Stefano Allievi
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Non ci sono più le classi? Eppure aumentano le diseguaglianze…

01/09/2021/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da Augusta

La lotta di classe non c’è più. Ma le classi ci sono più di prima. È uno dei tanti paradossi della nostra epoca: le diseguaglianze non sono mai state così grandi (e ci sono tutte le condizioni perché aumentino ulteriormente), ma le vediamo molto meno, o per essere precisi percepiamo molto meno la loro gravità, il loro scandalo. O le chiamiamo diversamente. O ce ne interessano altre.

Più che differenze di classe, si tratta di vere e proprie polarizzazioni di condizione. Una, più visibile perché per certi aspetti è sotto i nostri occhi, riguarda quella che David Rothkopf chiama la superclass: i superricchi (di alcuni dei quali, ma solo alcuni, conosciamo nome e storia), il famoso 1% che possiede più del restante 99%. Nei loro confronti, a differenza che in passato, c’è più invidia e identificazione che rabbia sociale e protesta. Vivono in un mondo a parte, in cui la ricchezza si riproduce quasi da sola ed è tassata molto meno della povertà o della limitatezza altrui: ma non si sentono i clangori di nessuna rivoluzione a contestare questo status quo. Giusto un po’ di allarme sociale, ma niente di più significativo: tanto che si minaccia poco, e ancor meno si usa, la repressione, contro quel po’ di rivendicazione che circola qua e là. L’altro polo si vede ancora meno: è composto dalla underclass, il sottoproletariato globale di cui si è cominciato a parlare già negli anni Sessanta, composto da disoccupati, sottoccupati, lavoratori in nero, marginali, devianti e fuoricasta, che popola le nostre periferie e il backstage di lavori e luoghi anche molto visibili, ma in maniera nascosta, discreta – fa notizia solo quando, di rado, lo si incrocia per le strade del centro, nelle sue forme talvolta folcloristiche e talaltra drammatiche, ma per il resto non ha voce e nemmeno immagine. In mezzo un enorme ceto medio e medio-basso, in parte impoverito o meno garantito, e dunque impaurito, al limite tra in-group e out-group: se non fattualmente, simbolicamente, o come prospettiva possibile. Li dividono muri materiali e immateriali, che separano quartieri, vite, destini, futuri possibili: più visibili laddove le diseguaglianze sono più marchiane e arroganti, come in certe città latino-americane in cui la segregazione spaziale tra favelas e quartieri centrali è sancita da muri di mattoni, filo spinato e guardie private; più solidi e invalicabili ma meno visibili laddove sono mascherati da stili di vita diversi e semplice separatezza tra tribù metropolitane.

Non ci sarà un ritorno della lotta di classe come l’abbiamo conosciuta, e talvolta desiderata, nel Novecento. Perché non ci sono più le sue condizioni necessarie, come le aveva descritte Marx nell’Ottocento: concentrazione anche spaziale della classe operaia,  sua omogeneità interna (in termini di salario e condizione materiale di vita), eterogeneità visibile tra le diverse classi, esistenza di barriere rigide tra di esse (riconducibili a due, come noto, per Marx). Mobilità e quindi possibilità di passaggio dall’una all’altra, eterogeneità delle condizioni, dispersione, non aiutano e forse non consentono proprio più l’elaborazione di una qualche coscienza condivisa di classe. Tuttavia le divisioni resteranno, o aumenteranno. Perché resteranno, e aumenteranno, le diseguaglianze strutturali: sia quelle distributive, legate all’ammontare delle ricompense materiali e simboliche di individui e gruppi, sia quelle relazionali, oggi ancora più cruciali, che hanno a che fare con il patrimonio di relazioni e i rapporti di potere. E forse potrebbero portarci di nuovo vicino all’intuizione marxiana dell’esistenza di due sole classi sostanziali, come ha prefigurato Harari in Homo deus: una elite di superuomini potenziati e una massa di individui progressivamente meno utili, quando non francamente superflui – se non come consumatori – perché tra loro fungibili e sostituibili con maggiore efficacia da una macchina (e non illudiamoci che ci si riferisca solo alla maledizione del lavoro manuale e ripetitivo: anche una diagnosi medica la farà meglio un computer). Ma se anche non ci sarà conflitto tra le classi, resteranno altre forme di ineliminabile conflitto: solo, indirizzato, magari ad arte, in direzione dell’appartenenza etnica, della religione, della cultura. E ammorbidito dalle molte forme di circenses digitali, inventate dai superuomini ma a disposizione anche dei superflui.

 

Senza classi, in “Confronti”, n. 9, settembre 2021, p.38, rubrica “Il mondo se…”

https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2021/09/images.png 232 217 Augusta https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2019/12/logo.png Augusta2021-09-01 14:15:092021-09-01 14:18:11Non ci sono più le classi? Eppure aumentano le diseguaglianze...

Perché il tema delle migrazioni è così divisivo fra i credenti?

27/08/2021/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Religione / Religion Articles, Religione / Religion /da Augusta

Ho dedicato alle migrazioni oltre trent’anni di studi, ricerche, libri, insegnamento, attivismo politico e animazione sociale. Eppure non ho ancora una risposta alla domanda che mi è stata posta, e che trovate nel titolo. O ne ho molte, ma tutte parziali.

La prima è che non esiste più alcuna omogeneità di pensiero sociale, a maggior ragione politico, tra i cattolici. Inevitabile quindi, normale, e anzi benefico che ci siano posizioni diverse: non solo tra i credenti, del resto. In una società culturalmente plurale, secolarizzata e frammentata, le divisioni non separano più le identità, ma le attraversano.

