A cosa serve un confine?

Il 3 settembre 2023 ho partecipato al Festival di Emergency a Reggio Emilia, in due diversi appuntamenti.

Qui trovate la riflessione che ho fatto su “Identità individuale e collettiva: quale è il confine?”

Talvolta basta una linea per capire un problema complesso…

Qui invece la breve partecipazione all’evento “Europa: fortezza o Eldorado?”, con tanta altra gente interessante

 

Contro il sovranismo cinematografico

Ci mancava il sovranismo cinematografico. Proposto con il nome e l’accusa di appropriazione culturale: espressione orribile che dovrebbe essere bandita dal vocabolario, o semmai rivendicata in positivo, perché la cultura non conosce confini, è per definizione ascolto e introiezione, e proprio per questo è una ricchezza che si condivide, anziché qualcosa da godere onanisticamente in privato e quindi sterile. La polemica innescata da Pierfrancesco Favino alla Mostra del cinema di Venezia, contro la scelta dell’americano Adam Driver anziché di un attore italiano per interpretare un film su Enzo Ferrari, è dunque surreale e provinciale a un tempo, e anche discretamente autolesionista. Vediamo perché.

Cominciamo dalle ragioni di mercato, evidenziate dai produttori, anche se quelle culturali, di cui diremo tra poco, sono più urticanti. Il budget del film è di 100 milioni di dollari, e si rivolge a una audience globale: o ha attori riconoscibili e apprezzati nel mondo, o manco lo si sarebbe prodotto, girato, distribuito, e quindi di Ferrari (e del made in Italy di cui è simbolo) non si sarebbe parlato. Nulla vieta di fare un film italianissimo sullo stesso tema: che presumibilmente avrebbe un giro d’affari minore. Peraltro, anche quando i film li hanno fatti gli italiani su italiani, ma rivolti a un mercato più ampio, è andata così: il Casanova di Fellini era Donald Sutherland, e il Gattopardo di Visconti Burt Lancaster. In compenso Mastroianni e Loren sono stati apprezzati nel mondo perché hanno lavorato con registi italiani che erano a loro volta maestri riconosciuti internazionalmente, ma anche con registri stranieri e in ruoli non ‘italiani’, come dovrebbe essere ovvio. Il fatto che oggi – pur avendo attori straordinari, e tra essi Favino – manchi uno star system italiano influente nel business globale (che presuppone attori che parlino un ineccepibile inglese, tra le altre cose, visto che moltissimi paesi non doppiano i film), e non ci siano un Mastroianni o una Loren dei nostri tempi, forse è un problema del cinema italiano, non di Hollywood.

Veniamo alle ragioni culturali, più serie, anche per la loro implicita deriva politica. L’idea che solo gli italiani possano o debbano interpretare i ruoli di italiani è la negazione dell’idea stessa di cultura (e anche di tanto cinema italiano, dai peplum su Ercole e Maciste agli spaghetti-western con Giuliano Gemma). Con lo stesso criterio solo i tedeschi dovrebbero o saprebbero interpretare Beethoven, solo i francesi cantare la Carmen di Bizet (mentre non saprei come metterla con Rossini, nato italiano ma culturalmente francesizzato), solo gli inglesi recitare Shakespeare (che a sua volta non avrebbe dovuto appropriarsi delle storie di Romeo e Giulietta o del Mercante di Venezia), e solo gli americani girare western, appunto (quindi niente Sergio Leone). Mentre i Måneskin non dovrebbero fare rock, gli europei bianchi – Paolo Fresu, per dire – non dovrebbero suonare jazz, e i rapper italiani dovrebbero semplicemente sparire.

Anche il Napoleone di Ridley Scott, in uscita a breve nelle nostre sale, è interpretato dall’americano Joaquin Phoenix: i francesi dovrebbero protestare, boicottarlo, o reclamarne la proprietà? È esattamente il contrario: dal fatto che anche altri si interessino alla nostra storia e cultura abbiamo solo da guadagnarci. Così come dovremmo ringraziare che la lirica di Verdi la cantino anche i giapponesi, diffondendo lo studio della nostra lingua al di fuori dei nostri confini, cinesi o messicani o ghanesi suonino il repertorio vivaldiano, e ovunque si reinterpreti Volare e O sole mio: l’unica discriminante dovrebbe essere di farlo bene, credibilmente.

Grazie, dunque, a chiunque si appropria della cultura altrui, inglobandola e rinvigorendola: è così che il mondo ha potuto progredire, nell’arte, nella scienza, nella tecnologia e pure nella vita materiale. Per dire, se i nostri antenati avessero rifiutato l’appropriazione culturale, in nome magari della sovranità alimentare oggi da alcuni decantata, non esisterebbero nemmeno, nella nostra dieta quotidiana, la pizza e la parmigiana, dato che il pomodoro viene dal Perù, la melanzana dall’India e il peperoncino dalla Guyana (per non parlare del riso, della patata, della polenta fatta con il mais… E non avremmo scoperto il sushi di cui siamo i primi consumatori in Europa).

Bisogna dunque utilizzare le parole con cura: anche perché dall’accusa di appropriazione culturale alle farneticazioni sulla sostituzione etnica è solo un passo. Volendo, potremmo farci aiutare dalla biologia. Scopriremmo che dall’analisi del sangue non si capisce neppure di che razza è un uomo (ammesso e non concesso che le razze esistano), e l’analisi del DNA ci direbbe che Favino e Driver condividono il 99% del loro patrimonio genetico, e quindi è difficile motivare presunte diversità interpretative e maggiori idoneità sulla base dell’appartenenza nazionale: di certo, peraltro, hanno antenati comuni.

