Immigrati: politica senza strategia. Tra nuovi sbarchi e vecchie ossessioni ideologiche.

Gli sbarchi non si fermano, e le morti nel Mediterraneo neppure: è di questi giorni l’ennesima tragedia, con forse una sessantina di morti, a fronte di venticinque sopravvissuti, raccolti e salvati per caso dalla Ocean Viking, la nave dell’organizzazione francese SOS Méditerranée. E questa è la prima notizia d’attualità. La seconda è che la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha ritenuto di non concedere la procedura d’urgenza per l’esame di un aspetto del cosiddetto decreto Cutro: la garanzia finanziaria da quasi cinquemila euro che gli immigrati, anche appena sbarcati, che non vogliono entrare nei CPR, i Centri per il rimpatrio, dovrebbero versare allo stato. È in apparenza un tecnicismo, ma potrebbe avere conseguenze anche sull’applicazione dell’accordo tra Italia e Albania per la gestione in terra albanese delle pratiche dei richiedenti asilo che tentano di arrivare in Italia. Insieme, queste due notizie mostrano l’assenza totale di una strategia seria di gestione delle migrazioni, e il ricorso a sole iniziative di facciata, quasi sempre contraddittorie e prive di un obiettivo pratico reale.

Cominciamo dagli sbarchi. Che, di per sé, non sono certo colpa del governo: né di questo né dei precedenti. Ma che mostrano la mancanza di coraggio degli uni e degli altri nell’affrontare il problema alla radice. La questione è più semplice di quello che sembra. In passato esistevano dei flussi regolari di manodopera immigrata, e una quota percentuale molto più piccola di ingressi irregolari. Da alcuni decenni a questa parte, per rispondere alle paure della pubblica opinione – di per sé comprensibili, ma che andrebbero informate e guidate, non seguite – sono stati progressivamente chiusi la gran parte dei canali regolari di ingresso, in particolare per lavoro. L’inevitabile risultato è stato il rovesciarsi delle percentuali: una maggioranza di immigrazioni irregolari, e una quota percentuale relativamente piccola di ingressi regolari. L’unica cosa seria da fare per combattere le immigrazioni irregolari sarebbe dunque (ri-)aprire canali di immigrazione regolare con gli stessi paesi di origine e di transito da cui arrivano i flussi irregolari, coinvolgendoli nella responsabilità della gestione dell’irregolarità in cambio del vantaggio di canali sicuri, di cui peraltro abbiamo noi stessi un enorme bisogno (quantificabile in almeno duecentomila ingressi l’anno per l’Italia, e due milioni per l’Europa, solo per mantenere in relativo equilibrio la forza lavoro necessaria, a fronte di una demografia completamente squilibrata, in cui calano drammaticamente le nascite e aumentano i pensionati). Per non dover ammettere questa evidente verità, di cui stiamo già pagando il prezzo, ci si limita a ostacolare con provvedimenti improvvisati una immigrazione irregolare che, in mancanza di alternative, non potrà che crescere. Come si fa con i provvedimenti, meramente punitivi, contro le ONG, con l’assegnazione di porti lontani (che produce solo più costi e più morti, senza alcun vantaggio per nessuno), o l’impedimento di salvataggi multipli. La stessa Ocean Viking era appena ripartita dopo un fermo amministrativo di mesi, proprio per questa ragione: che è come se a ciascuno di noi, dopo aver salvato la vittima di un incidente stradale, sulla strada per l’ospedale ci fosse vietato – per legge! – di salvare un altro ferito trovato lungo il percorso.

La seconda questione riguarda la singolare proposta, uscita dal cappello di un consiglio dei ministri dell’autunno scorso e mai discussa prima, di inventarsi una cauzione da 4938 euro che gli immigrati provenienti da paesi detti ‘sicuri’ dovrebbero pagare per non entrare nei CPR. A parte l’inapplicabilità e la totale assenza di senso della realtà (si parla di fidejussioni, trattandosi di persone neosbarcate che difficilmente quella cifra la possiedono, quando anche per un italiano una polizza fidejussoria presuppone dichiarazione dei redditi, proprietà, un lavoro fisso e banalmente una residenza), anche questa norma, come quelle sulle ONG e molte altre, mostra di essere improntata a un inutile cattivismo, che pare ben più reale del buonismo di cui sono accusate, un giorno sì e l’altro pure, le organizzazioni che queste politiche contrastano. E destinata, come del resto l’accordo con l’Albania, non a risolvere un problema, ma solamente a mandare un segnale politico e propagandistico all’opinione pubblica: un modo di dire che si sta facendo qualcosa, tamponando o terziarizzando il fenomeno, senza nemmeno cominciare ad affrontarlo davvero.

Veniamo, per l’appunto, alla ratio degli accordi siglati. Pensare di gestire le richieste d’asilo, rivolte all’Italia, dall’Albania è come pensare di risolvere il problema dei ritardi nella sanità aprendo un ospedale a Tirana, portandoci medici, infermieri e pazienti italiani: sarebbe un costo enorme (non solo le centinaia di milioni di euro per attrezzare una base, ma costi di gestione gonfiati oltre tutto anche dalle indennità di trasferta all’estero…), non velocizzerebbe le pratiche (se lo facesse non si capisce perché le stesse persone non potrebbero analizzarle negli stessi tempi in Italia), creerebbe un sacco di problemi pratici (possiamo immaginare celerità ed efficacia, oltre che rispetto dei diritti, di udienze svolte tramite interprete con giudici e avvocati in videoconferenza). Si tratta di un fallimento annunciato, a cui tuttavia la lentezza di risposta della UE rischia di dare un alibi: se non si riesce a farlo in tempo per le elezioni europee (questa era probabilmente la vera ragione della decisione: raggiungere un elettorato spaventato con un messaggio di furbesca anche se inefficiente protezione), sarà pur sempre possibile dare colpa all’Europa della mancata attuazione.

Non che non si debbano fare accordi con gli altri paesi: al contrario, è la cosa giusta da fare. Ma su altre basi. E, aggiungiamo, con altri obiettivi: selezionare e formare la manodopera in accordo con i bisogni dell’economia, per esempio. Non fare finta che se ne possa fare a meno lanciando segnali generici e anche un po’ obliqui di rifiuto e di esternalizzazione. Prendere in mano, insomma, i problemi, nei loro termini reali. Con più spirito pragmatico e meno vocazione ideologica. Allo scopo di risolverli, non di rilanciare slogan più o meno nazionalistici (che peraltro vanno contro l’interesse nazionale).