Le migrazioni sono una questione di dibattito più calda di altre, fortemente mediatizzata e politicamente strumentalizzata, e quindi maggiormente divisiva. Per questo motivo cerco di non fare ricorso solo a valori, ideali, riferimenti scritturali o di magistero, per parlarne. Non perché non siano importanti: lo sono eccome. Ma perché, quando vengono proposti come tali nello spazio pubblico, convincono solo i già convinti. Non sarà un documento della Santa Sede, un’esortazione del papa, un’omelia domenicale sui princìpi, a convincere nessuno: quelle sono occasione preziosissime per ribadire e approfondire, per rassicurare e motivare più saldamente i già convinti e i già impegnati. Agli altri, anche dei nostri (supposto che l’espressione abbia un senso: le identità e le appartenenze sono anch’esse plurali, intermittenti, reversibili – nessuno è mai cattolico e basta), nelle parrocchie e nell’associazionismo, non bastano le parole d’ordine o le esortazioni (“Ama il prossimo tuo…”), dobbiamo spiegare cosa succede, ed è più complicato. O far leva sugli interessi, parola nobile ancorché svilita (deriva da inter-esse, “essere fra”: ciò che costituisce il legame sociale) – cosa che pochi sanno fare. O ancora, far sperimentare sentimenti, incarnando e incrociando esperienze vissute: il resto rischia di essere vuota e inefficace retorica.

Bisogna uscire dalla contrapposizione un po’ da tifo calcistico tra buonisti e cattivisti: entrambi presunti, dato che i primi non sono necessariamente buoni, e i secondi non così cattivi. E non è contrapponendo un omicidio perpetrato da o su un migrante, che si migliora il livello etico della società.

Penso che dobbiamo vivere e raccontare esperienze, e inanellare ragionamenti pacati, senza spirito giudicante. Anche perché di errori ne hanno fatti tutti, anche coloro che si autocollocano nel campo dei buoni (“chi è senza peccato…”). Da molti anni, per spiegarlo, equiparo l’immigrazione a un matrimonio: funziona solo se lo vogliono entrambi i contraenti. E da sempre penso che dovremmo spendere metà delle nostre risorse, tempo, denaro, intelligenza, ad aiutare gli immigrati a inserirsi, e l’altra metà a spiegare agli autoctoni cosa sta succedendo, perché e quali ne sono i vantaggi. L’ascolto delle posizioni altrui – ecco, quello sì – aiuterebbe a rendere la questione meno divisiva. Si faccia un esame di coscienza chiunque di noi, e qualunque associazione, rispetto all’impegno investito in questo sforzo: anche se ci sono molte giustificazioni (l’urgenza, l’emergenza – ma ormai sono quarant’anni che ci sono le immigrazioni…).

Personalmente (e non sono il solo) ci sto provando costruendo una diversa narrazione, più “larga” e comprensiva[1]. Raccontando la storia e l’attualità della mobilità umana (di cui le migrazioni nelle varie direzioni sono solo una parte, e correlata con altre: turismo, affari, studio, curiosità…). Esplicitando cos’hanno in comune emigrazione e immigrazione, e cosa le lega (il che ci aiuterebbe a capire che è normale che la Germania sia contemporaneamente il primo paese europeo per immigrazione e pure il primo per emigrazione, cosa meno nota). Mostrando i legami con la nostra demografia: in questo momento il rapporto tra lavoratori è pensionati è 3 a 2, nel 2040 sarà 1 a 1, e nessuna pur necessaria politica a favore delle famiglie potrà mai riempire quel buco. Spiegando che gli emigranti sono più degli immigrati, e non c’è quindi nessuna invasione in corso. Che tutelando i diritti degli immigrati (ad esempio a un giusto salario) tuteliamo anche i nostri. Dettagliando che gli stranieri sono indispensabili in molti lavori (badanti e colf; bracciantato ma anche ruoli specializzati in agricoltura – impensabile oggi non sono la raccolta del pomodoro, ma la produzione del parmigiano e degli insaccati, senza di loro; manovalanza in edilizia; operai nell’industria; magazzinaggio nell’industria e la logistica; pulizie negli alberghi, negli uffici, nelle case; ristorazione e alberghiero); e non portano via il lavoro a nessuno: al contrario, lo creano (l’80% degli stranieri è operaio – non sarebbero sostituiti dall’80% di persone che entrano nel mercato del lavoro, che sono almeno diplomate, aspirano ad altri mestieri, e nel caso preferiscono l’emigrazione; mentre la presenza nel settore pubblico è dello 0,01%). Mostrando che innalzando muri ci ritroviamo chiusi dentro, e non possiamo più uscire se li innalzano altri. La convivenza aiuta a far capire il resto: il 15% di matrimoni misti mostra quanto, oltra alla fetta di società che non capisce e rifiuta la diversità, ce n’è ormai un’altra a cui piace così tanto che se la sposa. Le dinamiche che coinvolgono le scuole e le nuove generazioni (e i luoghi di integrazione, dallo sport agli oratori) ci mostrano un nuovo mondo.

Forse solo così, coniugando valori e ragione, interessi ed esperienze, potremo rendere l’immigrazione meno divisiva: o almeno passare più tempo a risolvere problemi che non a innescare conflitti. Scoprendo che le soluzioni sono spesso più semplici di quel che crediamo. E fare lo sforzo di proporle e di discuterle, ascoltando le posizioni diverse, è già un primo passo.

Stefano Allievi, sociologo

Perché il tema delle migrazioni è così divisivo fra i credenti?

Lettera diocesana_Sguardi_2021/07

Mensile di comunicazione della Chiesa padovana

[1] Un esempio in Torneremo a percorrere le strade del mondo. Breve saggio sulla mobilità umana, UTET, 2021
https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2020/05/fabrica-tutti.jpg 1103 1654 Augusta https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2019/12/logo.png Augusta2021-08-27 15:16:442021-08-27 15:19:57Perché il tema delle migrazioni è così divisivo fra i credenti?

