Demografia e migrazioni. Cosa dice l’Economist e perché ci riguarda

Le pagine dell’Economist di questi giorni sono piene di riflessioni sulla demografia mondiale, e i suoi legami con l’economia, le migrazioni e l’innovazione. Varrebbe la pena che qualche decisore pubblico nostrano, pur zoppicante con l’inglese (ci si può sempre far aiutare dal traduttore di Google), facesse lo sforzo di leggerle. Per capire quali e quanti scenari si aprono. E quanti rischiano di chiudersi.

Il principale di questi articoli ci annuncia, fin dal titolo, che “Una nuova era di migrazioni di massa è cominciata”. E non lo nota con aria preoccupata, lanciando allarmi su una nuova possibile emergenza, o su una presuntissima sostituzione etnica. Al contrario.

Il fatto è che la cattiva notizia è il crollo demografico dell’Occidente. Quella buona sarebbe che la disoccupazione interna ai paesi ricchi non è mai stata così bassa (con una media del 4,8%). E quindi l’unico modo per legare i due temi è ricorrere all’immigrazione. Cosa che sta già succedendo: nei fatti, e a prescindere dalle narrazioni fuorvianti e cieche (manco vedono i dati trasformarsi e i fatti accadere) della politica. Il mondo ricco infatti è già nel pieno di un boom di immigrazioni: che sono in crescita in Gran Bretagna (1,2 milioni di arrivi nel 2022, più che in qualsiasi periodo precedente, nonostante Brexit), Australia (il doppio che nel periodo pre-Covid), Stati Uniti (se ne aspettano quest’anno un terzo in più rispetto a prima della pandemia), Canada (nel 2022 più del doppio del record precedente), ma anche Germania (più che nel periodo della grande crisi del 2015, quando in poco più di un anno aprì le porte a 1,5 milioni di richiedenti asilo sparsi nei Balcani) e persino Spagna.

Si dirà che l’Economist è la Bibbia dell’ordine neoliberale, e fa solo gli interessi degli imprenditori, del capitalismo di Davos (se non altro, è il riferimento della loro ala più liberal e illuminata). E si dirà che in Italia la situazione è diversa. Ma non ne sarei così sicuro. Seppure in proporzioni un po’ diverse, il problema tocca anche noi: persino di più. Perché, è vero, da noi la disoccupazione è decisamente più elevata. Ma siamo messi molto peggio di altri paesi sviluppati in altri due indici. Siamo il paese con il bilancio demografico più catastrofico: da noi ogni anno i nuovi morti sono il doppio dei nuovi nati, con un differenziale che equivale alla popolazione di Bologna, settima città italiana per numero di abitanti – che evapora ogni anno. E abbiamo un bilancio migratorio tra i peggiori del mondo sviluppato: in sostanza, c’è in corso un’evasione di cui si parla assai meno della tanto gettonata invasione, per la semplice ragione che la prima non porta alcun dividendo elettorale. E questo ci riporta alla disoccupazione, e in buona parte la spiega. Esportiamo lavoratori istruiti (il tasso di laureati tra gli expat è il doppio della media nazionale) perché non abbiamo abbastanza posti (o a salari accettabilmente decenti) da offrire loro, ma abbiamo enorme bisogno di manodopera meno qualificata, perché tali sono i lavoratori di cui c’è carenza: l’80% degli immigrati, secondo dati ufficiali del ministero del lavoro – che tutti gli anni produce un rapporto sull’immigrazione in Italia che apparentemente nessun politico legge – hanno una qualifica riconducibile a quella operaia; e il grosso dei lavori per cui c’è penuria, dalle colf e badanti al settore cook and clean, dai braccianti alle cooperative della logistica e del trasporto, sono poco appetibili per laureati e diplomati qualificati, anche a prescindere da considerazioni salariali, su cui comunque ci sarebbe parecchio da fare (e va ricordato: un giovane di 25 anni che entra oggi nel mercato del lavoro guadagnerà circa il 25% in meno di un giovane di 25 anni entrato nel mercato del lavoro 25 anni fa: niente da dire, su questo, da parte di governo, imprese, sindacati?).

Altra notizia di rilievo è che i paesi che attirano più immigrati soffrono meno il calo dei salari, contrariamente a una vulgata proto-marxista, sull’esercito industriale di riserva, fatta propria in Europa soprattutto dalle destre, insieme a pezzi di sinistra radicale. I salari calano perché non c’è innovazione da un lato, e non ci sono controlli dall’altro, semmai. E perché una quota significativa di immigrati è irregolare e quindi più ricattabile: il che dovrebbe spingerci a regolarizzarli, e ad aprire canali regolari di ingresso, non a respingerli.

L’Economist conclude che presto la svolta anti-immigrazionista dei paesi sviluppati negli anni 2010 sarà vista come una aberrazione. La società civile organizzata, il mondo dell’impresa, le istituzioni internazionali, stanno cominciando ad accorgersene. Ora attendiamo la politica e la pubblica opinione, che continuano invece ad alimentare il corto circuito che spinge nella direzione opposta.

 

Chi chiede migranti e chi lo farà, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 giugno 2023, editoriale, p.1

Le ragioni del Pride

A qualcuno non piace perché sarebbe un’esibizione, un’inutile ostentazione. Certo, questo elemento (in alcuni) c’è. Chiunque indossi simboli e richiami identitari, politici o religiosi o calcistici, fa questo. Lo fa anche chiunque esibisce abiti griffati o ostenta auto di lusso davanti al bar preferito. Lo fa chi mostra con orgoglio il suo abito da lavoro come uno status (ricordiamo i camici bianchi durante la pandemia?). Lo fanno i militari, i religiosi, gli scout… E tanti altri, di cui non si dice che esibiscono e ostentano.

A qualcun altro non piace perché ci sono degli eccessi di cattivo gusto. E occasionalmente ci sono. Anche se davanti al cattivo gusto altrui, in quasi ogni ambito della vita sociale (ma anche della politica, che così spesso e così volentieri lo esibisce, lucrandone per giunta un dividendo, o nella pubblicità, o in TV), non ci sentiamo in diritto di reagire, di protestare, e nemmeno di farlo notare: lo subiamo, lo accettiamo, come accettiamo l’esistenza dell’imbecillità – come un dato. E certo non amiamo sentircelo dire, quando il cattivo gusto è il nostro.

