Il coraggio dei cristiani

La strage di Natale in Nigeria è solo un fatto tra tanti. Più simbolico di altri, certo: morire perché cristiani nel giorno in cui si ricorda la nascita di Cristo. Ma un episodio insieme a molti altri: che dal Pakistan alla Somalia, dall’Iraq alla Cina, dalla Colombia alle Filippine, dalla Corea al Sudan, dall’Arabia Saudita all’Honduras, dal Congo alla Turchia, dal Brasile alla Palestina, dove Cristo è vissuto e si è annunciato al mondo, testimoniano di come essere cristiano oggi possa ancora essere un segno di contraddizione e, incidentalmente, un mestiere pericoloso.

Ce ne accorgiamo poco, e prestiamo a questi episodi una attenzione distratta. Dopotutto non ci riguardano: qui da noi essere cristiano, per molti, è troppo spesso una comoda identità, qualche volta persino un business o una rendita politico-culturale. E per quelli per cui è un costo, una scelta scomoda, c’e più spesso il silenzio. O le luci del martirio quando ormai è troppo tardi. Del resto da noi la Chiesa, nella sua parte più visibile, è istituzione, potere, denaro persino; è in quella invisibile, quella che non fa notizia, che bisogna cercare più spesso il lievito del pane, il sale della terra: chi si occupa degli ultimi, chi è vicino a chi soffre, o a chi ha fame e sete di giustizia.

Ecco, i massacri di cristiani qualunque in paesi qualunque ci ricordano che essere cristiani è, dovrebbe essere, potrebbe essere, una scelta radicale, una testimonianza esplicita, un richiamo forte. Non un dichiararsi tiepido, un ricordarsi appena appena, nei giorni comandati. O, come in certa politica nostrana, che in questo è specchio fedele della nostra società, baciare un anello cardinalizio, ossequiare una porpora, mendicare la stretta di mano di una qualche autorità ecclesiastica. Non per caso nel nostro Parlamento e nel nostro Governo il tasso di clericalismo è spesso inversamente proporzionale alla fede, e quelli che più ci tengono a dichiararsi cristiani sono quelli che meno bazzicano le opere pie, del resto assai scomode: non solo c’è da dare da mangiare all’affamato e da bere all’assetato (che si può risolvere in maniera moderna e pulita con un obolo a un qualche ente assistenziale), ma anche da visitare l’ammalato e il carcerato e peggio ancora ospitare il forestiero, come meno volentieri si ricorda.

Altrove è diverso. Altrove, per il semplice fatto di essere cristiani, si può morire. Come vittime innocenti, o come testimoni attivi di fronte all’ingiustizia: vittime di poteri economici, di potentati politici, di squadroni della morte, ma anche solo di invidie di vicinato, di gelosie strumentalizzate e sobillate ad arte. Con targa religiosa, islamica spesso (anche se quelle che scambiamo per guerre di religione sono più spesso guerre tra poveri), o semplicemente al soldo del potere. Gli episodi di persecuzione che ricordavamo non sono solo testimonianze che la Chiesa perseguitata esiste, che il martirio è d’attualità oggi come duemila anni fa. Ci ricordano anche che essere cristiani, se lo si vuole, significa davvero qualcosa. E qualcosa di importante, se il suo valore – non il suo prezzo – è ancora quello della vita.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Il coraggio dei cristiani, in “Il Piccolo”, 29 dicembre 2010, pp. 1-2

anche come Allievi S. (2011), Essere cristiani, un mestiere pericoloso, in “Il Mattino”, 4 gennaio 2011, p. 39 (anche “La Nuova di Venezia” p. 34 e “La Tribuna di Treviso” p. 39)