FIFA 2022 in Qatar: il Marocco e i nuovi equilibri mondiali

Comunque vada a finire la coppa del mondo del Qatar, la presenza in semifinale del Marocco, prima volta per una squadra africana, rappresenta un cambiamento storico, non rubricabile a un evento solamente sportivo.

È innanzitutto il simbolo del riscatto di un continente. Non a caso l’Africa tifa compatta per il Marocco, come anni fa aveva tifato Camerun, Senegal o Ghana quando erano arrivati ai quarti di finale. È un segno di equilibri mondiali che si modificano, e che peseranno sempre di più in futuro, economicamente, demograficamente (la Nigeria si avvia a superare gli USA come terzo paese più popoloso del mondo…) e anche politicamente.

Più in specifico, è un riscatto anche del mondo arabo, dove pure si gioca il mondiale, anche contro i paesi suoi ex-colonizzatori: nel caso dell’ex-colonizzato Marocco, battendo direttamente la Spagna, che nel territorio marocchino mantiene le enclaves neo-coloniali di Ceuta e Melilla, il Portogallo (proprio a Ceuta ebbero inizio le guerre marocchino-portoghesi, 600 anni fa), e andando ad affrontare la Francia, il colonizzatore più recente, il cui protettorato sul Marocco ha retto fino a settant’anni fa. Questa solidarietà interna al mondo arabo si è vista anche con la bandiera palestinese esibita dalla nazionale marocchina e da molti tifosi, a ricordare una ferita ancora aperta, che in occidente si tende a dimenticare, ma che nel mondo arabo è vivissima. Non stupisce che ovunque, nei paesi arabi, si tifi Marocco.

È un riscatto anche, in certo modo, dell’islam. I giocatori del Marocco hanno pregato sul terreno erboso dei campi di calcio mondiali, in direzione della Mecca, e anche questo fattore gioca un ruolo sullo scacchiere globale, nei paesi musulmani ma anche tra gli emigrati in paesi occidentali, dove l’islam è spesso malvisto, e non solo a causa del terrorismo. Re Mohamed VI appartiene a una dinastia che reclama una discendenza diretta dalla famiglia del Profeta, e questo è parte importante della sua legittimazione, che si sta attuando anche con una accorta politica di finanziamento di luoghi di culto e di formazione religiosa rivolta a imam e predicatori di tutta l’Africa (e della diaspora occidentale), in concorrenza e contrapposizione con l’islam radicale e salafita.

Riscatto, inoltre, del Marocco stesso, che da molto tempo persegue, con sempre maggiore successo, un ruolo di leadership – innanzitutto economica, attraverso oculati investimenti in sviluppo e infrastrutture – per tutta l’Africa, con particolare attenzione a quella subsahariana. Un ruolo da grande potenza regionale, al contempo in dialogo e collaborazione con l’Unione Europea. Quello che noi chiamiamo Marocco, in arabo maghrib, vuol dire occidente, e questa è dopo tutto la sua collocazione geografica, ma anche il ruolo di tramite che si è scelto, come paese in tumultuosa crescita economica, ma anche attore di una transizione politica che lo porta verso una sempre maggiore democratizzazione e libertà sostanziale.

Riscatto, infine, degli immigrati marocchini in Europa, della cui presenza straniera costituiscono una parte importante (in Italia sono oltre 400mila, terza componente dopo rumeni e albanesi). Non stupisce che sia così. Anche quando l’Italia vinceva contro altri paesi europei in cui erano stati accolti ma anche spesso maltrattati, gli italiani in essi emigrati avevano un motivo in più per gioire. Certo, qua e là c’è stata qualche inaccettabile intemperanza di troppo nel manifestare la propria soddisfazione (anche se, come in Italia, molto inferiore alle intemperanze contro i marocchini). Un surplus di rabbia, o un segnale di malessere, che in paesi come Francia o Belgio è anche una comprensibile protesta contro una integrazione non sempre riuscita, e una marginalizzazione di fatto che questi paesi hanno lasciato crescere nelle loro banlieues, pur in mezzo a evidenti successi di integrazione (a Bruxelles il nome più diffuso, alla nascita, è Muhammad). Ma l’argomento lanciato da qualche politico di destra, come Eric Zemmour, “in Marocco sono scesi nelle piazze pacificamente, in Francia ci sono stati tafferugli” (anche se risibili rispetto alla grande maggioranza di gioia civilmente espressa) rischia di essere scivoloso: più una constatazione di incapacità e impotenza della Francia rispetto al Marocco, dopo tutto. E peraltro le stesse persone, se non ci fosse stato il Marocco a giocare, avrebbero tifato per il paese in cui vivono. Come gli emigranti italiani all’estero quando non gioca l’Italia, dopo tutto.

 

Il riscatto del mondo arabo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 14 dicembre 2022, editoriale, p.1