Ad altri, infine, non piace che ci siano talvolta provocazioni irreverenti e anche offensive: blasfeme, nell’opinione di qualcuno. Può spiacere, e lo si capisce: e tuttavia, oltre al fatto che la provocazione e l’irriverenza caratterizzano spesso anche la critica sociale, la comicità e l’arte, e sono utili canali di riflessività per la società, a qualcuno potrà servire riflettere su quanto, troppo spesso, simboli e credenze cui si mostra irriverenza sono stati usati contro le minoranze, e quella che si riconosce nel Pride in particolare, come oggetti contundenti, armi improprie, strumenti di battaglia – per negarli, i diritti, la legittimità di un comportamento, la dignità sociale.

Così reagendo, ci sfugge il significato profondo di questo dirsi e di questo mostrarsi, anche con fierezza, con orgoglio (pride, appunto). Che è quello di manifestare un’adesione al patto sociale, ma a modo proprio: il dire ci sono anch’io, e ho diritto anch’io di esserci, a modo mio, ma con voi, di fronte a voi, con tutti voi, e con gli stessi diritti (a essere parte, a essere preso in considerazione) di tutti voi. È una rivendicazione basilare di cittadinanza, di un diritto universale, non particolare, ad essere parte dello stesso tutto.

Manifestare, manifestarsi, vuol dire questo. E vuol dire anche, almeno per un giorno, occupare il territorio, le strade, le piazze che in altri giorni sono ancora, troppo spesso, luoghi di offesa, di discriminazione, di insulto (“frocio”, o simili, condito di aggettivi pesanti o intimazioni a non esistere), di violenza agita, non solo verbale, dunque di negazione di un diritto. E un diritto, se non è di tutti, è solo il privilegio di alcuni, anche se questi sono o pretendono di essere la maggioranza. E quindi è una presa di parola, il Pride. Per una volta, parliamo noi. Occupiamo noi le strade e le piazze, le città, a modo nostro.

Dovrebbe colpire, invece, che tutto questo avvenga in maniera normalmente pacifica, colorata, divertente e divertita. Quando c’è stata violenza, sono stati altri i suoi attori: i gruppi omofobi, e talvolta, in passato, le forze dell’ordine. Sono altri, gli altri, i violenti, gli aggressori, i portatori di istanze monocolore quando non di un’anima nera, seriosa e rabbiosa, da usare contro gli altri.

Per questo, anche io, persona che i più definirebbero cisgender (ma bisogna stare attenti alle etichette semplificatrici: sotto c’è sempre qualcosa di più complesso e articolato) o eterosessuale nei suoi ruoli pubblici (marito di una persona di altro sesso, padre: ruoli che al mondo LGBTQ+ sono formalmente negati), oggi sarò al Pride. Per rivendicare i diritti di tutte le diversità: tutte quelle, almeno, che non confliggono con le regole del patto sociale. E questa è una di quelle, anche se molti pensano che non sia così, solo perché, pur esistendo il fenomeno da quando esiste l’umanità, il suo riconoscimento e la sua progressiva accettazione pubblica è storia recente (non diversamente dai diritti delle donne, verrebbe da dire). E anch’io sarò più colorato del solito: e, forse, se non più divertente, almeno più divertito del solito.

 

Pride, una presa di parola, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 3 giugno 2023, editoriale, p.1

Oltre la logica binaria: sul (cosiddetto) gender

Siamo abituati a ragionare per opposizioni binarie, per diadi contrapposte: bene/male, bello/brutto, buono/cattivo. Quando si cade o scade nella cronaca, parlando di valori, di scelte sociali o di politica, significa: pro/contro (provax/novax, e tante altre), destra/sinistra, amico/nemico. Chi non è con me è contro di me.

Sono modi di ragionare comprensibili, che ci aiutano a de-finirci. Le de-finizioni, come i con-fini, sono strumenti che ci aiutano a comprendere la realtà, ma non a descriverla correttamente. Ne abbiamo bisogno, ma per andare oltre. Esattamente come le definizioni servono a ridurre un universo complesso a variabili semplici: ma sono uno strumento, non un fine, un punto di partenza, non di arrivo. E i confini (cum-finis: la fine che abbiamo in comune con l’altro, non solo che ci separa dall’altro) sono luoghi di attraversamento (o dovrebbero esserlo), non muri: servono per definire un pezzo (solo un pezzo) della nostra multiforme identità, che è fatta di tanti elementi e di tanti apporti (i confini degli stati, ad esempio, definiscono quella nazionale, spesso nemmeno quella linguistica o religiosa, e certamente non quella culturale, che è fatta di una miriade di frammenti che si configurano diversamente per ciascuno di noi). Anche i confini, insomma, sono ciò che ci aiuta a muoverci nel mondo (così come le definizioni ci aiutano a capirlo), ma anche ad andare oltre gli schematismi e le semplificazioni prodotti da diversità spesso solo immaginarie, o artificiosamente costruite. È una cosa che facciamo regolarmente nella nostra vita, molto più di quanto ne abbiamo contezza. Ma che non ci raccontiamo volentieri, perché ci piace pensarci come persone tutte d’un pezzo, non contraddittorie, coerenti, lineari. Ciò che non siamo e non saremo mai.

Tutto questo dovrebbe essere ovvio, ma nel dibattito pubblico sparisce. Pensiamo al vivace, ideologico, frequentissimo discutere sul (cosiddetto) gender. Alla fine, il discorso si riduce a questo: definirsi (e obbligare gli altri a definirsi) attraverso un solo carattere (maschio/femmina: ma anche gay o trans sono identità riduttive, se isolate, per così dire a prescindere), o accettare che nella vita sociale, nella produzione culturale, e persino nella natura, da che mondo è mondo, sono sempre state possibili, e lo sono sempre di più mano a mano che aumenta la diversificazione interna e la complessità delle società, infinite sfumature intermedie, che bisogna fare la fatica di ascoltare e comprendere. Tanto più perché queste diversità si intersecano con altre, andando a formare tante configurazioni diverse quante sono quelle che potrebbe produrre un caleidoscopio.

Ecco, mi pare di capire che quello che soprattutto chiedono le giovani generazioni, che sono indubbiamente sempre più coinvolte nelle, e anche attratte dalle, discussioni sul genere, sia semplicemente questo: di mettersi in ascolto. Per loro, checché se ne dica (a differenza di non pochi adulti, qualunque posizione sostengano), si tratta di ragionamenti che li vedono coinvolti in prima persona, esperienzialmente proprio, perché in questi processi si mettono in gioco davvero: chiedendo che venga preso in considerazione anche il proprio sentire, il loro volersi identificare (parlare, vestire…) diversamente, dunque il proprio orientamento di genere, l’autodefinizione, il nome stesso, con la possibilità di cambiarlo assumendo un alias caratteristico di quello che per gli altri è un altro genere, non corrispondente a quello biologico di chi lo richiede.