 

L’accordo Italia-Albania ha i piedi d’argilla, perciò l’Europa lo boccia, in “Il Riformista”, 16 marzo 2024, p. 6

Uomini contro le donne. Giulia, Sara e le altre.

Un altro femminicidio. Che però è categoria astratta, con un che di giuridico e di impersonale. Diciamola diversamente. Un altro assassinio di una donna da parte di un uomo. Con una sola motivazione: perché lei era una donna e lui un uomo. Se non ragioniamo così, se non ce la diciamo così, l’uccisione di Sara Buratin rischia di essere solo un caso di violenza tra tanti (proprio perché l’ennesimo, sempre meno rilevante in sé), un numero aggiunto a una statistica, e niente più. Non possiamo, oltre tutto, derubricarlo a violenza generica: è violenza di genere, che è cosa diversa. Sono ancora troppo freschi il dolore, l’emozione, la partecipazione, la mobilitazione seguiti all’omicidio di Giulia Cecchettin: che ci hanno fatto ragionare, riflettere, fare autocritica anche (come uomini, anzi, come maschi, in primo luogo). Purtroppo, come si è visto, non tutti, non abbastanza, non sufficientemente a fondo.

Forse il solo modo di capire veramente cosa è successo, è vederlo da dentro, come sanno fare solo l’introspezione e l’empatia, o l’arte, attraverso la capacità di mettersi davvero nei panni degli altri, e dentro le cose. Provare a immaginare, se non capire, quello che avrebbe potuto pensare e sentire Sara nei suoi ultimi istanti. Sapere di avere condiviso con il tuo uomo quasi due decenni di vita in comune, le parole dette, le risate serene, le tenerezze scambiate, l’intimità complice, pelle contro pelle, l’amore dichiaratosi vero e duraturo, la nascita di una figlia, i momenti della sua crescita, le gioie banali ma profonde che sono di tutte le famiglie, un repertorio di avvenimenti, di aneddoti e di ricordi, di pasti consumati insieme, di compleanni, di vacanze. E capire solo all’ultimo, mentre la lama affonda nel collo, che è stato capace di premeditare il tuo omicidio, di usare una scusa banale per venire a casa, di colpirti vigliaccamente alle spalle in maniera efferata, una, due, venti coltellate, lasciandoti lì, nel tuo sangue, e poi scappare, sì, scappare, altrettanto vigliaccamente, senza pensare a te, senza pensare a tua figlia, che adesso hai orrore a pensare vostra, anche sua, la rabbia, la disillusione, lo schifo che proveresti ora, a pensare di essere stata così tanto tempo con un uomo capace di tutto questo – se fossi sopravvissuta…

No, non è un altro caso di omicidio-suicidio. È persino sbagliato definirlo così, perché mette le due cose sullo stesso piano. E non lo sono. Perché l’assassino ha potuto scegliere: la vittima no. E comunque il secondo, il suicidio, non spiega né tanto meno giustifica, o sminuisce, il primo. Anche Filippo, l’assassino di Giulia, ha detto che voleva farla finita, ma non ne ha avuto il coraggio. Alberto ha solo portato a termine il suo proposito, tutto qui. Questo, di certo, non lo rende migliore, non lo scusa, non produce attenuanti o sfumature nel giudizio. No, non è un fatto solo individuale, una storia irripetibile. E lo sappiamo proprio perché si ripete. Con agghiacciante e inesorabile frequenza. È il segno di un modo di pensare specifico, figlio di una cultura e di un’epoca. Che, certo, ha millemila spiegazioni anche individuali. Che, certo, vanno analizzate nella loro soggettività. Ma anche ricondotte alla loro radice (non ragione: non c’è ragione) comune: che è un’idea di donna, e di uomo, e di potere nella relazione tra i due. Che rende la donna proprietà dell’uomo. Di cui può disporre, come un padrone dispone di uno schiavo, che considera oggetto, merce in fondo, e non persona. Perché lei è una donna e tu un uomo, appunto. Senza bisogno di (altre) ragioni.

Poi, certo, si può provare a confrontare, a comparare. Scoprire che in fondo entrambi, Alberto, l’assassino di Sara, e Filippo, il killer di Giulia, differenza d’età (non diciamo di maturità, che non c’era) a parte, erano uomini incapaci di una relazione adulta, consapevole, veramente di scambio, disponibile a valorizzare l’altra persona; anzi svalorizzandola al punto da renderla cosa, priva di individualità e personalità, di cui è possibile e lecito sbarazzarsi. Uomini taciturni, solitari, o meglio soli, anche quando in compagnia. Non perché amanti di una solitudine consapevole e scelta, ma perché incapaci di relazione all’interno delle relazioni che pure instauravano, e da cui dipendevano. Poi, certo, non in tutti i casi è così. Quello che hanno veramente in comune, di fondo, è l’essere uomini contro le donne. Come abbiamo cercato di dire. Come temiamo di dover ripetere ancora.

 

Uomini contro le donne, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 2 marzo 2024, editoriale, p.1-5

Niente Natale dove è nato il Natale: Palestina senza pace

Se c’è un posto nel mondo dove sicuramente non sarà Natale, questo è dove è nato il suo protagonista: Betlemme, la Cisgiordania, la parte di Israele che noi chiamiamo Terra Santa, e la Palestina tutta (qualunque territorio questa espressione racchiuda), a cominciare da Gaza. Un fazzoletto di terra, insanguinato da decenni, che oggi conosce uno dei suoi momenti più alti di violenza e disumanizzazione. Tuttavia, se vogliamo evitare di indulgere in una facile retorica, affettatamente nobile ma di fatto vacua e non veramente partecipe, l’unica cosa decente e intelligente che possiamo fare noi, che il Natale lo passeremo al caldo, tra affetti e regali, è trarne qualche lezione.

La prima è che nessuno è al sicuro: nemmeno noi. La guerra è tornata vicino e dentro i confini dell’Europa, e con essa tornerà (è già tornata) la percezione di insicurezza, le proteste e i conflitti tra fazioni contrapposte, l’ossessione del terrorismo, tra ragionevoli timori e paranoie attentamente costruite.

