La Giornata della Memoria più difficile
Quella di quest’anno sarà la giornata della memoria più difficile da celebrare, da quando è stata istituita dalle Nazioni Unite nel 2005, per ricordare le vittime dell’Olocausto. La ragione è evidente. La risposta al terribile attacco perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023, a freddo, contro vittime innocenti che avevano la sola colpa di essere ebrei, in un crescendo mostruoso, che ha assunto i toni della rappresaglia, ha portato ai massacri e alle sistematiche distruzioni compiute da Israele a Gaza, in gran parte contro vittime altrettanto incolpevoli. Alla tabula rasa compiuta a Gaza vanno aggiunte le continue e organizzate violazioni dei diritti dei palestinesi in Cisgiordania, l’allargamento dei fronti di guerra al Libano, alla Siria e all’Iran, il comportamento provocatorio del premier Netanyahu in quella stessa ONU che la giornata della memoria l’aveva istituita, e di cui Israele ha violato sistematicamente le risoluzioni, il fastidio generalizzato per l’uso strumentale dell’accusa di antisemitismo per nascondere o rintuzzare le legittime accuse al governo di Israele. Tutte cose che hanno reso impopolare il sostegno e la solidarietà agli ebrei come vittime dell’Olocausto: che pure non ha perso nulla, invece, della sua rilevanza, dato che gli atti di antisemitismo – orribili proprio perché sono rivolti contro gli ebrei in quanto tali – sono essi pure in aumento un po’ ovunque, e destano preoccupazione crescente.
L’anno scorso la situazione non era ancora così grave. All’epoca della giornata della memoria la ferita brutale del 7 ottobre era ancora troppo fresca, e la solidarietà a Israele ancora non scalfita dall’entità di una strage di umanità di cui non si comprendevano ancora le dimensioni, e che oggi percepiamo invece, senza più scuse, in tutta la sua inaccettabile enormità. Ma già lo scorso anno c’erano state accuse e controaccuse, provocazioni, assenze significative, strumentalizzazioni.
Oggi la tentazione di lasciar perdere, di non occuparsene, di non discutere, è ancora più forte. Come lo è l’imbarazzo di chi pure vorrebbe manifestare il proprio ricordo solidale agli ebrei come vittime dell’Olocausto, riconoscendo la legittimità dello stato di Israele che di quelle persecuzioni è in qualche modo la conseguenza, ma non accettando e legittimamente criticando le indifendibili azioni del suo attuale governo. Imbarazzo evidente anche nelle strategie adottate già lo scorso anno da parte di chi rifiutava e rifiuta l’idea che si possa anche solo accennare all’attualità, quasi fosse un reato di lesa memoria. Come se si potesse espungere la realtà dalla rappresentazione, il tempo presente dalla storia, la sensitività alla violenza recente dal ricordo della violenza passata.
Sarebbe sbagliato, tuttavia, scappare dalla scomodità del reale. L’atteggiamento più corretto è invece quello di assumere il conflitto, di entrarci dentro, di parlarne, di confrontarsi: da parte di tutte le parti in causa. Non confondendo i piani con storicamente inaccettabili equiparazioni storiche tra la Germania della soluzione finale e la guerra a Gaza, per esempio. Ma accettando di mettere in luce le ragioni – e i torti – di tutti: fatica senza la quale non si capirà mai l’escalation di violenze che ha portato alla situazione attuale, e dunque non si potranno eradicarne le cause. Ecco, sarebbe bello se gli interlocutori di questo processo (che sono tanti, che siamo tutti) fossero capaci di accettare la presenza di verità diverse, di ricostruzioni storiche non coincidenti, per assumerle come un dato irriducibile: ebrei della diaspora e palestinesi rifugiati, simpatizzanti dello stato di Israele e sostenitori della causa palestinese – superando dinamiche polemiche che impediscono di essere entrambe le cose, come invece dovrebbe essere ragionevolmente possibile.
Il che presuppone di uscire dall’infantilismo delle logiche da tifo calcistico – per cui i ‘nostri’ hanno sempre ragione, a prescindere, e ‘loro’ hanno sempre torto (una logica disumanizzante, che toglie profondità persino all’invocazione delle sofferenze, che finisce per suonare artificiosa e strumentale, come quando ognuno mostra le foto di bambini sofferenti solo se sono dei ‘suoi’) – per abbracciare un metodo diverso, più giusto ma anche, semplicemente, più umano. Quello di accettare la complessità degli sguardi incrociati. E quindi assumere, da parte di tutti, la capacità e il coraggio di chiedere scusa per i delitti compiuti dai ‘propri’, invece di difenderli a ogni costo. Di fare autocritica: pubblica. Con le parole e con i gesti. Quanto sarebbe bello se in questa giornata della memoria, da qualunque parte noi stiamo, fossimo capaci di una frase di comprensione, di una lacrima di immedesimazione nel dolore altrui. E, magari, di costruire insieme un progetto di cooperazione, dunque di solidarietà, dunque concretamente di disarmo, dunque di ri-costruzione, a favore delle vittime, solo perché tali, e in nome loro.
Perché sarà la Giornata più difficile, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 26 gennaio 2025, editoriale, pp.1-6