Quella strana idea di libertà – Su POS e contante

Le discussioni intorno all’innalzamento del limite per pagare in contanti, e ancor più rispetto al diritto di non accettare pagamenti con il POS, ci dicono molto, su chi siamo e chi vogliamo essere.
Sgombriamo il campo dall’aspetto politico-elettorale, che forse è il meno interessante. Certo, le clientele vanno risarcite: la possibilità di rifiutare il POS sotto i 30 euro soddisfaceva in particolare i taxisti (la maggior parte delle corse è al di sotto di quella cifra), e i negozi di prossimità, l’averlo portato a 60 soddisfa anche i ristoratori, i balneari (già graziati dal non dover sopportare una fastidiosa libera concorrenza) e qualche altro, mentre l’innalzamento del tetto al contante, in generale, chi lavora più facilmente in nero. Peraltro, queste misure vanno incontro a delle minoranze nelle categorie citate, e non tengono conto degli onesti che si sono adeguati alla normativa e che il POS lo usano volentieri, perché semplifica la vita e la contabilità di chi non ha alcuna intenzione di evadere, diminuisce il rischio di rapine, ecc. E sgombriamo il campo anche dall’aspetto tecnico: se le commissioni bancarie sono eccessive, ci sono mille modi per intervenire su questo e farle scendere.
No, l’aspetto più interessante è, diremmo, antropologico. Parla della libertà di alcuni, e non di altri: per dire, se il commerciante ha diritto di non accettare pagamenti con il POS, questo equivale a impedire l’esercizio della libertà del cliente di scegliere lui quale mezzo di pagamento usare. Ma la libertà del cliente pare meno rilevante… Tra l’altro, la battaglia diventa ideologica, e quindi fuorviante: tra chi teme, ovviamente a torto, che l’obbligo per le attività economiche di avere un POS impedisca alle persone di usare il contante, piangendo sui destini di poveri anziani incapaci di usare il bancomat (cosa risolvibile con un minimo di alfabetizzazione digitale, e che dà l’idea di quanto questo sia un paese quasi solo per vecchi), e chi giura di rifiutare di entrare in un esercizio dove non lo si accetta, e pretende l’obbligo per gli esercenti di apporre un cartello all’esterno, minacciando di girare solo con banconote da 100 euro anche solo per pagare un caffé. Per forza si finisce alle accuse estremiste: agli uni di essere servi delle banche con un chip nel cervello, agli altri di essere tutti evasori.
Poco importa il merito. Ad esempio che nel mondo sviluppato il contante sia in corso di sparizione, e che – senza andar lontano (a Singapore o in Corea) – in tutto il nord Europa non solo qualsiasi baracchino di street food e persino musicista di strada abbia il POS, ma che addirittura nei musei e in molti uffici pubblici sia possibile “solo” pagare con una carta, facendo risparmiare e semplificando anche la vita delle stesse strutture amministrative coinvolte, a vantaggio di tutti (a noi invece tocca ancora uscire dall’ufficio, pagare in contanti la marca da bollo dal tabaccaio, poi in posta il bollettino, infine tornare in ufficio se non ha chiuso nel frattempo). O che sia davvero dura spiegare ai turisti stranieri la ratio di queste restrizioni all’uso delle carte, alle prossime vacanze (e bisognerà vedere se torneranno, o se non preferiranno andare dove gli si rende la vita più facile).
Inutile anche elencare i vantaggi del denaro elettronico: non dover continuamente far rifornimento al bancomat (che anche quello ha le commissioni, peraltro, cosa che dimentica chi condanna le commissioni delle carte), non rischiare furti e smarrimenti, tenere comoda traccia delle spese. È diventata una battaglia di principio, astratta, quasi del tutto priva di fondamento empirico. Lo dimostra anche la frequente sovrapposizione tra profili anti bancomat e pro contante, e profili no vax e no tutto. Dietro c’è la stessa malsana, malintesa, infantile idea di libertà: non come virtù civica, da contemperare con il bene di tutti, ma come libertà di fare quello che aggrada, in fondo di menefreghismo. Un po’ come la libertà di costruire dove si vuole, anche in zona a rischio: tanto poi arriva la sanatoria, e se succede qualcosa, magari anche il finanziamento per ricostruire nello stesso posto. Ricchi o poveri, a quanto pare, ci sentiamo tutti come il rivoluzionario Guy Fawkes, ma siamo invece tutti Marchesi del Grillo.

 

Una strana idea di libertà, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 1 dicembre 2022, editoriale, p.1

Vent’anni di cambiamenti tecnologici e sociali

Il nostro mondo, il mondo in cui viviamo, è interamente figlio degli ultimi vent’anni. Per accorgersene basta mettere in fila un po’ di date. L’oggetto che usiamo per un maggior numero di ore ogni giorno, e il più indispensabile, lo smartphone, ha giusto un ventennio (il suo modello più iconico, l’iPhone, è del 2007), e dal 2014 il numero di telefoni mobili in circolazione supera quello della popolazione mondiale (nel frattempo arrivata a 8 miliardi). Il principale motore di ricerca del mondo, Google, è del 1997, ma è diventato tale nel 2000, e ha introdotto i suoi servizi più popolari, da Gmail a Google Maps, negli anni successivi. Il principale e più consultato, nonché gratuito, deposito di sapere esistente, Wikipedia, è del 2001. La comunicazione a distanza cambia con Skype nel 2003. Facebook inventa il primo grande social network nel 2004, Twitter è del 2006, Whatsapp del 2009, Instagram e Pinterest vengono lanciate nel 2010. Del 2010 è anche il primo tablet, con iPad. Il più grande negozio del mondo, l’everything store Amazon, è sì fondato nel 1994, ma ha trasformato davvero le nostre vite nell’ultimo ventennio, ed è del resto sbarcato in Italia solo nel 2010. Pensiamo alle piattaforme globali che trasformano produzione e consumo di video, musica e film: YouTube è del 2005, Netflix è del 1997 ma introduce lo streaming dal 2007, Spotify del 2006 ma è lanciata internazionalmente dal 2010. Tripadvisor, che ha cambiato il modo di viaggiare, è diventata operativa nel 2000. Airbnb, una app che da sola ha cambiato la configurazione delle nostre città più di ogni altra cosa, è del 2008. Uber, che ha un impatto simile nel trasporto, è del 2009. Tinder, che trasforma il modo di incontrarsi, è del 2012. Persino la consegna del cibo a domicilio, un’attività antica quanto l’uomo, si trasforma completamente con le prime compagnie di food delivery globali: Deliveroo nel 2013, Glovo nel 2015. Continuiamo, in altri ambiti. Del 2008 è l’invenzione della Blockchain, e la prima criptovaluta (che ne costituisce il principale effetto), il Bitcoin, è del 2009. Il computer quantico, che dovrebbe farci fare un salto interstellare nella rapidità e complessità di calcolo, è del 2019. Con le implicazioni che conseguono. Anche qui basta un elenco casuale di parole spesso nuove, per comprendere l’entità del cambiamento in cui siamo immersi: intelligenza artificiale, 3D, esoscheletri e protesi tecnologiche al corpo, realtà virtuale, riconoscimento facciale, internet delle cose, crowdfunding, cloud, touchscreen, e le rispettive applicazioni, dalla mobilità all’energia, dalla ricerca spaziale alla medicina. La durata media della vita viaggia verso l’indefinitezza (ha già superato abbondantemente i novant’anni per chi nasce quest’anno), allontanando progressivamente la morte – il tutto, naturalmente, solo per le società ricche, e al loro interno per le fasce più ricche di popolazione. Ma pensiamo a fenomeni trasformativi puramente sociali: il riconoscimento dei matrimoni omosessuali (il primo paese a farlo è stato l’Olanda nel 2001) e dell’eutanasia (sempre in Olanda nel 2002), i passi da gigante nella parità di genere a tutti i livelli, le trasformazioni stesse dell’idea di famiglia, la progressiva fluidità di identificazioni – come quelle di genere – una volta percepite come univoche, la separazione dell’idea di fecondazione da quella di corpo e natura.