Chiedono, semplicemente (ma è proprio questa la fatica, per la società degli adulti), di uscire da una logica rigidamente, cartesianamente, direi ideologicamente e persino stupidamente binaria. Per la quale – contro ogni evidenza – c’è solo il bianco e il nero, la destra e la sinistra, il vero e il falso, il buono e il cattivo, l’alto e il basso, il cielo e la terra, il giorno e la notte, e naturalmente il maschio e la femmina. Non è così: lo sappiamo persino noi. Un minimo di riflessione, e ancora meglio di esperienza, di corpo, di cuore, ce ne farebbe accorgere facilmente. Ma preferiamo rifugiarci in antiche certezze, che usiamo come cittadelle identitarie, per chiuderci dentro rassicurati, e come armi, per far la guerra agli altri, che non assomigliano a noi. Solo che questi altri, che a qualcuno sembrano alieni, sono i nostri figli. E non ascoltarli non è mai una buona politica.

 

Il gender e i giovani, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 20 maggio 2023, editoriale, p.1

Più migranti, e più figli: non è un’alternativa. E a proposito di Nordest…

FACCE DISPARI

Stefano Allievi ci spiega perché “non bastano più figli, servono migranti regolari”

 

FRANCESCO PALMIERI   

Sociologo, studioso dei fenomeni migratori, il suo ultimo libro è il “Dizionario del Nordest”. E dice: “Smettiamola con la retorica dell’invasione: l’allarme è ingiustificato. Solo con nuovi ingressi potremo salvare l’Italia”

Sociologo, studioso dei fenomeni migratori, milanese che ha scelto il Nordest dove vive da venticinque anni, Stefano Allievi è infaticabile autore di saggistica e infaticabile lettore di poesia (“per igiene mentale”). Ordinario di Sociologia all’università di Padova, il suo ultimo libro è il ‘Dizionario del Nordest’ uscito per Ronzani Editore, in cui sostiene, per dirla in sintesi, che il Nordest non esiste più. E poiché è capitato di sentirlo nel giorno degli Stati Generali della Natalità, non si è fatto sfuggire l’occasione per ricordare che, secondo lui, solo con l’arrivo dei migranti il Nordest (esista o meno) e l’Italia si possono salvare

Professore, cos’è il Nordest?

È retorica e aspirazione. Serve a vendere prodotti, soprattutto politici, con il richiamo a una identità molto ampia. Ma tra il Friuli e il Veneto ci sono enormi differenze, per non parlare del Trentino o addirittura dell’Emilia-Romagna, inglobata nella stessa circoscrizione elettorale alle Europee. Il Nordest è una invenzione politica e giornalistica, che ha funzionato per un bel po’ di tempo come chiave di presunta unicità: “Siamo la locomotiva d’Italia, quelli che lavorano più degli altri” e così via. Ma è da una ventina d’anni che il Nordest è un magma senza caratteri comuni, né politici né economici. Nello stesso Veneto, il Polesine, Belluno, Verona o Venezia sono tanti mondi a sé.

Come definire questo “magma”, che esiste ma non c’è?

Una sorta di metropoli diffusa che non è metropoli ma è sparpagliata tra città medie, piccole e campagne. Con un tessuto sociale provinciale, al cui interno ci si conosce bene e non si parla male, in pubblico, degli altri. Ci si protegge reciprocamente, non si è entusiasti di chi viene da fuori e i migranti sono brutti e cattivi, anche se il Veneto registra un saldo demografico negativo e una drammatica carenza di manodopera, perché a differenza della Lombardia il calo della natalità non è compensato dagli afflussi dall’Italia e dall’estero.

Cambieranno le cose con politiche più incisive a favore della natalità?

Sono auspicabili ma insufficienti in un Paese che ha perso in un anno 400 mila persone. Le politiche più “nataliste” del mondo, ammesso che le finanziassimo, avrebbero effetti sul mercato del lavoro tra vent’anni: vuol dire che intanto migliaia di aziende già senza manodopera avranno chiuso o si saranno spostate all’estero, con una enorme perdita di produzione e di ricchezza nazionale. Ci siamo mossi tardi: dell’inverno demografico bisognava accorgersi tanto tempo fa. Invece ci siamo svegliati solo da un paio d’anni, quando oltre a parlare degli sbarchi abbiamo constatato quanti giovani italiani emigrino per non restare in un Paese per vecchi.

Crede che l’arrivo di migranti possa risolvere i problemi economici piuttosto che aggravare quelli sociali?

Smettiamola con la retorica dell’invasione: l’allarme è ingiustificato. E poi gli arrivi irregolari non sono frutto del destino, ma li abbiamo creati noi. Quarant’anni fa non c’erano i barchini perché si poteva andare e tornare dall’Europa, non solo dall’Italia, senza tutte le attuali restrizioni che hanno prodotto evidenti risultati: morti in mare, migranti con livello d’istruzione sempre più basso e aumento dei minori non accompagnati, che rappresenta una bomba sociale. Non avveniva dai tempi di Neanderthal che dalle caverne invece degli adulti uscissero i bambini per procacciare il cibo.

 

 

Porti aperti?

Porti chiusi ai migranti irregolari, aperti ai flussi regolari. La soluzione va cercata negli accordi diretti con i Paesi di origine, stabilendo una quota annua di arrivi per ciascuno. Gli hub in Tunisia non risolvono, rivelano piuttosto una visione ancora sottilmente colonialista rispetto a Paesi che hanno un’opinione pubblica, dei media e un elettorato cui rispondere. Gli accordi diretti permetterebbero anche una selezione a monte e renderebbero realistico l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Non abbiamo bisogno solo di richiedenti asilo, ma dei migranti economici. Chi dice il contrario va contro i giovani italiani. Sembra un’eresia per la vox populi, ma gli addetti ai lavori lo sanno.

Spieghi alla vox populi.

Quando il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati non sarà più di 3 a 2 ma di uno a uno, quella generazione dovrà mettersi sulle spalle un peso insostenibile. All’università i ragazzi mi rispondono: allora anch’io lascio l’Italia. Già oggi, per semplificare con un parametro approssimativo ma facilmente memorizzabile, un giovane di 25 anni guadagna il 25 per cento in meno del suo coetaneo di 25 anni fa.

