Fleximan, un eroe improbabile

Fleximan è il nome improbabile – che fa pensare più a un idraulico o a un contorsionista da circo di periferia, che a un difensore del popolo, a un Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri – che è stato dato a chi (forse più di una sola persona) ha fatto saltare un po’ di autovelox in giro per il Veneto, diventando in breve una specie di amato vendicatore popolare, una leggenda minore del Nordest. Ora che si è capito chi incarna davvero questa figura (almeno per alcuni dei danneggiamenti avvenuti), si può fare qualche considerazione in più. Sul soggetto in questione, e sulle emozioni che oggi lo circondano.

Normale che possa fare simpatia. Perché è vero che gli autovelox vengono installati allo scopo fondamentale di fare cassa. È vero pure che talvolta vengono programmati a tavolino, in anticipo, gli obiettivi economici che la polizia locale deve raggiungere in termini di raccolta fondi attraverso le multe. È vero anche che spesso, proprio per questo, vengono installati sulle strade di maggiore percorrenza per gli automobilisti in transito: in modo da colpire, in proporzione, più le persone che non abitano nel territorio che incassa il balzello (anche se non è sempre così: il caso di Cadoneghe, dove pure sono stati fatti saltare gli autovelox, insegna), e non pagare quindi il prezzo elettorale della vessazione. Tutto vero, condannabile e ingiusto: anche perché le multe non sono un’imposta progressiva – ed essendo uguali per tutti, è al più povero, al meno abbiente, che fanno percentualmente più danno. Ma è anche vero che gli autovelox stessi, come forma di dissuasione, hanno o dovrebbero avere una funzione precipua differente: tutelare la salute e le vite umane, da chi guida sulle strade senza regole e a velocità eccessiva, nelle ore diurne e peggio ancora in quelle notturne, provocando una lunga teorie di sofferenze, di vittime della strada (che è anche scorretto definire così: sono vittime di automobilisti indisciplinati e irresponsabili – la strada è innocente…), di famiglie rovinate, di tragedie umane. E semmai ci sarebbe da ragionare seriamente su quella specie di culto un po’ provinciale e vetusto, da boom economico, dell’automobile come veicolo di libertà e sua manifestazione, possibilmente senza regole, che sia il limite di velocità o di tasso alcolemico, che ancora è così presente in certo Veneto profondo, incapace di uscire da questa in fondo primitiva e persino banale ostentazione del proprio ego.

Fleximan quindi (o, come si legge in molte pagine sui social, Fleximen, al plurale: manco scriverlo in inglese corretto…) non è un eroe. E se lo è, appartiene a quella vena un po’ picaresca, vagamente anarchica, che alberga nell’animo popolare veneto, spesso con venature di estrema destra più antropologiche che veramente ideologiche (anche se queste non mancano: il nostro è stato segretario di Forza Nuova e ama usare la parola ariano con manifesta convinzione…). Persino certe istanze autonomistiche sono declinate, in fondo, in questo modo: facciamo da noi, facciamoci giustizia – anche – da noi, a modo nostro. E forse c’è un filo rosso (o nero) che lega le imprese del Tanko, il mugugno senza capacità costruttiva contro l’autorità quale che sia (inclusa quella che sarebbe l’incarnazione della vicinanza al territorio, come l’ente locale), benissimo impersonato dal Pojana, il personaggio del piccolo imprenditore veneto sempre in polemica col mondo inventato dal comico Andrea Pennacchi, e appunto Fleximan, il supereroe in saòr, che produce anche qualche effetto emulativo.

Non stupisce quindi, ma un po’ amareggia, e un po’ anche addolora, che sia diventato in poche ore un simbolo, un idolo quasi, con i suoi supporter acritici e i suoi fan più sfegatati, una sorta di capopopolo provinciale – che non ha né la tragicità di un Masaniello né la dignità e l’arguzia di un Rugantino – da sostenere nella sua lotta contro lo stato (che poi siano i comuni, all’occhio superficiale non fa differenza), a cui si vogliono pagare le spese legali lanciando collette, e che molti invocano fin d’ora come candidato alle elezioni. Peccato che abbia perso l’occasione delle europee, dato che le liste sono già chiuse, e il posto di spicco del protestatarismo guascone, da uno contro tutti, gli sia stato soffiato da altri personaggi in qualche modo simili, magari con la divisa e le stellette – mentre ieri erano gli agitatori no vax e domani chissà. Avanti il prossimo…

 

Tutto fuorché un eroe, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 19 maggio 2024, editoriale, pp. 1-6

Primo maggio: ha ancora senso festeggiarlo?

Ha ancora senso festeggiare il Primo Maggio? Forse no. Forse non come lo si fa ora. Forse dovrebbe diventare una riflessione su come si sta trasformando il lavoro, e quale senso avrà, e quanto sarà diverso da quello che siamo abituati a pensare che abbia. Perché il tema è lì, ed è decisivo.

Non è tanto questione di data. Manteniamola pure, rispettando le tradizioni, anche se non molti, oggi, ne conoscono le ragioni. L’origine rimanda alla lotta di un gruppo di lavoratori statunitensi a Chicago per ottenere la giornata lavorativa di otto ore, e le proteste, gli attentati, la repressione e i morti che ne sono seguiti. Curiosamente, non è adottata come tale negli USA, i diretti interessati, dove il “Labor Day” si festeggia il primo lunedì di settembre. È invece stata adottata dal movimento operaio e socialista di tutto il mondo, e quindi viene festeggiato con più ostentazione nei paesi che socialisti si dicono ancora, come la Russia e la Cina (non proprio i paesi dove è ideale vivere e lavorare): anche se è festa pure nella maggior parte dei paesi d’Europa, dove però è diventato, appunto, un (benemerito, naturalmente) giorno festivo in più sul calendario.

La modalità invece ci dice qualcosa. Ho fatto in tempo a vivere e partecipare alle ultime grandi manifestazioni degli anni Ottanta (lavoravo, allora, al sindacato): quando il Primo Maggio non solo si bloccava tutto, ma i lavoratori (dipendenti, almeno), spesso con le famiglie, partecipavano davvero ai cortei, e ci tenevano, invece che approfittarne per una gita fuori porta (dove, invece, nel settore ampio della ricezione, lavorano tutti in turni rafforzati). Certo, la retorica era spesso insopportabile, i discorsi dei leader di CGIL-CISL-UIL e delle altre più o meno autorevoli autorità di contorno (dai sindaci all’ANPI o qualche altra sigla più o meno collegata al tema) monotoni, ripetitivi e di lunghezza oggi – ai tempi dei social – impensabile, anche per il militante meglio disposto. Ma, appunto, si respirava ancora aria di festa, e almeno si sapeva perché si era lì: c’era un clima che si poteva ancora condividere, e spesso messaggi da diffondere. Oggi? Dal 1990, ciò che era manifestazione popolare nazionale è stata trasformata in concertone. Tatticamente, una trovata abile: c’è una presenza cospicua, si coinvolgono moltissimi giovani (che ai cortei tendevano a sparire), e immagino si sia trovato il modo di caricare almeno parte delle spese sulle spalle della RAI, che lo trasmette in diretta. Soprattutto, ci si illude di contare qualcosa, perché gente, dopo tutto, ce n’è. Strategicamente, ormai ci si è già accorti che è una iniziativa a perdere. Perché le persone sono lì per tutt’altri motivi, e nonostante gli encomiabili ma anche un po’ cosmetici sforzi di inventarsi ogni anno un tema e una parola d’ordine, e qualche minuto di contenuti parlati nella disattenzione generale, magari con il contorno di qualche strumentalizzazione legata all’attualità politica del momento, alla fine ci si va solo (o lo si guarda in TV) perché c’è la musica e perché è gratis.