È cambiato tutto, in poco tempo. E si sono costruite le premesse per cui tutto possa cambiare ancora di più, sempre più rapidamente. Abbiamo persino acquisito una meta-abitudine al cambiamento, che è il contrario di quanto avvenuto fino ad ora, nelle ‘epoche lente’, in cui l’evoluzione anche tecnologica era rallentata e controllabile. Con il risultato che oggi persino la trasmissione di conoscenze e il processo di socializzazione passano sempre meno di generazione in generazione, dai padri ai figli e dalle madri alle figlie, attraverso l’imitazione, e sempre più sono il prodotto del confronto tra pari, o provengono da altre agenzie di socializzazione, esterne ai legami primari e lontane da esse.

Certo, non tutto il mondo cambia allo stesso modo, alla stessa velocità, e con le stesse opportunità (anzi, le diseguaglianze si stanno approfondendo: tra stati, e interne agli stati – di fatto, anche tra individui e imprese). E tutto questo ci coinvolge come utenti e come spettatori, ma solo in minima parte il nostro piccolo pezzo di mondo è parte attiva di questo processo. Nondimeno le conseguenze dei processi globali sono comunque locali, anche in quelle che credevamo le nostre radicate specificità culturali: per dire, il ruolo della chiesa nell’orientare i valori e il comportamento delle persone (di fatto, ormai residuale, o comunque in condominio con molte altre agenzie valoriali), le trasformazioni della famiglia (ormai non più stabile, indefinita nei suoi confini, ridotta in dimensioni al punto che la metà dei nuclei familiari è composta da una persona sola), la presentificazione degli orizzonti (con la perdita del collante sociale e dell’impegno politico, ma anche della propensione al risparmio, che qui era un valore radicato), le traiettorie lavorative, i comportamenti sessuali, la maggiore mobilità, ecc.

Viviamo nell’epoca della scelta, della riflessività radicale, dell’opportunità, anche: tutto può sempre essere diverso da come è, in potenza, sempre meno cose provengono dal passato e dalla tradizione, ogni percorso è autonomamente progettabile, non lineare e reversibile. In questi processi ci siamo immersi, e ci trasformano, anche quando non ne siamo parte attiva. Naturalmente, la sfida vera che abbiamo di fronte è tra il subirli, l’indirizzarli e il produrli. Vale per tutti: famiglia, impresa, sistema dell’istruzione, politica, sociale. E per tutto.

 

Negli ultimi decenni è nato il mondo nuovo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, inserto speciale ‘Corriere del Veneto – 20 anni’, p. 5

Immigrazione, sbarchi, accoglienza: le contraddizioni dell’Italia

Sembra di stare in “Ricomincio da capo”, il vecchio film in cui uno sfortunato Bill Murray impersona un metereologo rimasto imprigionato in un loop temporale, che lo fa risvegliare ogni mattina alle sei nello stesso giorno, il giorno della marmotta. Noi invece siamo tornati all’era pre-Covid, nel periodo in cui Salvini era ministro dell’interno, e si faceva la guerra alle ONG e agli immigrati sbarcati in Italia (intorno ai 12mila nel 2019) mentre non ci si accorgeva che nello stesso anno gli emigranti erano saliti a 285mila, e forse il problema più serio era lì. Oggi come allora si usano i migranti raccolti dalle navi umanitarie (una frazione di quelli arrivati in Italia via mare, peraltro, a loro volta una parte del totale, che include anche chi arriva via terra per la rotta balcanica), per lanciare obliqui messaggi all’opinione pubblica interna, dimenticando totalmente i problemi veri, per non parlare dell’interesse dell’Italia.

Cominciamo dai problemi. La principale contraddizione sta nel fatto che i due principali partiti di governo, Lega e Fratelli d’Italia, non vogliono ammettere che esiste una necessità strutturale di forza lavoro immigrata. Si continua a dire che sì, è giusto salvare i profughi, “quelli veri”, ma i migranti economici non servono e non li vogliamo. Ebbene, è il contrario. I primi vanno salvati per motivi umanitari, e impegni liberamente assunti attraverso la firma di convenzioni internazionali: che, se non si è più d’accordo, vanno denunciate, assumendosene la responsabilità. Ma dei secondi abbiamo un enorme bisogno, e senza di loro rischiamo un vero e proprio de-sviluppo, in confronto al quale la crisi attuale sembrerà una passeggiata. Il motivo è semplice: nei prossimi trent’anni la forza lavoro (15-64 anni) scenderà, nello scenario più probabile, di dieci punti, dal 63,8% al 53,3%, passando dai due terzi alla metà della popolazione. Secondo molti le cose starebbero anche peggio: già solo tra il 2022 (oggi) e il 2030, e solo nel Centro-Nord, la quantità di forza lavoro calerà di oltre un milione e 200mila unità, per la semplice ragione che le persone che dovrebbero sostituire chi andrà in pensione non sono mai nate, non esistono, e quindi quelle posizioni resteranno inoccupate. Certo, potrebbero occuparle i nostri figli, se li facessimo: ricordo che negli ultimi due anni la differenza in negativo tra nati e morti ha superato le 400mila persone – una città come Bologna che sparisce ogni anno. Ma anche se prendessimo oggi i provvedimenti migliori del mondo per favorire la natalità (cosa che non si farà perché si preferisce investire, follemente, sull’anticipo dell’età pensionabile, e anche questo governo, come i precedenti, ha altre priorità), gli effetti sul mercato del lavoro si vedrebbero comunque tra vent’anni. Nel frattempo, i posti di lavoro, e la ricchezza che ne consegue, li bruciamo?

