inizio brillante, si è col tempo inevitabilmente appannato: e, dopo la sequela di scandali personali concernenti il premier, appare parola persino impronunciabile. L’epopea personale è diventata ossessivo presenzialismo e autoreferenzialità. E la narrazione delle magnifiche sorti è oramai sempre più stanca e meno convinta e convincente, data la situazione del Paese, evidente a tutti meno che al suo primo ministro. La speranza della rivoluzione liberale è rinviata a data da destinarsi, e forse nemmeno alla destra prossima ventura, ma ad altri. Il sogno infranto, appunto.
Quanto alla Lega, il suo tessuto appare più solido, la realtà meno limacciosa. Ma la debolezza è evidente. Alla Lega si deve il merito storico di aver sollevato e imposto a tutto il ceto politico, almeno a parole, il tema del federalismo: che avrebbe potuto essere il più sostanziale disegno di modernizzazione riformatrice proposto al Paese – la carta vincente per uscire dalla sua perdurante arretratezza burocratica, istituzionale e politica, dando slancio alle sue realtà economiche e sociali. E infatti l’opinione pubblica l’ha preso sul serio, e l’elettorato ci ha creduto: un elettorato in alcune sue componenti assai più innovativo e riformatore, nelle sue idee come nelle sue pratiche professionali, di come è stato dipinto dai media. Ma a fronte di questo indubbio merito storico, cui si collega coerentemente l’idea di una rappresentanza territoriale anziché sociale o di interessi, sta il demerito altrettanto storicamente decisivo di non essere stata capace di costruire intorno a questo disegno una classe dirigente capace di portarlo avanti con competenza e determinazione. Ciò che appare più una scelta esplicita del suo leader che una mera casualità o incapacità: ed è comunque, in entrambi i casi, una responsabilità politica evidente. Il compiacimento bonapartista del leader maximo ha prodotto per paradosso il partito più centralista d’Italia, in cui il mantra preferito dai dirigenti, quando gli si chiede un’opinione, è il servile “deciderà Bossi”, in assoluta contraddizione di metodo con quanto dichiarato come ideale (e le contraddizioni prima o poi scoppiano…). E, per derivazione, il familismo amorale della risibile investitura al figlio, del cerchio protettivo della moglie, degli scandali a cui si mette il silenziatore, dell’impossibilità di dissenso, sempre stroncato sul nascere con durezza da centralismo togliattiano, a colpi di purghe, di espulsioni e di accuse di tradimento. Come inevitabile conseguenza sono emersi, con poche eccezioni, i mediocri, non in grado di fare ombra al capo, usi obbedir tacendo. Non si crea classe dirigente, in questo modo. Il risultato è il calo di consenso esterno, e l’emergere del dissenso interno (una buona notizia: l’inizio della democrazia…), non più nascosto da uno stile comunicativo ruvido che non diverte più nemmeno i fedelissimi e non fa più notizia sui giornali. Con un altro sogno infranto: il federalismo mancato, il grande risultato salvifico non ottenuto.
Bilancio complessivo: il centro-destra è riuscito a produrre una quantità significativa di delusi, che potrebbero essere un bacino elettorale a disposizione di una nuova seria offerta politica. Ma il centrosinistra non sembra capace di intercettare e di coinvolgere questo elettorato. Insomma, la maggioranza crolla, ma la minoranza non sembra capace di diventare maggioranza vera nel Paese. Di questo parleremo nella prossima puntata.