C’è un’ulteriore ironia, in tutto questo. Ed è che il sovranismo inconsapevole che fa parlare in negativo di appropriazione culturale finisce per scimmiottare, senza nemmeno accorgersene, il peggio dell’ideologia woke e del pensiero politically correct: quello che vorrebbe – partendo da buone intenzioni di cui è lastricata la strada per l’inferno – che solo i neri parlassero di neri, gli ebrei di ebrei, i latinos di latinos e i gay di gay. Non è la stessa cosa che dire che i ruoli di italiani dovrebbero essere interpretati solo da italiani?

 

L’errore del cinema sovranista, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 6 settembre 2023, editoriale, p. 1

Turismo, prezzi, balneari. La pazza estate italiana

Ci mancava giusto l’Economist. Che, in un articolo pubblicato questa settimana, stigmatizza giustamente la situazione delle spiagge italiane: in particolare lo scandalo dei balneari, e delle concessioni di fatto monopolistiche, eternamente prorogate senza mai introdurre una parvenza di concorrenza che possa spingere per migliorare il modello di business e l’offerta, e magari far scendere i prezzi – e soprattutto senza mai aumentare gli introiti per lo stato di concessioni mai aggiornate e spesso francamente ridicole. Per dire, uno degli stabilimenti più noti, per questioni di gossip politico, il Twiga di Briatore, a fronte di 6 milioni di fatturato paga allo stato solo 17mila euro di concessioni (ne ha dati di più, 26mila, al partito di cui è esponente una delle socie del titolare, che è anche ministro del turismo): e va a suo onore di sostenere che dovrebbe pagare molto di più. La protezione della lobby dei balneari, evidentemente molto potente, non risulta incomprensibile solo alla rivista che rappresenta la Bibbia del capitalismo globale: probabilmente anche il cittadino comune, potesse – che so – votare a un referendum in materia, sarebbe, visto che avrebbe tutto da guadagnarci, per la messa all’asta delle concessioni (il cui introito ammonta, per circa 12mila stabilimenti, secondo la stima della rivista, a circa 100 milioni di dollari in totale, che fa la risibile media di poco più di 8mila dollari ciascuno: all’anno – di affitto – per un bene di proprietà di noi tutti).

Non sono tuttavia solo i balneari il problema del turismo in Italia. L’estate è stata dominata dalla concorrenza presente e futura dell’Albania, in termini di qualità e prezzi: che è solo il newcomer dei concorrenti potenziali e reali. Ma c’è anche altro. Di recente un blogger e scrittore di viaggi australiano (che al turismo nel nostro paese ha anche dedicato un libro), intitolava una sua riflessione in questo modo: “Overcrowded, overpriced and badly managed: Why I’m done with Italy”. Traduciamo così: “Sovraffollata, ipercara e mal gestita: Perché ho chiuso con l’Italia” – per un po’, aggiungeva nel pezzo, e pur amandola. Ecco, se fossi un operatore turistico italiano mi confronterei con questi titoli, anziché lamentarmi delle esose richieste dei miei dipendenti, o della difficoltà di trovare manodopera per colpa del reddito di cittadinanza (le colpe stanno altrove). Per carità, non è un testo sacro, ma solo l’articolo di un adepto importante – anzi, un esponente del clero – della chiesa del turismo globale: ma è comunque un influencer, e qualche cosa conta, dato che prefigura un futuro che è già ampiamente leggibile nel presente. Quello di un turismo a due velocità, o se si vuole segregato per popolazioni: quello di alta gamma, che offre opportunità di pregio ma per pochi, e quello popolare che sta travolgendo le nostre città d’arte, ma anche molte località di mare e di montagna. Quello di un turismo di massa sfruttato senza freni e senza controlli, ma soprattutto senza governo. È questa infatti la parte che sottolineerei maggiormente. Molti luoghi del mondo sono “overpriced”: ma si sa, sono a disposizione dei pochi che possono permetterselo, e a loro va benissimo così. Molti sono anche “overcrowded”: il turismo di massa è una specie di male inevitabile, figlio della globalizzazione, dell’arricchimento del mondo, della democratizzazione dell’esperienza del viaggio – oggi alla portata di centinaia di milioni di tasche in più rispetto al passato. Ma che il fenomeno sia “badly managed” invece non è un destino: è il frutto di una lunga serie di non scelte, e anche di impreparazione e incapacità che non si ha il coraggio di ammettere. Che fa sì che l’Italia, per gli italiani stessi, sia una destinazione sempre meno appetibile. Perché oggi il turismo, che deve giocare sul doppio registro della qualità offerta e della quantità sostenibile, sempre più presuppone un governo, la presa di decisioni, basate su strategie, dunque su obiettivi, e anche valori di riferimento, non solo immagini da promuovere.

Alcuni problemi sono quelli dell’intero nostro sistema produttivo: aziende troppo piccole (più piccole che in Spagna, nostro concorrente di successo, nel settore alberghiero), troppo spesso a conduzione familiare (che, a differenza di quanto si immagina in Italia, non è necessariamente garanzia di miglior servizio), con livelli di istruzione del management e del personale più bassi che altrove. Aggiungiamoci la scarsa conoscenza delle lingue, e la tradizionale modesta capacità di indirizzo, a livello centrale e territoriale. Troveremo ampie ragioni per riflettere su un settore che è sì fondamentale, e con un’offerta unica nel panorama mondiale. Ma a proposito del quale è più utile ragionare sui limiti, per migliorarsi, anziché riposare sugli allori dei successi: presenti, indubbiamente (pensiamo al pur fondato trionfalismo sul Veneto prima regione per turismo in Italia), ma che si relativizzano se paragonati alla crescita dei nostri concorrenti diretti, spesso percentualmente maggiore. Nel lungo termine, ma temiamo anche nel breve, è su questo che si giocherà il futuro del turismo in Italia.