Perché non si fanno figli?

Non riduciamo tutto a questione di edonismo. In Italia il 45% delle donne in età fertile non ha figli, ma solo il 5% tra loro dichiara di non volerli. È che il nostro, pur essendo un Paese familista, non offre grandi servizi alla famiglia. Dai nidi alle scuole a tempo pieno ai congedi a cose più banali, come i fasciatoi al ristorante o lo skipass gratuito per i piccoli. Difatti le italiane emigrate in Germania o in Olanda fanno figli e li conciliano bene con il lavoro.

Il periodo della pandemia è stato un’occasione di cambiamento sciupata?

Non solo: ha aggravato la situazione, perché le donne hanno sofferto di più la perdita di lavoro e si è aggravato il divario tra garantiti e non garantiti. Non è un dramma all’orizzonte. Ci siamo già dentro.

     

    25 aprile: le parole per dirlo

    Il 25 aprile continua ad essere percepito da alcuni come una data e una festa “divisiva”. Eppure è dalla Liberazione dal nazifascismo che nasce logicamente la Repubblica, che festeggiamo il 2 giugno. E in cui tutti, salvo forse i Savoia, ci riconosciamo.

    Quest’anno c’è una differenza, però. Al governo non c’è chi l’ha sempre considerata come una “sua” festa, un motivo d’orgoglio e una rivendicazione di identità. C’è proprio chi, o anche chi, l’ha considerata – pure con polemiche recenti sul ruolo dei partigiani, o ambigui tentativi di ridurla alle sue pagine oscure (dalle foibe ai conflitti tra fazioni o alle vendette personali: che ci sono state, ma non ne inquinano il messaggio e il risultato) – divisiva e non inclusiva. Quale occasione migliore, allora, per i discendenti politici di chi all’epoca è stato sconfitto, ma ora gode dei vantaggi del regime repubblicano costruito dopo quello totalitario, e della legittimità democratica conquistata grazie ai suoi meccanismi elettorali (che il fascismo non consentiva), per fare un passo avanti, per andare oltre, per mostrare definitivamente di essere statisti, di essere al governo di tutti e per tutti, e non solo di una parte che si sente ancora – per giunta a torto – minoranza e vittima incompresa?

    Certo, il 25 aprile ci mostra la vittoria di una parte d’Italia. Qualcuno direbbe la sua parte migliore. Certamente non solo la sua parte vincente: quella che come noto scrive la storia. Perché è molto di più: è la parte che ha dato luogo al tutto – i padri e le madri della Repubblica, della democrazia, e della costituzione che di questi valori si è fatta garante trasformandoli in mezzi. Grazie a quella vittoria, combattuta dagli alleati e da una parte minoritaria della meglio gioventù italiana (i partigiani di varia tendenza, diversi e divisi tra loro ma tutti accomunati dal desiderio di sconfiggere il fascismo), e sostenuta da molti di più, oggi siamo il paese che siamo. Con terribili difetti, è vero: ma democratico, e libero. Con una costituzione avanzata e civile, capace di evolvere e di includere diversità che il fascismo avrebbe considerato inaccettabili e avrebbe combattuto. Un paese in cui sono garantiti i diritti di tutti. Anche delle minoranze. Anche di chi, se allora avesse vinto, non li avrebbe garantiti a tutti, li avrebbe esplicitamente conculcati ad alcuni, e limitati a molti, come già aveva fatto, trasformandoli in privilegi di pochi.

    C’è un modo di uscire dal meccanismo delle retoriche contrapposte, e pronunciare parole non banali, in qualche modo significative, oggi? Forse sì. Celebrando il 25 aprile, come giusto. Ricordando e raccontando chi ha combattuto e si è sacrificato nella resistenza, affrontando il nemico, che era nemico dell’Italia e degli italiani, non solo degli antifascisti: aveva tolto loro le libertà e li aveva portati in guerra, perseguitando e sterminando una parte di loro, gli ebrei, oltre gli oppositori politici. Un regime indifendibile sotto tutti i punti di vista, con gli occhi di oggi. Ma anche riconoscendo che molti hanno servito il loro paese, o hanno creduto di farlo, in altro modo. Il 25 aprile è padre del 2 giugno, ma anche figlio dell’8 settembre. Il giorno in cui molti si sono trovati di fronte a un bivio, hanno dovuto scegliere, e hanno scelto. Chi andando in montagna a combattere come partigiano. Chi cercando di dare una mano continuando a fare il proprio lavoro di prima: il contadino, l’operaio, l’impiegato di una istituzione, il carabiniere – schierandosi silenziosamente, nel fare più che nel dire. Chi scappando, invece: in esilio, rifiutandosi di contrapporre italiano a italiano, o semplicemente sfollato altrove, rifiutandosi di obbedire ad una autorità non più riconosciuta, ma incapace di assumere altro ruolo. E poi, sì, c’è stato chi ha creduto di dover rimanere fedele alla patria aderendo a una sua caricatura, la Repubblica di Salò. Il volto peggiore del fascismo: un regime in declino che portava con sé i valori antidemocratici e sopraffattori del precedente, aggravandoli, con il sostegno di una potenza totalitaria straniera, i nazisti. Ma in cui tuttavia qualcuno si riconobbe per ideale, e non ha senso negarlo oggi.

    Mi sento titolato per dirlo. Io non c’ero. Ma mia madre il 25 aprile si trovava in galera, a San Vittore, con destinazione già prenotata in Germania, in quanto sorella e collaboratrice di un combattente partigiano. Mio zio era comandante di stato maggiore delle brigate Garibaldi. Un militare, un soldato che dopo l’8 settembre aveva scelto di continuare a combattere, ma dall’altra parte: un partigiano liberale, in contrapposizione continua con il suo commissario politico comunista. Ucciso il 26 aprile: da un tedesco, come scritto nei libri di storia. Da partigiani di orientamento diverso dal suo, come pure capitava in quei giorni, come si è tramandato nelle zone dove ha combattuto – fino ad oggi, come ho potuto verificare anche personalmente. Ecco, quella vita, e quella morte, mi hanno sempre spinto a cercare di uscire dalla retorica, dalla visuale a senso unico, dalla contrapposizione manichea tra buoni e cattivi, dove i buoni sarebbero stati tutti da una parte sola. Non è così, non è stato così. La resistenza ha le sue pagine buie, alcune orribili. Così come ci sono state figure positive, che è giusto ricordare, altrove. E in mezzo molti, eroi e anti-eroi della quotidianità. Martiri e banditi. E persone qualsiasi.