Afghanistan: quel che possiamo fare

20/08/2021/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society, Uncategorized /da Augusta

L’avventura afghana è finita male, malissimo. Per l’Afghanistan, in primo luogo. E per l’Occidente, che nonostante il tempo impiegato, il cospicuo investimento economico e militare, e nel nostro caso il dignitoso comportamento del contingente italiano, che ha contato i suoi eroi e le sue vittime, vedrà purtroppo crollare la sua credibilità sul piano geopolitico e su quello morale.

È una sconfitta, inutile girarci intorno. C’è un solo modo per salvare il salvabile della nostra dignità, della nostra coscienza, delle ragioni dichiarate della nostra presenza lì: aiutare gli afghani. Per l’Afghanistan come stato non possiamo fare più nulla, almeno nell’immediato. Ma per i singoli cittadini di quel martoriato paese possiamo fare ancora molto.

La prima cosa è far entrare in Italia tutti quelli che hanno collaborato a vario titolo con il contingente italiano, hanno fatto da interpreti ai nostri giornalisti, hanno lavorato con le nostre ONG, e i parenti a rischio di chi è già qui, integrato da noi (come avvenuto nel caso di Zahra Ahmedi, che ha raggiunto il fratello ristoratore a Venezia – e, non ne dubitiamo, si integrerà benissimo – grazie a una mobilitazione e a una solidarietà corale, dal presidente della regione Zaia in giù). Lo abbiamo promesso, e dobbiamo agire di conseguenza, e in fretta: come già si è cominciato encomiabilmente a fare. Di conseguenza occorre sospendere la richiesta dei visti d’ingresso, e implementare il ponte aereo già attivato.

Più in generale, occorre aprire corridoi umanitari mirati, in particolare per le categorie più a rischio: giovani donne, minoranze etniche, attivisti e attiviste. Chi ne ha già esperienza (Sant’Egidio, la chiesa cattolica e quella valdese) si è detto pronto ad agire: dietro di loro c’è un tessuto di volontariato e società civile attivo ed efficiente, che ha già dato ottima prova di sé per le altre persone arrivate in questo modo, meglio e più velocemente integrate di coloro che passano per gli ex-Sprar, e a costo zero per lo stato. Le organizzazioni islamiche in Italia sono pronte a collaborare aggiungendo la loro rete di solidarietà. Si tratta di riprendere idealmente quanto fatto in passato per i boat people vietnamiti, con numeri più ampi (allora, poco più di quarantadue anni fa, furono 907 i profughi salvati dalla Marina Militare, mandata appositamente nelle acque del golfo del Siam), ma comunque sostenibili. L’ANCI (l’associazione dei comuni), e molti sindaci di diverso colore politico, si sono già detti disponibili ad attivarsi, ed è un segnale che va colto: le regioni potrebbero e dovrebbero agire per semplificare loro la vita, aggiungendo risorse proprie. Reti di famiglie, associazioni e ONG sono pronte a mettersi a disposizione per collaborare, con ospitalità, raccolte fondi, corsi di lingua, inclusione in attività associative, ecc. Si tratta di agevolare la gestione di queste iniziative, più che di attivarle.

Per quelli che sono già qui, ci sono poche precise cose da fare: sospendere l’esame delle richieste di asilo pendenti nelle commissioni, approvandole in blocco. E sospendere le espulsioni dei richiedenti asilo afghani non riconosciuti come tali. Anche per loro, famiglie e associazionismo, organizzati, potrebbe dare una grossa mano. Ma c’è spazio anche per altri attori sociali. Le università, che già attivano progetti di accoglienza di studenti rifugiati, possono lanciare un piano straordinario di ospitalità di studenti e studentesse, e anche di docenti, provenienti dall’Afghanistan: il modo migliore per combattere la guerra nel solo modo efficace – con l’istruzione, per ragazzi e ragazze, invece che con le armi. Fondazioni bancarie e mondo delle imprese potrebbero fare la loro parte, in maniera mirata, nel sostenere tali iniziative.

Infine, occorrerà continuare a sostenere i cooperanti e le associazioni italiane presenti nel paese, tra cui gli ospedali di Emergency, e chi lavora nel campo dell’istruzione e dell’empowerment femminile, almeno finché potranno svolgere il proprio ruolo, che oltre a essere prezioso in sé, se non altro riverbera un’immagine positiva dell’Occidente: la migliore diplomazia.

Non spenderemo più soldi in una opinabile missione di pace (solo la parola, peace enforcing, contiene una contraddizione patente). Sarebbe un segnale di maturità dirottarli per attività, come quelle descritte, che la pace aiutano davvero a costruirla.

 

Che cosa possiamo fare noi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 20 agosto 2021, editoriale, p. 1

https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2021/08/download-1-1.jpg 183 275 Augusta https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2019/12/logo.png Augusta2021-08-20 09:38:022021-08-20 13:21:41Afghanistan: quel che possiamo fare

Scuola e vaccini: e quello che manca

18/08/2021/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da Augusta

La categoria degli insegnanti si è già vaccinata in gran parte, quasi all’85%, pur con percentuali fortemente differenziate tra regioni (e polemiche sulle modalità di raccolta dei dati, che spesso non coincidono con quelli regionali): ai primi di agosto in Sicilia i non vaccinati risultavano essere il 43%, e il 37% a Bolzano, mentre sarebbero zero in Friuli e Campania – a testimonianza del fatto che non si tratta di una divisione tra Nord e Sud – con il Veneto che si colloca in alta classifica ma con margini da recuperare, con l’11% di mancanti all’appello. Gli studenti medi e superiori hanno cominciato a vaccinarsi appena hanno potuto, su base volontaria, nonostante non siano nemmeno maggiorenni. L’università, per il tramite della conferenza dei rettori, ha per prima esplicitamente richiesto il green pass obbligatorio per i docenti, il personale tecnico-amministrativo, e pure gli studenti, in questo caso maggiorenni. Con la serissima motivazione che un’istituzione che si basa su presupposti di scientificità non può consentire margini di ambiguità di fronte alla circolazione di posizioni non o anti-scientifiche: e scientificamente ci sono ottimi motivi (foss’anche solo probabilistici e statistici) per sostenere la ragionevolezza di una campagna di vaccinazione di massa, in modo da favorire la didattica in presenza.