 

Spiagge, lobby e prezzi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 agosto 2023, editoriale, p. 1

Immigrati: la politica dei ‘parcheggi umani’

Quando si sono spesi anni a fare della lotta all’immigrazione (e agli immigrati come persone) il proprio capro espiatorio, e ragione importante delle proprie carriere politiche, immaginando che dire “non li vogliamo” fosse sufficiente a farli sparire dall’orizzonte (come se si potesse dire la stessa cosa della povertà, delle spese per l’istruzione, o del maltempo, dell’inquinamento o del traffico, e questo giustificasse il non far nulla…), facendo finta di essere all’opposizione (nazionale) anche quando si è stati ininterrottamente governo (regionale, e a intermittenza nazionale) per decenni, è difficile immaginare di trovare soluzioni di gestione del fenomeno. E infatti continua a non succedere.

Per giunta, si persiste negli errori già fatti, perché non si ha il coraggio di dire che ci si era sbagliati fino ad ora, che gli slogan del passato erano fuori bersaglio e controproducenti. Un esempio è la drastica riduzione della possibilità di intervento dei SAI (i progetti di integrazione gestiti dai comuni, quelli che funzionano meglio): a cui si è deciso di impedire di accogliere richiedenti asilo, ma solo rifugiati riconosciuti, con il risultato paradossale che molti progetti accolgono meno persone di quelle che potrebbero, e le presenze in questi percorsi di inserimento sono in calo. All’opposto, si potenziano ulteriormente i CAS (i centri straordinari di accoglienza), sciagurate strutture, anche di grandi dimensioni, di cui si riduce il ruolo. Da un lato, per fare spazio ai nuovi arrivati, con una circolare del 7 agosto, vengono invitati a cacciare gli ospiti presenti, anche nelle more della consegna del conseguente permesso di soggiorno, ovvero anche se i diretti interessati non potranno lavorare regolarmente, con le conseguenze che si possono immaginare; dall’altro, con il decreto Cutro, gli si toglie la scomoda incombenza di erogare i servizi di orientamento legale e al territorio, di sostegno psicologico e soprattutto di insegnamento della lingua italiana: esattamente l’opposto di quello che sarebbe necessario fare. Di fatto li si trasforma in un mero parcheggio umano di persone a cui fornire vitto e alloggio e null’altro, senza alcun progetto di intervento sensato, salvo poi lamentarsi che l’integrazione non funziona come si vorrebbe, dopo aver fatto tutto il possibile per impedirla…

Non stupisce, visto che a livello nazionale non si sa che pesci pigliare, se a livello locale si fa anche peggio. Rifiutando la presenza degli immigrati, minacciando di ‘restituire’ alla prefettura i richiedenti asilo mandati nei comuni, e continuando a raccontare che “prima gli italiani”, che bisogna prima trovare casa agli autoctoni: come se lo si facesse davvero, come se fosse una scusa ragionevole per non occuparsi d’altro (peraltro i fondi per i richiedenti asilo arrivano da altri budget e che li si accolga o meno non c’è un solo euro in più per gli italiani, semmai girano meno soldi in generale, che è uno svantaggio per tutti – non si riflette mai sul fatto che i progetti di accoglienza implicano assunzioni, stipendi, acquisti, e fanno anch’essi girare l’economia…), e come se avesse senso dire che non si può fare una cosa perché si deve fare l’altra: come se dicessimo ai nostri figli che non gli paghiamo l’istruzione perché dobbiamo già pagare la sanità…

Il paradosso è che tutto ciò avviene mentre, virginalmente, il governo scopre che abbiamo bisogno di immigrati (e apre al loro arrivo con il decreto flussi), altrimenti molte attività semplicemente chiuderanno, rendendo tutti noi più poveri. La diciamo in parole semplici, forse comprensibili anche per chi della caccia allo straniero ha fatto bandiera: meno immigrati significa meno lavoratori per imprese che, non trovando operai, chiuderanno o si sposteranno altrove (o serviranno peggio la propria clientela, ad esempio, nel settore turistico-alberghiero e della ristorazione, spingendola ad andare altrove), ma anche meno clienti a cui vendere merce (tutta: cibo, vestiario, farmaci, giocattoli, e qualsiasi cosa vi venga in mente), meno case da affittare, meno donne italiane che lavorano perché torneranno ad accudire bambini e anziani, ma anche cose meno intuitive come meno classi per le scuole (si stimano in 18.000 solo le classi elementari che spariranno da qui al 2028, che è praticamente domani). Ma, di fronte a questo scenario, non si fa nulla per far entrare regolarmente e formare la manodopera che servirebbe. Che dovrebbe essere il compito dello stato, coadiuvato nell’accoglienza dai comuni, possibilmente con il raccordo delle regioni. Se non si preferisse l’antica pratica dello scaricabarile…

 

Parcheggi umani e politiche sbagliate, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 22 agosto 2023, editoriale, p. 1

Richiedenti asilo nei comuni: si può fare

Nel derby accoglienza diffusa contro grandi strutture di accoglienza (caserme, ad esempio), come alternative possibili per accogliere i richiedenti asilo, si sta intanto scoprendo che l’opzione “né né” (né l’una né l’altra) non è più percorribile: che il comodo non fare niente di molti sindaci, puntando solo sul rifiuto aprioristico e il respingimento a prescindere, non potrà continuare. Sono cambiate le carte in tavola ai massimi livelli governativi nazionali: dove il presidente del consiglio Meloni, lungi dall’invocare ancora il blocco navale, ammette nella sessione più autorevole ipotizzabile e fortemente voluta (la Conferenza internazionale su sviluppo e migrazioni ospitata domenica alla Farnesina, presenti i vertici di molti paesi di entrambe le rive del Mediterraneo, e la presidente von der Leyen) che l’Italia ha bisogno di immigrati. E quindi dovranno cambiare le politiche anche a livello locale (anche se fino ad ora si era predicato il contrario, il che spiega i mal di pancia visti anche in questi giorni), aiutando anche i richiedenti asilo a entrare nel mondo del lavoro il più rapidamente possibile. Da qui, l’attivarsi anche di chi prima stava immoto e in silenzio.

