Seconde generazioni, tra baby gang e integrazione
Le chiamiamo seconde generazioni. Ma non sono immigrati: in grande maggioranza, sono nati qui (quasi un milione, su un milione e 300mila). Sono le prime generazioni di neo-autoctoni: figli di immigrati, nati in Italia, ma per lo più non cittadini italiani, perché siamo il paese con la legge sulla cittadinanza più restrittiva d’Europa. Quindi non hanno gli stessi diritti dei nostri figli. Portatori di problematiche sociali? Sì, anche. Come storicamente sono stati alcuni esponenti delle seconde generazioni di immigrati negli Stati Uniti (vi ricordate “West Side Story”?), inclusi i figli di emigranti italiani (vi ricordate “C’era una volta in America” di Sergio Leone?), e come lo sono stati transitoriamente i figli di immigrati dal Sud (vi ricordate i discorsi che si facevano nel Nord negli anni ’60?). Con un tasso di delinquenza un po’ superiore alla media, normalmente riassorbito nel giro di una generazione. Un problema, quindi, certo: da affrontare e risolvere. Ma lontano dall’allarme sistematicamente costruito da intere trasmissioni televisive sulle baby gang, impacchettate con il preciso scopo di mettere paura alle generazioni più anziane, costruendo il fenomeno anziché descrivendolo. Certo che c’è (anche) la delinquenza. Certo che c’è allarme sociale. Su cui c’è da fare luce e da lavorare. Possibilmente, per risolvere il problema, non per additare un capro espiatorio. Anche perché, come al solito, si sente il rumore dell’albero che cade, non quello della foresta che cresce: la grandissima maggioranza di giovani che non delinquono, e che non meritano di essere infilati a forza in una categoria che non li descrive. E poi perché non basta indicare chi: bisogna domandarsi perché. E questo si fa di rado.
Hanno gli stessi problemi di senso e di comportamento dei giovani italiani, ma in percentuali maggiori. Perché sono immigrati? Perché vivono diversamente da noi? O perché li consideriamo diversi dagli altri? Vediamo. Secondo l’Istat vive in povertà assoluta il 35,6% delle famiglie straniere (dato in crescita), contro il 6,4% delle famiglie italiane (dato stabile). Vivendo in percentuali maggiori in famiglie povere, hanno gli stessi obiettivi ma molte meno possibilità di raggiungerli dei giovani autoctoni. Nei loro quartieri il tasso di abbandono scolastico e di disoccupazione è superiore alla media. Aggiungeteci l’irregolarità di alcuni, in particolare dei minori stranieri non accompagnati (un fenomeno che in passato non esisteva proprio, le cui ragioni sono complesse), le umiliazioni costanti di molti, una xenofobia diffusa e neanche tanto mascherata, che si riflette nelle condizioni di lavoro e di vita (la percentuale di nero è maggiore, e i salari più bassi, nei settori in cui sono maggiormente presenti gli immigrati, producendo un dualismo nel mercato del lavoro ormai accettato da quasi tutti noi). Tutto ciò non giustifica nulla. Ma c’entra qualcosa, con l’emarginazione e la delinquenza? Decidete voi. Nel caso, vuol dire che forse il problema non è essere diversi: ma non essere percepiti come uguali, e non sentirsi tali. Anche se la lingua che parlano, l’eredità culturale che apprendono a scuola, quella che si inventano nella vita sociale, la musica che ascoltano, quella che producono (alcuni con grande successo), è la stessa dei loro compagni e compagne autoctoni. Ma qualcosa evidentemente non funziona, se solo nel 40% dei casi si sentono italiani (e il 30% non sa rispondere). La domanda è: lo pensano loro, o è l’immagine che gli restituiamo noi? E quanto questa immagine incide sulla percezione di essere fuori anziché dentro la società, outsider e non insider? Così come ci dice qualcosa che il 59% dei ragazzi con background migratorio delle scuole superiori (contro il 42% dei figli di italiani) vorrebbe vivere all’estero: e molto più le ragazze, il 66%. Evidentemente vivono con più disagio la presenza in Italia: il quadro di un’integrazione mal riuscita. Ma l’integrazione è come il matrimonio: funziona se la vogliono entrambi i partner. Siamo sicuri che la colpa stia tutta da una parte sola?
Le soluzioni sono sempre quelle: integrazione, scolarizzazione, lavoro, valorizzazione. Ma per arrivarci occorre un lavoro specialistico, serio, di accompagnamento. Che ci conviene. Come per tutti i problemi, il costo sociale è maggiore se non lo affrontiamo all’inizio del suo manifestarsi.
La seconda generazione, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 24 dicembre 2024, editoriale, pp. 1-3