    Sarebbe un passo avanti se riuscissimo a riconoscerlo, tutti. Che la ragione politica stava essenzialmente da una parte, pur con i suoi torti (al suo interno c’erano anche sostenitori di un totalitarismo diverso, inaccettabile con gli occhi di oggi nonostante incarnasse per molti dei valori nobili e positivi). Mentre altre ragioni, e altri torti, stavano anche altrove, e ovunque. E sarebbe semplicemente onesto se da parte del governo, e del capo del governo prima di chiunque altro, venissero finalmente parole chiare su questo. Un riconoscimento esplicito che quel 25 aprile ha aperto al mondo di oggi, e il mondo di oggi è molto meglio di quello di prima del 25 aprile. Basterebbe questo. E aiuterebbe il mondo a cui Giorgia Meloni e altri (incluso l’incauto La Russa) appartengono a uscire da un complesso di minorità che non ha più ragione d’essere, acquisendo una legittimità culturale (quella politica gliel’hanno data le elezioni) che ancora non ha, perché ancora ambiguamente ammicca ad un passato che dovrebbe imparare a superare. Nel nome della libertà, della democrazia, e della repubblica: che non hanno colore. Chi oggi governa avrebbe tutto da guadagnarne. Sfuggendo a un’accusa che da parte di molti è solo strumentale, polemica: ma di fatto sostenuta da intollerabili e inaccettabili ambiguità. E aiutando il paese ad andare oltre. Facendo esplicitamente propri i valori fondanti della nostra convivenza civile. E facendo in modo che siano i valori di tutti, nessuno escluso.

     

    25 aprile: le parole per dirlo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, “Corriere di Bologna”, “Corriere di Verona”, “Corriere del Trentino”, “Corriere dell’Alto Adige”, 25 aprile 2023, editoriale, p.1

    Migrazioni: perseverare è diabolico. Tutti gli errori del governo

    Non sappiamo cosa fare? Facciamo qualcosa che non serve a niente. Tanto per fare. Sembra questa la logica che presiede alle ultime decisioni del governo sul tema delle migrazioni. Una più sbagliata dell’altra. Una più contraddittoria rispetto all’altra. Tutte contraddittorie con degli obiettivi di ragionevole gestione del fenomeno. Ma se errare è umano, e può capitare, quando si è presi alla sprovvista (il problema semmai è lì: essere presi alla sprovvista da un fenomeno che è uguale a se stesso da anni), perseverare è diabolico, e denota ostinazione, più che intelligenza delle cose.

    Mettiamola così. Da un lato abbiamo una crisi demografica devastante, che è cominciata negli anni Novanta. È da allora che abbiamo più morti che nati, anche se ce ne siamo accorti solo ora, che il saldo negativo è arrivato a meno 400mila: una città come Bologna che sparisce ogni anno. Ma i suoi effetti sul mercato del lavoro si misurano ora, dato che chi va in pensione adesso è sostituito da una coorte che è grande poco più della metà: con il risultato di una drammatica domanda di lavoro che non riesce a intercettare alcuna offerta semplicemente perché non c’è, non è mai nata – un dato aritmetico che dovrebbe capire anche un bambino. Dall’altro abbiamo gli arrivi: irregolari perché non esistono (più) canali regolari di ingresso per motivi di lavoro. Qualcuno ha pensato di fare due più due? Purtroppo no. Nessuna organizzazione, nessuna programmazione. Si dichiara un inesistente stato di emergenza (che non c’è: nonostante tutto, il numero di nuovi arrivati è gestibile, e inferiore, come visto, ai bisogni del mercato del lavoro, aggravati dal fatto che sta di nuovo aumentando il numero degli emigranti – è l’evasione, il dato più drammatico, non la presunta invasione) e ci si inventa un commissario straordinario con poteri speciali per gestire gli arrivi, allo scopo di continuare a non far nulla di serio nel gestire le partenze, e affinché l’immigrazione e il mercato del lavoro possano incontrarsi.

    Con quali effetti? In concreto significherà più CAS (centri di accoglienza straordinari) gestiti dai prefetti, che sono le strutture che hanno funzionato peggio, talvolta al limite e oltre il limite dell’illegalità, perché senza alcun obiettivo di integrazione. Non a caso cinque regioni hanno rifiutato di aderire al progetto che istituisce il commissario (alcune delle quali, come Emilia e Toscana, sono tra quelle che l’immigrazione la gestiscono meglio). E sei sindaci (Milano, Torino, Bologna, Firenze, Roma e Napoli) hanno scritto al governo per protestare. Vero, tutte realtà governate dal centrosinistra. Ma anche, semplicemente, quelle con più immigrati, spesso meglio integrati, e che sanno che il tessuto produttivo ne richiede ancora di più. E che, essendo in prima fila nel controllo del territorio, hanno paura, a seguito delle decisioni governative, di avere più irregolari anziché meno, e quindi più insicurezza anziché meno.

    Una pensata ulteriore è infatti l’abolizione della protezione speciale: che consentiva di dare un permesso di soggiorno per motivi di lavoro anche a persone che non erano pienamente richiedenti asilo, ma avevano altri motivi umanitari (peraltro l’Italia, anche con essa, approva meno della metà delle richieste di asilo: la Germania e altri ben più della metà). Togliere la protezione speciale non è in connessione logica con gli obiettivi dichiarati. Farà diminuire gli sbarchi? No. Farà aumentare i rimpatri? No. Consentirà una migliore integrazione? No. Aiuterà la stessa gestione della cosiddetta emergenza? No. Precisamente il contrario. Addirittura, dovranno lasciare gli SPRAR (oggi SAI) coloro che sono già inseriti in un percorso virtuoso di integrazione. Esattamente come accaduto ai tempi in cui Salvini era ministro dell’interno, e aveva introdotto questa norma per la prima volta. Con il brillante risultato di avere più irregolari sul territorio, più disordine, più persone per strada, quindi più percezione di insicurezza, e meno occupabili. Sì, perché a paradosso si aggiunge paradosso, a dimostrazione che non c’è alcun governo delle migrazioni. Tutto ciò accade perché la politica rifiuta di ammettere quello che la demografia e il mercato del lavoro ci mostrano tutti i giorni: che abbiamo bisogno di immigrati (i tanto disprezzati migranti economici), che ne avremo bisogno sempre di più, e che se non arriveranno ci impoveriremo enormemente, come dimostrato dai calcoli della Banca d’Italia citati persino dal DEF (Documento di economia e finanza) del governo. Perché la recessione economica accompagna e segue la recessione demografica in cui siamo in mezzo. Solo un dato: passeremo dagli attuali 3 lavoratori attivi ogni 2 pensionati, all’1 a 1 nel 2040. Come pensiamo di sopravvivere, quanto poveri e indebitati vogliamo lasciare i nostri figli, che peraltro sull’immigrazione non la pensano come noi, solo per nutrire le nostre paure e le rendite politiche di alcuni? Non solo: le diarie per gli immigrati, invece di salire, calano da anni. Risultato? Niente formazione e orientamento al lavoro, niente insegnamento della lingua italiana, niente politiche dell’alloggio, e niente (o molti meno) diritti. Dell’istruzione in passato si diceva: se pensi che sia un costo, prova l’ignoranza. Dell’integrazione si può dire lo stesso. Se pensi che sia un costo, prova il suo contrario. Che, detto brutalmente, è la dis-integrazione. Anche delle buone pratiche già esistenti (non parliamo di inventarne di nuove).