Viene da Vicenza, la provincia che ha visto la protesta di alcuni sindaci al ricollocamento di pochi richiedenti asilo, una prima proposta costruttiva. Due terzi dei sindaci dell’Alto Vicentino (21 su 32), con capofila il comune di Santorso che da molti anni persegue un modello funzionante di accoglienza diffusa (ha già un SAI da 23 anni, quando ancora ai chiamavano SPRAR, e un CAS), hanno proposto al prefetto un protocollo di accoglienza, che è di fatto il proseguimento di un progetto chiamato la Tenda di Abramo, attivato per accogliere i profughi ucraini da ben 27 comuni su 32. Il protocollo si basa su un patto preciso: i comuni si impegnano a reperire alloggi e nel coordinarsi con parrocchie e volontariato per dei progetti di integrazione funzionali, ma in cambio la prefettura si impegna a non inviare richiedenti asilo in misura superiore al tre per mille della popolazione – un’idea e una buona pratica nata proprio a Vicenza molti anni fa, e ripresa come modello, ai tempi, dal ministro Alfano. Per la maggior parte dei comuni si tratta di poche unità, per i più grandi di decine, e solo per il capoluogo, Vicenza, si tratterebbe di un centinaio: ma molti comuni dei richiedenti asilo li ospitano già, quindi si tratterebbe di pochi posti aggiuntivi. E in cambio si avrebbe la garanzia che eventuali hub sarebbero collocati altrove. Non poco, per un amministratore.

Di fatto, si tratta di una specie di pre-SAI, di cui andrebbe concordata anche l’entità della diaria giornaliera: oggi i bandi prevedono per i CAS, i centri di accoglienza straordinaria, tariffe intorno ai 26-28 euro al giorno (erano scesi a 21 ai tempi di Salvini ministro dell’Interno), che finiscono per limitarsi alla sussistenza o poco più, e per favorire le strutture a mero scopo di lucro, non interessate all’integrazione; mentre per i SAI, gestiti dai comuni, vigono più ragionevoli tariffe intorno ai 40 euro. Come in altri paesi europei, dove si dà di più ma si richiede anche di più, facendo integrazione – insegnamento della lingua, formazione professionale, orientamento al lavoro, mediazione culturale – non solo accoglienza: un investimento decisivo per favorire l’inserimento sociale e culturale dei migranti, e la loro accettazione, che fa risparmiare conflitti e problemi (e persino denari) futuri.

Potrebbe essere un modello, anche di rapporto tra istituzioni: comuni e prefetture insieme, che collaborano invece di combattersi. L’esistenza di un comune capofila rende la fatica amministrativa molto leggera per tutti gli altri, e spesso si attivano rapporti virtuosi con volontariato e associazionismo che possono svolgere un ruolo utile anche in altri ambiti.

Certo, dovrebbero cambiare anche le politiche a livello nazionale, favorendo questo tipo di intese: oggi oltre 6 richiedenti asilo su 10 sono in CAS (che quindi sono diventati la politica ordinaria), anziché in SAI, molti dei quali hanno chiuso, anche per le difficoltà burocratiche frapposte, sia dai governi che dall’ANCI. E forse bisognerebbe pensare a un’obbligatorietà per i comuni (finora osteggiata) o almeno a forti incentivi per i comuni virtuosi, come già avvenuto in passato (i trasferimenti di 500 euro a migrante, una tantum, della precedente crisi). Il rischio altrimenti, come sta avvenendo proprio ora, è che si apra un terzo binario dell’accoglienza (oltre a SAI e CAS) coordinato dal Commissario all’emergenza. Dove si attivano la Croce Rossa o la Protezione Civile, in quelli che diventerebbero dei super-CAS, ma senza le competenze necessarie, e quindi con forti rischi di trasformare queste strutture in ferite sociali difficili da rimarginare.

 

Modello Vicenza, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 25 luglio 2023, editoriale, p. 1

Richiedenti asilo. Le responsabilità della politica locale

Tre persone. Di questo stiamo parlando. Tre giovani. Tre persone, in paesi che vanno dai 3.400 abitanti di Gambellara, i 4mila di Brogliano, i 6mila di Castelgomberto, i 7.500 di Sovizzo, i 9mila di Trissino, fino ai 12mila di Altavilla Vicentina e di Cornedo. Si va dallo 0,09% della popolazione di Gambellara allo 0,025% di Altavilla. Insostenibile?

Se ne fossero arrivate trenta in un giorno dal paese vicino, o dalla Romania, nessuno se ne sarebbe nemmeno accorto, né gli avrebbero detto di tornarsene al loro paese, o si sarebbero lamentati che non c’è lavoro né casa per tutti (non è vero, peraltro: se esistessero dei meccanismi di incontro della domanda e dell’offerta troverebbero lavoro in 24 ore – la richiesta c’è – e casa pure, se la si affittasse alle persone di colore anziché rifiutargliela, come spesso accade). Se fossero arrivati tre o trenta ucraini, li si sarebbe aiutati. E allora ammettiamolo, che – tra le altre cose – è il colore della pelle che dà fastidio. Oltre che il metodo.