Questa parabola è fortemente simbolica, e ci dice molto sulle trasformazioni del lavoro. E, magari, dovrebbe richiamare più attenzione: anche e soprattutto da parte di chi, come i sindacati, svolge un lavoro di tutela di cui c’è ancora enorme bisogno, anche se in forme sempre più differenziate. Da un lato ci avviamo a un dualismo di fatto, a una polarizzazione progressiva: a seguito della quale per alcuni il lavoro è sempre più denso di significato e strumento di valorizzazione di sé e della propria creatività (sono quelli, sempre più individui e sempre meno collettività, che del primo maggio hanno meno bisogno, perché in più il loro lavoro è spesso decentemente redditizio); mentre per altri è solo uno strumento necessario e inaggirabile per percepire un reddito, sempre meno adeguato ai costi e ai bisogni, e sempre meno valorizzante per chi il lavoro lo svolge. Dall’altro il legame tra lavoro e reddito sarà sempre più indiretto: dall’alto, per così dire, perché chi può, perché ne ha i mezzi (i ricchi sempre più ricchi in un paesaggio di diseguaglianze crescenti), si è già liberato da solo dal lavoro, e non fa nulla per nasconderlo; dal basso perché si stanno diffondendo forme di reddito universale e di sostegno a prescindere dal lavoro svolto. Al punto da rendere obsoleto l’articolo 1 della nostra Costituzione, e dunque il fondamento su cui poggia. Che “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro” ha ancora molto senso nella sua prima parte, molto meno nella seconda, anche se continuiamo a crogiolarci nella retorica della Costituzione più bella del mondo.

Ecco, forse è questa la svolta su cui vale la pena riflettere, se vogliamo dare ancora un senso al giorno del lavoro: e farne occasione di riflessione sull’ingiustizia e di ripensamento della società.

 

Il vero senso della festa in un mondo del lavoro che sta cambiando, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 1 maggio 2024 pp. 1-4

“Prima gli italiani”, “prima i veneti”, “prima noi”: cosa c’è mai di sbagliato?

Sappiamo che è difficile non condividere tutte le leggi “prima noi”: ci sembrano intuitive. Prima noi per le case popolari, le borse di studio, i posti in istituto per anziani e disabili, gli asili nido e qualunque altra graduatoria. Prima chi vive sul territorio, ci paga le tasse e ci ha messo radici. Sembra evidente: ecco perché questi ragionamenti sono così popolari. Sappiamo anche la questione è più simbolica che sostanziale: in fondo ci sono altri criteri che giocano (dal livello di reddito al numero di figli alla presenza di anziani), e quindi la discriminazione (positiva, nei confronti dei residenti da più tempo, o negativa, nei confronti dei neo-arrivati), potrebbe non incidere più di tanto. Ma allora perché insistere? E cos’è che non va nell’impostazione del ragionamento?

Un utile modo di vedere le cose è rovesciare la prospettiva. Immaginiamo di andare noi altrove: a lavorare in un’altra città o regione – magari perché chiamati da un datore di lavoro (che può essere anche pubblico: che cerca un medico, un insegnante, un carabiniere, un giudice…), o perché vogliamo aprire un’attività, o semplicemente perché ci innamoriamo di un posto – e pronti a contribuire al benessere proprio di quella regione pagando le tasse lì: come ci sentiremmo se ci dicessero che non possiamo accedere ai relativi servizi? Lo considereremmo “giusto”? E per vedere se oltre che giusto è anche sensato: come considereremmo un regolamento di condominio in cui si dicesse che non possono utilizzare l’ascensore, o devono mettersi in coda dopo gli altri, quelli arrivati per ultimi?

Parliamo di servizi fondamentali: casa popolare, asilo nido per i figli. Si chiede di essere residenti da un po’ di anni: ma spesso, quasi sempre, è proprio “all’inizio” (di una convivenza, di un matrimonio, di un’attività) che si ha più bisogno di supporto. Ha senso negarla, che so, a una giovane coppia, italiana o straniera che sia, semplicemente perché arrivata dalla provincia accanto, che sta in un’altra regione? Aggiungiamo che si tratta di un disincentivo a venirci, in una regione: perché mai, a parità di salario, di fronte a condizioni diversificate e di fatto discriminatorie per i neo-arrivati, una persona dotata di senno dovrebbe scegliere la regione che gli rende la vita più difficile? Che gli manda un segnale neanche tanto implicito di rifiuto? Che gli dice che è un cittadino di serie B? Ed è di questo di cui abbiamo bisogno, in una situazione di drammatico calo demografico e di gravissima difficoltà a reperire manodopera? Ci facciamo del male o del bene facendo così? Ricordiamo che già all’approvazione delle primissime leggi “prima i veneti” i primi a protestare non furono gli immigrati, ma gli agenti di polizia provenienti da altre regioni che vengono a fare un lavoro di cui i veneti hanno bisogno ma non vogliono più fare (o comunque non ce ne sono abbastanza): è questo il nostro benvenuto?

Qualcuno, per giustificare queste norme, parla di meritocrazia. Ma il merito non c’entra niente: qualcuno ha “meritato” di essere nato casualmente in una regione o in un’altra? Semmai c’entra il diritto e il bisogno. E con queste leggi si manda un messaggio di questo genere: “tu hai meno bisogno, ma siccome sei nato qui, per il solo fatto di essere nato qui – non perché sei migliore – hai più diritti di altri”. L’opposto esatto della meritocrazia.

Ma il problema vero per cui queste leggi si pensano e si approvano è simbolico, dunque politico. Consente di creare barriere, di far passare il messaggio che qualcuno ci guadagna a scapito di altri, di creare in maniera neanche tanto sottile una distinzione, dunque un capro espiatorio: non a caso si pensa immediatamente agli immigrati, e in particolare a quelli extra-europei. Per cui se non ci sono abbastanza case popolari non è perché da decenni le politiche pubbliche hanno smesso di occuparsi di questo problema, ma perché ci sarebbero “troppe” domande in qualche modo illecite o ingiustificate. E si fa una bella guerra tra poveri che in più consente a chi la promuove di lucrarne il consenso relativo: proprio perché il ragionamento, come dicevamo all’inizio, sembra intuitivo.