    Nel frattempo, si lancia in pompa magna un condivisibilissimo piano Mattei per l’Africa, che dovrebbe essere la versione nostrana del piano Marshall. Peccato che il piano Marshall prevedesse l’investimento di oltre il 10% del bilancio federale USA a favore delle popolazioni europee, per quattro anni. E il nostro cominci invece con il taglio dei fondi alla cooperazione. Possiamo immaginare con quali efficacissimi risultati.

     

    L’errore si ripete, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto, Corriere di Bologna, Corriere del Trentino, Corriere dell’Alto Adige”, editoriale, p.1

    Immigrati: l’ipocrisia del click day

    Tra una settimana, il 27 marzo, alle ore 9, è previsto il famigerato click day per l’assunzione di immigrati. Una procedura tra il contorto e il perverso che dovrebbe consentire l’ingresso regolare in Italia di oltre 80mila lavoratori, assunti direttamente dalle aziende (per essere precisi, facendo finta che la cifra non tonda sia veramente frutto di un attento studio corrispondente al fabbisogno – e non lo è, nemmeno alla lontana –: 82.705, di cui 38.705 per lavoro non stagionale e autonomo e 44.000 per lavoro stagionale). Il decreto che lo prevede indica anche i settori in cui questo è possibile, ad esclusione di tutti gli altri, dove pure il fabbisogno di manodopera è presente.

    In realtà il meccanismo è più complesso di così: la burocrazia ci mette sempre entusiasticamente del suo per trasformare quella che potrebbe essere la normalità in un incubo. La finzione, accettata come tale, prevede che, prima, si superino di slancio alcuni ostacoli: a) le aziende presentino agli uffici competenti sul territorio il modulo di richiesta per lavoratori non dell’Unione Europea non stagionali; b) i Centri per l’impiego pubblicizzino gli annunci agli stranieri già residenti sul territorio, in modo da proporli alle aziende; c) se nessun candidato si presentasse, o se il Centro per l’impiego non rispondesse entro 15 giorni (ciò che costituisce la normalità, da tutti conosciuta), le aziende acquisiscono il diritto di costringere i loro impiegati a stare dalle 8 e 55 del mattino con il ditino pronto sul portale dedicato del Ministero dell’Interno, sperando in una botta di fortuna, che solo alcune avranno. Per il lavoro stagionale in agricoltura la procedura è semplificata: e parliamo di un settore dove un terzo delle ore lavorate lo sono per mano straniera. Di fatto, sia la possibilità delle imprese di assumere, sia quella di alcuni immigrati di regolarizzarsi (perché a questo serve il click day, e tutti lo sanno, pur facendo finta che non sia così: ad assumere chi è già in Italia irregolarmente – spesso perché diventato irregolare a causa della farraginosità delle norme, o dei ritardi nell’erogazione dei permessi – e non a far veramente arrivare qualcuno da fuori), è affidata al caso: un’assurda e inquietante rappresentazione tecnologica del fato, che anche quest’anno, come ogni anno, deciderà del destino delle persone, di chi è sommerso e di chi è salvato (e delle imprese che assumeranno e quelle che no).

    Ora, poiché tutti sanno che si tratta di una complicata presa in giro, per giunta largamente insufficiente rispetto al fabbisogno, non sarebbe più serio e più civile dire esplicitamente come stanno le cose, ammettere che abbiamo centinaia (non decine) di migliaia di posti di lavoro vacanti, e centinaia (non decine) di migliaia di irregolari che è conveniente per tutti regolarizzare, e consentire un meccanismo (adottato da anni in paesi assai civili e seri dell’Unione Europea, peraltro) di sanatoria individuale (la si chiami regolarizzazione, se la parola fa paura), che consenta alle imprese di assumere un irregolare che già conosce, su semplice richiesta del datore di lavoro o del lavoratore, riducendo al minimo gli adempimenti burocratici necessari?

    Poi, magari, si potrebbero e dovrebbero invece concentrare le energie e le risorse sulla formazione professionale delle figure necessarie, e sulle politiche dell’alloggio: aspetti, in particolare il secondo, su cui le imprese – che protestano giustamente per la mancanza di manodopera e la complessità della burocrazia – invece glissano felicemente, anche quando ammettono di non avere bisogno solo di braccia, ma di persone. Di fatto, in molti ambiti (dal turismo all’agricoltura), su questo si sono fatti persino passi indietro rispetto ai tempi delle mondine, a cui almeno un tetto veniva fornito dal datore di lavoro. Mentre molto ci sarebbe da fare, insieme: imprese, organizzazioni dei lavoratori, ma anche regione e enti locali, che invece nella maggior parte dei casi se ne lavano bellamente le mani, salvo lamentarsi degli effetti secondari negativi della gestione dei fenomeni migratori, incolpando magari lo stato o l’Unione Europea se gli immigrati dormono sulle panchine (salvo presenza di dissuasori, o innaffiamento notturno, come qualche volta è persino successo, in passato).

    Quello che occorre è semplicemente una onesta assunzione di responsabilità, da parte di tutti. Altrimenti, teniamoci il click day. Senza lamentarci, però, né dell’irregolarità degli immigrati né della mancanza di lavoratori.

