La remigrazione non esiste. Gli inapplicabili slogan delle destre europee
La remigrazione non esiste. È solo una parola vuota: uno slogan da lanciare per guadagnare voti, sapendo in partenza che è inapplicabile. E che, se si applicasse, avrebbe un altro nome: deportazione. Un po’ come dire che si è contro le tasse, sapendo in partenza che, una volta al governo, non le si potranno diminuire, e forse si farà il contrario (con quel quid di discriminazione in più, perché può toccare solo alcuni e non altri). Un film già visto, ma che si ripeterà ancora.
Il concetto, lanciato dall’ultradestra germanofona, ma che possiamo essere sicuri sarà ripreso anche da noi, vuol dire questo: incentivare, e nel caso spingere, gli immigrati già presenti in Europa, a tornare indietro. Un concetto simile, senza la paura di usare esplicitamente la parola deportazione, lo ha evocato anche Trump negli Stati Uniti: e almeno ha l’onestà di dichiararlo, senza l’ipocrisia politically correct, normalmente attribuita alle sinistre, delle destre europee. Anche se poi nemmeno lui lo farà: non nella maniera e nei numeri ipotizzati, almeno. Sono i suoi stessi grandi elettori, che di quella manodopera hanno bisogno, a non volerlo: e gliel’hanno già detto.
Del resto, non ci sono precedenti storici che abbiano funzionato. Abbiamo avuto remigrazioni (ma li abbiamo sempre chiamati ritorni, senza bisogno di inventarci una nuova parola per un vecchio concetto), nel caso di persone che hanno dovuto emigrare forzosamente, a seguito di una catastrofe naturale, una persecuzione collettiva, o una guerra. Ma anche questo è un fenomeno che interessa solo una parte della popolazione emigrata. Per dire, nei primi mesi dalla loro partenza forzata, la maggior parte degli ucraini sfollata in Europa, se la guerra fosse finita, sarebbe senz’altro rientrata. Man mano che passa il tempo, accadrà sempre meno: perché le persone si inseriscono, si integrano, gli adulti lavorano, i bambini vanno a scuola e imparano una nuova lingua, i giovani si innamorano (delle persone e delle culture in mezzo a cui vivono) e si mischiano.
Nel caso delle migrazioni volontarie, invece, non ha proprio senso ipotizzarla. Se una persona ha investito anni e risorse cospicue per costruirsi un progetto di vita altrove, è impensabile che voglia prendere un volo nella direzione opposta, e tornare a casa: anche perché ‘casa’, nel frattempo, è diventata il paese di elezione. Può essere spinta, obbligata? No, c’è un’intera civiltà giuridica a impedirlo: gli esecutivi ci potranno provare, e i poteri giudiziari lo impediranno – non perché fanno politica, ma perché di mestiere rispettano le costituzioni, a differenza dei politici, che hanno spesso la tentazione di non farlo. Una persona può essere solo incentivata a andare via, a rientrare. E la cosa può funzionare (abbiamo avuto precedenti e leggi ad hoc già da decenni, in Francia e altrove: e ci sono ONG che lo fanno tuttora di mestiere, col supporto anche dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, con progetti di accompagnamento mirati): ma solo in piccoli numeri, con un qualche esborso economico, più o meno rilevante, e una certa organizzazione. Di solito, con coloro – e ci sono – che hanno fallito il loro progetto migratorio, e quindi possono essere interessati al rientro. Ma soprattutto, la remigrazione non ha senso ipotizzarla per interesse stesso dei paesi in cui se ne parla: economico e demografico (e anche geopolitico e diplomatico). Chi più chi meno (noi di più), tutti i paesi europei sono di fronte a un fabbisogno di manodopera gigantesco: sarebbe autolesionista investire denaro pubblico per espellere anziché per integrare.
Perché allora lo si fa, o almeno lo si promette, e qualche segnale simbolico lo si darà? Perché partiti che richiedono il consenso rivendicando battaglie identitarie (e, diciamolo, senza ipocrisie, francamente e onestamente razziste: e come tali, possiamo dirlo?, odiose) contro gli immigrati in quanto tali (o almeno quelli di uno specifico colore o religione), devono poi dare in pasto al loro elettorato qualche capro espiatorio, pena la perdita del consenso medesimo la volta successiva. E la remigrazione, come l’esternalizzazione delle frontiere (leggi, centri in Albania, che costeranno più di quello che producono senza risolvere un solo problema, e forse creandone), o come il blocco navale spesso evocato ma mai applicato da nessuno (e un motivo c’è: non funzionerebbe, sarebbe costosissimo e pure controproducente), è un buon modo di farlo. Anzi, di dirlo.
Remigrazione, l’inapplicabile scelta simbolo delle destre, in “Il Quotidiano del Sud”, 14 gennaio 2025, pp. 1-7