C’è poi una motivazione che riguarda tutto il mondo dell’istruzione: che nasce per migliorare il livello di consapevolezza dell’intera nazione, aiutandola a raggiungere livelli sempre più alti di conoscenza. Deve dunque dare l’esempio, e non può permettersi di lasciare alla vaghezza di arbitrarie scelte individuali, dalle motivazioni spesso labili se non inconsistenti, ciò che riguarda il benessere sociale: in particolare dovendo garantire il diritto costituzionalmente statuito all’istruzione. In questo senso non vediamo differenze di merito con il personale sanitario, e semmai vorremmo che tale dibattito (e tale obbligo sostanziale) si allargasse dagli insegnanti ad altri servitori dello stato, pure essi erogatori di servizi pubblici essenziali – dai magistrati agli addetti al trasporto pubblico – di cui invece poco si parla.

Legittimare coloro che non si vogliono vaccinare per tutelare la propria salute individuale – da rischi peraltro largamente immaginari (e che sarebbero molto maggiori senza il vaccino) – significa implicitamente sottovalutare o peggio svilire l’impegno altruistico e civile di chi, pur correndo i medesimi (e peraltro ridottissimi) rischi, si è vaccinato in nome della salute pubblica, e in particolare dei più fragili e di chi non può farlo, che nella scuola sono in primo luogo gli studenti. In questo quadro anche la garanzia di tamponi gratuiti per il personale scolastico non vaccinato (ad oggi, oltre duecentomila persone), richiesta dai sindacati ma impedita da una ferma reazione dei presidi e da una sollevazione corale innanzitutto degli insegnanti vaccinati, sarebbe stata una inaccettabile presa in giro, che speriamo non si cerchi di aggirare con la scusa dei non vaccinabili. Anche perché sarebbe un sovraccarico di costi ingiustificato (una decina di tamponi al mese per ogni non vaccinato) in un settore che ha ben altri problemi e bisogni e necessità di spesa, e a fronte di un vaccino disponibile gratuitamente.

Non si tratta di una punizione, ma di un elementare principio di uguaglianza: anche di fronte alle responsabilità. E quello alla non vaccinazione non è un diritto, ma una scelta individuale, legittima in quanto tale, ma che necessariamente comporta dei costi e delle limitazioni: come, che so, non fare la patente, o non conseguire un titolo di studio, o non richiedere il passaporto.

Dopodiché, lo ripetiamo doverosamente: per la scuola non basta il vaccino. Occorrono investimenti: nuove scuole, meglio strutturate (con impianti di aerazione adeguati), più classi, con meno studenti, con più insegnanti, con maggiore formazione – a questo devono servire i soldi. Perché il gap da superare non è il Covid, ma il dislivello con altri paesi: la metà dei laureati e il doppio degli analfabeti funzionali della media europea (da noi il 30%). Un dato che non è per nulla estraneo al livello del dibattito: anche sui vaccini. Purtroppo l’intesa siglata al Ministero dell’Istruzione, su queste cose, dice ancora troppo poco.

 

La scuola e l’esempio da dare, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 18 agosto 2021, editoriale, p. 1

https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2021/08/images-1-1.jpg 183 275 Augusta https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2019/12/logo.png Augusta2021-08-18 08:54:302021-08-18 08:58:14Scuola e vaccini: e quello che manca

Di vaccini, tamponi e scuola

14/08/2021/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da Augusta

La categoria degli insegnanti si è già vaccinata in gran parte, pur con percentuali fortemente differenziate tra regioni. Gli studenti medi e superiori hanno cominciato a vaccinarsi appena hanno potuto, su base volontaria, nonostante non siano nemmeno maggiorenni. L’università, per il tramite della conferenza dei rettori, ha esplicitamente richiesto il green pass obbligatorio per i docenti, il personale tecnico-amministrativo, e pure gli studenti, in questo caso maggiorenni. Con la serissima motivazione che un’istituzione che si basa su presupposti di scientificità non può consentire margini di ambiguità di fronte alla circolazione di posizioni non o anti-scientifiche: e scientificamente ci sono ottimi motivi (foss’anche solo probabilistici e statistici) per sostenere la ragionevolezza di una campagna di vaccinazione di massa.

C’è poi una motivazione che riguarda tutto il mondo dell’istruzione: che nasce per migliorare il livello di consapevolezza dell’intera nazione, aiutandola a raggiungere livelli sempre più alti di conoscenza. Deve dunque dare l’esempio, e non può permettersi di lasciare alle scelte arbitrarie – e spesso alle sciocchezze senza fondamento e alle parole in libertà – individuali ciò che riguarda il benessere sociale: in particolare dovendo garantire il diritto costituzionalmente statuito all’istruzione. In questo senso non vediamo differenze di merito con il personale sanitario, e semmai vorremmo che tale dibattito (e tale obbligo sostanziale) si allargasse dagli insegnanti ad altri servitori dello stato, pure essi erogatori di servizi pubblici essenziali – dai magistrati agli addetti al trasporto pubblico.

