“Prima i veneti”. Ma, esattamente: perché?
Il problema dell’insieme di leggi regionali chiamate “Prima i veneti” – quelle che danno la priorità ai residenti nella regione da un certo numero di anni per un certo numero di graduatorie, a cominciare dagli alloggi popolari, ma coinvolgendo anche altri servizi di welfare – variamente approvate negli anni scorsi, è la loro apparente ragionevolezza: il loro sembrare, di primo acchito, di buonsenso. È questo l’argomento con il quale il presidente della regione, Zaia, le ha peraltro sempre difese: anche se il motivo politico forte per cui erano state approvate era quello di dare un segnale all’opinione pubblica anti-immigrati. Quella a cui era stato chiesto il voto precisamente per questo motivo, e a cui occorreva offrire in pasto un qualche risultato.
Che la ragionevolezza sia solo apparente, lo conferma il fatto che la Corte Costituzionale abbia bocciato il criterio territoriale, relativamente all’accesso alle graduatorie, già lo scorso anno. Ora il tribunale di Padova, per ragioni diverse, ha contestato anche il vantaggio dato nelle graduatorie stesse: non la possibilità di accedere, più grave, ma la posizione acquisita, i punti in più ottenuti, in sostanza.
Va detto che, più che per i numeri di persone coinvolte, tanto le leggi approvate, quanto le sentenze che ne minano la validità, hanno un valore simbolico importante, ma anche una ricaduta politica non irrilevante. Intanto, per l’impatto avuto, e per il segnale dato, non solo agli immigrati. Anzi, soprattutto agli italiani, tanto che all’epoca i primi a protestare furono i poliziotti provenienti da altre regioni. Mandati a lavorare in Veneto per proteggere i veneti, e perché pochi veneti fanno questo mestiere: ma impediti di ottenere gli stessi benefici rivolti ai veneti che proteggevano. In effetti, la ratio di questi provvedimenti è discutibile, e controdeduttiva. Nella pratica, perché mai un carabiniere di Avetrano, un muratore di Desio, un pizzaiolo di Latina, o un ricercatore di Ferrara, dovrebbero volere venire a vivere in una regione dove gli dicono che non sono benvenuti già a partire dalla normativa che li discrimina, e dove a parità di salario godranno di minori servizi rispetto agli autoctoni? È un segnale attrattivo o respingente? Certo, il sottinteso della legge era legato all’immigrazione dall’estero: ma è forse diverso per un operaio del Bangladesh, una badante moldava, un lavoratore dei campi indiano, un edile rumeno, un’infermiera peruviana o un ricercatore inglese? E infatti è il principio in sé (odioso, possiamo dirlo?) che è in questione: che, per nobilitarlo, potremmo chiamare burocraticamente principio di residenzialità, ma che nella realtà agisce come un principio di selezione per corporativismo localistico. E che, oltre tutto, è in essenza antimeritocratico: non ottieni un servizio perché sei migliore di altri, o semplicemente perché a parità di condizione con gli altri ne hai diritto, ma semplicemente perché sei “di qui”, e pure se hai minore titolo.
Un altro modo di capire la solo illusoria ragionevolezza e il discutibile buon senso della norma, è di immaginarla applicata a parti invertite. Se a subirne le conseguenze fossero i veneti che vanno a vivere e lavorare in un’altra regione o in un altro paese. C’è, lo sappiamo, una tentazione sciovinista anche altrove: e tuttavia la sua logica, perdente per tutti, è un po’ quella dei dazi. Il primo che li decide si sente più furbo degli altri e ha un temporaneo apparente vantaggio. Se li adottano tutti, il risultato sarà che le merci saranno più costose, l’economia meno sviluppata, e la vita più scomoda, per tutti: non a caso la costruzione europea nasce precisamente sul principio opposto – stessi diritti e pari opportunità per tutti. Alla fine, conviene di più che non differenziare e discriminare. Anche economicamente.
Oggi poi tali norme appaiono tafazziane (il riferimento è a un noto personaggio comico che passava il tempo a darsi bottigliate sugli zebedei), e quindi autolesioniste. Il Veneto, dato il suo drammatico andamento demografico, ha bisogno di attrarre persone, lavoratori, famiglie. Non è proprio il caso di insistere su normative che hanno l’effetto di risultare respingenti, né di ricorrere contro sentenze che le contrastano. È esattamente il contrario, quello che dovremmo fare. E sarebbe ora che la politica cominciasse a rendersene conto.
L’errore del “Prima i veneti”, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 10 gennaio 2025, editoriale, pp. 1-7