Saman: cosa pensarne, cosa fare

Saman Abbas: 18 anni e una vita davanti. Che una famiglia bigotta e la minaccia di un matrimonio imposto hanno cambiato per sempre. Come, lo sapremo alla conclusione delle indagini.

È una storia comune, quella del conflitto che ha vissuto. Che si presenta spesso nelle famiglie “tradizionaliste”, quale che sia la tradizione di riferimento (religiosa, etnica, tribale, in ogni caso popolare, da qualche parte, e tramandata come si tramandano le tradizioni, per inerzia e imitazione), ma che normalmente si risolve in altro modo: passando attraverso conflitti familiari dopo tutto fisiologici, che servono a inghiottire la novità, la libertà e il riconoscimento dei diritti individuali, non a rifiutarli o conculcarli fino alla soppressione della vita.

Le tradizioni che vanno contro la legge vanno denunciate. Con forza. Quelle che vanno contro la morale diffusa e il senso comune vanno ingaggiate in una discussione senza reticenze. Ma serve pensiero, non retorica. E pratiche di integrazione, non capri espiatori.

Il problema non è denunciare l’immigrazione, o l’islam (come se fosse pratica abituale tra immigrati e musulmani uccidere le figlie! E il matrimonio combinato non fosse presente alle più diverse latitudini, e peraltro come pratica ancestrale prima che come costume religioso). Mettere sotto attacco le culture in quanto tali porta spesso a una chiusura intracomunitaria ancora più ferrea. Il cammino giusto è fare l’opposto: bisogna incontrare le comunità, parlare, dialogare, coinvolgere – in una parola, integrare. Mettendole di fronte all’orrore di casi come questo, collaborando a trovare mezzi e vie d’uscita, combattendo insieme un’omertà comunitaria difensiva che è essa stessa parte del problema. Coinvolgendo come attori privilegiati proprio le nuove generazioni, i figli degli immigrati, che sono in prima linea in questo confronto/scontro culturale.

In altri paesi europei, quando è emersa la piaga dei matrimoni forzati, è aumentato l’impegno e l’investimento in attività di integrazione, non diminuito. E lo si è fatto non contro le comunità, ma con loro, coinvolgendone i vertici nazionali e locali, sia etnici che religiosi (di molte etnie e religioni: la piaga è diffusa, e il confine tra matrimonio combinato e matrimonio forzato non sempre facilmente discernibile), in concrete iniziative sul territorio, nei quartieri e nelle scuole a rischio, facendo iniziative congiunte di educazione, cioè prevenzione, cioè integrazione, cioè il bene di tutti.

In passato altri casi (e purtroppo altri omicidi) si sono visti, soprattutto in Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, cioè le regioni più sviluppate e avanzate del paese. Non è una contraddizione. Non potrebbe essere che così, visto che qui vivono la maggior parte degli immigrati, dando un contributo percentualmente assai superiore al loro numero alla produzione di ricchezza di queste aree, in cui si sono spesso inseriti bene. Tanto bene da fare famiglia – cioè proiezione (anche se inconsapevole) sul futuro – qui. È in questa realtà che si trovano a vivere i loro figli, e una delle contraddizioni (e delle occasioni di litigio familiare) è che i genitori vivono spesso voltati all’indietro: la loro cultura è quella d’origine, e il paese dove sperano di ritornare anche. Per i loro figli e figlie (ché le donne – il corpo e la volontà delle donne – sono sempre il terreno privilegiato di scontro delle culture che non a caso definiamo patriarcali) le cose stanno in maniera completamente diversa: sono proiettati qui, e questo è il loro paese, di cui a giusto titolo vorrebbero la cittadinanza (che, incidentalmente, aiuterebbe nell’affermazione di una consapevolezza e di una volontà autonoma, anche simbolicamente diversa e slegata da quella dei genitori).

