Pluralità culturale e intolleranza: a proposito del niqab
Una donna del Bangladesh che vive da 13 anni a Mestre è stata prima insultata e poi aggredita perché portava il niqab, un tipo di velo islamico che lascia scoperti soltanto gli occhi. Non è il primo caso e non sarà purtroppo l’ultimo. Ma il fatto illumina alcuni nodi irrisolti, e vale la pena sottolinearne le implicazioni.
Da un lato abbiamo un rapido processo di pluralizzazione della società, che non è effetto della sola immigrazione, e che produce reazioni spesso oltre il limite della tollerabilità sociale. Le nostre città sono piene di persone che si sentono in diritto di decidere per gli altri che cosa è giusto e che cosa è sbagliato: e se una volta magari stigmatizzavano i capelli lunghi, una gonna corta o un bacio dato per strada, oggi se la pigliano con una coppia dello stesso sesso che si tiene per mano, con un capo di vestiario inusuale, o direttamente con il colore della pelle di una persona. Questi atteggiamenti denotano un’arroganza culturale diffusa, e un malfondato senso di superiorità. Come se fosse ancora possibile dire che esiste una sola cultura (quale?), un solo modo lecito di pensarla e di vivere, una sola religione o una sola ‘razza’ accettabile. E le modalità con cui si manifesta questo atteggiamento (il fatto che venga percepito come lecito aggredire qualcuno strappandogli di dosso un simbolo o capo di vestiario, che sia una sciarpa arcobaleno, una kippah o un velo) mostra quanto questa reazione incivile sia difficile da qualificare altrimenti che intollerante e financo francamente razzista (metteremmo mai le mani addosso ad una persona della ‘nostra’ cultura, etnia e religione per lo stesso motivo, a una suora magari?).
Ma un ragionamento va fatto anche sull’altra faccia della medaglia. Ho assistito personalmente e sostenuto (pagandone anche qualche minimo prezzo polemico) le battaglie delle donne musulmane in Italia per il diritto a portare l’hijab (un indumento a cui la definizione di velo fa torto, dato che non nasconde nient’altro che i capelli: come un foulard, a cui di fatto è assimilabile). Ho appoggiato il diritto al riconoscimento (ottenuto più di vent’anni fa) di poter avere la foto con l’hijab, per chi lo richiede, anche sulla carta d’identità (né più né meno come le suore, e per lo stesso motivo). Ho persino scritto un libro in difesa del burkini (il costume da bagno che è una specie di muta da sub incrociata con una casacca, che portano alcune musulmane, e non solo). Ma la questione del niqab, che copre anche il viso, del chador o a maggior ragione del burqa, pone un altro problema. Che non è di sicurezza: a tutt’oggi, in Europa, non si è visto né un attentato né una rapina attuati grazie ad esso. Ma squisitamente culturale, di estraneità reciproca percepita, e per questo più importante.
Certo, c’è anche un problema di legislazione. Da noi c’è il Testo unico di pubblica sicurezza che impedisce di andare in giro con il volto coperto, e vincola almeno a scoprirlo su richiesta di un pubblico ufficiale. Solo che – come leggi simili in tutta Europa – è regolarmente inapplicato, e non solo a carnevale: dalle sciarpe e passamontagna dei freddolosi, fino ai ricchi turisti della penisola araba che sarebbe imbarazzante (e probabilmente anticostituzionale) fermare alla frontiera. Non solo: in questi anni è stata la legge a ordinarci di coprire il volto, imponendoci la mascherina anti-Covid anche per strada. Segno che le sensibilità cambiano, per i motivi più diversi. E tuttavia i volti, da noi, sono culturalmente importanti, e loro copertura non sta sullo stesso piano di un foulard, perché in termini emozionali e comunicativi sono in un certo senso fondamento e garanzia del legame sociale, del rapporto fiduciario che implica.
Aggiungiamo che non è nemmeno un problema realmente religioso. Non c’è alcun riferimento coranico alla copertura dei volti. La sura XXXIII,59 invita solo le donne dei credenti a ricoprirsi dei loro mantelli – “questo sarà più atto a distinguerle dalle altre e a che non vengano offese”. Poi, ognuno fa l’esegesi che vuole, e non tocca a noi decidere per i musulmani. Ma forse non sarebbe inutile un franco dibattito interno alle comunità islamiche sul perché di questa enfasi recente sulla copertura del volto. Il fatto che nel Corano non ce ne sia traccia lascia pensare che le ragioni siano altre e meno nobili, più legate ai rapporti di genere, o a sovrastrutture ideologiche, dato che si sta diffondendo, a partire da ambienti salafiti, anche in paesi dove era prima inesistente (non è il rispetto di una tradizione, dunque, ma precisamente il suo contrario: un’innovazione). Il che meriterebbe una discussione onesta sulle sue ragioni e i suoi torti.
L’alterità culturale del velo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” 10 dicembre 2022, editoriale, p. 1