     

    Immigrati, il click day e l’ipocrisia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 21 marzo2023, editoriale, p.1

     

    Migranti e sbarchi: la retorica non serve

    La retorica non serve. La strumentalizzazione politica ancora meno. Sono morti, e non hanno colpe. Ma non è una notizia inaspettata, meno ancora sorprendente. Ce ne sono stati altri in passato, di naufragi di migranti. Ce ne saranno in futuro. Ma c’è anche uno stillicidio quotidiano di morti che fanno meno notizia, perché non accadono tutte insieme, non fanno massa, e al contempo sono fatto ordinario, quotidiano (avvengono letteralmente tutti i giorni), anche se restano impercepite ai nostri occhi. In mare, ma anche via terra, sulla rotta montagnosa, piena di guardie e di confini da attraversare, dei Balcani, non meno pericolosa di quella del Mediterraneo centrale e del Mediterraneo orientale.
    Inutile, meschino, triste, impudico, trasformare i cadaveri, le famiglie distrutte, il dolore dei sopravvissuti, i bambini annegati, in uno strumento di polemica politica. Con chi da una parte accusa il buonismo immigrazionista (magari impersonato dalle ONG) di fungere da fattore di attrazione, producendo le partenze, e chi dall’altra parte accusa il cattivismo antiimmigrazionista di impedire i salvataggi, producendo gli annegamenti. Né gli uni né gli altri sono la causa dell’ennesimo naufragio. Né gli uni né gli altri l’avrebbero potuto impedire.
    Come sempre, la questione è più complessa, le risposte necessarie diversificate, il risultato comunque incerto, l’andare per tentativi ed errori una necessità e un rischio da correre. Ma è certo che molto si potrebbe fare, perché le cose vadano altrimenti. E qualunque cosa sarebbe molto più del niente o quasi niente attuale.
    Cominciamo dall’inizio. L’Europa, tutta, e l’Italia peggio di tutti gli altri paesi, è in calo demografico, ha bisogno di manodopera, e continua a importarla facendo finta che non sia così. La prima cosa da fare è ammettere il dato, invece di negarlo, e dividersi quindi sulle soluzioni possibili, sui modi di gestirla, l’immigrazione necessaria, invece di dividersi sull’esistenza del problema. Tutto potrebbe e dovrebbe discendere da lì: modi alternativi di arrivare, regolamentati, selezionati, ma comunque gestiti, in maniera legale, con mezzi normali (l’aereo, la nave), in tempi normali (ore, non mesi o anni, come capita a molti), con costi (umani ed economici) accettabili anziché insostenibili, con permessi di soggiorno per ricerca di lavoro, visto che quello è l’obiettivo reale sia di chi arriva sia di chi li riceve, anziché improbabili richieste di asilo (che poi rigetteremo in buona parte, producendo irregolarità), con politiche di integrazione sociale e culturale davvero praticate, e via di conseguenza. Da qui discenderebbe anche il resto: accordi con i paesi di partenza, collaborazione interstatuale per combattere le migrazioni clandestine e le mafie transnazionali che le gestiscono (ci sarebbe, se ci fossero canali legali, che fornirebbero anche la giustificazione morale per combattere con forza gli arrivi irregolari), cooperazione allo sviluppo (il tanto citato e mai praticato, nemmeno da chi lo evoca continuamente, “aiutiamoli a casa loro”, che poi è sempre una convenienza reciproca, come ha mostrato a suo tempo il piano Marshall). E, a valle, accordi di redistribuzione – o, nel caso, di respingimento – sensati e condivisi tra i paesi di arrivo.
    Certo, dovrebbe essere una politica europea. Sarebbe meglio e funzionerebbe meglio. E c’è un’ignavia egoista dei paesi che non sono alla frontiera esterna della Unione Europea, che non vedono arrivare gli sbarchi e nemmeno i rifugiati via terra, nonostante i nuovi muri elettrificati, che va combattuta. È curioso tuttavia che si lamentino dell’inesistenza dell’Europa, o della sua poca efficienza, coloro che rifiutano di darle i mezzi e il potere decisionale per agire, mantenendo le politiche dell’immigrazione come competenza esclusiva nazionale, esercitando il proprio veto ad azioni comuni, salvo lamentarsi della loro assenza. Detto questo, anche i singoli stati potrebbero fare molto, anche da soli. Ma occorre volerlo, e prima ancora occorre capire che sarebbe necessario. Che è ora di smetterla di titillare gli istinti peggiori della pubblica opinione, per fare leva invece sulle sue emozioni e sui suoi interessi, ragionando sulle convenienze e le decisioni concrete, a livello pratico, prima ancora di insistere su più o meno sacri principi che poi sono usati solo strumentalmente, e comunque convincono solo i già convinti. La posta in gioco non è solo la vita degli esseri umani che arrivano. È la de-umanizzazione di chi li vede arrivare, e non fa niente. E tra un po’ non sentirà più niente.

    Migranti, c’è una via d’uscita, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 1 marzo 2023, editoriale, p.1

    Terremoto e migrazioni: il nesso che non si vede (ma c’è)

    Il devastante terremoto in Siria e Turchia avrà conseguenze di medio periodo anche inaspettate, che non riguardano lo sciame sismico e il movimento delle placche tettoniche, ma lo sciamare delle persone da un luogo all’altro e la mobilità umana. E curiosamente coinvolge due paesi che nel recente passato hanno svolto, su questo tema, un ruolo opposto.

    La Siria, ha visto andarsene milioni di suoi concittadini, esausti da decenni di guerre, dittatura, violenze, terrorismo di stato e dello Stato Islamico, oltre a ordinaria fame e disoccupazione, che hanno trasformato il paese in una specie di buco nero della storia. Molti siriani sono stati protagonisti dell’esodo di migranti forzati nei Balcani del 2015, una specie di epica minore, priva tuttavia di un Omero che la celebri, che molti esuli conoscono bene ma che noi nemmeno immaginiamo: e che in quell’occasione, dopo il ritrovamento su una spiaggia turca del cadavere in maglietta rossa del piccolo Aylan Kurdi e le immagini di milioni di disperati in cammino attraverso le frontiere della ex-Jugoslavia, portò all’inaspettata apertura di Angela Merkel, che fece entrare in Germania un milione e mezzo di rifugiati in poco più di un anno. Facendo il bene loro e del paese che li ha accolti, dando a una nazione allora con il peggior bilancio demografico d’Europa, insieme all’Italia, nuove braccia e nuova linfa vitale di cui ha beneficiato (lasciando l’Italia da sola in quell’incomoda posizione). La Turchia, invece, è il paese che noi europei stiamo finanziando perché li blocchi, i migranti, facendo per così dire da tappo nei confronti dell’Asia, e se li tenga al posto nostro: a pagamento, e regalandole un’arma di ricatto, una vera e propria arma di migrazione di massa, a cui il governo turco lascia occasionalmente sparare qualche colpo (lasciando partire qualche barcone), quando è il momento di ricordare all’Europa di staccare un nuovo assegno.