Purtroppo, così facendo, ci facciamo solo del male, soffiando sul fuoco dei conflitti anziché spegnerli. Anche perché è semplicemente antistorico: la vita di ciascuno di noi è sempre più mobile, i nostri figli si spostano sempre di più e sempre più lontano, anche solo la tendenza all’urbanizzazione è inesorabile (nel 1950 viveva nelle città un terzo della popolazione mondiale, nel 2050 sarà più di due terzi, al 2100 il pianeta sarà quasi interamente urbanizzato): veramente possiamo immaginare che una persona nata sul Garda sia trattata diversamente a seconda se va a vivere a Brescia o a Verona? Ma già, certo, le prossime elezioni saranno assai prima…

I diritti, i primi e gli ultimi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 25 aprile 2024, editoriale, pp. 1-5

 

Parlare delle conseguenze e non delle cause. Perché il Patto sull’Asilo farà del male a molti, ma non servirà a nulla

Il Patto Europeo sulle Migrazioni e l’Asilo non è un compromesso: che sarebbe comprensibile, essendoci in Europa posizioni diverse. È una non scelta, che serve essenzialmente agli uni e agli altri per potersi presentare alle elezioni europee dicendo che si è fatto qualcosa. Solo che non è questa la cura di cui abbiamo bisogno: è un po’ come somministrare a un malato un po’ di farmaci per curare un blando raffreddore, e un po’ contro un invasivo tumore ai polmoni, quando in realtà la malattia in questione è un disturbo al fegato.

I veri nodi non si sono voluti toccare: a partire da quei regolamenti di Dublino – che prevedono che del richiedente asilo si faccia carico il paese di primo approdo – sottoscritti all’epoca, per l’Italia, da un governo di centrodestra, e rinnovati da uno di centrosinistra, tanto per chiarire che nessuno è vergine in materia. Oggi, anzi, con il nuovo patto, il ruolo dei paesi frontalieri, come l’Italia, è addirittura rafforzato.

L’opzione dovrebbe essere una e una sola: poiché i migranti – ovunque arrivino, via mare o via terra, attraverso il Mediterraneo o i Balcani – cercano di entrare in Europa, e raramente vogliono fermarsi nel paese che casualmente si trova alle frontiere esterne dell’Unione, la questione dovrebbe essere gestita centralmente dall’Unione stessa – accogliendo, redistribuendo, integrando, se del caso respingendo. Parliamo di un’Europa che, per capirci, ha un fabbisogno annuo stimato di manodopera – dovuto al differenziale tra pensionamenti e ingressi di giovani nel mercato del lavoro, e alla crescente voragine tra i due – di circa 2,5 milioni di lavoratori (che significa non meno di 50 milioni di persone da qui al 2050). E quindi avrebbe interesse a gestire dei flussi regolari da essa coordinati e promossi, con linee di indirizzo cogenti. Questo invece non lo si fa, lasciando quindi aperto un sostanzialmente unico canale di ingresso, che è quello irregolare. Con l’unica possibilità (le due cose sono strettamente collegate) della richiesta d’asilo: le cui procedure, con il nuovo patto, diventano più veloci ma anche più sommarie e discutibili, e basate sul paese di provenienza più che sulla situazione della singola persona. Di fatto, per accontentare paesi e partiti anti-immigrati (che si lamentano del mancato ruolo dell’Europa, ma rifiutano di darle le competenze in materia, tenendole strettamente nelle mani degli stati nazionali), si incentiva l’esternalizzazione delle frontiere – e quella che potremmo chiamare la frontierizzazione delle migrazioni – anche in dispregio di alcuni diritti umani fondamentali.

Sarà anche vero che l’obiettivo è di arginare le pulsioni xenofobe dell’estrema destra, e si capisce il motivo: anche perché, per evitare di vedersi erodere consenso, le forze moderate e popolari (ma anche quelle progressiste) finiscono per spostarsi progressivamente su posizioni sempre più anti-immigrati, anziché rovesciare la prospettiva e proporre un quadro interpretativo diverso. Evitando di affrontare il nodo dei flussi regolari di ingresso, però (che è quello fondamentale: è la loro mancanza, di fatto, che produce gli arrivi irregolari – la cui regolamentazione dovrebbe quindi, logicamente, venire dopo) si consegna l’egemonia culturale (interpretativa, e dunque politica) proprio a queste destre.

Non ci stanchiamo di ripeterlo (o forse un po’ sì: la sensazione è di dover sempre ricominciare dall’abc): finché non si (ri-)apriranno canali regolari di ingresso per quelli che chiamiamo migranti economici, avremo solo canali irregolari di ingresso per presunti richiedenti asilo. Spesso fasulli, è vero: ma è precisamente la nostra normativa, o la sua mancanza, che trasforma gli uni negli altri, aumentando a dismisura il numero di questi ultimi, con un effetto controdeduttivo. Ma su questo il patto non dice praticamente parola. E occupandosi solo di come gestire (malamente) i richiedenti asilo dà una risposta irrazionale e costosa a un problema che ha altre origini.

Le migrazioni, sempre più frequenti, in ingresso e in uscita sono diventate fisiologia della società, non sua patologia. Dovremmo considerarle come i trasporti, l’istruzione, la sanità, lo sviluppo economico: se non le governi, ovviamente, è un caos. Se le governi, invece, come doveroso fare, quello che a molti suona come un problema diventa un pezzo della soluzione al problema stesso. Ma è precisamente quello che non si vuole fare: per continuare a sfruttare il dividendo politico della logica del capro espiatorio, della xenofobia e della guerra tra poveri, da un lato dello spettro politico; e per ignavia, e incapacità di pensare diversamente, dall’altro.

 

L’Europa non decide sui migranti. Il patto spacca l’UE che rinuncia a gestire i flussi regolari, in “il Riformista”, apertura, p. 1

Minori stranieri a scuola. Qualche domanda al ministro Valditara

Il ministro Valditara ama discettare sui social delle proprie opinioni sugli immigrati e la scuola. Nell’ultimo tweet (o post su X, come lo si vuol chiamare) se ne è venuto fuori con una frase sul tema di sei righe senza un punto, dalla consecutio opinabile e la sintassi zoppicante, seppellita per questo da una valanga di ironie. In essa da un lato ribadisce l’ovvio: che nella scuola si debba insegnare storia, arte, letteratura e musica italiana – speriamo contestualizzate in quella mondiale, tanto per sprovincializzarci un po’. E dall’altro decreta, per fortuna non ancora per decreto, che nelle classi debba esserci una maggioranza di italiani. L’affermazione è di apparente buonsenso: e, peraltro, nella stragrande maggioranza dei casi è già così. Una volta tradotta in pratica burocratica diventa tuttavia un nonsenso. Vediamo perché.