È l’occasione, per noi, per fare pulizia: a cominciare dalla pulizia del linguaggio, sulla padronanza del quale, e sul modo di usarlo, abbiamo tutta la responsabilità del mondo. Possiamo legittimamente provare una sensazione di impotenza rispetto a scenari geopolitici tanto più grandi di noi. Ma non abbiamo il diritto di provarne quando ne parliamo, e ci ragioniamo sopra – che, già, sono due cose qualitativamente diverse.

Il primo invito allora è a ragionare prima di parlare. Che è un’attività che si fa da soli. Cercandosi fonti di informazione attendibili, e non avendo paura di esprimere opinioni dissonanti da quelle del mainstream mediatico e politico. Cercando di capire che possiamo e dobbiamo distinguere tra le responsabilità dei rispettivi carnefici, ma dobbiamo pure esprimere eguale solidarietà alle vittime innocenti, tutte. La logica da tifo calcistico con la quale spesso affrontiamo il conflitto israelo-palestinese, abbracciando superficialmente le ragioni dell’uno o dell’altro, schierandoci (“senza se e senza ma”, come spesso si chiosa: come se vivessimo e ragionassimo in questo modo in altri ambiti della vita individuale e sociale…), ma senza troppo pensare, è profondamente dissonante rispetto all’approfondimento critico cui siamo chiamati. Fare pulizia, togliere lo sporco da dentro di noi, dai nostri ragionamenti e dalle nostre parole, vuol dire innanzitutto questo: capire, ragionare, e solo poi prendere parte, che non è la stessa cosa che prendere partito – vuol dire innanzitutto entrare in empatia, cioè sentire il dolore (pàthos) altrui, non importa di chi si tratti. Così come sapere da che parte stare non vuol dire stare sempre e necessariamente dalla stessa parte: perché la ricerca della pace, di una soluzione al conflitto, che cerchi diminuire il costo che pagano gli innocenti, vuol dire saper leggere la realtà con gli occhi dell’altro, e cercare un compromesso accettabile, costruirlo pazientemente – con i se e con i ma. Sporcandosi le mani con la fatica delle scelte e delle inevitabili incomprensioni, non tenendole pulite in un’illusione di purezza identitaria, tipica di chi si sente dalla parte giusta. Denunciando quindi, in primo luogo, gli errori e le nefandezze di quelli che sosteniamo, invece di minimizzarle e nasconderle: che è quello che fa la propaganda (bellica per definizione) – che è l’inizio della fine della ricerca della verità, anzi è il suo opposto, il vero sporco che dovremmo ostinatamente cercare di togliere dagli interstizi del nostro ragionare e del nostro agire.

Il passo successivo è naturalmente quello della solidarietà: tanto più vera se la sentiamo, prima ancora di praticarla. Se piangiamo il dolore altrui, anziché usare selettivamente le vittime (rigorosamente solo quelle della parte che sosteniamo) per colpire e accusare la parte avversa. Le vittime meritano di essere aiutate, non strumentalizzate. E quindi è giusto anche valutarne il numero (contano, per noi, anche nella misura in cui le contiamo), e con esso misurare l’immensità della tragedia che si sta consumando, capire chi la subisce in maniera maggiore, chi sta pagando il prezzo più alto.

Gandhi diceva che “il fine sta nei mezzi come l’albero nel seme”. Che non ci sono cause giuste da sostenere se il modo con cui le sosteniamo è quello sbagliato, o è viziato all’origine da una lettura parziale della situazione. Anche perché, temo, le letture acritiche, partigiane, de-umanizzanti, di sostegno a sola una delle parti in causa, ci rimbalzeranno addosso in futuro. Anche in chiave geopolitica. E non potremo dire allora di non avere responsabilità in proposito. La responsabilità delle parole e delle azioni di oggi.

Lettere dalla guerra: Betlemme senza Natale, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 24 dicembre 2024, editoriale, p. 1

Il dolore e la presa di coscienza. Di fronte alla morte di Giulia Cecchettin.

Se la misura di un evento è la sua capacità di farci riflettere, l’assassinio di Giulia Cecchettin, la commozione, la riflessione e la mobilitazione che ne sono seguite, e infine la partecipazione corale e sentita ai funerali, hanno indubbiamente avuto un effetto trasformativo.

Certo, la violenza contro le donne e i femminicidi – nonché le culture su cui si fondano e gli squilibri di potere da cui originano – hanno una lunga storia, che purtroppo non finirà ora: ce ne saranno ancora. Ma nella storia sociale e civile, e qualche volta politica, di popoli e nazioni, ogni tanto capitano eventi spartiacque, che costringono tutti a una riflessione e a un esame di coscienza: la morte di Giulia, possiamo dirlo fin da adesso, è stato uno di questi eventi. E nel fatto che lo sia stato ha avuto un ruolo la consapevolezza forte della famiglia, del padre Gino e della sorella Elena, la loro capacità di farla diventare storia pubblica, interrogazione collettiva: grazie a loro questa morte non è stata e non sarà stata invano.

A fronte della grandezza di tutto questo, molte critiche e banalità sentite in questi giorni – su un presunto pensiero unico, sulla (ovvia) inaccettabilità delle generalizzazioni, sul fatto che la violenza in fondo c’è dappertutto e anche da parte delle donne, sulla derubricazione di quanto avvenuto a mero fatto individuale, a peculiarità solo psicologica (che ovviamente c’è) e individuale, sull’inesistenza di quello che si può chiamare patriarcato o in altro modo ma certamente è ben presente nelle nostre società, ecc. – sono totalmente irricevibili, e spesso dettate da semplice desiderio di visibilità, se non da puro gusto polemico, condito da infantilismo del pensiero.