È dunque questo paese – il loro – che deve reagire. Denunciando senza ambigue comprensioni e tolleranze l’inaccettabilità e persino l’indicibilità di comportamenti che coartano la volontà individuale, e ogni e qualsiasi tipo di violenza e sopraffazione. Reagendo con fermezza, forza e autorevolezza contro le discriminazioni interne alle comunità (nei confronti delle donne, in primo luogo) – e, per coerenza e maggiore legittimazione di questo suo sforzo, quelle esterne (nei confronti degli immigrati stessi). E dando una mano, anche e proprio rafforzando i soggetti deboli (le donne e i figli) con pratiche di empowerment e di integrazione diffusa. Solo così si risolvono i conflitti attuali. E si prevengono quelli futuri.

 

Saman e lo scontro culturale, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 2 giugno 2021, editoriale, p.1

Islam in Europa. Tra violenza e pregiudizio: il dialogo possibile

Prima l’uccisione orribile dell’insegnante Samuel Paty, nella regione di Parigi. Poi l’attentato a Vienna, con la sua scia di vittime innocenti. Nel giro di due settimane, lo spettro della violenza di matrice islamica ha ripreso ad agitare un’Europa che credeva di essersela lasciata alle spalle con la sconfitta sul terreno dell’ISIS. Non è così: l’ISIS è stato (ed è ancora) solo una delle forme – la più violenta, la più esplicita, la più organizzata – di un problema più ampio, con cui dobbiamo fare i conti. Devono farli le società europee. E devono farli i musulmani che le abitano.

Cominciamo da questi ultimi. Che, in quanto tali, non sono – e non possono essere considerati – corresponsabili di questi orrori. Come non potevano esserlo i socialisti europei del terrorismo delle BR, i cattolici o i protestanti irlandesi delle bombe dell’IRA e degli orangisti, la popolazione basca di quelle dell’ETA. Ma, come in tutti i casi che abbiamo citato, il terrorismo è stato sconfitto, più che con la repressione, che certo è stata importante, con una grande battaglia culturale interna, condotta dalle persone di quei mondi contrarie invece all’ideologia della violenza, e conclusasi con la loro vittoria. Per limitarci al primo esempio, ma è vero per tutti, il terrore brigatista è stato sconfitto quando – nei mondi limitrofi, di quelli che avevano ideali in parte comuni – si è smesso di dire che si trattava di provocatori o infiltrati al soldo di altri interessi (cioè non erano dei ‘nostri’), poi che non erano ‘veri’ comunisti perché questi non agiscono così, poi che erano compagni che sbagliavano nel metodo ma comunque avevano le loro buone e giustificabili ragioni, poi condannando esplicitamente qualunque ricerca di legittimazione da parte dei violenti, infine isolandoli, denunciandoli e combattendoli come nemici dichiarati, pagando anche il prezzo della marginalizzazione (e in qualche caso della morte – pensiamo a Guido Rossa) per averlo fatto. È su tutti questi terreni che va condotta la battaglia. Ed è quello che sta avvenendo anche nel mondo islamico europeo, dove queste idee circolano tutte, ma per fortuna con percentuali molto diverse di sostegno: e un benefico conflitto interno è già in atto. Bisogna ricordarlo, perché solo la chiarezza di visione e l’onestà dello sguardo dei molti possono aprire delle crepe nell’oscurantismo di alcuni. E farci accorgere delle piccole e grandi collaborazioni a questa violenza. Pensiamo al caso Paty: i genitori che hanno protestato contro l’insegnante senza conoscere il merito, i leader associativi e gli imam in cerca di visibilità che hanno indicato la via della stigmatizzazione personale, chi sui social ha condiviso la gogna, gli indignati in servizio permanente effettivo del vittimismo e dell’islamofobia, chi ha amplificato il nemico per interessi di parte o di nazione (anche dall’estero), fino agli studenti che hanno indicato l’insegnante all’attentatore, e a chi di fronte a tutto questo è stato zitto. In questo senso non si può parlare di attentatore isolato, anche se la responsabilità è solo sua: sarebbe un’offesa alla verità.