Legittimare coloro che non si vogliono vaccinare per tutelare la propria salute individuale – da rischi peraltro largamente immaginari (e che sarebbero molto maggiori senza il vaccino) – significa implicitamente sottovalutare o peggio svilire l’impegno altruistico e civile di chi, pur correndo i medesimi (e peraltro ridottissimi) rischi, si è vaccinato in nome della salute pubblica, e in particolare dei più fragili. In questo quadro anche la garanzia di tamponi gratuiti per coloro che non si vogliono vaccinare è una presa in giro, che finisce per gravare sulle spalle di chi si è vaccinato. Sono oltre duecentomila gli insegnanti e gli operatori scolastici non vaccinati. Per poter lavorare a scuola bisogna avere un tampone che attesti la negatività al Covid nelle 48 ore precedenti – il che significa un tampone ogni tre giorni, dieci al mese o giù di lì. L’associazione dei presidi stima in duecento euro al mese e a persona il costo dei tamponi. Tutto ciò, quando il vaccino è gratuito. Quale che sia il costo, è quindi assolutamente incomprensibile, e inaccettabile, che chi si è vaccinato si debba pure far carico di tale onere: vorrebbe dire cornuti e mazziati. Il servizio sanitario lo garantisca gratuitamente per chi ha serie ragioni mediche per non vaccinarsi: e il resto sia a carico degli individui che liberamente scelgono di non farlo, e non soggetto a contrattazione che oltre tutto, come sempre, va ad avvantaggiare il pubblico impiego, solo perché paga Pantalone (dubitiamo che gli imprenditori privati possano essere costretti a pagare i tamponi ai loro dipendenti no vax, tanto più che l’INAIL riconosce il Covid come possibile infortunio sul lavoro).

Non si tratta di una punizione, ma di un elementare principio di uguaglianza: anche di fronte alle responsabilità. E quello alla non vaccinazione non è un diritto, ma una scelta individuale, legittima in quanto tale, ma che necessariamente comporta dei costi e delle limitazioni: come, che so, non fare la patente, o non conseguire un titolo di studio, o non richiedere il passaporto.

Dopodiché, lo ripetiamo doverosamente: per la scuola non basta il vaccino. Occorrono investimenti: nuove scuole, meglio strutturate (con impianti di aerazione adeguati), più classi, con meno studenti, con più insegnanti, con maggiore formazione – a questo devono servire i soldi. Perché il gap da superare non è il Covid, ma il dislivello con altri paesi: la metà dei laureati e il doppio degli analfabeti funzionali della media europea (da noi il 30%). Un dato che non è per nulla estraneo al livello del dibattito: anche sui vaccini.

https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2020/11/is-4.jpg 190 341 Augusta https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2019/12/logo.png Augusta2021-08-14 17:01:342021-08-14 17:01:34Di vaccini, tamponi e scuola

Il ruolo educativo di Gino Strada e di Emergency

14/08/2021/in Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Uncategorized /da Augusta
Catania, incontro nazionale di EMERGENCY, 2019: decine di eventi, centinaia di volontari, migliaia di giovani. L’organizzazione compiva allora 25 anni, ed era al suo 18° incontro nazionale. Poco più che maggiorenne, insomma.
C’è anche questo nella storia di Gino Strada e di Emergency: l’elemento educativo. Non era e non è ‘solo’ (solo?) questione di aiutare chi ha avuto meno privilegi non giustificati da nulla, di salvare – molto concretamente e materialmente – vite umane ferite, non solo nel corpo. È stato ed è anche questione di coinvolgere persone e personaggi, di creare consapevolezza, di motivare azioni e collaborazioni, di far maturare solidarietà collettive.
In questo il carisma di Gino Strada, il suo ‘estremismo’ costruttivo, il suo essere forse suo malgrado personaggio ‘pop’, anche se preferiva di gran lunga tornare in sala operatoria, hanno aiutato molti, proprio sul piano educativo, della maturazione, del convincimento, del cambiamento anche interiore.
In un mondo che ha un disperato bisogno di simboli positivi, di esempi, di eroi anche, Gino Strada ha giocato questo ruolo: soprattutto in ambienti dove forse era meno usuale – dove c’era magari tanta disponibilità umana ma poche occasioni per esercitarla concretamente. E lo ha giocato perché non è stato solo un individuo più in gamba di altri, ma ha fatto nascere un’organizzazione, un marchio del bene se si vuole, un brand positivo, che ha consentito a tanti di sentirsi coinvolti e di coinvolgersi. Che è uno dei ruoli fondamentali dell’educazione propriamente intesa.
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Il vaccino come questione generazionale

13/08/2021/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da Augusta

Le minoranze rumorose hanno – sempre – più visibilità delle maggioranze silenziose. Perché i membri delle prime urlano, e sono ascoltati giocoforza di più, mentre gli altri tacciono o pacatamente ragionano.

A proposito dei vaccini ci troviamo spesso di fronte a posizioni settarie e militanti (parole di derivazione, rispettivamente, ecclesiale e guerresca). Persone che si sentono portatrici di una qualche verità esoterica, nota a pochi eletti, da propagandare muscolarmente: atteggiamento diffuso tra i no vax, e purtroppo condiviso da alcuni pro vax, che si fanno promotori della verità minuscola e provvisoria elaborata dalla scienza, ma con la posa assertiva di chi la scambia con la verità maiuscola. Le due logiche non sono tuttavia uguali nel merito: la seconda ha dietro di sé ragioni e principi, un metodo validabile e prove empiriche a sostegno, vantaggi sociali e interessi collettivi da tutelare, la prima ha soprattutto controverità inaffidabili, prove empiriche improbabili, nessuna proposta di metodi alternativi validabili, e una ideologia di supporto vagamente anarco-libertaria, in cui conta l’ubbia o il dubbio del singolo, mentre l’interesse collettivo non è mai nominato. In mezzo c’è tuttavia il gran numero di chi magari qualche dubbio ce l’ha, timori anche, ma alla fine si convince e disciplinatamente si vaccina, considerando il vaccino (e il green pass che lo rende vincolante per molte necessarie attività) – con ragione – se non il bene assoluto, almeno il male minore e il vantaggio più probabile. A loro vanno indirizzate spiegazioni comprensibili, conferme attendibili, una valutazione pragmatica delle misure adottate e, nel caso, l’ammissione degli errori commessi. È a questi infatti che dobbiamo parlare, perché è all’interno di questa maggioranza silenziosa che ci sono anche coloro che sono ancora da convincere.