Certo, il prefetto di Vicenza ha sbagliato grossolanamente nei modi. Ed è già stato rimproverato dal suo stesso ministro, e magari pagherà il modo maldestro di gestire le cose, in termini di carriera. Ma sono i comuni veneti, è la cultura politica maggioritaria del Veneto ad essere sul banco degli imputati. Non si può sentire – ed è da vergognarsi – che il Veneto, che ha una popolazione (in calo) che è oltre l’8,2% di quella italiana, che produce il 9,2% del PIL nazionale e si vanta di crescere più dell’Italia, e che ha pretese di guida morale oltre che di locomotiva economica del paese, abbia concordato di avere al massimo solo il 6% dei richiedenti asilo del paese, ne abbia in realtà molti meno, e si lamenti pure. E se i prefetti sono arrivati a questo è perché la maggior parte dei comuni veneti non accoglie nemmeno un richiedente asilo, e il Veneto è una delle regioni che ha attivato meno SAI (i progetti di accoglienza gestiti dagli enti locali): i comuni che hanno attivato dei progetti sono solo 19 su 563, per un totale di 888 posti, collocando il Veneto al quindicesimo posto tra le regioni italiane (siamo la quarta, per popolazione) sia per numero di comuni coinvolti che per numero di posti, con il 2,02% del totale delle persone accolte dai SAI in Italia, e l’1,2% dei minori. Che non sia un grande sforzo, si può dire? Eppure l’accoglienza diffusa è l’unico modo di far funzionare l’integrazione (e funziona, se si vuole). E anche, tatticamente, per i sindaci, sarebbe il solo modo di evitare di vedersi nascere un CAS, un Centro di Accoglienza Straordinario, nella porta accanto al municipio, gestito a scopo di lucro e non di integrazione. Solo che per fare un SAI occorre lavorare (anche in regione, coordinando e promuovendo, almeno, non solo nei comuni), mentre per dire di no agli immigrati basta far uscire un po’ di fiato dalla bocca: lo stesso che esce da anni, con lo stesso messaggio, peraltro. Eppure anche i sindaci, anche i consiglieri regionali, anche i parlamentari veneti che strepitano in queste ore, li leggono, i giornali, e dovrebbero essere informati da mesi sul moltiplicarsi degli arrivi (che non si può più dire siano colpa di un governo cattivo, visto che il governo è dello stesso colore politico dei politici locali).

È sconcertante che tocchi all’impresa dire e proporre di fare quello che dovrebbe essere la politica a dire e a fare. Ed è incredibile che per sentire parole pacate e costruttive si debba aspettare Confindustria anziché il principale partito di governo del territorio, e i suoi rappresentanti. Certo, è difficile, per chi è cresciuto a pane e slogan contro gli immigrati, e retorica su “prima i veneti”, costruendoci sopra redditizie carriere politiche, dover ammettere che ci si è sbagliati. Ma, sì, ci si è sbagliati, e sarebbe onesto ammetterlo. Hanno sparso per anni a piene mani una retorica miserabile, che con la scusa di aiutare prima gli italiani sofferenti, non ha fatto in realtà niente nemmeno per loro, salvo offrirgli un capro espiatorio che non è il vero nemico. E ora pretendono che continuare a dire di no, e basta, sia una questione di coerenza. Certo, devono salvare la faccia. Ma merita di essere salvata, quella faccia lì? O non è meglio fare buon viso a cattivo gioco e cominciare, finalmente, a rimboccarsi le maniche e lavorare anche su questo dossier, colpevolmente trascurato, e prepararsi a un futuro che sarà impegnativo? Nei prossimi mesi e anni la retorica non basterà più, nemmeno per essere rieletti. Serviranno i fatti. Cominciamo ad occuparci di quelli?

Per tre persone, in “Corriere della sera – Corriere  del Veneto”, 16 luglio 2023, editoriale, p.1

Fecondazione e immigrazione

La notizia è minore: ma ci dice più di quello che immaginiamo sui cambiamenti sociali e culturali in corso. La Regione Veneto ha deciso di premiare in denaro i direttori generali delle aziende sanitarie che promuoveranno la procreazione medicalmente assistita. Al di là del fatto opinabile che il modo migliore di arrivare al risultato sia premiare i manager, vale la pena riflettere sulla logica che sta dietro a questa decisione.

La motivazione dell’iniziativa è quella, di fronte al crollo demografico, di incentivare le nascite. Va benissimo, anche se sarebbe bastata quella, pure ammessa, che le liste di attesa, in Veneto (a differenza che nelle regioni limitrofe), sono inaccettabilmente lunghe, per chi ha bisogno di ricorrere a questa pratica non potendo avere figli in altro modo: anche più di un anno solo per la prima visita, quando si tratta di persone il cui orologio biologico è inesorabile (normalmente è una decisione che si prende quando altri tentativi non sono andati a buon fine, e quindi spesso intorno ai quarant’anni). Ci si augura che la pratica sia aperta a tutti coloro che vogliono usufruirne, e non solo a un tipo particolare di coppie o di famiglie: siamo tutti uguali davanti ai diritti, o così dovrebbe essere.