Gli imprenditori, di tutti i settori, queste cose le sanno già, visto che non trovano manodopera: non solo nel turismo, come denuncia il ministro leghista Garavaglia, e non solo nell’agricoltura, come ci si accorge a ogni inizio di raccolta stagionale, ma pure nella manifattura. Le sanno anche i politici che rappresentano i territori più produttivi d’Italia, a partire da Lombardia e Veneto, governati dal centro-destra. Il problema è che sono i loro riferimenti nazionali, i loro leader, a continuare a voler insistere sulla criminalizzazione dell’immigrato che arriva irregolarmente in quanto tale, per motivi di bottega elettorale, di messaggi che si vogliono mandare all’opinione pubblica (che tuttavia è probabilmente più avvertita di loro, visto che in tutti i sondaggi la paura dell’immigrazione è scesa notevolmente di livello, rispetto a ben più realistiche paure materiali). Finché non ci sarà una presa di posizione finalmente politica, anche da parte dei territori, in cui si denuncino le politiche nazionali su questi temi, non se ne uscirà. Continuando a fare (e qui veniamo al secondo punto) il male del paese, giocandosi la collaborazione internazionale, più necessaria che mai, in cambio di qualche strizzatina d’occhio in favore di telecamera all’elettorato interno, tanto in Italia come in Francia.

Il solo modo serio di affrontare il tema degli sbarchi di irregolari è la riapertura di canali regolari di ingresso, in collaborazione con l’Unione Europea e tramite accordi (che, se tali, devono essere vantaggiosi per le due parti) con i paesi di provenienza; la gestione europea dei richiedenti asilo, con una revisione (che non può che essere concordata, non imposizione unilaterale) degli accordi di Dublino e sul ricollocamento dei profughi; e l’integrazione di chi è già qui, smettendola di additare l’immigrato come un nemico, dato che queste semine d’odio hanno effetti gravi sul piano sociale, creando conflitti anziché risolverli. Per evitare di occuparsi di questi, che sono problemi seri, e presuppongono riflessione, lavoro e competenze, si preferisce invece continuare a piantare bandierine identitarie, in cui la sceneggiata sulle ONG è parte dello spettacolo. Un giochino che alimenta il clima da tifo calcistico, ma non risolve i problemi: li aggrava. E, come si è visto, indebolisce la collaborazione intraeuropea anziché rafforzarla.

 

Migranti, gli errori italiani, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 13 novembre 2022, editoriale, p.1

Il cosiddetto gender. Di cosa ha paura chi ne ha paura

Le teorie gender non esistono. Non, almeno, nella forma di spauracchio che coloro che le avversano temono. Esiste invece la ricerca di un’identità di genere oggi sempre più fluida: che per i giovani è costitutiva, primaria, ma che vedono in maniera molto diversa rispetto alle generazioni che li hanno preceduti.

È per questo che nelle scuole e nelle università è così importante che se ne parli (lo si fa già, del resto: la differenza è se ad interrogarsi sono anche le istituzioni, come necessario). E che si consentano percorsi di sperimentazione diversi, come gli alias, il cambiare nome e apparenza: perché è davvero un altro mondo quello che ragazzi e ragazze stanno attraversando, anche se noi, generazioni precedenti, non lo capiamo. Per molti di loro è la nuova normalità. Sono cambiati i costumi sessuali, ma anche i sentimenti e il modo di esprimerli, e le forme di espressività. Il semplice fatto che la distanza dal primo rapporto sessuale al momento del matrimonio o semplicemente di una convivenza, di un legame più stabile, sia aumentata così tanto, e si misuri ormai in lustri, nemmeno in anni, ha fatto sì che in mezzo si apra un campo e un periodo di sperimentazione, anche per tentativi ed errori, con un aumento dei partner e del tipo di rapporti: il cambiamento anche culturale che c’è già stato consente ai giovani di sperimentare e sperimentarsi come nessuna generazione precedente ha potuto fare.

Sì, certo, è anche un fenomeno di moda, ed è normale. Come per tutte le cose significative che ci riguardano: ma dietro ci sono domande autentiche, vita vissuta, sofferenze anche (basterebbe ascoltare coloro che si sono trovati in situazione di incertezza identitaria, magari abitando in un piccolo paese, non capiti dalla famiglia, dal contesto che avevano intorno, e solo grazie a internet hanno scoperto che la loro ricerca aveva un nome, che c’erano migliaia di giovani come loro, e questo li ha salvati). Se ne discute, si parla, si sperimenta, si assumono comportamenti diversi, e se ne capisce il costo, la difficoltà, l’impegno. La società complessivamente ci guadagna. Bisogna cominciare a pensare che a essere capaci di vivere l’esperienza dell’altro non ci si perde niente: ci si arricchisce solo, e ce n’è un enorme bisogno. I giovani in questo vogliono davvero essere diversi dalle generazioni che li hanno preceduti, e potranno vivere in un mondo diverso perché lo stanno già costruendo.

Non è lo sfizio di un progressismo ottuso, che viene accusato di non vedere i veri problemi della società, mentre questi sarebbero inutili e irrilevanti. Così come per l’accettazione della pluralità culturale, il multiculturalismo cui viene spesso accoppiato, l’attenzione al genere mostra che per le giovani generazioni, tanto la diversità etnica e razziale, quanto la differenza di genere, è sempre più irrilevante. È proprio un salto generazionale. Come i bambini che fin dal nido hanno come compagni bambini di altra religione, colore della pelle, etnia, e non lo vivono come problema, non si fanno problemi ad accettare queste diversità, almeno fino a quando non si mettono a ripetere pappagallescamente i pregiudizi appresi in famiglia, dai loro genitori, così è per l’identità di genere, e i comportamenti detti devianti, o non conformi. E questo processo, ormai innescato, è irreversibile: tanto vale tenerne conto.