Tra costoro, in particolare, i due milioni di ultra-cinquantenni che continuano a posporre la scelta del vaccino. Alcuni, specie tra i più anziani, perché non sono in grado (anche solo materialmente: perché isolati, incapaci di usare un computer…) di organizzarsi, e di essere raggiunti dall’informazione o dalla possibilità concreta di vaccinarsi – e qui devono intervenire le articolazioni dello stato. Molti, invece, per scelta culturale: e qui qualche considerazione in più va fatta. Di procrastinatori (non sempre espliciti no vax) ne ho incontrati molti anch’io. Persone mediamente istruite, spesso over 60 e over 70, soggettivamente privilegiate (senza particolari problemi, quando non benestanti), con una certa abitudine culturale a cercarsi verità alternative per lo più innocue (medicine alternative, religioni alternative, investimenti alternativi, candidati o partiti alternativi…). Anagraficamente, in buona parte figli del ’68: ma come temperie culturale respirata, non come impegno politico diretto (allora, anzi, magari avversato, o vissuto criticamente). Le discussioni avute con loro mi pare facciano emergere soprattutto un dato: l’assoluto individualismo, e l’incapacità di comprendere la dimensione del proprio privilegio. L’individualismo emerge nelle preoccupazioni stesse: i rischi che può avere il vaccino per me, i suoi possibili effetti collaterali sul mio stato di salute. La dimensione sociale, il vaccino come gesto altruistico, come segno di appartenenza, di compartecipazione, di solidarietà, di impegno civile, non compare mai – ognuno pensa solo a sé (in maniera cieca, peraltro: se tutti facessero così e nessuno si vaccinasse, sarei molto più in pericolo anch’io – ma la logica del battitore libero, del free rider, è quella di massimizzare il profitto individuale e minimizzare il costo, come chi non partecipa allo sciopero sapendo che beneficerà comunque dei vantaggi ottenuti in termini di aumento salariale). La dimensione del proprio privilegio ne consegue: la generazione più fortunata della storia, che ha beneficiato dei maggiori e più rapidi progressi, anche in termini di salute e aspettativa di vita, oggi nella grande maggioranza dei casi titolare di pensioni largamente superiori ai contributi versati, dunque di vantaggi che nessuna generazione successiva avrà (altri pagheranno i costi della immeritata fortuna o degli sprechi di chi li ha preceduti), si rifiuta di fare il minimo gesto civile della vaccinazione, a tutela della salute pubblica, per paura di intaccare la propria. Tanto le loro pensioni sono garantite, e il prezzo di un altro lockdown lo pagherebbero le generazioni successive.

La lezione etica maggiore, a loro, la stanno dando i giovani di generazioni che sanno già di essere meno fortunate, che si stanno vaccinando volontariamente a tutela di tutti (e in particolare proprio degli anziani più “egoisti”), pur correndo soggettivamente meno rischi. Non sappiamo se è una lezione che sarà compresa. Ma prima o poi da qualcuno se la sentiranno sbattuta in faccia. E sarà semplicemente giusto.

 

Quel mondo di mezzo “ni” vax, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, “Corriere di Bologna”, 13 agosto 2021, editoriale, p. 1

https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2021/07/images.jpg 165 306 Augusta https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2019/12/logo.png Augusta2021-08-13 18:40:112021-08-13 18:43:24Il vaccino come questione generazionale

Quando la burocrazia funziona (inutilmente)

05/08/2021/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da Augusta

Un professionista padovano di una certa notorietà, la cui onorabilità è oggi giustamente macchiata da quanto diremo, ha ricevuto da un ente pubblico incaricato dei controlli sui versamenti (ma poteva essere un altro ente pubblico qualsiasi) una “nota di rettifica” per aver dichiarato un “importo non corrispondente” ai calcoli dell’ente suddetto. La nota, di cui siamo entrati fortunosamente in possesso e gelosamente conserviamo, e siamo nel caso in grado di produrre, è un documento di estremo interesse per comprendere gli abissi di immoralità che allignano nella società a seguito dell’abitudine alla scorrettezza o anche solo alla sciatteria amministrativa, ma anche la forza morale del riscatto imposto dal ripristino dell’etica pubblica.

L’errore, grave, che la nota evidenziava e che il professionista ha prontamente ammesso, cospargendosi metaforicamente il capo di cenere e provvedendo immantinente agli adempimenti relativi, corrispondeva a un ammontare di 0,01 euro a debito dell’azienda. Ad alcuni potrà sembrare veniale: ma se lasciassimo passare queste indebite violazioni, dove mai andremmo a finire?

Giustamente quindi sono state comminate sanzioni per ritardato versamento (“numero giorni 18 al tasso del 5,50%”) per un ammontare di ben 14,30 euro (con doverosa severità, 1.430 volte il valore dell’incauta violazione), e un conseguente importo totale a debito dell’azienda di 14,31 euro. Magnanimamente l’ente in questione ha offerto al professionista la possibilità di ottemperare al suo debito con la pubblica amministrazione con adeguata rateazione, ma il reo, consapevole della gravità del suo gesto e voglioso di riscatto, con impeto virile e uno scatto di volontà in un sol colpo ha deciso di saldare il suo debito con la giustizia e la sua colpa rispetto alla civile convivenza. A conti fatti, l’impresa che gestisce avrebbe saputo resistere all’imprevisto evento, e il vantaggio della correttezza e della trasparenza nei rapporti con l’ente, e la consapevolezza di avere cancellato un’onta che avrebbe potuto diventare indelebile, ha spinto a procedere per le vie brevi, senza nemmeno ipotizzare alcun tipo di eventuale contenzioso.