    Il terremoto avrà conseguenze anche sulle migrazioni che coinvolgono questi paesi. I siriani che vogliono andarsene aumenteranno ancora massicciamente di numero. Ma aumenteranno anche i turchi (e i migranti transitoriamente ospitati in Turchia) che vogliono fare la stessa cosa, mentre la Turchia come paese avrà bisogno di risorse per la propria ricostruzione, e quindi le sue pressioni si faranno più esigenti. C’è da sperare, anche se è difficile arricchire la speranza di altrettanta convinzione (i segnali scarseggiano) che qualche lezione, dal 2015, sia stata appresa (da altri paesi europei, Germania in primo luogo, probabilmente sì: dall’Italia, purtroppo, dubitiamo, ma non di meno ci sembra necessario segnalarlo). E che quindi all’aiuto umanitario si affianchi un’intelligente, e vantaggiosa per tutti, politica delle migrazioni (che poi è essa stessa un aiuto umanitario in altra forma), che si proietti sui prossimi anni anziché limitarsi ai pochi giorni dell’emotività: o che almeno si abbozzi un ragionamento su qualcosa che, pianificato o meno, in ogni caso succederà. Sarebbe l’occasione di trasformare una disgrazia in un’opportunità, anche di riflessione, per governi e cittadini: per arrivare a un ripensamento delle nostre politiche migratorie, o per meglio dire della mancanza delle stesse, che oggi ci affligge, e ci rende miopi – al limite della cecità.

     

    Lo sciame sismico e i migranti, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 9 febbraio 2023, editoriale, p. 1

    Governare le migrazioni, non le ONG

    La geniale trovata di far percorrere 1200 chilometri in quattro giorni di navigazione a una nave che si trovava tra l’Italia e l’Africa, per scaricare i migranti a La Spezia, salvo poi riportarne una parte a Foggia in autobus, percorrendo altri 750 chilometri in senso contrario, come appena accaduto con la Geo Barents di Medici senza frontiere, dà l’idea precisa di come si continui, di fronte alle migrazioni, a inventare iniziative estemporanee senza capo né coda, giusto per mandare una qualche ottuso e contraddittorio segnale di attivismo all’opinione pubblica, senza che nulla di sostanziale accada. Illudersi di fermare le migrazioni irregolari bloccando l’attracco delle navi delle Organizzazioni non governative o rendendo più difficile la loro attività, del resto, è come cercare di fermare l’acqua corrente riportandola dentro il rubinetto usando un colino: il flusso non si ferma comunque, è impossibile influire con questo comportamento sulla logica che ha portato l’acqua nel rubinetto, e comunque il colino è l’attrezzo meno adatto per farlo – alla fine l’acqua, seppure più lentamente, passa comunque. In più, incidentalmente, gli arrivi attraverso le navi delle ONG sono a loro volta una minoranza degli arrivi totali via mare, che a loro volta non tengono conto di quelli via terra.

    Ecco, insistere sulla stretta alle ONG dà l’idea di quanto la politica non sappia che pesci pigliare, e si arrabatti su soluzioni che tali non sono, da buttare in pasto a un’opinione pubblica che peraltro non ci crede più. L’errore sta proprio nel focalizzarsi sugli arrivi, quando quello che conta veramente sono le partenze. Perché il problema è lì. È su quel fronte che occorrerebbe lavorare: non con iniziative di bandiera, ma con un paziente lavoro di cucitura diplomatica all’esterno, e una intelligente apertura legislativa alle migrazioni economiche all’interno, spiegando all’opinione pubblica che è necessario, e perché (le ragioni demografiche e di mercato del lavoro sarebbero facilmente spiegabili: se non lo si fa è perché non si vuole perdere la rendita politica – sempre più modesta, abbiamo la sensazione – dell’immigrato come capro espiatorio di problemi che non ha creato lui). Rendere le migrazioni possibili legalmente, con canali dedicati, concordati con i paesi di partenza, meccanismi di selezione sulla base delle capacità professionali, del titolo di studio e della conoscenza della lingua, e precisi accordi di rimpatrio degli irregolari, consentirebbe di offrire una via alternativa ai migranti, più sicura e garantita (perché fargli attraversare prima il deserto e poi il mare, o una mezza dozzina di fredde e militarizzate frontiere balcaniche, mettendoci un anno o più, con sofferenze inenarrabili che poi pesano anche sulle loro forze e la loro capacità di integrazione, quando potrebbero prendere anche loro – come noi quando andiamo da loro – un volo low cost e arrivare in poche ore?). Riaprire canali controllati di ingresso è necessario tanto per loro (ci sarebbero meno morti e più speranze) quanto per noi, che almeno sapremmo chi viene e dove va, invece di perdere il controllo di un’immigrazione irregolare tra i cui effetti c’è l’aumento del numero di minori non accompagnati, l’abbassarsi del livello di istruzione dei migranti, il crescere dell’insicurezza tra i cittadini, ma anche il moltiplicarsi dei guadagni di pericolose mafie transnazionali che poi reinvestono nelle economie legali dei loro e dei nostri paesi, inquinandole.

    Conseguenza a valle di questo assurdo meccanismo è che si stima che in Europa ci sia almeno un 2% di popolazione irregolare, senza diritti e impossibilitata per questo solo fatto a rimanere nel circuito della legalità: un’irregolarità (mancanza di documenti e permessi) infatti tira l’altra (abitazione non dichiarata, lavoro in nero, mancanza di copertura sanitaria, ecc.), con le conseguenze che si possono immaginare, e che per nostra fortuna comportano meno frequentemente di quanto sarebbe lecito ipotizzare l’ingresso nei circuiti dell’illegalità e della delinquenza veri e propri.

    Nessuna soluzione sarebbe definitiva. Non si può abolire l’immigrazione irregolare per legge: una quota c’è sempre stata e sempre ci sarà. Ma almeno avremmo fatto il possibile per diminuirne l’entità, e anche per rendere più umano un meccanismo che oggi non lo è.

     

    Un vero governo dei flussi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 7 febbraio 2023, editoriale, p.1