Forse sta accadendo qualcosa di simile all’attenzione per l’ambiente e per la natura: la cecità ottusa non è la loro, è la nostra, che non ci siamo accorti di quanto eravamo parte di un tutto. Ecco, loro si accorgono di essere anche plurali, liquidi, più di quanto noi pretendiamo di essere (senza esserlo davvero), singolari e solidi, quando non tetragoni. In particolare nella fase della vita, sempre più lunga, in cui sono a scuola e all’università: in cui discutono, si fanno domande, si posizionano rispetto alla società, cambiano e la cambiano. Per questo è necessario non solo tenere conto della loro ricerca e della loro espressività, ma anche ascoltarli. Abbiamo qualcosa da imparare pure noi.

Non stupisce che a favore di una discussione aperta sul tema siano in primo luogo gli insegnanti e gli psicologi. I primi perché sono quelli incaricati dalla società di far funzionare il processo di socializzazione, che nelle famiglie funziona sempre meno: trasmettendo valori che si scoprono sempre meno condivisi. E i secondi perché una marea di questi ragazzi li hanno in cura, proprio perché non li ascoltiamo, e non ci rendiamo conto dei cambiamenti che hanno attivato. Così come non stupisce che un pezzo della politica e della società continui ad essere contro a qualunque discussione: proprio perché è lontana da questi mondi, proprio perché non li capisce.

 

I giovani, gli adulti e il gender, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 22 ottobre 2022, editoriale, p.1

La violenza di genere. E qualche possibile risposta. Il punto di vista di un maschio, adulto

L’ennesimo femminicidio pone per l’ennesima volta il problema di trovare una risposta alla più banale delle domande: perché? Perché ancora questa ottusa violenza sulle donne? Provo a rispondere a partire da quello che sono: un maschio. E a sminuzzare alcune ipotesi che non pretendono di essere una teoria, ma solo frammenti di spiegazione che tentano di dire l’indicibile.

C’è un problema del maschile con la violenza in generale, innanzitutto. La violenza come mezzo quasi ‘naturale’ (anche se non c’è niente di naturale in tutto ciò, ma è frutto di una cultura tramandata nei secoli) di risoluzione dei conflitti, che poi vuol dire anche l’incapacità di trovare altri mezzi per farlo. Non a caso la guerra è affare dei maschi, e laddove non è più (e per fortuna) questione pubblica abituale (in passato ogni generazione aveva la sua guerra, la sua insurrezione, la sua colonizzazione, la sua indipendenza, o la sua rivoluzione, per la quale andare allegramente a combattere), è rimasta una sua presenza forte nel privato, nel quotidiano: violenza di genere, bullismo, conflitti metropolitani da traffico o da stadio, violenza gratuita e delinquenza vera e propria, ma anche competizione estrema nel mondo del lavoro, nello sport, e altrove. Come se l’imporsi fosse il solo modo conosciuto di farsi strada. Si badi bene, non è che la violenza nel privato sostituisca la guerra: in passato c’era e l’una e l’altra, ed entrambe a livelli di barbarie ben peggiori. Semplicemente la diminuzione di frequenza dell’una ci costringe a vedere meglio le logiche sottese all’altra, che dipendono da noi e di cui abbiamo responsabilità: a differenza della guerra non possiamo dire che è colpa di qualcun altro.

Collegata alla violenza, e alla competizione, c’è la questione dell’esercizio del potere. Che, anch’esso – cominciamo ad impararlo – ha molte dimensioni e può essere esercitato in molti modi, anche orizzontali e inclusivi, ma per il quale ricadiamo troppo spesso nella legge del più forte, nell’imposizione e nella verticalità, che poi è una traduzione su altri piani della gara a chi ce l’ha più lungo: che si tratti di politica, di impresa, di scuola o di famiglia. Anche qui un’evoluzione c’è stata, eccome. Ma uscire da abitudini consolidate di privilegio (e quello del maschile nei confronti del femminile è sicuramente tale), tanto più perché indifendibili sulla base della logica e della razionalità, richiede tempo (generazioni: e tuttavia sta accadendo, l’evoluzione sociale in questo senso è inesorabile), ma anche capacità di lettura dei fenomeni e magari guida: e questo si vede meno. Le donne conquistano faticosamente spazi, gli uomini ne perdono, ma in un certo senso non ancora abbastanza, e restano spesso arroccati in un’ottusa difesa (di un fortino sempre più piccolo, le cui ragioni d’essere si indeboliscono platealmente) che non so definire altrimenti che corporativa: e quindi, come tutte le corporazioni, che sanno di essere l’opposto della meritocrazia, e di difendere privilegi ingiustificati, fuori tempo massimo rispetto alla storia, sanno reagire solo con la prepotenza – senza nemmeno più ricercare motivazioni.

Si dirà che è un problema di cultura, ed è giusto, se si prende il termine in senso ampio (non di istruzione solamente, dato che la violenza nei confronti delle donne attraversa anche le classi sociali e i ceti). E allora forse vale la pena chiudere la nostra riflessione su questo: la cultura di genere. Abbiamo la sensazione che una parte del problema stia lì. Nella definizione di ruoli differenti, ancora troppo caratterizzati come irriducibili, ad alcuni dei quali è associato più potere di altri. Anche in forme indirette: il fatto che il lavoro esterno sia salariato, quello domestico e di cura no, o il fatto che i lavori a maggiore presenza maschile vengano pagati meglio di quelli detti femminili, fa passare in maniera strisciante e silenziosa un messaggio assai chiaro, in una società in cui il valore si evidenzia soprattutto attraverso il denaro (e semmai ci sarebbe da mettere in questione anche questo aspetto: se l’aspetto relazionale è così centrale nelle nostre vite, perché il lavoro relazionale vale così poco?).