2 – continua
Allievi S. (2011), Seconda puntata. La rivoluzione mancata: Il centrodestra e il sogno infranto, in “Il Mattino”, 10 novembre 2011, p. 13

La crisi italiana

La crisi italiana non è soltanto una crisi finanziaria, economica, produttiva. Drammatica, certo: ma di cui in fondo conosciamo i costi, le ricette per uscirne, e anche i punti di forza (del sistema bancario e produttivo, ad esempio), non solo quelli di debolezza. E non è nemmeno solo una crisi, colossale, di credibilità internazionale e di immagine: di cui ben prima delle umiliazioni diplomatiche di questi giorni avevano piena consapevolezza gli attori economici, i produttori di cultura, il mondo della ricerca scientifica, e tutti coloro che hanno del confronto internazionale e della concorrenza, di sistemi e personale, esperienza quotidiana. No, la crisi italiana è qualcosa di più e di più profondo: una crisi istituzionale, politica e morale devastante. Che sta minando i fondamenti della stessa coesione sociale del Paese.
Sta saltando il patto sociale, e ciascuno si sente legittimato a non rispettarne gli obblighi perché nessun altro sembra farlo, e nessuno, nemmeno (tanto meno) lo Stato, ha l’autorevolezza per imporsi. E’ già saltato, anche se non se ne ha ancora piena consapevolezza, il patto generazionale: oggi gli interessi delle fasce più mature della popolazione appaiono più che mai in contrapposizione con quelli delle fasce più giovani. E le contrapposizioni di interessi appaiono più rilevanti che mai: tra aree geografiche, tra diversi attori economici e sociali, tra pubblico e privato, tra garantiti e precari, tra giovani e anziani, tra uomini e donne, e così via. Il Paese, insomma, è cresciuto senza crescere, si è sviluppato senza produrre sviluppo, e si è modernizzato senza essere diventato moderno. E oggi paga il prezzo di questa mancanza, prigioniero di ciò che non è riuscito ad essere.
Ci troviamo insomma in una situazione di devastazione, pur non avendo avuto una guerra. E dobbiamo ricostruire il Paese a partire dalle macerie che non i bombardamenti, ma l’inettitudine di un intero ceto politico, gli egoismi e gli interessi di pochi, ma anche la mancanza di immaginazione, di visione di come il Paese avrebbe potuto e dovuto essere, da parte delle sue classi dirigenti, ci hanno lasciato.
C’è oggi bisogno di ricostruire l’Italia dalle fondamenta: nel senso di coesione nazionale, nelle sue istituzioni, nel suo modo di pensarsi, nelle sue pratiche sociali. E quindi, prima di tutto, nella sua politica.
Come nel dopoguerra, c’è dunque bisogno di un ceto politico nuovo, responsabile, capace di immaginare una nuova stagione e di costruirne le fondamenta, facendo tesoro degli errori del passato, ma con una proposta politica e istituzionale moderna, agile, dinamica, adatta ai tempi, capace di valorizzare le risorse degli individui, uomini e donne, delle imprese, delle collettività, delle associazioni, dei territori, anziché imporsi ad esse rendendo loro la vita impossibile.
Siamo, davvero, come in uno strano dopoguerra, o dopo una guerra civile, o una profonda lacerazione sociale e istituzionale, di fronte a un vero e proprio problema di nation building. Centocinquant’anni dopo la sua nascita, l’Italia deve in qualche modo ricominciare da capo. Dopo la rottura innovativa e creatrice (nonostante i suoi costi e i suoi limiti) del Risorgimento, dopo i disastri delle due guerre mondiali, dopo il crollo della dittatura fascista, dopo la caduta meno cruenta e non definitiva della prima repubblica, dopo la fine ignominiosa della seconda, che oggi stiamo vivendo, l’Italia deve ricominciare dall’inizio. E deve farlo avendo il coraggio di ripensarsi all’interno di una nuova fase costituente: e, come ai tempi dell’Assemblea Costituente, dandosi il tempo di farlo, nonostante le urgenze del momento (che non erano del resto minori nel dopoguerra), e selezionando a questo scopo le sue energie migliori, e, senza timore di chiamarle tali, le sue elites.
Questo il compito: ma a chi affidarlo? Chi ne ha la consapevolezza?