Ma poi c’è l’Europa. Che non è innocente anche quando è inconsapevole: e per le stesse ragioni. Pure lei ha le sue colpe rimosse e i pregiudizi inconfessati: non accettando che i musulmani in Europa siano ciò che sono, ovvero come tutti gli altri residenti e cittadini, con gli stessi diritti e doveri e garanzie costituzionali; che non possono dunque essere stigmatizzati in quanto tali, e devono anzi essere arruolati come partner in una battaglia che è comune, di reciproco interesse e basata sui medesimi valori, che vede dalla stessa parte le società europee e la stragrande maggioranza dei musulmani che in esse vivono, e che peraltro pagano per primi il prezzo della reazione al terrore. Questa collaborazione deve essere aperta, esplicita e dichiarata. Perché anche una parte dell’Europa ha mostrato il volto della stigmatizzazione a senso unico, delle campagne d’odio nei confronti dei musulmani, della discriminazione istituzionale, del doppiopesismo, dell’offesa gratuita e generalizzata, dell’esclusione, di un diffuso e inaccettabile pregiudizio anti-islamico (molto meno, va detto, del terrore). E anche qui ci sono molti complici silenzi.

C’è bisogno di fiducia, di collaborazione nel concreto, di gesti coraggiosi – anche pubblici e  istituzionali – di apertura reciproca, di dialogo onesto. Solo così si sconfiggerà un nemico che è comune.

 

Lo spettro del terrorismo che ancora aleggia sull’Europa, in “Confronti”, n. 12, 2020, editoriale, p.7

“Fratelli tutti”: un commento

Com’è arduo essere Fratelli tutti… Padre Francesco Occhetta e Stefano Allievi commentano l’enciclica di papa Francesco

L’enciclica. Padre Francesco Occhetta e il prof. Stefano Allievi commentano il documento, complesso, di papa Francesco. Dalla necessità di meditare il testo per superare facili slogan al rischio dell'”occidentocentrismo”

Com'è arduo essere Fratelli tutti... Padre Francesco Occhetta e Stefano Allievi commentano l'enciclica di papa Francesco

C’è la parabola del Buon Samaritano al centro di Fratelli tutti, la terza enciclica di papa Francesco incentrata «sulla fraternità e l’amicizia sociale». Nelle sintesi della stampa tanti sono gli elementi che hanno colpito, emozionato o semplicemente fatto discutere: dalla critica verso il populismo agli eccessi del pensiero neo-liberista, dalla condanna finale verso la pena di morte fino alla necessità degli organismi internazionali contro i rigurgiti del nazionalismo identitario. Ma nel cuore, nel cuore vero, di questo documento chiamato a sistematizzare il magistero di Francesco su tali argomenti, c’è sempre l’icona evangelica dello straniero che si china sull’uomo incappato nei briganti e versa olio e vino sulle sue ferite.

Spiega padre Francesco Occhetta, gesuita, coordinatore del cammino di formazione alla politica Connessioni: «La pagina di Vangelo è la chiave per interpretare l’enciclica, prima dei frutti occorre nutrirsi della radice. Il samaritano disprezzato dalla cultura giudaica, rovescia la logica del prossimo che è il proprio vicino, egli “non ci chiama a domandarci chi sono quelli vicini a noi, bensì a farci noi vicini, prossimi”, scrive il papa». Va letta così, insomma: «È per questo che l’enciclica richiede una meditazione personale, non è un testo sociologico o politologico come molti pensano, ma dialoga con il mondo a partire dalla prospettiva del Vangelo. “Volete onorare il corpo di Cristo? Non disprezzatelo quando è nudo”, ribadisce l’enciclica. In questo senso Fratelli tutti elenca tutte le situazioni in cui gli uomini e le donne soffrono come vittime dei sistemi sociali e politici e, come sempre, la Chiesa presta la sua voce a chi non ce l’ha».