La quantità di italiani presenti in una classe o in una scuola dipende dalla definizione che si dà di italiano. In molti paesi, chi ci nasce è cittadino di quel paese. A seconda di come cambia la legge sulla cittadinanza, cambia il numero di cittadini. Nei paesi con lo ius soli lo sono tutti. In Germania, per esempio, le maglie sono sempre più larghe anche per quel che riguarda la cittadinanza: in passato ci volevano almeno dieci anni per ottenerla, con la legge in vigore ne bastano cinque, e si sta discutendo se portarla a tre – il che significa che tutti i figli di stranieri nati in Germania, fin dall’ingresso in prima elementare sono già cittadini. L’Italia ha una delle leggi sulla cittadinanza più restrittive d’Europa (tranne per i discendenti di italiani all’estero, che anche se i loro antenati sono emigrati a fine Ottocento, possono ottenere la cittadinanza – di solito richiesta non per venire in Italia, ma per avere la libera circolazione in Europa e entrare negli USA senza visto – senza alcun obbligo di conoscenza della lingua): forse il problema, che è più di definizione che sostantivo, sta lì.

Un altro esempio. I figli di coppie miste – sempre più frequenti: oggi sono oltre il 15% su media nazionale, molti di più nelle regioni e città con più immigrati – hanno la cittadinanza per matrimonio. Ma se portano il cognome del coniuge straniero sono percepiti come stranieri, altrimenti no. Quando si dice che in una classe ci sono “troppi” stranieri, di fatto si contano anche loro. E anche i figli adottati di colore diverso da quello maggioritario nella etnia italiana – come direbbe il generale Vannacci, che ignora che tale etnia non esiste – non sono, ma sono percepiti, come stranieri.

Il problema più serio tuttavia è un altro. In città come New York, Londra, Sidney e Toronto, non proprio tra i luoghi più arretrati del globo, quasi la metà dei residenti (con percentuali in crescita: quindi tra poco saranno più della metà) è nata all’estero, e in molti quartieri e scuole sono naturalmente molti di più, anche perché, come in Italia, gli stranieri fanno più figli degli autoctoni: se adottassero il criterio immaginato da Valditara, dovrebbero deportare gli alunni altrove. E qui emerge il punto politico più rilevante, che è proprio quello della gestione di tale percentuale. Intanto, si applica a una scuola o alle sue singole classi, che sarebbe un modo per fare finta di rispettare un criterio violandolo nella sostanza? Ma soprattutto: se la percentuale viene superata che si fa: si deportano i figli di immigrati? E quanto lontano? E a spese di chi? E si darebbe quindi ai loro compagni autoctoni rimasti l’idea che sono privilegiati e superiori perché loro non corrono questo rischio? Non rimanda, tutto ciò, a un immaginario che rievochiamo nella giornata della memoria proprio per sperare che non accada più?

Aggiungo che lavoro in un’istituzione, l’università, la cui qualità è misurata da classifiche globali in cui il livello di internazionalizzazione (numero di studenti e di docenti stranieri) è uno dei fattori qualitativi e di attrazione rilevanti e valutati positivamente. Ora, lo diciamo sommessamente, ma se è vero per l’università, siamo proprio sicuri che non lo sia anche per la scuola dell’obbligo? E che il problema allora non sia il numero, ma il contenuto dei programmi, la formazione degli insegnanti e le risorse a disposizione?

Lo chiediamo a Valditara, consapevoli del suo precedente ruolo di professore ordinario di diritto romano: un impero che dava cittadinanza e pari diritti ai sudditi delle terre che conquistava – e per un lungo periodo persino a tutti gli schiavi liberati –, e ha contato diversi imperatori nati in suolo oggi straniero, seppure “italiani – meglio, italici – nati all’estero”. Tra questi Settimio Severo, nato in Libia e di pelle più scura della media, per così dire. Certo, in gran parte erano di fatto di cultura latina, non di rado anche di nobili famiglie romane. Ma se valesse il criterio geografico odierno, sarebbero “tecnicamente” italiani in molto pochi: solo 43 imperatori (nella sola Turchia ne sono nati 69, quasi una novantina se consideriamo l’intero Medio Oriente e il Nord Africa). Per dire, Costantino, serbo di nascita, figlio di un illirico e di una greca, sarà colui che cristianizzerà l’impero. Il che offre un qualche motivo di riflessione a chi alle radici cristiane ama richiamarsi…

 

Costantino e le classi “italiane”, in “Corriere della sera – Corriere del Trentino” e “Corriere dell’Alto Adige”, 31 marzo, editoriale, p. 1

Dove inciampa il ministro, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 2 aprile 2024, editoriale, pp. 1-3

 

Un tetto agli stranieri nelle scuole? Vediamo cosa significa

Il ministro Salvini – che dovrebbe occuparsi di infrastrutture e trasporti ma ha sempre nostalgia del tema che gli è più a cuore e in passato gli ha fatto guadagnare più consensi, l’immigrazione – propone un tetto del 20% al numero di bambini stranieri presenti in una scuola. La proposta ha un’apparente sensatezza, ed è stata persino illustrata con una moderazione di toni inedita per chi, su questo tema, ha sempre preferito le barricate ideologiche e le politiche muscolari.

Cosa dice Salvini? Che “un 20% di bambini stranieri in una classe è anche stimolante, perché conosci lingue, culture e musiche”: e già ci mettiamo via l’inedita apertura sul fatto che la pluralità culturale sia considerata un arricchimento – in altre occasioni, anche recentissime, da parte sua, del suo partito e dei suoi alleati è sempre stata considerata solo un danno e motivo di polemica. Se fossero di più, in specie se la minoranza fossero gli autoctoni, sarebbe “un caos per tutti”.

Proviamo a prendere sul serio l’affermazione, e vediamo cosa implica. Cominciamo con la definizione di autoctono. Nella scuola italiana ci sono oltre 800mila figli di immigrati, in gran parte nati in Italia. In altri paesi sarebbero e sono considerati cittadini, almeno quelli nati sul suolo patrio. Una percentuale significativa ha come prima lingua l’italiano, anche in famiglia. E in ogni caso gli studi di glottologi e linguisti sono abbastanza concordi nell’affermare che avere un’altra lingua natìa non è un ostacolo all’apprendimento di una seconda lingua, ma anzi un vantaggio, che risulterà peraltro in un vantaggio competitivo dei diretti interessati anche sul mercato del lavoro, e una complessiva utilità anche di sistema, per la società.

Non solo: moltissimi sono figli di coppie miste, in famiglie in cui è dominante la lingua italiana, spesso per scelta concordata tra i coniugi in nome della facilità di integrazione dei figli. Sono tuttavia percepiti come stranieri, anche dagli insegnanti, perché in gran parte dei casi il coniuge maschio è straniero, e solo per un’inerzia culturale, visto che oggi la legge consentirebbe di adottare solo il cognome della madre o comunque quello italiano, li fa credere foresti. Su questo ho un’esperienza personale abbastanza illuminante. Ho cresciuto fin da piccoli due figli nati in un precedente matrimonio di mia moglie, italiana, che di cognome, avendo quello del padre, facevano Mohammed. Anche se in realtà pure il padre era cittadino italiano (nato e vissuto in Italia, parlava solo italiano, ma era figlio a sua volta di una coppia mista), e anche se ai colloqui con i genitori andavamo io e mia moglie, che l’italiano lo conosciamo benino, e lo parliamo discretamente forbito, ai nostri figli chiedevano regolarmente di “portare una filastrocca del tuo paese” (noi, entrambi milanesi, avevamo insegnato loro “ti che te tachet i tac…”), senza contare il sentirsi chiamare “marocchini di m…” da qualche compagno. Poi, durante il loro percorso scolastico, il padre ha cambiato legalmente cognome, e i figli di conseguenza, e questa percezione ‘straniera’ è miracolosamente scomparsa: nonostante, almeno in un caso, il colore della pelle fosse lievemente più scuretto della media.

