Afghanistan: quel che possiamo fare
L’avventura afghana è finita male, malissimo. Per l’Afghanistan, in primo luogo. E per l’Occidente, che nonostante il tempo impiegato, il cospicuo investimento economico e militare, e nel nostro caso il dignitoso comportamento del contingente italiano, che ha contato i suoi eroi e le sue vittime, vedrà purtroppo crollare la sua credibilità sul piano geopolitico e su quello morale.
È una sconfitta, inutile girarci intorno. C’è un solo modo per salvare il salvabile della nostra dignità, della nostra coscienza, delle ragioni dichiarate della nostra presenza lì: aiutare gli afghani. Per l’Afghanistan come stato non possiamo fare più nulla, almeno nell’immediato. Ma per i singoli cittadini di quel martoriato paese possiamo fare ancora molto.
La prima cosa è far entrare in Italia tutti quelli che hanno collaborato a vario titolo con il contingente italiano, hanno fatto da interpreti ai nostri giornalisti, hanno lavorato con le nostre ONG, e i parenti a rischio di chi è già qui, integrato da noi (come avvenuto nel caso di Zahra Ahmedi, che ha raggiunto il fratello ristoratore a Venezia – e, non ne dubitiamo, si integrerà benissimo – grazie a una mobilitazione e a una solidarietà corale, dal presidente della regione Zaia in giù). Lo abbiamo promesso, e dobbiamo agire di conseguenza, e in fretta: come già si è cominciato encomiabilmente a fare. Di conseguenza occorre sospendere la richiesta dei visti d’ingresso, e implementare il ponte aereo già attivato.
Più in generale, occorre aprire corridoi umanitari mirati, in particolare per le categorie più a rischio: giovani donne, minoranze etniche, attivisti e attiviste. Chi ne ha già esperienza (Sant’Egidio, la chiesa cattolica e quella valdese) si è detto pronto ad agire: dietro di loro c’è un tessuto di volontariato e società civile attivo ed efficiente, che ha già dato ottima prova di sé per le altre persone arrivate in questo modo, meglio e più velocemente integrate di coloro che passano per gli ex-Sprar, e a costo zero per lo stato. Le organizzazioni islamiche in Italia sono pronte a collaborare aggiungendo la loro rete di solidarietà. Si tratta di riprendere idealmente quanto fatto in passato per i boat people vietnamiti, con numeri più ampi (allora, poco più di quarantadue anni fa, furono 907 i profughi salvati dalla Marina Militare, mandata appositamente nelle acque del golfo del Siam), ma comunque sostenibili. L’ANCI (l’associazione dei comuni), e molti sindaci di diverso colore politico, si sono già detti disponibili ad attivarsi, ed è un segnale che va colto: le regioni potrebbero e dovrebbero agire per semplificare loro la vita, aggiungendo risorse proprie. Reti di famiglie, associazioni e ONG sono pronte a mettersi a disposizione per collaborare, con ospitalità, raccolte fondi, corsi di lingua, inclusione in attività associative, ecc. Si tratta di agevolare la gestione di queste iniziative, più che di attivarle.
Per quelli che sono già qui, ci sono poche precise cose da fare: sospendere l’esame delle richieste di asilo pendenti nelle commissioni, approvandole in blocco. E sospendere le espulsioni dei richiedenti asilo afghani non riconosciuti come tali. Anche per loro, famiglie e associazionismo, organizzati, potrebbe dare una grossa mano. Ma c’è spazio anche per altri attori sociali. Le università, che già attivano progetti di accoglienza di studenti rifugiati, possono lanciare un piano straordinario di ospitalità di studenti e studentesse, e anche di docenti, provenienti dall’Afghanistan: il modo migliore per combattere la guerra nel solo modo efficace – con l’istruzione, per ragazzi e ragazze, invece che con le armi. Fondazioni bancarie e mondo delle imprese potrebbero fare la loro parte, in maniera mirata, nel sostenere tali iniziative.
Infine, occorrerà continuare a sostenere i cooperanti e le associazioni italiane presenti nel paese, tra cui gli ospedali di Emergency, e chi lavora nel campo dell’istruzione e dell’empowerment femminile, almeno finché potranno svolgere il proprio ruolo, che oltre a essere prezioso in sé, se non altro riverbera un’immagine positiva dell’Occidente: la migliore diplomazia.
Non spenderemo più soldi in una opinabile missione di pace (solo la parola, peace enforcing, contiene una contraddizione patente). Sarebbe un segnale di maturità dirottarli per attività, come quelle descritte, che la pace aiutano davvero a costruirla.
Che cosa possiamo fare noi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 20 agosto 2021, editoriale, p. 1