Nella situazione di crisi che il Paese sta attraversando, appare chiaro che la coalizione di centro-destra, incapace di governare la situazione economica, di avanzare una seria proposta politica, e soffocata dagli scandali che coinvolgono il suo leader e il suo entourage, è in perdita netta di credibilità e di consenso. Nello scenario da essa prefigurato il problema era solo quello di rimanere al potere fino alla scadenza naturale del 2013, nella speranza di riuscire a recuperare qualche margine di consenso, che non la condannasse all’uscita dalla storia del Paese non solo con una rovinosa sconfitta, ma con ignominia, nel discredito morale e nel fallimento materiale. Ma, come vediamo in questi giorni, questo scenario, fino a ieri il più probabile, non tiene più, complice anche l’ormai irrecuperabile – con questa leadership – discredito internazionale. I mal di pancia della Lega, la sempre possibile escalation degli scandali e di un intervento ulteriore della magistratura, nonché il precipitare della crisi stessa anche a causa della perdita verticale di fiducia nel Paese sia da parte dei mercati che delle istituzioni internazionali, hanno fatto finire – nei fatti – questa legislatura. Il Paese tutto ormai sembrava vedere la scadenza naturale del governo e della legislatura come un traguardo lontanissimo e non auspicabile: troppo lontano per quel colpo di reni di cui l’Italia ha bisogno subito, come ormai dicono chiaramente le associazioni imprenditoriali e la stessa stampa filo-governativa. Il che rende possibili altri scenari: un governo tecnico, di transizione, che faccia le riforme fondamentali, tra cui quella del sistema elettorale, e quindi nuove elezioni; o addirittura elezioni subito, che tuttavia nessuno sembra veramente volere, nemmeno da parte dell’opposizione.
Ma tutto questo non basta. Occorre, oggi, sia guardare al breve termine, alla situazione immediata, sia ‘pensare lungo’, attraverso un salto di qualità impossibile da chiedere all’attuale ceto politico, e tuttavia irrinunciabile e non più rinviabile: pensare il nuovo patto sociale, ripensare il Paese, ricostruirne le fondamenta.
Come, con chi, attraverso cosa, lo vedremo nella prossima puntata.
1 – continua
Allievi S. (2011), Prima puntata. Una nuova costituente: Cosa bisogna fare oltre la crisi di Berlusconi, in “Il Mattino”, 9 novembre 2011, p. 15

Il Pd impari presto ad ascoltare (Le iniziative dal basso nel Pd)

E’ indicativo il riflesso condizionato liquidatorio di una parte della dirigenza del PD di fronte alla voglia di cambiamento che emerge al suo interno.
Sono giovani? In realtà non è vero, sono vecchi dentro. Hanno idee nuove? No, in realtà è roba anni ‘80. Pongono un problema di leadership e di ricambio? Sono presuntuosi e arroganti. Vogliono contare, e per farlo si rivolgono direttamente al pubblico, senza passare per le assemblee di partito, dove peraltro non si decide nulla perché tutto è già deciso? Sono sleali. Hanno idee che piacciono o interessano anche fuori del partito? Allora sono di destra (come se si potesse vincere con i voti e il consenso dei soli duri e puri).
Solo nel mese di ottobre ci sono stati diversi incontri significativi. Quello ‘ortodosso’ organizzato a metà mese da Zingaretti e soci. Quello più ‘movimentista’ organizzato a Bologna la settimana scorsa da Civati e Serracchiani. Quello, molto più mediatizzato, organizzato da Renzi a Firenze questa settimana. E in mezzo un documento ‘liberal’ di trentenni del partito. Tutti lì a impegnarsi per dire la loro, spiegare cosa pensano, in cosa credono e cosa vorrebbero fare: dentro e per il PD. Decine di migliaia di persone che si muovono per l’Italia per incontrarsi e produrre nuove idee, che leggono, scrivono, si documentano, si ritrovano in rete, si scambiano informazioni, cercano di far arrivare la loro voce al vertice del partito e al di fuori dei suoi steccati, che si impegnano. E il ceto dirigente come risponde? Impaurito, incapace di sintonizzarsi, infastidito perché non si rispettano i sacri rituali e il sacro ruolo dei sacerdoti di sempre.