C’è poi la definizione della soglia: perché il 20%? Ha una qualche base scientifica? No, nessuna. E in ogni caso non ne ha nemmeno una pratica. Facciamo qualche esempio. Ci sono già quartieri, e addirittura città, in cui la percentuale di alunni di origine straniera è superiore: cosa facciamo, li deportiamo in altri quartieri o città? E perché, come, in base a quali criteri, con quali mezzi di trasporto, a spese di chi, producendo quali conseguenze anche nel percepito degli studenti autoctoni, che si sentirebbero superiori e garantiti a spese degli altri, vittime di un comportamento discriminatorio? Non solo: nello stesso istituto possiamo avere classi con una percentuale superiore e altre no: si fa la media o diventa comunque fuorilegge la classe che supera i limiti? Ma è il principio stesso che è problematico. Il problema non è un numero, una percentuale, un limite astratto e definito a priori. Ma come si fa scuola, con che metodi, con quale preparazione e aggiornamento del corpo docente. Già tutto questo fa capire che una affermazione buttata lì come di apparente buon senso rischia invece di avere terribili effetti di nonsenso quando non di controsenso, e di discriminazione esplicita nei confronti di gruppi etnici e religiosi altri – il che dovrebbe forse ricordarci qualcosa di già avvenuto tante volte nella storia, e da cui rifuggire.

Possiamo capire la preoccupazione di qualche genitore, e la loro fuga eventuale verso altre destinazioni: altre scuole pubbliche in altri quartieri, o la scuola privata – quella che in altri paesi, e anche in alcune ricerche da noi, è stata chiamata la “fuga bianca”, perché di questo si tratta, di colore della pelle, più che d’altro (se in una scuola qualsiasi ci fosse una percentuale maggiore di bambini con genitori con reddito modesto e basso livello di istruzione, se non analfabeti, ma di cognome italiano, nessuno semplicemente se ne accorgerebbe, perché si tratta di dati sensibili e non pubblicizzati – e chi se ne accorgesse e desiderasse andarsene lo farebbe in silenzio, magari anche un po’ vergognandosi, e nessuno invocherebbe intollerabili percentuali per gli altri). Se queste famiglie hanno dei timori, tuttavia, è giusto che siano loro ad assumersene il costo, non gli altri, incolpevoli.

Certo, sappiamo dai dati Invalsi che spesso gli immigrati hanno risultati in italiano e in altre materie inferiori agli italiani (ma sarebbe lo stesso se cercassimo i risultati per censo: solo che non si può fare…). In compenso li hanno spesso più alti in lingue straniere e matematica. Così come sappiamo che gli stranieri, per problemi linguistici, specie quando vengono inseriti come neo-arrivati in classi e a livelli scolastici che corrispondono alla loro età anagrafica ma non alla loro preparazione linguistica, hanno percentuali di ritardi e bocciature maggiori. Normale sia così, e il prezzo dopo tutto lo pagano loro. Ma a questo si potrebbe ovviare in altro modo. Personalmente, occupandomi di questioni migratorie da trentacinque anni, e avendo parlato con moltissimi adulti di origine straniera che da bambini sono passati per questo tipo di inserimento scolastico, e ne hanno pagato dei costi psicologici e relazionali spesso pesantissimi, ho maturato un’opinione diversa da quella della media degli insegnanti (o almeno dei loro rappresentanti negli organismi istituzionali e nei sindacati). Non sono affatto sicuro che questa sia l’unica modalità di inserimento possibile, e nemmeno la migliore. Si potrebbero frequentare prima dell’inserimento scolastico vero e proprio dei corsi intensivi di lingua, che aiutino i ragazzi ad avere un inserimento più morbido e produttivo poi. E non si tratta affatto di classi differenziate, come polemicamente vengono definite, ma di un servizio specifico offerto temporaneamente a persone solo in quel momento in condizione di svantaggio – tecnico, in senso stretto. Nessuno stigma e nessun pregiudizio dietro a questa offerta. Le forme possono essere altre (insegnanti e servizi di supporto, in parallelo, ecc.), ma non dovrebbe essere un tabù parlane operativamente anziché ideologicamente.

La scuola fa un lavoro straordinario, ed è senza dubbio la più grande agenzia di integrazione del nostro paese, il principale laboratorio di pluralità culturale che abbiamo. Va ascoltata, rispettata nella sua autonomia, e semmai aiutata con finanziamenti, progetti e sperimentazioni, non imponendole limiti che sarebbero gabbie ulteriori, che renderebbero meno facile il lavoro degli insegnanti e problematico l’obiettivo di una migliore integrazione sociale.

Chiudo con quella che non è una provocazione, ma una semplice constatazione. Lavoro in una istituzione, l’università, che è valutata in base a ranking internazionali, in cui il criterio dell’internazionalizzazione è una variabile importante. Più studenti stranieri hai, e più insegnanti stranieri hai, più vali, più sei appetibile, più questo è considerato un valore aggiunto. Se è vero per l’università (la maggior parte di noi ne è convinta), siamo proprio sicuri che non debba essere altrettanto vero per la scuola dell’obbligo? Sulla base di quali informazioni, studi, ricerche, sperimentazioni ne siamo così profondamente convinti?

 

“Un tetto agli scolari stranieri”. Salvini e il rimedio che fa danni, in “il Riformista”, 29 marzo 2023, pp. 1-9

La società trans. Sulla transizione di genere

Molti lo considerano un lusso inutile, quando non una perversione della modernità. E quando la regione Veneto l’ha istituito, con il sostegno convinto del presidente Zaia, che l’ha definito “una scelta di civiltà” (come per altri temi che riguardano la libertà di scelta, inclusa quella di morire con dignità attraverso il suicidio assistito, la cui regolazione è stata invece bocciata), ci sono stati molti mugugni ed esplicite proteste anche nella sua maggioranza. Parliamo del “Centro di riferimento regionale per l’incongruenza di genere e il cambio di sesso”, assegnato ufficialmente da marzo 2023 all’ospedale di Padova.