Siamo affascianti da questo meraviglioso esempio di acribìa burocratica, di un’efficienza dalle reminiscenze asburgiche, cha ci fa guardare con speranza e fiducia al buon funzionamento della macchina amministrativa. Neanche ci domandiamo quindi quanto è costata la pratica, all’ente e al professionista, anche solo in termini di tempo speso per il controllo e il successivo ravvedimento operoso: l’onestà e la correttezza valgono qualsiasi sacrificio per le casse pubbliche e per quelle private. Magari, soggettivamente – noi che siamo lontani dalle rispettabili e onerose incombenze del pubblico controllore – ci domandiamo quale è la vera motivazione alla base di un comportamento che, in ambiti alieni da queste alte responsabilità (l’economia reale o la famiglia, per dire) suonerebbe irrazionale, antieconomico, e addirittura comicamente assurdo. Ci possiamo soltanto immaginare la reazione dell’integerrimo impiegato di fronte a cotanta violazione. E il timore, forse, che a non rilevarla si rischi il controllo, la valutazione e la sanzione del proprio operato, quando non l’accusa di omissione di atto d’ufficio, e le conseguenti ricadute sul percorso di carriera.

Da cittadini e osservatori esterni, non direttamente coinvolti in questa sordida storia, possiamo solo essere felici: siamo assolutamente certi che l’ente in questione, e tutti gli altri, dedicano lo stesso tempo e le stesse se non maggiori attenzioni alle indagini su violazioni sostanziali e cospicue delle norme, anziché limitarsi a meri controlli formali sulle pratiche in essere. E di questo rispettosamente ringraziamo.

Il puntiglio asburgico per 0,01 euro, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 5 agosto 2021, editoriale, p.1

https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2021/08/download-2.jpg 168 299 Augusta https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2019/12/logo.png Augusta2021-08-05 11:46:172021-08-05 11:46:17Quando la burocrazia funziona (inutilmente)

Gli schieramenti pregiudiziali di Voghera

25/07/2021/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da Augusta

Da un lato la vittima perfetta: fastidioso, occasionalmente violento o comunque attaccabrighe, spesso alticcio, considerato un pericolo (anche solo perché orinava per strada o faceva apprezzamenti pesanti alle ragazze anche minorenni). La persona che nessuno di noi vorrebbe trovarsi sotto casa o al bar che frequenta. Per giunta straniero, immigrato, marocchino. Tutto, tranne che una figura difendibile, quindi: semmai il prototipo del rompiballe emarginato, ‘contro’ cui è facile identificarsi.

Dall’altro il colpevole che ci viene spontaneo considerare innocente: l’irreprensibile cittadino che vuole solo un po’ più di ordine e migliorare la vita degli altri, avvocato noto in città, con contatti professionali con le forze dell’ordine, seppure con l’abitudine inconsueta di girare armato e col colpo in canna, anche se non ne ha motivo, non correndo rischi personali o avendo subìto minacce. Un po’ giustiziere della notte su dimensione provinciale (gli amici commercianti lo chiamano se ci sono grane), un po’ aspirante supereroe: uno ‘con’ cui, a molti, viene altrettanto facile identificarsi. Figure assimilabili alla sua sono presenti anche dalle nostre parti, con amministratori “sceriffi” (che come lui si compiacciono di considerarsi tali: ignorando che la parola “sharif”, nella lingua della vittima, significa nobile, eletto) che hanno il porto d’armi, amano le ronde, e incidentalmente detestano gli immigrati, specie se importuni.

È questo il quadro che emerge dalle descrizioni di quanto accaduto a Voghera: la morte di un immigrato marocchino a causa di un proiettile sparato dalla pistola di un assessore leghista. Che, detta così, sembra una sceneggiatura persino banale.

Non ci interessa discutere il reato commesso, su cui non sappiamo e non possiamo né dobbiamo dire nulla, perché non è compito nostro. Se si tratti di eccesso colposo di legittima difesa, omicidio volontario o altra fattispecie di reato, lo deciderà la magistratura.

E non ci interessa la strumentalizzazione politica: il partito di appartenenza dell’assessore e la nazionalità della vittima (non a caso i suoi compagni di partito già hanno deciso che è innocente e i suoi oppositori che è colpevole; chi non ama gli immigrati che è innocente, chi li difende che è colpevole). L’essere diventati bandiera, che si tratti dello sparatore o dello ‘sparato’, è in un certo senso una complicazione non necessaria. E anzi, la strumentalizzazione a difesa dell’assessore che già monta finirà per giustificare, inevitabilmente, l’accusa di xenofobia contro di lui: fosse stato un cittadino italiano, nelle condizioni della vittima, la reazione sarebbe stata la stessa?

Altre cose, invece, ci interrogano di più: forse perché vanno oltre i protagonisti della vicenda, o perché sono dettagli che illuminano altre domande. Perché un assessore (che non è minacciato dalla mafia, e in una città che non è certo Los Angeles) gira armato e col colpo in canna, e se ne fa vanto, o almeno ostentata abitudine? Perché questo viene apprezzato dai suoi sostenitori, e non stigmatizzato dai suoi colleghi di governo? Da cosa discende quest’idea – forse questa granitica presunzione – di essere nel giusto perché si colpisce qualcuno che si presume non lo sia? Perché di fronte a un uomo ferito, che sarebbe morto di lì a poco, si sente il bisogno di chiamare la polizia e non anche il pronto soccorso? E come ci si sarebbe comportati a parti invertite: diciamo un marocchino sbandato che spara e uccide un assessore leghista che lo aveva aggredito? Come avrebbe reagito la politica, come se ne parlerebbe nei bar?

E ancora: perché si è arrivati a quest’atto finale? Cosa c’era (o cosa non c’è stato e avrebbe dovuto esserci) nel mezzo, che non ha funzionato? Perché la vittima era solo mal sopportata e non anche presa in carico, magari curata? Cos’hanno fatto o non hanno potuto o saputo fare i servizi sociali della giunta cui l’assessore apparteneva, o altre, poco importa?