Papa Francesco non usa mezze misure per attaccare sia il populismo sia gli eccessi del neoliberismo tecnocratico. C’è chi ha addirittura parlato di una “Terza via” di Francesco. «La “terza via” della Chiesa – osserva padre Occhetta – è quella di sempre, non è un’alternativa politica, ma un’ispirazione per tutti per far sì che la comprensione della coscienza sociale evolva verso la dimensione della fraternità intesa come processo. Il papa invita i politici a riconoscere che la fede nel “mercato non risolve tutto”, il modello consumista ci ha ormai consumati e logorati; occorre rilanciare una politica popolare, riconoscere le false promesse del populismo, denunciare i limiti della visione del liberismo inteso come teoria economica e non come filosofia politica. L’alternativa? È costruire comunità inclusive locali e globali che difendano la dignità umana, l’antidoto è il popolarismo».

«I populismi sono come burrasche che si infrangono su Governi e istituzioni e si presentano come movimenti storici ciclici – riassume padre Occhetta – Viviamo immersi in una corrente culturale che nega il pluralismo e le minoranze interne; venera i leader come padri e padroni che appaiono nei media come uniche voci; esalta il nazionalismo e il sovranismo; ignora gli enti intermedi nella società, come la Chiesa, i sindacati, le associazioni e così via; predilige la democrazia diretta su quella rappresentativa; forma la pubblica opinione attraverso appelli, a emozioni e a credenze personali; confonde la destra e la sinistra e fa apparire il Nord contro il Sud, il “noi” contro loro; semplifica a slogan soluzioni complesse, come “il reddito di cittadinanza”; contrappone tra le categorie di “popolo puro” e di “comunità politica”». Ed è proprio in questo contesto che ritorna in auge una parola divenuta per molti parolaccia: la parola popolo. «Occorre ritornare all’arte della mediazione che aiuta a trovare soluzioni complesse, essere competente sui temi, prediligere il “noi” politico sull’io che porta a forme di potere distorte e alla corruzione. Per chi amministra il “ritorno alla compassione” è la condizione per la buona politica, come la chiama Francesco».

Il papa arriva addirittura a parlare di “amore politico: «Sembra una contraddizione, visto anche cosa succede a Roma, ma la Chiesa non è il Vaticano. Prima di insegnare l’amore al mondo occorre renderlo testimonianza possibile e credibile a partire dalle comunità cristiane, occorre “riconoscere ogni essere umano come un fratello o una sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non sono mere utopie” (n.180). Ma c’è di più, l’amore cristiano è dire “eccomi” più che tanti falsi “ti amo”, per questo il mondo lo si cambia dai piccoli gesti: “Se qualcuno aiuta un anziano ad attraversare un fiume – e questo è squisita carità –il politico gli costruisce un ponte, e anche questo è carità. Se qualcuno aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro, ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica (n. 186). I credenti impegnati in politica devono abbandonare i vecchi schemi, formarsi davvero insieme attraverso una nuova cultura della fraternità. Ci sono molte realtà che lo stanno facendo, personalmente mi sento di suggerire l’esperienza di Comunità di Connessioni e la neonata Base che connettono volti nuovi, competenze e un nuovo metodo di formazione in sintonia con l’enciclica».

E ai massimi livelli, papa Francesco, citando l’Unione Europea, l’integrazione nell’America Latina e le Nazioni Unite invita a governare la globalizzazione: «Nel secolo XXI – leggiamo nell’enciclica – si “assiste a una perdita di potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politica. In questo contesto, diventa indispensabile lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate, con autorità designate in maniera imparziale mediante accordi tra i governi nazionali e dotate del potere di sanzionare” (n. 172)».