L’aspetto curioso della notizia è tuttavia un altro: l’incentivo vale sia per la fecondazione omologa (con patrimonio genetico proveniente dall’interno della coppia) che eterologa (che riguarda circa un terzo delle domande complessive). Ma per la seconda non ci sono in Italia abbastanza donatori e donatrici, per cui, oltre a lanciare un bando europeo, un’azienda ospedaliera si è già attivata per acquistare i gameti maschili e femminili necessari da biobanche estere. Aprendo una nuova inconsapevole forma di immigrazione legale. Quando serve, come accade anche con la manodopera straniera, i distinguo e gli slogan strumentali (“prima gli italiani”) si sciolgono come neve al sole, ed è una buona notizia: che apre alla speranza che non vengano più sollevati nemmeno in altri ambiti.

Se l’obiettivo è attivare delle politiche nataliste, tuttavia, varrebbe la pena cogliere l’occasione per allargare il campo. Gli investimenti principali sono infatti da attivare in altri settori. A cominciare da un serio investimento in asili nido e in scuole per l’infanzia, visto che i posti a disposizione negli asili, secondo l’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica, vedono il Veneto al nono posto tra le regioni italiane, mentre per la sola offerta pubblica ci colloca addirittura al penultimo posto in Italia, davanti alla Calabria. Aggiungeremmo una significativa politica di messa a disposizione di alloggi popolari che manca (in tutta Italia) ormai da decenni. Consentire alle giovani coppie residenti in regione di accedere a un mutuo o di pagare un affitto a prezzi non di mercato, e di poter mettere i figli in strutture adeguate in modo da consentire a entrambi i coniugi di lavorare, avrebbe un impatto sulla natalità certo largamente superiore rispetto al provvedimento simbolico sulla fecondazione. Ma presuppone una discussione pubblica approfondita, l’individuazione di priorità adeguate alla bisogna, e investimenti conseguenti: in una parola, una politica capace di visione.

Poi, se il timore, sulla base dei dati del rapporto statistico regionale, è che la popolazione veneta cali da 5 a 4 milioni di persone da qui al 2050, va benissimo – è un tassello indispensabile – lavorare sulla natalità. Ma nel frattempo – visto che delle politiche nataliste serie, quand’anche venissero effettivamente adottate, avrebbero effetto sul mercato del lavoro per l’appunto intorno al 2050 – occorre tamponare le derive del presente. E magari, se non è tabù l’importazione di gameti di provenienza estera, cominciare a fare qualche ragionamento serio sulle persone di origine straniera già presenti o che potremmo far arrivare da oltre confine, integrandole bene, spendendo il necessario. Anche questa è una politica. Come tutte le politiche ha un costo, vantaggi e svantaggi. Ma per avere effetto deve essere adottata esplicitamente.

 

Tutti uguali, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 12 luglio 2023, editoriale, p.1

Turismo, retribuzioni e qualità del lavoro. Sulle dichiarazioni di Cipriani e il caso Harry’s Bar

Le dichiarazioni di Arrigo Cipriani – che non trova lavoratori per il suo Harry’s Bar – sono un buono spunto per affrontare il tema del lavoro, e nello specifico del turismo, in Italia. Non perché siano originali: non lo sono. Né perché facciano capire cosa succede nel settore: non lo fanno. Ma perché aiutano a comprendere un certo modo di intendere il lavoro e la società (e di fare imprenditoria) che è di molti: e che è parte del problema, non della soluzione.

L’imprenditore avrebbe due metri per giudicare il proprio prodotto: il giudizio dei clienti che pagano, e quello dei dipendenti che paga. Il primo si utilizza spesso, il secondo di rado, anche nelle ricerche di settore. Eppure le due cose sono collegate: e misurare il grado di soddisfazione dei lavoratori è un buon modo per capire se un’impresa o un settore ha un futuro. Chiedere loro un’opinione, invece di dire loro come dovrebbero pensarla, potrebbe essere assai utile a chi con la concorrenza – dunque con la qualità e la professionalità, oltre che con il prezzo – si misura. Tra gli imprenditori invece (quelli che si lamentano in pubblico, almeno: altri riflettono, ma fanno meno notizia) prevale il vittimismo: se non trovi dipendenti è colpa delle loro pretese eccessive, o del contesto (dello stato, delle tasse – con molte buone ragioni, naturalmente), comunque non tua. In particolare, non delle condizioni di lavoro e delle opportunità di crescita e di carriera offerte. Non è solo questione di salari, infatti: anche se contano, visto che con un salario medio del settore oggi si vive molto peggio di qualche decennio fa. E, a costo di ribadire l’ovvio, se per l’imprenditore è vera la massima di Benjamin Franklin, per cui “il tempo è denaro”, perché non dovrebbe esserlo anche per i lavoratori?

Per questo l’accusa del datore di lavoro ai lavoratori di pensare solo ai soldi – avanzata da Cipriani – risulta paradossale. E ricorda più l’inconsapevolezza degli aristocratici russi raccontati da Čechov o da Gogol rispetto ai loro schiavi e servitori, che non la razionalità dell’imprenditore capitalista di Weber o la dinamica disrupting della distruzione creatrice di Schumpeter.

Parliamo di un settore in cui i minimi contrattuali, ma anche i salari medi – ed è risaputo e ammesso anche dai datori di lavoro più avvertiti – sono troppo bassi per gli orari e i turni richiesti (basti pensare alla diffusione del lavoro grigio, con solo una parte del salario pagata in regola, e orari dichiarati ben diversi da quelli praticati). In più, alle condizioni lavorative e stipendiali descritte, si aggiungono condizioni di vita (orario allungato, lavoro serale, festivo e nei periodi di vacanza) e alloggiative (visto che spesso lo si deve svolgere fuori sede) svantaggiate e talvolta indecenti. Una facile riprova è che quegli stessi giovani italiani che vengono accusati di indulgere in pigri lussi garantiti dal reddito di cittadinanza (che non c’è nemmeno più: occorrerà aggiornare il repertorio delle lamentele), all’estero svolgono quegli stessi lavori qui rifiutati, e un perché ci sarà. Come ci sarà un perché se il settore alberghiero e della ristorazione ha visto, nell’immediato post-Covid, una massiccia migrazione di lavoratori anche stranieri verso lavori, qualifiche e salari operai, che la manifattura ha offerto nel momento della ripresa post-pandemica: evidentemente era più attrattiva, e quello che spaventa, quindi, non è la fatica, che la fabbrica non risparmia.