Chiunque avesse un minimo di intelligenza politica correrebbe in giro per l’Italia ad incontrarli e ad ascoltarli, considerandoli risorsa pubblica e bene comune: grato per quel che stanno facendo. Cercherebbe di coinvolgerli, di dar loro uno spazio per elaborare insieme un progetto: perché lì dentro c’è il meglio della cittadinanza attiva, e anche della militanza PD, altrimenti ridotta a semplice cinghia di trasmissione di decisioni prese altrove, a megafono di voci che partono sempre dall’alto verso il basso, mai viceversa.
La vera sfida culturale per il Partito Democratico, e la sola sua possibilità di rilancio politico, sta nella capacità di ascolto, di incontro, di elaborazione, che questa mobilitazione, in tutte le sue espressioni, manifesta. Se c’è questo fiorire di iniziative, è perché ce n’è bisogno, e la gente si crea da sola le risposte ai suoi propri bisogni. Specie se non le trova altrove. Se, per dirne una, nelle sezioni del partito di queste cose non si discute, o comunque si ha la sensazione che sia così. Se quando una proposta non viene dal vertice non ha canali per emergere e non viene ascoltata. Se una richiesta di coinvolgimento e di partecipazione, per farsi udire, deve passare per i giornali o per facebook, e per qualche forma di dissenso, perché altrove è possibile solo il consenso conformista o il silenzio. Gli iscritti diminuiscono, mentre i partecipanti a questi eventi e a questi movimenti aumentano? Forse vuol dire qualcosa. Forse c’è un motivo, o probabilmente più di uno.
Tutto questo è vero a livello nazionale come a livello locale. O il PD ricomincia ad ascoltare coloro che lui stesso aveva scelto come propri referenti e sostenitori, quando ha inventato un nuovo partito e un nuovo modo di fare politica (coinvolgendo davvero il meglio della società civile che gli è vicina, sia nella fase di progettazione che in quella di selezione della leadership: attraverso primarie vere, aperte, in cui il partito non si schiera per default con la classe dirigente in sella). O dovrà rassegnarsi alla gestione dell’esistente, e a un lento declino. E a una sempre più vivace concorrenza.
Stefano Allievi
Allievi S. (2011), Il Pd impari presto ad ascoltare (Le iniziative dal basso nel Pd), in “Il Mattino”, 1 novembre 2011, pp. 1-11

Che cosa c’è dietro le risa dell’Europa (Sarkozy-Merkel)

Vale la pena di vederlo, il video in cui Sarkozy e la Merkel rispondono alla domanda sull’affidabilità dell’Italia. Non c’è solo il sarcasmo e l’arroganza del presidente francese, e la più contenuta ironia della cancelliera tedesca. In quei sorrisi non celati, e nelle risate più crasse dei giornalisti presenti in sala stampa, in conclusione di un vertice europeo cui pure l’Italia aveva partecipato, c’è l’immagine di una tragedia italiana. Una tragedia italiana, sottolineiamo, non solo una tragedia nazionale, per l’immagine dell’Italia nel mondo in quanto stato-nazione: rispettato o, come in questo caso, irriso.