Passi pure che sia stata, come si dice spesso in questi casi, una tragica fatalità. Ma forse uscire dalle estremizzazioni e dagli ideologismi, dalle difese e dalle accuse d’ufficio, ci aiuterebbe a farci almeno delle buone domande, senza pretendere di trovare subito delle soddisfacenti risposte.

 

Gli eserciti schierati a Voghera, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 25 luglio 2021, editoriale, p.1

https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2021/07/download-1-1.jpg 183 275 Augusta https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2019/12/logo.png Augusta2021-07-25 08:10:032021-07-25 08:10:03Gli schieramenti pregiudiziali di Voghera

Perché gli insegnanti (e altri) si devono vaccinare

09/07/2021/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da Augusta

Sono un insegnante, e un dipendente pubblico. Sono vaccinato. E credo dovremmo esserlo tutti. È per me motivo di orgoglio sapere che la stragrande maggioranza dei miei colleghi ha fatto la stessa scelta. E motivo di scandalo che una quota ancora troppo ampia non la faccia. Per questo trovo corretto ragionare su forme di incentivazione e di obbligo vaccinale.

La scuola è un servizio pubblico essenziale, indispensabile, ma prima ancora è un diritto, faticosamente acquisito nel tempo e costituzionalmente garantito. Ma è anche il settore (e bambini e ragazzi, la fascia di età) che ha pagato il prezzo più alto, in termini di chiusure, a seguito della pandemia. È impensabile che gli insegnanti, potendo (quindi esclusi coloro che hanno seri e dimostrabili problemi di salute), non si vaccinino. Tanto più nella scuola dell’obbligo, dove non si può pensare di vaccinare i ragazzi (non esistono ancora nemmeno vaccini per gli under 12); ma vale anche per ragazzi di altra età e nelle scuole di altro ordine e grado (anche se molti già si stanno vaccinando, avendo maturato contezza del problema: io stesso ho un figlio di quindici anni che ha scelto consapevolmente di vaccinarsi, e come genitori abbiamo condiviso la sua volontà).

Gli operatori sanitari, come noto, sono già obbligati a vaccinarsi. Credo che non solo gli insegnanti, ma tutte le categorie a contatto stretto con il pubblico – e tanto più se in servizi pubblici o pagati con denaro pubblico (dai magistrati agli addetti ai trasporti agli impiegati) – dovrebbero essere sottoposti a un trattamento simile, visto che siamo in presenza di un problema di salute pubblica. E che il servizio pubblico si fa carico di tutti, senza distinzioni e senza sovrapprezzi, come giusto che sia, quando si tratta di affrontare la diffusione della malattia e le sue conseguenze, oltre a farsi carico gratuitamente del vaccino. Se non con l’obbligo vaccinale esplicito, a cui non sarei contrario per principio, con altri mezzi cogenti e stringenti.

Sono abituato a rispettare forme di pensiero divergente e obiezioni di coscienza. Fin da quando ho scelto di essere – molti anni orsono – obiettore di coscienza al servizio militare. Ma sono abituato a pensare che le scelte di principio abbiano un prezzo, e valgano precisamente per questo. Nel mio caso, il rischio era di passare un equivalente periodo in carcere militare: allora avevo pensato di correrlo (anche se poi il ministero della difesa ha accettato la mia motivatissima domanda, e ho svolto un servizio civile, di lunghezza maggiore). Nel caso di cui stiamo parlando, il prezzo è inferiore. Essere destinato ad altre mansioni, se possibile: cercarsi un altro lavoro, se non possibile. O almeno accettare un periodo di sospensione dal lavoro senza stipendio e senza la maturazione di altri diritti collegati (anzianità, progressione di carriera, ecc.), finché la pandemia non sarà passata. Peraltro, penso che questo principio dovrebbe valere anche per altre forme di obiezione di coscienza (ad esempio, l’esclusione dai concorsi negli ospedali pubblici dei medici obiettori all’aborto, se servono ginecologi per i quali l’aborto è uno dei compiti). Del resto, chi non si vaccinerà pagherà comunque consapevolmente un prezzo, e accetta di farlo: nell’esclusione da eventi specifici, viaggi, residenze, vacanze, paesi, e dal moltiplicarsi della necessità di tamponi a pagamento (mentre il vaccino è gratis…) – non si capisce perché questa logica, accettata in altri settori, dovrebbe escludere la sfera lavorativa, tanto più in servizi pubblici essenziali.

Detto questo, per la scuola si aprono altre questioni. È giusto responsabilizzare i docenti (e indirettamente genitori e ragazzi) sulla vaccinazione. Ma ci si aspettano doverosi interventi almeno negli ambiti in cui la scuola ha competenza diretta: sugli impianti di ventilazione e di filtraggio dell’aria (o davvero immaginiamo che i ragazzi potranno stare in aula tutto l’inverno con le finestre aperte?), e sul potenziamento degli strumenti legati alla didattica a distanza (e la relativa formazione dei docenti, nonché la distribuzione di pc e tablet agli studenti che non ne dispongono) nel malaugurato caso in cui si sia obbligati a rinunciare, per qualche periodo, alla didattica in presenza. Ambiti in cui si è fatto ancora troppo poco: da parte delle scuole e delle istituzioni di governo nazionale e locale.

 

Perché non si può dire di no, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, “Corriere di Bologna”, “Corriere del Trentino”, “Corriere dell’Alto Adige”, “Corriere di Verona”, 9 luglio 2021, editoriale, p. 1

 

https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2021/07/images-1.jpg 176 287 Augusta https://stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2019/12/logo.png Augusta2021-07-09 09:50:562021-07-12 10:20:52Perché gli insegnanti (e altri) si devono vaccinare
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Stefano Allievi

E’ autore di oltre un centinaio di pubblicazioni in vari paesi e di numerosi articoli e interviste su dibattiti di attualità. Suoi testi sono stati tradotti in varie lingue europee, in arabo e in turco.

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