Invece di ragionare in astratto, provo a raccontare quello che ho visto in università: l’università che Giulia (e anche il suo assassino, colui che ha così terribilmente tradito la sua fiducia) aveva frequentato e in cui avrebbe dovuto laurearsi pochi giorni dopo. Il lunedì dopo il fatto molti di noi docenti – maschi e femmine indifferentemente – avevano la voce spezzata, e facevano fatica a fare lezione: e, senza mettersi d’accordo, moltissimi l’hanno fatta su questo, parlandone con ragazze e ragazzi che non aspettavano altro, e avevano voglia e bisogno di dire la loro. La reazione, la partecipazione e la mobilitazione attiva di studentesse e anche studenti è stata spontanea, immediata, corale, sentita, emozionale, spesso legittimamente arrabbiata, per niente ideologica, tutt’altro che moralistica e politicamente schierata. Profonda, seria, autentica e matura, mi viene da dire, nonostante il forte coinvolgimento emotivo, e forse grazie ad esso. E il giorno dei funerali mi ha colpito non tanto la presenza delle ragazze (più scontata, da un certo punto di vista, anche se qualitativamente diversa da quella vista in altre situazioni, più rivendicative e di lotta, come le manifestazioni – più alta, direi), o quella di gruppi misti di ragazze e ragazzi, ma quella di giovani coppie abbracciate che credo non dimenticheranno di esserci state (anche e soprattutto quando litigheranno per questioni legate alle inerzie culturali implicite nei ruoli di genere), e ancora di più i gruppi di ragazzi arrivati insieme, e i tanti studenti, giovani adulti, uomini soli, venuti a testimoniare silenziosamente di fronte a se stessi una presenza sentita come dovuta: di fatto, a fare esame di coscienza, come individui e come collettività maschile, che deve prendersi carico del proprio ruolo e della propria responsabilità, piangendo il dolore, la sofferenza, la violenza subita ordinariamente dall’altra metà del mondo, le loro sorelle, amiche, madri, figlie, compagne, colleghe, partner.

Chi sottovaluta quanto avvenuto, o chi lo svaluta, derubricandolo a reazione di pochi, irridendola come emotiva, una cosa che passa e non lascerà tracce e conseguenze significative, dimentica che le emozioni sono ciò che ci fa letteralmente – come da etimologia – e-movere, cioè agire. E la com-mozione, il piangere insieme il dolore altrui, ne è una delle forme più eminenti ed efficaci.

 

Il nostro pianto collettivo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 dicembre 2023, editoriale, p. 1

Diritti civili: il divorzio tra politica e società

Il 74% degli italiani è favorevole all’eutanasia. Il 72,5% è favorevole alla concessione della cittadinanza ai figli degli immigrati. Il 70,3% è favorevole all’adozione per i single, e il 54,3% anche per le coppie omosessuali. A proposito di mondo LGTBQ+, il 65,6% è a favore anche del matrimonio egualitario tra persone dello stesso sesso. Solo la gestazione per altri è respinta dalla maggioranza degli italiani, essendo sostenuta dal 34,4% della popolazione. Lo attesta il Censis, nell’annuale fotografia scattata con il suo rapporto: uno specchio del paese, non della sua classe dirigente.

In queste cifre c’è infatti tutto lo scollamento (potremmo dire il divorzio, richiamando un altro tema di diritti civili in cui la società aveva mostrato di essere più avanti dei suoi leader) tra la popolazione italiana, e la politica che dovrebbe rappresentarla – ma non lo fa. Una politica che guarda all’indietro, che ha paura di prendere qualsiasi decisione, che rinvia e procrastina, mentre la società guarda più lontano (e altrove) e va avanti, pensa, riflette, evolve, cambia idea, e deciderebbe, se lo potesse.

Tutto questo non è estraneo alle difficoltà civili, sociali, e anche economiche del nostro paese, e al suo persino sorprendente basso livello di soddisfazione (siamo ai livelli più bassi, tra i paesi europei, negli indici di felicità percepita, nonostante i patrimoni Unesco e la dieta mediterranea, e la retorica sparsa a piene meni dalla politica sul paese più bello del mondo: altro elemento di scollamento – forse è bello per i politici, molto meno per gli altri).

Sono i giovani a tirare la volata su tutti questi temi. Ma sono la popolazione meno ascoltata. Perché sono pochi. Perché, precocemente delusi, votano in percentuali inferiori. E perché, quindi, ascoltare le paure degli anziani è più facile e redditizio per la politica (non deve fare nulla: solo dar loro ragione) che non agire, fare, cambiare qualcosa. Ma anche la popolazione più matura dei rappresentati la pensa diversamente dai suoi (molto presunti, sul piano valoriale) rappresentanti.

Incidentalmente, questo scollamento produce sfiducia ulteriore, lo sfilacciarsi del patto sociale, e anche la ragionevole esterofilia che spinge molti, giovani soprattutto, non solo a guardare con invidia ai modelli sociali di altri paesi, ma proprio ad andarsene, come mostra plasticamente la crescente emigrazione, che è ancora più alta tra le categorie più istruite e più aperte al cambiamento, producendo un impoverimento ulteriore, che paghiamo a caro prezzo.

Ecco, sarebbe bello, e soprattutto utile, se la politica – anche regionale, anche locale – (e la politica tutta: anche quando era al governo il centro-sinistra, non si sono prodotti passi avanti significativi, o non abbastanza, rispetto, che so, alla cittadinanza per le seconde generazioni nate in Italia o sul matrimonio egualitario) facesse un esame di coscienza sul proprio ruolo, sui danni che su questi temi fa al paese. E si desse una mossa. Magari, chiedendo scusa per il troppo tempo perso fino ad ora.

 

Se politica e società divorziano, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 3 dicembre 2023, editoriale, p.1