Le generazioni più giovani, che vivono in maniera sempre più ovvia e autoevidente una maggiore fluidità di genere, e il desiderio di superare steccati, confini, ruoli e luoghi comuni legati al genere, forse in questo senso possono insegnarci qualcosa: perché la capacità di assumere il ruolo dell’altro (non in astratto, ma nella pratica: che significa a casa, al lavoro, nel modo di relazionarsi, di vestirsi, di comunicare con le parole e con il corpo, di usare il tempo, di desiderare un ruolo) ci consente di comprenderne meglio il punto di vista, di aumentare significativamente i livelli di empatia, di leggere meglio i problemi di comprensione, e quindi di trovare soluzioni ai medesimi.

 

Ci manca la cultura di genere: impariamo dai più giovani, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” 25 settembre 2022, editoriale, p.1

Il vescovo, il prete e l’ora di religione: lezioni dal caso Verona

Il vescovo di Verona, mons. Zenti, ha scelto di uscire male dalla storia e dalla vita pubblica della città: esautorando dall’insegnamento un prete che ha osato criticare la sua grossolana sortita pre-elettorale in favore del candidato sindaco del centro-destra.

Il casus belli è noto: prima del ballottaggio mons. Zenti ha scritto una lettera ai preti della diocesi in cui poco velatamente invitava a votare usando come criterio alcune “frontiere prioritarie”, come la “famiglia voluta da Dio e non alterata dall’ideologia del gender”, l’aborto e l’eutanasia, la difesa della scuola cattolica. Il vescovo ha cosmeticamente mascherato il suo patente appoggio al centro-destra (che aveva un precedente nelle elezioni del 2015, in cui aveva esplicitamente invitato a votare una candidata leghista) citando anche la disoccupazione, le povertà, la disabilità, l’accoglienza dello straniero: ma tutti hanno perfettamente capito dove voleva andare a parare, tanto che lo stesso candidato del centro-destra, Sboarina, ha fatto ampio riferimento, nel suo ultimo videomessaggio, proprio alla fantomatica ideologia gender (e a modo suo agli immigrati, dicendo che la sinistra avrebbe riempito Verona di campi rom, clandestini, degrado e abusivi), senza che la cosa gli abbia portato fortuna. Un prete e insegnante di religione noto in città, don Marco Campedelli, ha scritto una lettera aperta al vescovo, criticandone le sortite, finendo sospeso dall’insegnamento. Al di là di come la Curia sta oggi tentando di mascherare la sua posizione (e magari si finirà per sospendere la sospensione, per eccesso di clamore e palese effetto boomerang), la vicenda è interessante, e ha valenza non solo locale, per diversi ordini di motivi.

Il primo è il diritto stesso di critica all’interno della chiesa. Se una posizione dissonante rispetto all’autorità è considerata lesa maestà, se ne deduce per converso che l’unica posizione ammessa, apprezzata e premiata è il conformismo acritico, con tutti i difetti connessi: ipocrisia, servilismo, mentalità da yesman (in italiano suona leccapiedi, in dialetto basabanchi). Del resto è l’ideologia implicita nella stessa idea di appello al voto da parte di un vescovo o di un prete: si chiama clericalismo, e presuppone che il clero abbia un ruolo, una responsabilità e un potere maggiore dei laici, e che ne sappia di più anche sulla vita sociale e politica. L’ironia sta nel fatto che il clericalismo (idea pre-conciliare e paternalistica) è ancora fortemente presente nella chiesa, pur essendo del tutto depotenziato nella realtà: il voto cattolico non esiste sostanzialmente più, e la capacità di influenzare gli eventi politici ridotta al lumicino per scelta autonoma dei laici (come dimostra la stessa vicenda veronese).

Ma questa vicenda ci dice molto anche sulla questione dell’insegnamento della religione: che ancora, incongruamente, ha un carattere di ircocervo (animale favoloso, che la Treccani ci ricorda essere metafora di cosa assurda, inesistente, chimerica), oggi non più accettabile. Con insegnanti pagati dallo stato, ma un curriculum formativo deciso dalla chiesa cattolica, e l’obbligo del gradimento della chiesa locale per insegnare, con ingerenze anche nella vita e nella moralità privata dei docenti. È del tutto evidente che tale situazione è oggi insostenibile. Perché non siamo più tutti naturaliter cattolici, perché sempre più persone rifiutano questa sostanziale imposizione, e perché siamo in una società religiosamente plurale, e con un’ampia presenza di non credenti e non praticanti. Ed è interessante che sia proprio dall’interno del mondo cattolico più avvertito che si segnala – da anni – la necessità di passare dall’ora di religione (sostanzialmente obbligatoria dato che l’alternativa, a dispetto della normativa, è quasi sempre il nulla – ma anche ridotta, spesso, per poter coinvolgere tutti, a vaghe discussioni, e declassata a materia senza voto) all’ora delle religioni, gestita dallo stato, con la stessa dignità delle altre materie, capace di formare gli studenti al pluralismo religioso, ma anche alla stessa riflessione sul fatto religioso, oggi scandalosamente assente. Il risultato controdeduttivo della situazione attuale, infatti, è la sconcertante ignoranza religiosa degli italiani. Una perdita secca: anche per la chiesa cattolica.

 

Il vescovo e le ore di religione, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” e “Corriere di Verona”, 2 luglio 2022, editoriale p.1

Ius Scholae: le ragioni di una legge

La Camera dei deputati ha cominciato a discutere la legge sullo ius scholae, che concede la cittadinanza italiana a tutti coloro che hanno completato almeno un ciclo scolastico – ed è subito polemica. La platea potenziale è ampia: si tratta di circa 880mila studenti, la stragrande maggioranza dei quali è nata in Italia. Il valore e l’impatto della legge – peraltro supportata, nei sondaggi, dalla maggioranza degli italiani – sulla vita dei futuri nuovi cittadini potrebbe essere quindi significativo.