Perché non è una fisima né uno scandalo? Perché è doveroso occuparsene? Perché non siamo solo una società in cui ci sono delle persone, che chiamiamo trans, che non si identificano con il proprio corpo e che vorrebbero attivare o almeno vedere riconosciuta una qualche forma di transizione di genere, ed è doveroso tenerne conto. Ma perché siamo una società trans: in perenne transizione, trasformazione, accelerazione. Pensiamo solo a come saremo cambiati non tra dieci anni o tra cinque, ma anche solo tra due, a causa dei giganteschi processi trasformativi innescati dall’intelligenza artificiale: anche sul piano dell’identità, della personalità, dei diritti di ciascuno di noi. Ecco, quello dell’identificazione di genere, che implica quello della transizione, è un pezzo, uno dei tanti, di questa trasformazione. Ma anche uno dei più simbolici e significativi, perché va a toccare non solo degli elementi interiori, ma può anche (non sempre, e in forme molto diverse) toccare l’esteriorità del corpo, la sua visibilità e la sua manipolabilità, la sua riconoscibilità per gli altri (perché sono gli altri che hanno il problema maggiore, non i diretti interessati, che se ne fanno una ragione e vorrebbero solo essere liberi di attivare scelte individuali di cambiamento). Peraltro, questo avviene anche in altri ambiti, anche se ci facciamo meno caso: l’aggiungere al corpo chip, protesi meccaniche, potenziamenti farmacologici, manipolazioni genetiche, è un modo di avvicinarci a quel transumano che è una delle grandi questioni del nostro tempo, e di cui la transizione di genere non è in fondo che un elemento, un caso persino minore. Allo stesso tempo è una formidabile occasione per farci uscire da un binarismo forzato che è sì un potente archetipo culturale, ma anche una evidente forzatura ideologica: che presuppone una coerenza e una linearità di identificazioni che è più difficile trovare nella realtà di quanto si creda. Basti pensare alla fragilità intrinseca, alla rigidità spesso farlocca, di distinzioni e separazioni date per assodate: non solo quella tra maschile e femminile (come vediamo dai casi in oggetto, non evidente e immediata per tutti), ma anche tra eterosessuale e omosessuale (come se non si passasse attraverso fasi, sperimentazioni, identificazioni diversificate, spesso sovrapposte, non di rado ambigue, e cambiamenti), e potremmo ovviamente arrivare a bello e brutto, buono e cattivo, destra e sinistra, oriente e occidente.

Ci sono persone, molte, che fanno fatica a identificarsi con il proprio corpo: con la chirurgia estetica abbiamo sdoganato – e consideriamo lecita – l’idea di modificarlo, che non fa più scandalo ed è anzi sempre più diffusa. La questione dell’identità di genere va molto più nel profondo, tuttavia. Perché la non identificazione tra il proprio sesso biologico e la propria identità di genere (o la messa in discussione del rapporto tra le due cose), tra quello che appare e come ci si sente – conosciuta sotto il nome di disforia di genere – è un malessere, o un problema, che produce una profonda sofferenza, con sintomi di ansia, depressione, autolesionismo, tendenze suicidarie. E se si può uscirne, perché non farlo?

Non si tratta, tra l’altro, dell’invenzione di qualche fantomatico propalatore di una inesistente teoria gender. Il fatto che solo il centro di Padova riceva 14 nuovi pazienti a settimana (che significa oltre 700 l’anno – mentre a livello nazionale si parla di 400mila persone coinvolte) significa che il problema è più diffuso di quel che crediamo. Il fatto poi che tra questi ci siano anche degli over 60 mostra che il problema non è nuovo: nuovo è solo che finalmente se ne possa parlare, e ci sia la possibilità (riconosciuta dalla società attraverso il riconoscimento del servizio sanitario pubblico come livello essenziale di assistenza: un elemento fondamentale per questioni simboliche oltre che economiche) di affrontarlo.

Il luogo dove parlarne e praticarlo, abbiamo visto, c’è: e si occupa di consulenza, accertamento, accompagnamento, assistenza, sostegno, terapia ormonale e chirurgia demolitiva (questi ultimi richiesti solo da una parte delle persone che manifestano una disforia di genere). Si chiede solo di aggiungere l’ultimo tassello, che una quota minoritaria delle persone coinvolte richiede: la chirurgia ricostruttiva, che un altro paio di realtà italiane già riconoscono. Ci sembra un tassello legittimo. Che la regione Veneto, che si è mostrata all’avanguardia nell’affrontare il tema, ed è giusto dargliene atto, potrebbe attivare senza difficoltà. Come in ogni cammino, una volta fatto il primo passo, gli altri vengono da sé.

 

Siamo una società “trans”, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 marzo 2024, editoriale, p. 1-7

La normalità dell’immigrazione, l’ipocrisia di chi è “contro”

Le migrazioni sono come i trasporti, la sanità, il commercio, l’istruzione, l’assistenza sociale, la manutenzione delle strade o del verde pubblico: un dato strutturale della società. Come tale, e come ogni elemento che impatta sulla vita collettiva, va gestito, governato: bisogna, insomma, occuparsene. Se non lo si fa, lo capiamo tutti, è un disastro. Se nessuno programmasse gli orari degli autobus, le prenotazioni delle visite e la gestione del pronto soccorso, gli spazi di mercato e il rilascio delle licenze, la costruzione e la gestione delle scuole, l’aiuto ai disabili o alle vittime di violenza, il rattoppo delle buche e lo sfalcio dell’erba, sarebbe il caos: e infatti, quando non funzionano, ce ne accorgiamo eccome, delle conseguenze, e protestiamo. Mentre, se governati, tutti questi fenomeni, tutti questi processi, sono un aiuto fondamentale per la nostra vita: non un problema, ma una soluzione a un problema. E infatti questo chiediamo a chi ci rappresenta, dai sindaci alle regioni fino al governo nazionale. E questo la politica dovrebbe fare.

Invece, quando si tratta di migrazioni, ci limitiamo a essere “contro”: che è come essere contro i trasporti, la sanità, il commercio, l’istruzione, l’assistenza sociale, la manutenzione, e già che ci siamo anche il maltempo. Nessuno vuole occuparsene: né i sindaci, che infatti, in grandissima maggioranza, evitano accuratamente di farlo, e spesso strumentalizzano i migranti come capro espiatorio di problemi di cui sono la conseguenza e non la causa; né la regione, che non dà indicazioni e non ha alcuna cabina di regia, né per l’accoglienza né per l’integrazione (e quando si è mossa, l’ha fatto più per ostacolare l’integrazione che per gestirla: dalle leggi “prima i veneti” a quelle contro le moschee); mentre il governo è obbligato a farlo, ma lo fa nella stessa logica, cercando di limitare gli arrivi ma senza governarne le conseguenze, con provvedimenti spot e in qualche modo emergenziali anziché con un strategia di lungo periodo. Con il risultato paradossale di ottenere precisamente quello che tutti a parole dicono di voler evitare: il caos.

È un corto circuito che ci coinvolge tutti, non solo chi ci governa, perché i primi complici sono i cittadini e gli elettori. Tu, cittadino, sei contro gli immigrati, quindi dai il voto a chi te lo chiede per lo stesso motivo; una volta eletto questi non farà nulla per risolvere problemi che gli garantiscono una facile rendita elettorale, e dopo tutto rispondono al mandato ricevuto: e così i problemi si incancreniscono, nella comoda complicità di tutti, perché di ogni problema è più facile non occuparsene, ancora meglio se legittimati da qualche semplice slogan ideologico, che tirarsi su le maniche e affrontarli.