Il fatto è che da sempre la storia italiana è una storia in cui il potere straniero, in questo caso l’Europa, è sì dominante e paternalista, ma anche occasione di riscatto. Andando a ritroso lo vediamo con chiarezza, quanto l’esistenza dell’Europa sia stata per l’Italia occasione e in certa misura scusa positiva per i propri scatti di modernizzazione. Non ci sono solo i tre giorni di tempo (tre giorni!) dati oggi all’Italia per mandare i segnali di rigore e di riforma strutturale che l’Europa ci chiede per finanziare il nostro deficit e, auspicabilmente, la nostra ripresa: anticipati di poco dalla lettera con cui la BCE, nella persona dell’italianissimo Mario Draghi, ci metteva, come lo stesso Berlusconi ha ammesso, sotto tutela, dettandoci l’agenda delle cose da fare. Anche i precedenti governi di Prodi e Amato hanno trovato nell’Europa, nei vincoli da questa richiesti, l’occasione per i loro risultati migliori, come l’ingresso nell’area dell’euro. E qualunque imprenditore o attore sociale sa assai bene quanto il richiamo alle direttive europee – e spesso alle sanzioni che l’Europa ci commina per il loro mancato rispetto, anche quando vengono ratificate per tempo – sia stato e sia ancora una spinta potente alla modernizzazione del Paese. E’ così dall’origine, del resto: lo stesso De Gasperi sapeva quanto il nostro essere tra i Paesi promotori e fondatori delle primissime istituzioni europee sarebbe stato determinante per lo sviluppo dell’Italia, e premessa alla sua crescita anche economica, nonostante l’arretratezza istituzionale che allora come oggi ci penalizzava: una sponda indispensabile nell’incapacità di farcela da soli, di superare i propri ostacoli interni, le proprie inerzie, i propri atavismi.
Quella odierna è tuttavia un’umiliazione che fa male. Chiunque di noi si trovi a frequentare consessi internazionali di qualunque tipo (economici, finanziari, scientifici, professionali), o si incontri qui con interlocutori di altri Paesi, ha sperimentato l’acuta sofferenza con cui ci si trova ad affrontare l’inevitabile conversazione sulla situazione italiana. E spesso ha praticato l’arte dell’anticipazione dell’argomentazione altrui, e dell’ironia preventiva, per risparmiarsi il sarcasmo pesante o, nei casi migliori, l’incredulità attonita dei propri interlocutori. Il fatto è che si tratta spesso di consessi di eccellenza, in cui gli italiani sono presenti in gran numero, ma rappresentati da un’immagine della vita politica e istituzionale men che mediocre. Questa condanna a essere i rappresentanti migliori dell’Italia peggiore gli italiani la conoscono bene. Il semplice fatto che questi italiani esistano è la prova che l’immagine di chi rappresenta il Paese non ne è lo specchio fedele, nonostante quanto spesso si dice su questo presunto rispecchiamento. Il fatto, ad esempio, che frotte di italiani continuino a fare carriera all’estero, dopo non esserci riusciti in Italia, ma a seguito di una formazione dopo tutto ottenuta proprio in questo Paese, è segno che qualcosa o molto funziona, o funzionerebbe; ma il fatto che siano costretti ad andare all’estero per veder riconosciuti i propri talenti (che non sono solo individuali: sono anche frutto di sottosistemi efficienti) è la prova provata del disfunzionamento più complessivo del sistema-Paese.
Certo, Berlusconi ci ha messo molto del suo per rovinare la nostra immagine all’estero: con le sue prodezze nella vita privata, ma anche per il suo comportamento pubblico, incluso, in particolare, proprio ai vertici europei e internazionali, dove la sua presenza ha spesso prodotto divertito imbarazzo nei casi migliori, e sciagurate figure in quelli peggiori. E già questo dovrebbe far riflettere seriamente i gruppi di interesse, anche internazionalizzati, che contano qualcosa nel nostro Paese: sulla loro inazione passata, se non altro. Ma farebbe un grave errore una certa opinione progressista e anti-berlusconiana, come ha spesso fatto in passato, a cavalcare la tigre delle reazioni internazionali, e a peggiorarne o a moltiplicarne l’effetto, come sbaglia oggi la destra ad attaccare con argomentazioni scioviniste lo sciovinismo francese. Il danno, in ogni caso, è di tutti.
Stefano Allievi
Allievi S. (2011), Che cosa c’è dietro le risa dell’Europa (Sarkozy-Merkel), in “Il Mattino”, 25 ottobre 2011, pp. 1-4 (anche “Il Piccolo”, “Nuova Venezia”, “La Tribuna di Treviso”, “Messaggero Veneto”)