Perché è utile e anche urgente il provvedimento? L’acquisizione della cittadinanza è regolata da una legge del 1992: trent’anni fa, quando ancora le seconde generazioni erano pressoché inesistenti, dato che l’Italia era diventata da appena un paio di decenni un paese di immigrazione, dopo essere stato a lungo un paese di emigrazione. Ciò spiega perché la legge consenta il recupero della cittadinanza ai discendenti di italiani emigrati anche da diverse generazioni, che nulla sanno dell’Italia e che per lo più non sono interessati al rientro (la maggior parte, specie dall’America Latina, la chiede per poter entrare negli USA senza obbligo di visto), ma non ai figli degli immigrati nati qui (o arrivati da piccoli), socializzati qui, scolarizzati qui, spesso frutto di un’integrazione che più che nazionale potremmo definire marcatamente dialettale (la maggior parte di loro non la riconosceremmo come straniera, sentendoli solo parlare). Peraltro, la legge italiana è una delle più restrittive dell’Europa occidentale, e più restrittiva persino della legge italiana del 1912 e delle norme previste dallo Statuto albertino. Attualmente si può chiedere solo al compimento del diciottesimo anno di età, l’iter dura mediamente almeno quattro anni (ma per molti cittadini di origine non Europea si allunga notevolmente), e non è un diritto, ma una concessione individuale, non infrequentemente rifiutata. Il risultato è che questi giovani si ritrovano titolari solo di un permesso di soggiorno, da rinnovare anno per anno se per motivi di studio e se maggiorenni, che spesso arriva con molti mesi di ritardo rispetto alla richiesta, e tutta una serie di problemi pratici conseguenti: non poter andare all’estero nemmeno in gita scolastica, non poter rappresentare l’Italia nello sport agonistico, non poter partecipare a concorsi pubblici (che incostituzionalmente spesso prevedono ancora il requisito della cittadinanza; ci limitiamo a citare il caso dei medici, di cui c’è penuria, e che in paesi come la Gran Bretagna sono stranieri di origine per oltre un terzo). E in generale non essere come gli altri: in qualche modo essere obbligati a non sentirsi membri a pieno titolo della comunità, pienamente integrati, ancora meno patrioti – per impossibilità tecnica, proprio, e in contraddizione col loro sentire maggioritario. Curiosamente, i loro compagni spesso lo ignorano, si sorprendono quando lo scoprono, e non ne capiscono il motivo. Da qui il moltiplicarsi di iniziative locali di concessioni di una cittadinanza simbolica, anch’essa nella forma dello ius scholae (ora è la volta di Bologna, ma accade da anni, nel silenzio generale, anche in piccoli paesi), che consenta di sentirsi parte almeno della comunità locale.

La cittadinanza è “il diritto di avere diritti”, come ha scritto Hannah Arendt. Ma ha anche un importante valore simbolico, ed è rivendicata per questi motivi dai ragazzi di seconda generazione: che non si sentono affatto diversi, e vorrebbero semplicemente essere trattati come gli altri. Ciò che risponde a un principio fondamentale, al riconoscimento di un importante mutamento sociale (legato alla sempre maggiore mobilità, che peraltro vede oggi prevalere quella in uscita rispetto a quella in entrata, le emigrazioni rispetto alle immigrazioni), ma anche alla logica della convenienza, che dovrebbe spingerci a preferire un’integrazione completa rispetto a una parziale, anche per questioni demografiche e di fabbisogno di manodopera, visto che i saldi oggi sono drammaticamente negativi, e siamo in penuria sia di bambini che di lavoratori. Uno dei casi virtuosi in cui i valori si sposano con gli interessi. Un suicidio contrastarne la logica.

 

I diritti dei ragazzi nati qui, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, “Corriere di Verona”, “Corriere del Trentino”, “Corriere dell’Alto Adige”, 30 giugno 2022, editoriale, p.1

Quando chi chiede inclusione, esclude: considerazioni sul Gay Pride di Bologna

Tra i paradossi che ci è toccato vedere ultimamente (solo la politica ce ne ha offerti di più, con salti mortali, capriole logiche e contorcimenti di appartenenze ancora più evidenti) c’è anche questo: la festa dell’inclusione per eccellenza, il Gay Pride, che esclude – il movimento antidiscriminazione che discrimina.

Come sta succedendo a Bologna, dove è in corso la discussione sulla partecipazione di un gruppo di poliziotti alla sfilata dell’orgoglio omosessuale. La cosa è singolare e interessante di per sé: un gruppo di attivisti del gruppo Polis Aperta (significativo il gioco di parole intorno alla polis come città – sottinteso: di tutti – e come tutori dell’ordine), che include poliziotti e membri delle forze armate, vorrebbe partecipare al Gay Pride in maniera caratterizzata e visibile (non in divisa ma, come fatto peraltro in occasione di altri Pride, con il nome dell’associazione e una polo con la scritta “Diversamente uniformi” che richiama nei colori la divisa stessa). Avremmo potuto eventualmente aspettarci il disappunto del questore, o la contrarietà dei superiori, a un partecipazione che dal loro punto di vista avrebbe potuto creare dissonanze, se non problemi (anche se il diritto a manifestare è una conquista di civiltà non negoziabile anche per le forze di polizia): il Pride è sempre stato una manifestazione pacifica, gioiosa e solare (semmai, a provocare, a cercare lo scontro, o a picchiare, in passato, sono stati i militanti organizzati anti-gay, e ancora più lontano nel tempo, proprio i tutori dell’ordine), ma nel caso degenerasse in scontri, potremmo rischiare, in linea del tutto teorica, di vedere appartenenti allo stesso corpo di polizia in ruoli diversi e contrapposti.

Lascia invece smarriti, più che stupefatti, che a essere contrari alla loro presenza sia il comitato organizzatore del Pride bolognese, o almeno una sua parte (a giudicare dai commenti che girano in queste ore, molti non sono d’accordo): con una posizione fortemente ideologizzata e infantilmente estremista (cit. Lenin). Certo, storicamente ha un senso: il Pride nasce dopo l’ennesima provocatoria retata della polizia contro i gay a Stonewall nel 1969. Certo, la polizia, come molte altre istituzioni, incarna l’ordine costituito (il potere, se si preferisce): e il potere ha una dimensione repressiva delle differenze (spesso volutamente interpretate come devianze), e nello specifico si pone a tutela di un presunto mainstream che anche culturalmente è portatore di indubbi contenuti omotransfobici. Ma Polis Aperta, come molti altri (e come gli stessi organizzatori del Pride) ha precisamente lo scopo di sensibilizzare e trasformare la società dall’interno e dal basso, cambiando anche la visione del potere. E in molti modi ci sta riuscendo: il mondo sta cambiando, da questo punto di vista. Censurarne la presenza rasenta quindi il paradosso. Ancora di più quando tale rifiuto si manifesta – come si è visto in qualche commento alla vicenda – nella pura e semplice evocazione degli “sbirri” (con un gergo offensivo che dovrebbe perlomeno apparire dissonante a organizzazioni e ambienti che sono abituati a subirlo) come il male in sé: come se non fosse un mestiere necessario, tra gli altri. Che, per inciso, durante il Pride sarà svolto da uomini e donne che avranno il compito di proteggerli, i manifestanti, da eventuali provocazioni: di garantire i loro diritti, quindi, non di reprimerli.