Dopodiché tutti quanti vogliamo mangiare al prezzo minore possibile il cibo raccolto dagli immigrati, beviamo il (e ci arricchiamo con) il vino vendemmiato da loro, abitiamo nelle case costruite da loro (che poi ci rifiutiamo di dar loro in affitto) e da loro pulite, acquistiamo merci movimentate da loro (dal carico e scarico in magazzino al camioncino che le consegna fino alla bancarella in piazza), ci vantiamo di record turistici che senza il loro lavoro in hotel e ristoranti non raggiungeremmo mai, affidiamo loro i nostri anziani non autosufficienti, i nostri malati e i nostri bambini perché se ne prendano cura, e nemmeno ci accorgiamo che sono una quota sempre più rilevante di coloro che, come operai, producono le merci che vendiamo, utilizziamo ed esportiamo – e sono nostri clienti come consumatori. Ma siamo “contro”, e quindi non gestiamo il fenomeno, e ci laviamo la coscienza con quello. Possiamo dire che è una intollerabile ipocrisia? Che chiedere il voto, e darlo, per questa ragione è un’impostura, e per giunta una truffa che ci autoinfliggiamo, facendo del male a noi stessi oltre che a loro?

Non c’è esempio migliore che quello dell’accoglienza per dimostrarlo. Non apriamo canali regolari di ingresso, e quindi arrivano irregolarmente e chiedono asilo. Il governo li ridistribuisce sul territorio, ma i comuni, con il sostegno masochistico dei loro cittadini, che sono “contro”, non attivano i SAI (che sono protocolli per l’accoglienza gestiti dalle amministrazioni, con la collaborazione del privato-sociale), e quindi le prefetture finanziano i CAS (centri di accoglienza straordinaria, a scopo di lucro), i cui bandi peraltro spesso finiscono per andare deserti perché offrono cifre ridicolmente basse, e con gli ultimi decreti approvati dal governo escludono esplicitamente proprio le attività che favoriscono l’integrazione, a partire dall’insegnamento dell’italiano. Risultato? L’integrazione funziona male (o funziona comunque, ma con più difficoltà e maggiori costi umani e materiali; e non grazie alla politica, ma nonostante essa), e il ciclo ricomincia. Fino a quando andremo avanti con questa assurda pantomima?

 

L’ipocrisia di quelli che sono “contro” e non se ne occupano, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” 24 marzo 2024, editoriale pp. 1-6

Immigrati: politica senza strategia. Tra nuovi sbarchi e vecchie ossessioni ideologiche.

Gli sbarchi non si fermano, e le morti nel Mediterraneo neppure: è di questi giorni l’ennesima tragedia, con forse una sessantina di morti, a fronte di venticinque sopravvissuti, raccolti e salvati per caso dalla Ocean Viking, la nave dell’organizzazione francese SOS Méditerranée. E questa è la prima notizia d’attualità. La seconda è che la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha ritenuto di non concedere la procedura d’urgenza per l’esame di un aspetto del cosiddetto decreto Cutro: la garanzia finanziaria da quasi cinquemila euro che gli immigrati, anche appena sbarcati, che non vogliono entrare nei CPR, i Centri per il rimpatrio, dovrebbero versare allo stato. È in apparenza un tecnicismo, ma potrebbe avere conseguenze anche sull’applicazione dell’accordo tra Italia e Albania per la gestione in terra albanese delle pratiche dei richiedenti asilo che tentano di arrivare in Italia. Insieme, queste due notizie mostrano l’assenza totale di una strategia seria di gestione delle migrazioni, e il ricorso a sole iniziative di facciata, quasi sempre contraddittorie e prive di un obiettivo pratico reale.

Cominciamo dagli sbarchi. Che, di per sé, non sono certo colpa del governo: né di questo né dei precedenti. Ma che mostrano la mancanza di coraggio degli uni e degli altri nell’affrontare il problema alla radice. La questione è più semplice di quello che sembra. In passato esistevano dei flussi regolari di manodopera immigrata, e una quota percentuale molto più piccola di ingressi irregolari. Da alcuni decenni a questa parte, per rispondere alle paure della pubblica opinione – di per sé comprensibili, ma che andrebbero informate e guidate, non seguite – sono stati progressivamente chiusi la gran parte dei canali regolari di ingresso, in particolare per lavoro. L’inevitabile risultato è stato il rovesciarsi delle percentuali: una maggioranza di immigrazioni irregolari, e una quota percentuale relativamente piccola di ingressi regolari. L’unica cosa seria da fare per combattere le immigrazioni irregolari sarebbe dunque (ri-)aprire canali di immigrazione regolare con gli stessi paesi di origine e di transito da cui arrivano i flussi irregolari, coinvolgendoli nella responsabilità della gestione dell’irregolarità in cambio del vantaggio di canali sicuri, di cui peraltro abbiamo noi stessi un enorme bisogno (quantificabile in almeno duecentomila ingressi l’anno per l’Italia, e due milioni per l’Europa, solo per mantenere in relativo equilibrio la forza lavoro necessaria, a fronte di una demografia completamente squilibrata, in cui calano drammaticamente le nascite e aumentano i pensionati). Per non dover ammettere questa evidente verità, di cui stiamo già pagando il prezzo, ci si limita a ostacolare con provvedimenti improvvisati una immigrazione irregolare che, in mancanza di alternative, non potrà che crescere. Come si fa con i provvedimenti, meramente punitivi, contro le ONG, con l’assegnazione di porti lontani (che produce solo più costi e più morti, senza alcun vantaggio per nessuno), o l’impedimento di salvataggi multipli. La stessa Ocean Viking era appena ripartita dopo un fermo amministrativo di mesi, proprio per questa ragione: che è come se a ciascuno di noi, dopo aver salvato la vittima di un incidente stradale, sulla strada per l’ospedale ci fosse vietato – per legge! – di salvare un altro ferito trovato lungo il percorso.

La seconda questione riguarda la singolare proposta, uscita dal cappello di un consiglio dei ministri dell’autunno scorso e mai discussa prima, di inventarsi una cauzione da 4938 euro che gli immigrati provenienti da paesi detti ‘sicuri’ dovrebbero pagare per non entrare nei CPR. A parte l’inapplicabilità e la totale assenza di senso della realtà (si parla di fidejussioni, trattandosi di persone neosbarcate che difficilmente quella cifra la possiedono, quando anche per un italiano una polizza fidejussoria presuppone dichiarazione dei redditi, proprietà, un lavoro fisso e banalmente una residenza), anche questa norma, come quelle sulle ONG e molte altre, mostra di essere improntata a un inutile cattivismo, che pare ben più reale del buonismo di cui sono accusate, un giorno sì e l’altro pure, le organizzazioni che queste politiche contrastano. E destinata, come del resto l’accordo con l’Albania, non a risolvere un problema, ma solamente a mandare un segnale politico e propagandistico all’opinione pubblica: un modo di dire che si sta facendo qualcosa, tamponando o terziarizzando il fenomeno, senza nemmeno cominciare ad affrontarlo davvero.