Ironie della storia: gli albanesi e noi

Ve li ricordate, gli albanesi? Quelli arrivati con la nave Vlora, ad esempio? Ventimila persone (ventimila!) arrivate con una nave sola, l’8 agosto 1991: il più grande sbarco di immigrati della storia italiana. In gran parte furono rimpatriati con una menzogna, dicendo che li si sarebbe portati altrove, ma sempre in Italia: compensati con un paio di jeans e poco più. Ma negli anni successivi sono continuati ad arrivare.
Oggi sono quasi mezzo milione, quasi un decimo degli immigrati in Italia, e non spaventano più nessuno. Al punto che gli stessi (e gli stessi partiti) che allora e negli anni successivi non li volevano proprio, organizzavano manifestazioni contro di loro e contro gli altri immigrati, raccoglievano voti utilizzandoli come capro espiatorio di mali sociali che stavano altrove, oggi firmano accordi con il loro paese d’origine per aiutarci a gestire proprio l’immigrazione irregolare che loro rappresentavano, appena trent’anni fa. E non è solo la politica ad aver cambiato idea: il che è segno di saggezza, anche se è sospetto che sia accaduto solo quando si è visto che poteva fare comodo. È anche la gente, quella stessa che all’inizio li rifiutava, che li ha poi accolti senza problemi: lavorano e hanno creato moltissime imprese (oltre 50mila, in cui sono assunti pure molti italiani), i matrimoni misti sono tantissimi, qualcuno è stato addirittura eletto dagli italiani per rappresentare i loro interessi e governarli: come la giovane avvocatessa Sindi Manushi, oggi sindaca di Pieve di Cadore (che peraltro è riuscita anche a diventare italiana, seppur mettendoci quasi quindici anni).
Ecco, dovrebbe dirci qualcosa, questa ironia della storia, questa solo apparentemente sorprendente nemesi storica, questa rivincita silenziosa. Perché la loro storia è la storia di tutte le migrazioni: solo che non si ama ricordarla. Né si fa tesoro dell’esperienza. E nemmeno si vuole accettare che accada così anche per gli altri immigrati.
Ma torniamo agli accordi siglati con l’Albania: di fatto uno specchietto per le allodole. Non che non si debbano fare accordi con altri paesi, per governare l’immigrazione: al contrario. Ma con i paesi di provenienza e di transito: e aprendo canali regolari di ingresso, cosa che ancora non si fa, non solo demandando ad essi politiche di contenimento. La ratio di questo accordo invece è la pura esternalizzazione di una funzione: fare là quello che normalmente si fa qua. Ufficialmente con la scusa che sia funzionale. Il problema è che non lo è. Oltre a essere enormemente costoso. È un po’ come se, per risolvere il problema delle liste d’attesa in sanità, aprissimo un ospedale a Tirana, e ci portassimo medici e pazienti italiani. Qui si fa lo stesso. Si prendono degli immigrati da Lampedusa o intercettati in mare, li si portano in Albania, in una base ristrutturata a spese nostre, con un fondo di garanzia per gli acquisti e le spese correnti, si porta personale amministrativo e di polizia dall’Italia (con le indennità e i sovracosti relativi), si esaminano le pratiche – si dice – di tremila persone al mese (ma se è davvero possibile farlo in Albania, perché qua ci mettiamo anche un anno e più?): poi, i richiedenti asilo riconosciuti, li si dovranno riportare in Italia. E quelli non riconosciuti, con tutta probabilità, ce li ritroveremo comunque da noi, perché riproveranno a entrare irregolarmente via mare dall’Albania o via terra lungo la rotta balcanica. Con il risultato di aver speso una cifra assurda per gestire delle pratiche che avremmo potuto gestire con molto meno in Italia. Un risultato, tuttavia, lo si sarà ottenuto, ed è la vera ragione dell’accordo: si potrà dire al proprio elettorato che si è fatto qualcosa per liberarsi di un po’ di immigrati giudicati inutili. E questo proprio mentre le nostre imprese, il nostro turismo, la nostra agricoltura e i nostri servizi, inclusi quelli alla persona, continueranno a lamentare la carenza di immigrati utili.
Se poi l’obiettivo, come si dichiara, è dissuasivo (spaventare gli immigrati, facendo loro balenare il rischio di essere portati altrove, anziché in Italia), è pura illusione che questo possa far diminuire le partenze. Non ci riescono i muri, che producono il solo risultato di aumentare la lunghezza, la durata e la sofferenza del viaggio. Figuriamoci se ci può riuscire una deviazione in più, per persone che hanno alle spalle migliaia di chilometri di viaggio, e di deviazioni ne hanno dovute già fare molte.
Infine, se la logica è esternalizzare, cioè usare i servizi di altri paesi, facendo fare ad altri quello che noi facciamo peggio, avrei una proposta: allarghiamola. Perché non far gestire il welfare alla Svezia, la burocrazia alla Germania, la giustizia alla Francia, la scuola alla Danimarca, le tasse all’Olanda?

Ironie della storia: noi e l’Albania, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 26 novembre 2023, editoriale, p.1