Una riflessione tutto ciò la meriterebbe. Perché, è vero, il settore macina record ogni anno, e il Veneto ne è regione trainante. La crescita, tuttavia, è in parte significativa figlia non di meriti propri (se si può parlare di merito di fronte alle meraviglie della natura o ai lasciti artistici e architettonici dei nostri antenati – chi sta a Venezia, per esempio, non ha alcun merito sulla sua bellezza, e spesso molti demeriti su come la peggiora), o di una capacità imprenditoriale specifica (che alcuni hanno e altri no), ma di una congiuntura globale, che vede crescere il numero di persone nel mondo che il turismo se lo possono permettere: tanto che aree comparabili (e meno dotate per storia e natura di qualità intrinseche) crescono più velocemente, attraggono di più, e hanno un tasso di fidelizzazione (banalmente, di ritorni) superiore. E di questo si dovrebbe ragionare.

Poi, certo, ha ragione Cipriani: è cambiata la società e sono mutate le priorità individuali. Anche rispetto alla centralità del lavoro nella vita quotidiana. Solo che forse è un bene su cui dovremmo riflettere, o almeno un dato intorno a cui riorganizzarci, non un male da stigmatizzare. E su cui anche gli imprenditori hanno molto da dire, da riflettere, da sperimentare. Qualcuno lo sta già facendo: anche nella propria vita privata. Per ripensare il futuro, guarderei lì, evitando di rimpiangere nostalgicamente un passato che – grazie a Dio – non tornerà più.

 

Non è solo questione di soldi. Cipriani e i lavoratori, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 4 luglio 2023, editoriale, p.1

Coppie omogenitoriali e bambini: la politica dei fatti e quella delle ideologie

Talvolta tocca agli amministratori insegnare la politica ai politici: come la si fa, e i principi (quelli costituzionali) sulla base dei quali la si sostiene. È successo anche a proposito del riconoscimento dei figli di coppie omogenitoriali. La procura di Padova ha impugnato gli atti registrati dal sindaco Giordani in questi anni e chiede di disconoscere 33 genitori di altrettante coppie omosessuali, tutte al femminile, in maniera retroattiva, anche a bimbi che vivono con le loro genitrici da sei anni! In un caso, infatti, si tratta addirittura della registrazione dell’atto di nascita di una bimba nata da una delle due mamme di una coppia omogenitoriale, avvenuta in Canada nell’agosto 2017 e regolarmente sposata in quel paese: e peraltro, in questo caso, ciascuna mamma ha un figlio biologico, con il risultato che i figli non saranno più legalmente fratelli, ma, pur convivendo, avranno ciascuno un cognome diverso (e, a proposito, per evitare scivolamenti su un altro argomento sensibile, in discussione in parlamento proprio in questi giorni, la gestazione per altri non c’entra assolutamente nulla, trattandosi in tutti i casi di situazioni in cui una madre biologica c’è). La procura chiede – puramente e semplicemente – di togliere il secondo genitore dallo stato di famiglia: con tutte le implicazioni pratiche, dalla scuola alla sanità, e simboliche, sui princìpi e sui diritti, che si possono immaginare. Un effetto della sciagurata circolare Piantedosi di marzo, che in obbedienza ai dettami del nuovo governo e alla sua agenda, diciamo così, valoriale, e nel vuoto legislativo che caratterizza la materia, si è imposta nelle sue conseguenze ai sindaci con una discutibile interpretazione, che peraltro non ha forza di legge e potrebbe essere incostituzionale, in quanto diversifica e ridimensiona i diritti dei bambini.
La posta in gioco è il diritto alla genitorialità di entrambi i genitori: la procura chiede infatti la rettifica del cognome, cancellando quello del genitore non biologico, forzando quindi un cambio dell’identità burocratica dei figli (risolvibile, eventualmente, all’atto pratico, con una lunga procedura di adozione: ma non se ne capisce francamente la ratio). Il sindaco di Padova, come quelli di altre grandi città, da Milano a Roma, è colpevole di avere registrato entrambe le madri, che sono i genitori effettivi.
Al di là del merito della questione, va sottolineato il pacato coraggio civile del sindaco (molti altri – la maggioranza – preferiscono lavarsene le mani). Che in nome di un onesto pragmatismo mirato alla soluzione dei problemi, e dell’obbedienza ai principi e valori costituzionali, da sei anni procede a queste trascrizioni, sempre comunicandole alla procura, che in passato non ha mai eccepito. Va a onore del sindaco il fatto di procedere in questa direzione semplicemente perché ci crede e pensa sia giusto, senza altre ambizioni e senza agende nascoste, essendo già al suo secondo mandato alla guida di una piccola e sonnacchiosa città di provincia, senza le tentazioni glamour e senza la visibilità e le opportunità politiche di chi governa la capitale statuale e la (ex) capitale morale.
Va sottolineato anche perché è un comportamento molto più responsabile di chi, in parlamento (e non solo da destra: per opposte ragioni, anche da sinistra) ha preferito fino ad ora l’ignavia del non legiferare e del non prendere decisioni, rifiutando la faticosa ricerca del compromesso, pur di ribadire la propria posizione di principio e di conseguenza la propria rispettiva rendita elettorale. Si chiama etica della responsabilità – questa dei sindaci, che altri politici hanno mostrato e mostrano di non avere – e dovrebbe insegnare qualcosa. Se non altro sulla differenza tra la politica utile e quella che non lo è.