Veniamo, per l’appunto, alla ratio degli accordi siglati. Pensare di gestire le richieste d’asilo, rivolte all’Italia, dall’Albania è come pensare di risolvere il problema dei ritardi nella sanità aprendo un ospedale a Tirana, portandoci medici, infermieri e pazienti italiani: sarebbe un costo enorme (non solo le centinaia di milioni di euro per attrezzare una base, ma costi di gestione gonfiati oltre tutto anche dalle indennità di trasferta all’estero…), non velocizzerebbe le pratiche (se lo facesse non si capisce perché le stesse persone non potrebbero analizzarle negli stessi tempi in Italia), creerebbe un sacco di problemi pratici (possiamo immaginare celerità ed efficacia, oltre che rispetto dei diritti, di udienze svolte tramite interprete con giudici e avvocati in videoconferenza). Si tratta di un fallimento annunciato, a cui tuttavia la lentezza di risposta della UE rischia di dare un alibi: se non si riesce a farlo in tempo per le elezioni europee (questa era probabilmente la vera ragione della decisione: raggiungere un elettorato spaventato con un messaggio di furbesca anche se inefficiente protezione), sarà pur sempre possibile dare colpa all’Europa della mancata attuazione.

Non che non si debbano fare accordi con gli altri paesi: al contrario, è la cosa giusta da fare. Ma su altre basi. E, aggiungiamo, con altri obiettivi: selezionare e formare la manodopera in accordo con i bisogni dell’economia, per esempio. Non fare finta che se ne possa fare a meno lanciando segnali generici e anche un po’ obliqui di rifiuto e di esternalizzazione. Prendere in mano, insomma, i problemi, nei loro termini reali. Con più spirito pragmatico e meno vocazione ideologica. Allo scopo di risolverli, non di rilanciare slogan più o meno nazionalistici (che peraltro vanno contro l’interesse nazionale).

 

L’accordo Italia-Albania ha i piedi d’argilla, perciò l’Europa lo boccia, in “Il Riformista”, 16 marzo 2024, p. 6

Uomini contro le donne. Giulia, Sara e le altre.

Un altro femminicidio. Che però è categoria astratta, con un che di giuridico e di impersonale. Diciamola diversamente. Un altro assassinio di una donna da parte di un uomo. Con una sola motivazione: perché lei era una donna e lui un uomo. Se non ragioniamo così, se non ce la diciamo così, l’uccisione di Sara Buratin rischia di essere solo un caso di violenza tra tanti (proprio perché l’ennesimo, sempre meno rilevante in sé), un numero aggiunto a una statistica, e niente più. Non possiamo, oltre tutto, derubricarlo a violenza generica: è violenza di genere, che è cosa diversa. Sono ancora troppo freschi il dolore, l’emozione, la partecipazione, la mobilitazione seguiti all’omicidio di Giulia Cecchettin: che ci hanno fatto ragionare, riflettere, fare autocritica anche (come uomini, anzi, come maschi, in primo luogo). Purtroppo, come si è visto, non tutti, non abbastanza, non sufficientemente a fondo.

Forse il solo modo di capire veramente cosa è successo, è vederlo da dentro, come sanno fare solo l’introspezione e l’empatia, o l’arte, attraverso la capacità di mettersi davvero nei panni degli altri, e dentro le cose. Provare a immaginare, se non capire, quello che avrebbe potuto pensare e sentire Sara nei suoi ultimi istanti. Sapere di avere condiviso con il tuo uomo quasi due decenni di vita in comune, le parole dette, le risate serene, le tenerezze scambiate, l’intimità complice, pelle contro pelle, l’amore dichiaratosi vero e duraturo, la nascita di una figlia, i momenti della sua crescita, le gioie banali ma profonde che sono di tutte le famiglie, un repertorio di avvenimenti, di aneddoti e di ricordi, di pasti consumati insieme, di compleanni, di vacanze. E capire solo all’ultimo, mentre la lama affonda nel collo, che è stato capace di premeditare il tuo omicidio, di usare una scusa banale per venire a casa, di colpirti vigliaccamente alle spalle in maniera efferata, una, due, venti coltellate, lasciandoti lì, nel tuo sangue, e poi scappare, sì, scappare, altrettanto vigliaccamente, senza pensare a te, senza pensare a tua figlia, che adesso hai orrore a pensare vostra, anche sua, la rabbia, la disillusione, lo schifo che proveresti ora, a pensare di essere stata così tanto tempo con un uomo capace di tutto questo – se fossi sopravvissuta…

No, non è un altro caso di omicidio-suicidio. È persino sbagliato definirlo così, perché mette le due cose sullo stesso piano. E non lo sono. Perché l’assassino ha potuto scegliere: la vittima no. E comunque il secondo, il suicidio, non spiega né tanto meno giustifica, o sminuisce, il primo. Anche Filippo, l’assassino di Giulia, ha detto che voleva farla finita, ma non ne ha avuto il coraggio. Alberto ha solo portato a termine il suo proposito, tutto qui. Questo, di certo, non lo rende migliore, non lo scusa, non produce attenuanti o sfumature nel giudizio. No, non è un fatto solo individuale, una storia irripetibile. E lo sappiamo proprio perché si ripete. Con agghiacciante e inesorabile frequenza. È il segno di un modo di pensare specifico, figlio di una cultura e di un’epoca. Che, certo, ha millemila spiegazioni anche individuali. Che, certo, vanno analizzate nella loro soggettività. Ma anche ricondotte alla loro radice (non ragione: non c’è ragione) comune: che è un’idea di donna, e di uomo, e di potere nella relazione tra i due. Che rende la donna proprietà dell’uomo. Di cui può disporre, come un padrone dispone di uno schiavo, che considera oggetto, merce in fondo, e non persona. Perché lei è una donna e tu un uomo, appunto. Senza bisogno di (altre) ragioni.

Poi, certo, si può provare a confrontare, a comparare. Scoprire che in fondo entrambi, Alberto, l’assassino di Sara, e Filippo, il killer di Giulia, differenza d’età (non diciamo di maturità, che non c’era) a parte, erano uomini incapaci di una relazione adulta, consapevole, veramente di scambio, disponibile a valorizzare l’altra persona; anzi svalorizzandola al punto da renderla cosa, priva di individualità e personalità, di cui è possibile e lecito sbarazzarsi. Uomini taciturni, solitari, o meglio soli, anche quando in compagnia. Non perché amanti di una solitudine consapevole e scelta, ma perché incapaci di relazione all’interno delle relazioni che pure instauravano, e da cui dipendevano. Poi, certo, non in tutti i casi è così. Quello che hanno veramente in comune, di fondo, è l’essere uomini contro le donne. Come abbiamo cercato di dire. Come temiamo di dover ripetere ancora.

 

Uomini contro le donne, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 2 marzo 2024, editoriale, p.1-5