Bilancio di un ventennio: in sintesi…

È una tentazione a cui è difficile sottrarsi quella di fare bilanci a cifra tonda. Lo facciamo nel privato, festeggiando i compleanni con lo zero con enfasi particolare. E lo facciamo nel guardare retrospettivamente al nostro passato. A quasi ogni decennio, non a caso, tentiamo di dare un significato preciso, più di quanto sia lecito fare. Per questo ricordiamo i ’60 come gli anni del boom, i ’70 come quelli della protesta, gli ’80 come il decennio del riflusso, i ’90, forse, come gli anni delle speranze deluse (nasceva la seconda repubblica, ma dagli scandali di Tangentopoli, non dalla speranza di un mondo migliore).
Gli ultimi due decenni, più che dalla politica e dai movimenti sociali, sono caratterizzati dal ruolo dirompente assunto dalle tecnologie nelle nostre vite (quasi tutti gli strumenti, le app e i social che si mangiano gran parte del nostro tempo sono progettati o introdotti nel primo decennio di questo nuovo millennio), ma anche, soprattutto nell’ultimo decennio, dalle grandi crisi: economiche prima (si comincia con quella finanziaria del 2008), poi la presa di coscienza di quella climatica e ambientale, poi quella pandemica che fermerà il mondo temporaneamente e metterà in crisi la nostra idea di sviluppo globale forse definitivamente, infine quelle geopolitiche (che del resto avevano aperto il millennio, con l’abbattimento delle torri gemelle e la scoperta del terrorismo globale), fino all’Ucraina, e al riaprirsi del conflitto israelo-palestinese, e tutte le altre che ci siamo nel frattempo rapidamente scordati. Crisi, che diventano anche di senso, di prospettiva (non abbiamo più risposte alla domanda: dove stiamo andando?): e da cui non ci siamo più ripresi.
È una crisi anche quella demografica, che introduce una variabile ignota in passato, ma che ci cambierà radicalmente: le cui radici risalgono al secolo precedente, ma delle cui conseguenze ci accorgiamo solo adesso. Le nascite sono crollate, e siamo sempre più vecchi, anche se Trento e Bolzano stanno relativamente meglio rispetto alla media nazionale. In più abbiamo ripreso a emigrare, mentre l’immigrazione si è ormai consolidata nel passaggio generazionale, grazie ai nuovi italiani nati qui. Ma di queste immigrazioni abbiamo sempre più paura. Da un lato ci tocca ammetterne l’indispensabilità nel mondo del lavoro, dall’altro non ne vogliamo accettare le implicazioni, anche solo nella loro visibilità, ed erigiamo nuovi muri, mentali prima che fisici (e anche burocratici e legislativi).
Ed è una crisi anche quella della politica, dell’investimento nella casa comune, dei soggetti che pretendevano di guidare la società, dai partiti politici (oggi sempre più simili a consorterie dedite essenzialmente alla propria autoperpetuazione) alla chiesa, che resta una riserva etica importante, ma ha perso anch’essa incisività. Nella società è emerso un individualismo diffuso, che ha portato all’enfasi sui diritti soggettivi anziché su quelli da rivendicare collettivamente. Legati all’identità sessuale o alla bioetica, ma in realtà pervasivi, come mostrano gli egoismi anche generazionali (lo si vede quando si tratta di ripartire le risorse e gli investimenti: ognuno porta acqua al proprio mulino, che si tratti di pensioni o di qualche bonus).
Con l’individualismo si è diffuso il rancore di massa, la rabbia sorda e inconcludente, senza obiettivi, pronta a sfogarsi alla prima occasione, nei confronti del nemico politico e del capro espiatorio di turno (i social, ma anche le gazzarre televisive che vengono chiamate talk show, ne sono una riprova quotidiana, insieme a certa violenza banale, da incidente stradale o da rissa in un locale). E con il rancore si è innescato il ritorno delle tribù, l’insularità tra simili con lo stesso obiettivo (contro qualcuno più che per qualcosa). E si è accentuato un gap generazionale che forse non è mai stato così visibile e incisivo: neanche più il nuovo mondo dei giovani, che si ribella al vecchio, ma mondi separati e spesso non comunicanti – non si contesta neanche più, si vive altrimenti.
Di tutto questo, la politica è oggi uno specchio, forse ulteriormente deformante. E così, chiusi ciascuno nel proprio particolare, abbiamo perso la capacità di investimento sul futuro (complice la caduta del potere d’acquisto, la diminuzione dei salari reali, e anche una diffusa e impalpabile paura – raramente giustificata – che domina la vita cittadina di molti), cui è seguito il pessimismo come orizzonte. Come se si fosse persa la bussola, un orientamento, i punti di riferimento, le solide certezze che fanno sì che si sia capaci anche di grandi slanci, di nuove esplorazioni.
Eppure – seppure all’ombra della crisi ambientale e climatica – il futuro è potenzialmente esaltante. Le possibilità saranno enormi: il problema sarà far crescere di pari passo la capacità di immaginarle e di gestirle. Longevità, scoperte scientifiche, intelligenza artificiale e liberazione potenziale dal lavoro più duro e dai suoi ritmi e luoghi, come ci ha insegnato lo smart working. Ma questo ci riporterà ai problemi sociali di sempre: in primis la lotta alle diseguaglianze, per fare in modo che quello che è già a disposizione di pochi possa essere patrimonio di tutti.

pubblicato in “Corriere del Trentino” e “Corriere dell’Alto Adige” il 21 novembre 2023, in occasione dell’edizione del ventennale delle due edizioni locali del “Corriere della sera”

Fine vita: discuterne seriamente, non con slogan

È triste che le discussioni sul fine vita ricadano nella consueta logica binaria (giusto/ingiusto, buono/cattivo, vero/falso, e nel caso di specie vita/morte) che portano a schierarsi prima ancora di cercare di capire. Perché il problema è innanzitutto quello di definire il problema. Non si tratta di abbreviare la vita o anticipare la morte: ma precisamente di definire che cosa è vita e che cosa è morte. Per questo dovremmo rifiutare con fastidio e persino con indignazione e scandalo chi si autopropone come pro vita, come se altri fossero pro morte. Se siamo adulti ragionevoli, almeno (purtroppo, ascoltando taluni politici e opinionisti, è lecito dubitare che lo siano: probabilmente è anche questo uno dei casi in cui il senso comune è più avanti di chi pretende di rappresentarlo).

Proviamo ad approssimarci alla definizione del problema. L’aspettativa di vita di ciascuno di noi si è allungata enormemente, e in un secolo è praticamente raddoppiata. Il problema è che l’allungamento degli anni in buona salute non è proporzionale all’allungamento della vita, e anzi la sproporzione cresce continuamente. Forme di malattia, di decadimento e di sofferenza una volta rare e inusuali sono oggi esperienza diffusa, quasi di massa. Il che significa che la parte finale della vita (spesso anni, talvolta decenni) diventa per molti sempre più difficile, dolorosa, onerosa, in qualche caso insostenibile: più un’agonia (che in greco significa lotta, faticosa e dall’esito incerto per definizione), che un sereno andarsene. La medicina (più correttamente: la tecnologia e la chimica applicate massicciamente al bios) ormai può tenere in vita indefinitamente un corpo: ma, appunto, è vita?

Come rispondeva il cattolicissimo filosofo Giovanni Reale ai cattolici troppo facilmente e facilonamente schierati imbracciando le loro certezze pro vita come armi, se un corpo è tenuto in vita da una macchina, e in grado di vivere solo grazie ad essa, sostenere questa scelta è una sacralizzazione della tecnica, non della vita. E, aggiungiamo noi, sancisce l’estensione del dominio della malattia, che ha la stessa radice etimologica del male e del maligno, sulla vita. Non a caso le cose sono più complicate di così, e gli schieramenti non sono affatto cattolici (o religiosi) contro laici: già ai tempi del caso Englaro l’opinione pubblica interna ai vari gruppi si suddivideva pressappoco a metà.