Il coraggio civile, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 21 giugno 2023, editoriale, p.1

Demografia e migrazioni. Cosa dice l’Economist e perché ci riguarda

Le pagine dell’Economist di questi giorni sono piene di riflessioni sulla demografia mondiale, e i suoi legami con l’economia, le migrazioni e l’innovazione. Varrebbe la pena che qualche decisore pubblico nostrano, pur zoppicante con l’inglese (ci si può sempre far aiutare dal traduttore di Google), facesse lo sforzo di leggerle. Per capire quali e quanti scenari si aprono. E quanti rischiano di chiudersi.

Il principale di questi articoli ci annuncia, fin dal titolo, che “Una nuova era di migrazioni di massa è cominciata”. E non lo nota con aria preoccupata, lanciando allarmi su una nuova possibile emergenza, o su una presuntissima sostituzione etnica. Al contrario.

Il fatto è che la cattiva notizia è il crollo demografico dell’Occidente. Quella buona sarebbe che la disoccupazione interna ai paesi ricchi non è mai stata così bassa (con una media del 4,8%). E quindi l’unico modo per legare i due temi è ricorrere all’immigrazione. Cosa che sta già succedendo: nei fatti, e a prescindere dalle narrazioni fuorvianti e cieche (manco vedono i dati trasformarsi e i fatti accadere) della politica. Il mondo ricco infatti è già nel pieno di un boom di immigrazioni: che sono in crescita in Gran Bretagna (1,2 milioni di arrivi nel 2022, più che in qualsiasi periodo precedente, nonostante Brexit), Australia (il doppio che nel periodo pre-Covid), Stati Uniti (se ne aspettano quest’anno un terzo in più rispetto a prima della pandemia), Canada (nel 2022 più del doppio del record precedente), ma anche Germania (più che nel periodo della grande crisi del 2015, quando in poco più di un anno aprì le porte a 1,5 milioni di richiedenti asilo sparsi nei Balcani) e persino Spagna.

Si dirà che l’Economist è la Bibbia dell’ordine neoliberale, e fa solo gli interessi degli imprenditori, del capitalismo di Davos (se non altro, è il riferimento della loro ala più liberal e illuminata). E si dirà che in Italia la situazione è diversa. Ma non ne sarei così sicuro. Seppure in proporzioni un po’ diverse, il problema tocca anche noi: persino di più. Perché, è vero, da noi la disoccupazione è decisamente più elevata. Ma siamo messi molto peggio di altri paesi sviluppati in altri due indici. Siamo il paese con il bilancio demografico più catastrofico: da noi ogni anno i nuovi morti sono il doppio dei nuovi nati, con un differenziale che equivale alla popolazione di Bologna, settima città italiana per numero di abitanti – che evapora ogni anno. E abbiamo un bilancio migratorio tra i peggiori del mondo sviluppato: in sostanza, c’è in corso un’evasione di cui si parla assai meno della tanto gettonata invasione, per la semplice ragione che la prima non porta alcun dividendo elettorale. E questo ci riporta alla disoccupazione, e in buona parte la spiega. Esportiamo lavoratori istruiti (il tasso di laureati tra gli expat è il doppio della media nazionale) perché non abbiamo abbastanza posti (o a salari accettabilmente decenti) da offrire loro, ma abbiamo enorme bisogno di manodopera meno qualificata, perché tali sono i lavoratori di cui c’è carenza: l’80% degli immigrati, secondo dati ufficiali del ministero del lavoro – che tutti gli anni produce un rapporto sull’immigrazione in Italia che apparentemente nessun politico legge – hanno una qualifica riconducibile a quella operaia; e il grosso dei lavori per cui c’è penuria, dalle colf e badanti al settore cook and clean, dai braccianti alle cooperative della logistica e del trasporto, sono poco appetibili per laureati e diplomati qualificati, anche a prescindere da considerazioni salariali, su cui comunque ci sarebbe parecchio da fare (e va ricordato: un giovane di 25 anni che entra oggi nel mercato del lavoro guadagnerà circa il 25% in meno di un giovane di 25 anni entrato nel mercato del lavoro 25 anni fa: niente da dire, su questo, da parte di governo, imprese, sindacati?).

Altra notizia di rilievo è che i paesi che attirano più immigrati soffrono meno il calo dei salari, contrariamente a una vulgata proto-marxista, sull’esercito industriale di riserva, fatta propria in Europa soprattutto dalle destre, insieme a pezzi di sinistra radicale. I salari calano perché non c’è innovazione da un lato, e non ci sono controlli dall’altro, semmai. E perché una quota significativa di immigrati è irregolare e quindi più ricattabile: il che dovrebbe spingerci a regolarizzarli, e ad aprire canali regolari di ingresso, non a respingerli.

L’Economist conclude che presto la svolta anti-immigrazionista dei paesi sviluppati negli anni 2010 sarà vista come una aberrazione. La società civile organizzata, il mondo dell’impresa, le istituzioni internazionali, stanno cominciando ad accorgersene. Ora attendiamo la politica e la pubblica opinione, che continuano invece ad alimentare il corto circuito che spinge nella direzione opposta.

 

Chi chiede migranti e chi lo farà, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 giugno 2023, editoriale, p.1