Un’enciclica ricca di «temi e parole chiave molto legate all’attualità. Forse anche troppo». Stefano Allievi, docente di sociologia all’Università di Padova, riconosce: «L’enciclica privilegia alcuni temi, come la lotta alle diseguaglianze, l’accoglienza degli stranieri, la possibilità di rendere universali i diritti umani che esistono solo per una minoranza. Il documento, anche a partire dagli esempi citati, però, corre il rischio dell’”occidentocentrismo”. Le encicliche hanno sì il bisogno di attualizzare il messaggio evangelico nell’oggi, però l’effetto collaterale è quello di cedere a interpretazioni episodiche, che valgano solo per il momento presente». Per Allievi è un limite ridurre tutta l’enciclica a un attacco al populismo e a certi leader: «Mi sembra sia sprecarne e rovinarne il messaggio. Il richiamo più importante dell’enciclica sta nel bisogno di ricostruire legame sociale e di ricostruire comunità intorno a una visione di società, a un progetto inclusivo. Gli attacchi contro un modo di pensare per cui qualcuno possa restare indietro sono forti e insistiti, ed è importantissimo ribadirlo oggi. Esistono però anche, nel nostro tessuto sociale, tante proposte che stanno andando nella stessa direzione inclusiva: si tratta di forze che esistono già e che forse non si notano molto, mentre si notano di più i bersagli polemici».

Stefano Allievi non nega che però anche la parola comunità sia un’arma a doppio taglio: «È una parola problematica, perché tende a presupporre dei confini tra chi è dentro e chi è fuori la comunità. Ma questa non è l’idea di comunità di papa Francesco: la sua è quella di una comunità a misura delle persone, anche di chi non ce la fa, dove ci si possa salvare tutti insieme. E qui dentro c’è anche tutto il grande tema delle migrazioni». I riferimenti alla pandemia da Covid-19 per Allievi non sono altro che un ulteriore esempio attorno al quale il papa orienta il suo messaggio: «Francesco non ci illumina sulla pandemia, del resto l’emergenza Covid viene letta in modo diverso in tutto il mondo, ma per il papa la pandemia è l’occasione per ribadire il fatto che “siamo fratelli tutti, dobbiamo salvarci tutti assieme”, e che quando ci sarà il vaccino questo dovrà essere disponibile per tutti, non solo per i privilegiati».

Il riferimento all’amore politico è in assoluta continuità con il magistero degli ultimi 50 anni: «È apprezzabile il fatto che non c’è mai stata negli ultimi pontificati una demonizzazione della politica. La politica, come diceva Paolo VI, è la più alta forma di carità, ma lo è soltanto se è capace di leggere bene i segni dei tempi, i segni del presente. Ciò che fa questa enciclica è leggere, nell’universo di significati a cui guardiamo dalla nostra finestra sul mondo, alcuni criteri interpretativi e attraverso di essi fare delle scelte in termini di “amore politico”, un atteggiamento di prossimità verso tutti gli esseri umani. C’è un richiamo all’agire politicamente: il bene comune è il riferimento, ma il bene comune lo si produce agendo, non solo pensando».

Comunità cristiane, invito al dialogo con l’islam

Fratelli tutti è un’enciclica di cui «si parlerà molto, ma che sarà assai più discussa della Laudato Si’». Per Stefano Allievi, docente di sociologia all’Università di Padova, papa Francesco ha voluto affrontare, parlando della fraternità e l’amicizia sociale, temi assai più delicati rispetto a quelli dell’ecologia integrale. «Almeno a parole – spiega Allievi – siamo tutti a favore della salvaguardia dell’ambiente. In Fratelli tutti, invece, ci sono alcuni bersagli precisi». «Per le comunità ecclesiali – conclude Allievi – sarà forte il riferimento al dialogo interreligioso, in particolare con l’Islam, con il riferimento al grande imam Ahmad Al-Tayyeb, con cui Francesco ha firmato il documento di Abu Dhabi».

Numerosi i riferimenti nel testo alla pandemia mondiale

Papa Francesco ha voluto firmare la sua terza enciclica, “Fratelli Tutti”, direttamente sulla tomba del santo di cui porta il nome, alla vigilia della sua festa, il 3 ottobre. Molti i riferimenti alla pandemia da Coronavirus, che «ha messo in luce le nostre false sicurezze» e la nostra «incapacità di vivere insieme». Sulla scorta del suo magistero durante la pandemia papa Francesco auspica «che non sia stato l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare», e «che non ci dimentichiamo degli anziani morti per mancanza di respiratori. Che un così grande dolore non sia inutile. Che facciamo un salto verso un nuovo modo di vivere e scopriamo una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri”. Forte, nel quinto capitolo, il richiamo alla buona politica contro il «populismo irresponsabile».