Detto questo, facciamo i nostri auguri al Pride bolognese, e con particolare simpatia, quest’anno, ai militanti di Polis Aperta. Ricordando che un gruppo pop come i Village people, icona del movimento omosessuale da 60 milioni di dischi (e autori di successi globali come “YMCA” e “In the Navy”, dove si invitava al reclutamento nella Marina Militare), hanno sdoganato le divise già negli anni ’70, dato che uno di loro, nelle esibizioni e nei video, era sempre vestito proprio da poliziotto. Forse hanno fatto più loro per l’inclusione, con un po’ di ironia, che tonnellate di seriosissimi comunicati e distinguo antiomolesbobitransfobici.

 

I paradossi di un Pride chiuso, in “Corriere di Bologna”, 24 giugno 2022, editoriale, p.1

Contro il cumulo di salari e pensioni nel pubblico impiego

Il caso del direttore generale di una USL che percepisce anche la pensione, pone più di un problema. Non tanto o non solo sul piano legale, dato che la legge non vieta in assoluto il cumulo, ma pone solo un limite economico (peraltro elevato, al di là della portata e dei sogni dei più: 240mila euro).

La questione non è legata al lavorare oltre una certa età: diciamo, convenzionalmente, oltre i fatidici 65 anni. L’aspettativa di vita di tutti noi si è alzata, e di molto: ormai, ai ritmi attuali dello sviluppo della medicina e delle tecnologie collegate, ogni decennio guadagniamo un paio d’anni di vita. Viviamo mediamente in molto migliore salute rispetto al passato, grazie ai miglioramenti nell’alimentazione e a stili di vita più salubri, a politiche di prevenzione e a sostegni farmacologici, che oggi fanno assomigliare un sessantacinquenne, in termini fisici e cerebrali, a un cinquantenne del passato: e, dopo tutto, a fronte di questi miglioramenti, non si capisce perché dovremmo essere obbligati a non dedicarci ad alcuna attività. Il problema è l’essere andati e continuare ad andare in controtendenza rispetto ai miglioramenti ottenuti, anticipando anziché ritardando l’età pensionabile: ciò che costituisce l’anticamera del problema di cumulo tra retribuzione e pensione che qui solleviamo.

Si pone innanzi tutto una questione di sostenibilità economica. Certo, sarebbe diverso se vivessimo in una società, come immaginano alcune teorizzazioni futuribili, dove a lavorare sono le macchine e noi potremmo godercela in attività ludiche, relazionali e creative (del resto, in questo caso, i vantaggi dovrebbero essere spalmati su tutte le generazioni, con una riduzione complessiva del carico lavorativo, non solo goduti dai più anziani). Ma poiché non è così, e molti lottano duramente per arrivare alla fine del mese, questa situazione grava le generazioni più giovani, già penalizzate dalla minore numerosità, di un peso intollerabile (si calcola che già intorno al 2040 il rapporto tra lavoratori e pensionati dovrebbe essere di uno a uno, mentre attualmente è di tre a due – il paradosso è che le pensioni dei secondi sono spesso già oggi più elevate dei salari dei primi). In più, se consentiamo il cumulo di salari e pensioni, si pone un problema di giustizia sociale molto serio, e anche di accettabilità e moralità complessiva del sistema.

Già oggi gli over 60 godono di vantaggi e tutele che le giovani generazioni, che sono penalizzate da un ingresso tardivo nel mercato del lavoro, e da lunghi periodi di precariato, tra stage e tirocini, non avranno: con effetti previdenziali molto pesanti in termini di valore delle loro, di pensioni, che saranno più basse di quelle offerte oggi (peraltro, in molti casi, quelle attuali sono in regime retributivo, e quindi molto aiutate dalla collettività).

Ecco perché diventa intollerabile, almeno nel settore pubblico, gestito con il denaro di tutti, che si consentano o addirittura si favoriscano ingiustizie ulteriori. Da questo punto di vista il divieto di cumulo dovrebbe essere assoluto. Eppure si manifesta anche in forme meno visibili: come quando un ente locale o un’impresa pubblica, per risparmiare, al momento del pensionamento di un dipendente, decide di attivare – a lui o a un altro – un contratto di consulenza, decisamente meno oneroso, e cumulabile alla pensione, a danno di un giovane non assunto e di un posto di lavoro cancellato. Almeno nel settore pubblico dovrebbe essere semplicemente proibito di avere contratti con chi già gode di una pensione pagata dal pubblico. L’obiettivo non è condannare gli anziani all’inutilità, ma al contrario favorire altri tipi di occupazione, anche a titolo non oneroso, o almeno ipotizzando forme di perequazione e bilanciamento tra salario e pensione, con diminuzione della seconda in caso di aumento del primo.

Conosciamo benissimo i problemi pratici che ci sono. La sanità, da cui siamo partiti, ce ne offre un intollerabile esempio nelle figure dei medici andati in pensionamento anticipato, con un regalo inutile, e poi riassunti a contratto nei medesimi ospedali date le carenze di personale sanitario. Ma qui dovrebbe essere la collettività ad attivare una class action per danno erariale contro chi ha voluto Quota 100, invece di accettare la situazione come un dato.

 

 

Un errore il cumuli dei redditi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 22 giugno 2022, editoriale, p. 1