C’è in gioco una questione fondamentale di dignità della vita e di libertà di scelta, e dunque di chi ha il diritto di decidere e di disporre del proprio corpo, e di quello di chi non è (più) in grado di decidere per sé stesso. C’è una doverosa questione da porsi sulla naturalità o artificialità (o artificiosità) delle nostre scelte: così come c’è un ritorno al cibo e pure al parto naturale, non si vede perché non dovremmo avanzare una riflessione anche sulla morte naturale; evento escluso ormai dal nostro orizzonte domestico e ancor più medico-ospedaliero (per il quale la morte deve avere per forza una causa, come se non appartenesse alla natura l’idea che la vita ha anche una fine), ma che pure allude a una dimensione profonda, che dovrebbe farci riflettere anche sul riportare la morte a casa, in un orizzonte familiare, anziché ospedalizzarla per forza, anche quando non è né utile né necessario. Ma è giusto pure parlare di costi, economici e morali (e bisogna che qualcuno si assuma il coraggio civile di dirlo): ormai, per ciascuno di noi, il grosso della spesa sanitaria è speso negli ultimi anni, per tirarla in lungo, per così dire, talvolta fino all’estenuazione, non per vivere bene, o per migliorare la vita di chi – bambino, giovane, adulto – avrebbe il diritto di viverla meglio. E forse anche su questo dovremmo aprire una discussione: è davvero etico spendere sempre di più, talvolta indebitando famiglie o costringendole a scegliere tra le spese per i figli e quelle per i genitori, per allungare una vita, o talvolta un suo simulacro, di qualche settimana, mese o anno? Certo, quando non si può più guarire si può ancora curare, prendersi cura. Ma questo non vuol dire allungare indefinitamente agonie spesso protratte per volontà dei parenti di non lasciar andare i propri cari che per desiderio di questi ultimi: semmai accompagnare la vita che è rimasta dandole un senso, più che una durata maggiore – dare vita al tempo (rimasto), non tempo a una vita che forse non è più tale.

Fine vita, il binario sbagliato, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 3 novembre 2023, editoriale, p.1

Senza se e senza ma? Il conflitto israelo-palestinese visto da qui

Troppo poche manifestazioni di piazza, dicono in tanti. E troppo poco partecipate. Poche reazioni. Poca identificazione. Poca solidarietà. Troppa apatia, troppo disinteresse, di fronte alla tragedia che si sta svolgendo sotto i nostri occhi in Israele e Palestina. Ma è davvero così?

Guardandomi in giro, parlando con amici e colleghi (molti, con una conoscenza superiore alla media della questione, con studi e viaggi nelle zone coinvolte alle spalle, e magari parenti, amici, conoscenti e sodali da quelle parti), ma anche confrontandomi con i miei studenti in università, ho una sensazione diversa. Quella che gli editorialisti dei giornali e i commentatori televisivi si ostinano a chiamare (equi)distanza, mancanza di partecipazione, colpevolizzandola, è semplicemente una realistica avvedutezza, una triste consapevolezza dell’inanità delle roboanti dichiarazioni di principio.

È la politica politicante, ignorante della storia e superficiale oltre il limite dell’accettabile (il peggio dei discorsi di questi giorni l’ho sentito a Radio Radicale, nelle dirette dal parlamento, oltre che nei proclami degli estremisti e degli oltranzisti di professione), è quella parte di sistema mediatico che di mestiere giudica e commenta (l’altra fa un lavoro preziosissimo di testimonianza, con i rischi relativi, che chi pontifica dal salotto di casa non corre), quella che lancia appelli e chiama a raccolta, che sente il bisogno di schierarsi da una parte sola, sempre senza se e senza ma: una delle frasi più ripetute e più idiote del nostro vocabolario politico, vetusta e al contempo infantile – il processo di civilizzazione è precisamente quella cosa che invece ci ha insegnato a distinguere, a discriminare, a comprendere i se e i ma, e anche i forse e i magari. Lo sguardo sociologico che cerco di insegnare ai miei studenti è fatto precisamente di questo: della capacità di mettersi da altri punti di vista, leggerli, confrontarli, compararli, e capire le complesse interrelazioni che sguardi diversi costruiscono e restituiscono. La società è questo: non il tifo calcistico che continuiamo a scambiare per politica, e applichiamo alla geopolitica. Il che non significa equidistanza, e nemmeno incapacità di scegliere. Si sceglie – si riconosce il terrorismo dalla guerra, il conflitto tra militari dalla strage di civili: ma consapevoli della vastità della tragedia, della sua incommensurabilità, che merita molto di più dello schieramento di principio, dell’apposizione di una bandierina.

Da qui una distanza abissale, tra chi si sente in dovere di stare dalla parte di quelli che ha deciso essere i suoi buoni (che si tratti di Israele o dei palestinesi), e che non può che passare il tempo a condannare chi sta da qualche altra parte o da nessuna. Tra chi discetta di malriposte certezze (assai poco solide, ma che pretende di imporre) e chi si lascia interrogare dal dubbio, dalla complessità, e soprattutto dal dolore, subìto o inflitto. Tra chi va in piazza in nome di una bandiera, e chi rifiuta proprio questa logica, cercando di capire ragioni, sragioni e torti degli uni e degli altri: perché solo da una operazione verità di questo genere potrà emergere una soluzione positiva, in un futuro che non è vicino, ma che proprio l’ignavia e l’inazione pluridecennale di chi oggi si affretta a schierarsi ha preparato. Tra chi sente l’impellente bisogno di schierarsi, e chi invece distingue tra oppressori e vittime incolpevoli, tra assassini e innocenti, e sta dalla parte degli incolpevoli e degli innocenti, ovunque siano. E, magari, cerca di dare una mano a superare la logica per cui le cose debbano andare avanti così, inesorabilmente.

Noi, oggi, qui, in Europa, meno coinvolti dal peso indescrivibile e innominabile del conflitto, cui partecipiamo solo per interposta persona, abbiamo il dovere proprio di questo: di quello che le parti in causa non sanno o non possono o non riescono o non vogliono fare. Preparare il terreno per una soluzione futura: che non potrà che tener conto di ragioni e percezioni diverse, di una storia di ingiustizie e violenze sedimentata nel tempo, diventata strutturale e istituzionale, tramandata di generazione in generazione. O quello in corso, in Israele e a Gaza, non sarà nient’altro che un ennesimo massacro, che ne preparerà un altro ancora, ancora più catastrofico. E via così, perpetuando la tragedia. Ma sollevati dall’esserci schierati. Come se fosse servito a qualcosa.