“La Difesa del Popolo”, 26 ottobre 2020

Covid e dintorni: i musulmani e il diritto alla sepoltura

https://ilbolive.unipd.it/it/news/dove-seppelliamo-nostri-morti?fbclid=IwAR19bvbozOgD2NrMDIKrSHkH_TFndeWFLpzVK6GM2EfhwtJisOti82LybIY

 

Dove seppelliamo i nostri morti?

“Dove seppelliamo i nostri morti?” In questo periodo di emergenza sanitaria è un interrogativo non privo di inquietudine tanto per i cattolici quanto per i credenti di minoranze religiose. Tra queste, la comunità musulmana è particolarmente toccata dal problema e sono mesi che i giornali ne parlano. In realtà però, è da tempo che si discute per trovare una soluzione: dall’inizio degli anni Duemila si tenta di trovare un’intesa tra comunità islamica e stato italiano, ma ad oggi non sono stati raggiunti grandi risultati. Su circa 8 mila comuni italiani sono presenti solo 58 cimiteri islamici – destinati peraltro ai residenti nel comune in cui si trova il cimitero – e dovrebbero far fronte alle esigenze di una comunità di circa 2 milioni di credenti.

È evidente che anche senza Covid-19 il problema presto o tardi si sarebbe dovuto affrontare e risolvere in maniera definitiva.

L’attuale situazione, rendendo impossibile il rimpatrio delle salme a causa della chiusura di rotte aeree e marittime, non ha fatto altro che acuire una problematica già presente, creando emergenza nell’emergenza.

Per comprendere meglio la necessità di realizzare aree cimiteriali islamiche, abbiamo intervistato il professor Stefano Allievi, docente di sociologia dell’università di Padova.

“Noi diciamo che i migranti tendono a rimandare i corpi dei defunti nel paese di origine, ma questo accade solo in una prima fase, ovvero quando si sentono migranti temporanei. Man mano che risiedono per periodi più lunghi nel paese di immigrazione, e tanto più se ci fanno famiglia, la loro proiezione diventa il luogo in cui vivono. È quindi normale che desiderino essere seppelliti nel territorio dove hanno vissuto e dove si trovano i loro parenti più stretti” spiega il professor Allievi.

Ne consegue che questo vale anche per i musulmani e non bisogna dunque stupirsi se il loro obiettivo diventi quello di realizzare cimiteri islamici.

“Tuttavia in Italia sono ancora pochi e spesso i defunti vengono deposti in aree acattoliche; ma via via che la comunità cresce diventa necessario, banale, fisiologico, aprire spazi a loro dedicati. Questo produce opposizione da parte dei sindaci o delle amministrazioni perché il diritto alla sepoltura, che è un diritto umano, è sentito come un processo di invasione. In definitiva, il desiderio di essere sepolti nella terra in cui si è vissuto per la maggior parte della propria vita non è altro che un processo di integrazione post mortem”.

Intervista al professor Stefano Allievi, docente di sociologia dell’università di Padova sul problema delle sepolture dei musulmani in Italia

Dunque, quella che sembra essere un’esigenza specifica dei musulmani assume un carattere universale che abbraccia tutte le minoranze religiose. La richiesta di aree riservate dove seppellire i propri morti “è tipica delle comunità religiose sia minoritarie che maggioritarie”. Il fatto è, che nei confronti dei musulmani si è creata l’idea che il professor Allievi definisce con l’espressione “processo di eccezionalismo dell’islam”, ovvero “pensare sempre che questa religione rappresenti un caso eccezionale; in realtà non lo è affatto. Bisogna calcolare che alcune identificazioni più forti sono legate al fatto di essere una minoranza e quindi valgono anche per le altre. Le comunità minoritarie soffrono di non essere riconosciute, mentre quelle maggioritarie lo sono di fatto dalle leggi, dalle istituzioni, dal paesaggio, dall’urbanistica, dalla politica”. La mancanza di questo riconoscimento per le prime si esplica nel “bisogno di sancire in maniera più forte gli obblighi, ma questo vale per tutte le minoranze”. In Italia l’esigenza della comunità musulmana viene intesa come esclusiva rivendicazione di un non-diritto (ovvero il diritto alla sepoltura), quando ad altre minoranze religiose (valdesi, ebrei) la medesima necessità non solo è riconosciuta, ma è anche garantita.

Dunque, se non c’è niente di strano in questa richiesta da parte dei musulmani, perché loro “vogliono” e “chiedono” come fanno esattamente gli altri gruppi minoritari, qual è il problema?

Facciamoci aiutare da una notizia e da qualche numero (in costante aumento). La notizia riguarda il progetto di realizzare un cimitero islamico nel comune di Fiumicino su un terreno di 400 ettari. I numeri, invece, sono relativi all’appartenenza religiosa degli immigrati presenti in Italia (stimati di poco superiori ai 5 milioni). Secondo le stime del Dossier statistico immigrazione relative all’anno 2019, gli ortodossi sono circa 1,5 milioni; i protestanti 232 mila; gli induisti 158 mila; i buddhisti 120 mila; atei e agnostici 248 mila.

Se si uniscono le due informazioni, ci si rende ben conto che nel momento in cui tutti giustamente “chiedono”, viene a crearsi un problema di spazio. A questa problematica se ne lega un’altra: le sepolture permanenti. “All’inizio venivano negate per motivi di spazio” spiega il professor Allievi “ma poi sono state autorizzate, poiché la popolazione europea è in decrescita e il bisogno di aree cimiteriali non è così impellente. Tuttavia, le richieste di comunità religiose minoritarie come quella musulmana, ha innescato una richiesta anche in quelle maggioritarie, tra cui i cattolici”.

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I musulmani nelle società europee


https://guerini.it/index.php/i-musulmani-nelle-societa-europee.html

Allievi Stefano, Guolo Renzo, Rhazzali Mohammed Khalid (a cura di)

I musulmani nelle società europee

Appartenenze, interazioni, conflitti

Saggi di Enzo Pace, Stefano Allievi, Renzo Guolo, Annalisa Frisina, Francesco Cerchiaro, Paolo Di Motoli, Maria Bombardieri, Mohammed Khalid Rhazzali, Valentina Schiavinato.

Se ne parla molto, se ne sa troppo poco. I musulmani in Europa sono spesso oggetto di discussione, molto più raramente di analisi. Questione divisiva per la società, tema di conflitto anche politico, argomento di discussione mediatica ma non altrettanto spesso di approfondimento: auspicabilmente, a partire da studi che consentono di sviluppare teorie e interpretazioni maggiormente fondate.
Come quelli qui presentati da autori accomunati, più che da condivisi riferimenti teorici, da un medesimo approccio, che interseca diverse discipline – sociologia, scienza politica, storia, psicologia –, e da uno sguardo che pone costantemente al centro della riflessione temi quali l’identità, l’ideologia, le istituzioni, le relazioni tra generi, i movimenti islamisti. Studi che vogliono essere un contributo all’analisi, nelle sue molte articolazioni teoriche ed empiriche, dell’islam in Europa.
Nel volume sono presenti, dunque, saggi che esplorano questioni come i fondamenti della sociologia dell’islam, il dibattito sulla radicalizzazione nelle scienze sociali, le forme di produzione di conoscenza islamica in Europa. E prendono in esame, concentrandosi in particolare sul caso italiano, i percorsi delle seconde generazioni, i detenuti musulmani in carcere, i processi di radicalizzazione femminile, le coppie miste, le relazioni tra Stato e associazionismo islamico, i processi di formazione connessi alla presenza dei musulmani nella società e la domanda di conoscenza che ne deriva.

Anno: 2017 | Pagine: 181 | Collana: (IEA) | Edizione: Guerini e Associati
ISBN: 9788862506700

€ 18,00