 

Medio Oriente: Osservare con gli occhi degli altri, in “Corriere della sera – Corriere di Bologna”, 15 ottobre 2023, editoriale, p.1

Schierarsi non è più sufficiente, in “Corriere del Trentino” e “Corriere dell’Alto Adige”, 17 ottobre 2023, editoriale, p.1

Meglio con i se e con i ma, in “Corriere del Veneto”, 18 ottobre 2023, editoriale, p.1

Immigrati: l’inflazione di provvedimenti emergenziali crea più problemi di quanti ne risolve

Cosa ci inventiamo oggi di nuovo sull’immigrazione? Sembra che funzioni così, la faticosa elaborazione di politiche sul tema. Per stratificazioni cumulative, anche in rapidissima successione. Una volta sono le ONG, subito dopo il decreto flussi (unica decisione che va nel senso di un’apertura: tutte le altre sono improntate a una logica suicida di chiusura totale), un’altra volta il raddoppio dei centri per il rimpatrio e l’allungamento dei tempi di detenzione nei medesimi, per poi rilanciare con un pagamento per non andarci (il prezzo della libertà?), e infine con discutibili iniziative sui minori, inframmezzando il tutto con uno scontro con la Francia sui respingimenti a Ventimiglia, e un altro con la Germania perché dà dei soldi a Sant’Egidio o a qualche ONG cui si imputa la responsabilità di salvare delle vite umane, sottoponendoci all’umiliante figuraccia di sentirci ricordare che è quanto fa anche la nostra guardia costiera. Tutte decisioni estemporanee sull’onda di una presunta emergenza, che dura ormai da anni se non decenni. Ma niente che venga deciso tutto insieme, lo stesso giorno, in nome di una riflessione complessiva, di un riassetto globale delle politiche. Oggi qui, domani là, con il contributo di tutti i ministeri: in prima linea ovviamente quello dell’interno, conditi però da una frase choc sulla sostituzione etnica rilanciata da quello dell’agricoltura, una polemica proveniente dalla difesa, un’altra che coinvolge gli esteri, per non parlare del ministro delle infrastrutture, che commenta a tutto campo spargendo parole in libertà su complotti e atti di guerra (per fortuna poco ascoltate nelle cancellerie straniere) anche se le tematiche non sono di sua competenza, con la premier che invece di fare sintesi dà la sensazione di volersi ritagliare un proprio ruolo diretto, come visto con la Tunisia o nella lettera al suo omologo tedesco. Una gara, praticamente. Un brainstorming permanente.

Tutto ciò non può che alimentare un iperattivismo inevitabilmente accompagnato da un crescente livello di improvvisazione, non di rado di irrazionalità, alimentato da una ossessione ideologica che viene da lontano, e da qualche eccesso di furore verbale: nell’assenza di una vera strategia e di azioni di prospettiva. Se ne è accorta persino la/il presidente del consiglio, che se non altro ammette che sull’immigrazione il governo non sta raggiungendo i risultati sperati. E si capisce, dato che l’obiettivo era e resta quello di combattere l’immigrazione, considerandola un problema in sé, anziché regolamentarla, gestirla, interpretandola come l’opportunità che invece rappresenta, per le imprese alla ricerca di manodopera, per una previdenza che altrimenti salterebbe prima del previsto, per una demografia che ci sta già penalizzando enormemente, ma i cui effetti saranno ancora più devastanti e impoverenti nel medio e lungo termine.

Si preferisce, anche adesso che si è al governo e non più all’opposizione, combattere una battaglia che mette a repentaglio i rapporti con i nostri alleati francesi e tedeschi (che, peraltro, paradossalmente, ricevono annualmente più richiedenti asilo di noi, che ci lamentiamo degli sbarchi) e produce isolamento (oltre che qualche probabile bocciatura) in Europa, pur di strizzare l’occhio all’elettorato interno. Inducendo peraltro a provvedimenti che sembrano animati, anziché dalla razionalità, da puro cattivismo, che è categoria politica e culturale assai più tangibile e diffusa del vituperato buonismo di cui tanto si è parlato in passato. Ne sono stati esempi le circolari per  spedire le navi delle ONG in porti lontani o impedire loro di fare più salvataggi nel corso della stessa missione (salvo smentirsi e chiedere il loro aiuto nei momenti di pressione maggiore). E ne sono dimostrazioni recentissime la decisione di portare a 18 mesi la permanenza nei CPR (che, se sono davvero centri per il rimpatrio, dovrebbero avere interesse a diminuire i tempi, anziché allungarli – mentre se diventano centri di detenzione di persone che non hanno commesso reati finiscono per essere semplicemente illegali), o la singolare proposta, mai avanzata né discussa prima, di inventarsi una cauzione da 4.938 euro da far pagare agli immigrati provenienti dai cosiddetti “paesi sicuri”, che dovrebbero fornire una fidejussione (siamo curiosi di vedere come, nella pratica, visto che anche per un italiano ottenere una polizza fidejussoria presuppone dichiarazione dei redditi, proprietà, un lavoro fisso, e banalmente un indirizzo di residenza). Per finire con l’inversione dell’onere della prova per dimostrarsi minorenni, l’inserimento dei suddetti in centri per adulti, e il raddoppio per decreto dei posti disponibili in strutture già oggi al limite della vivibilità.

Forse sarebbe più utile, invece di agire in preda a una spinta compulsiva all’(improvvis)azione, sostenuta da incontinenza verbale e motivata dai pregiudizi del passato, fermarsi un attimo, ragionare a freddo, pacatamente, magari ascoltando qualche voce esperta, copiando qualche esperienza riuscita altrove, e fare persino lo sforzo, maggioranza e opposizione, di fare delle proposte sostenibili, ragionevoli, pacate, non a scopo polemico, che guardino alle prossime generazioni anziché alle prossime elezioni (europee). Tanto, né da una parte né dall’altra, c’è davvero interesse a incancrenire il problema: prima o poi bisognerà offrire delle soluzioni. Che non si ottengono continuando a mettere l’uno contro l’altro, il cittadino contro l’immigrato, la destra contro la sinistra, il nostro paese contro gli altri. Solo quando capiremo questo, usciremo dall’emergenza permanente. E cominceremo a fare buon uso dell’immigrazione.

 

I migranti e le nuove invenzioni, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 settembre 2023, editoriale, p. 1