Vivere senza Dio? o pensandolo diversamente? Come cambia il paesaggio religioso

Con questo articolo si conclude la mia rubrica “Il mondo se” sulla rivista Confronti, in cui per tre anni ho provato a ragionare su come sarebbe (o come sarà) il mondo “se” o piuttosto “senza” alcune cose: in questo caso, come si trasformeranno le religioni e il paesaggio religioso delle nostre società

 

Senza religioni?

 

Secolarizzazione, privatizzazione del sentire religioso, pluralizzazione dell’offerta di religioni e religiosità disponibile, globalizzazione, crescente mobilità umana, progressiva perdita di significato dei confini, sono tutti fattori che sono alla base di una trasformazione gigantesca del paesaggio religioso. Non c’è più alcuna corrispondenza reale tra un popolo, un territorio, e un’identificazione religiosa specifica: sempre più sul medesimo territorio si trovano religioni vecchie e nuove, che spuntano per gemmazione o per inclusione, tra gli autoctoni quindi ma anche per effetto delle migrazioni, nonché forme crescenti di areligiosità. Tutto questo fa sì che si moltiplichino le occasioni di incontro, di confronto e anche di scontro: tra individui e comunità religiose, delle religioni tra loro (ma anche al loro interno), e con il contesto istituzionale laico.

Tutto questo accade a livello strutturale, di sistema, macro. A livello comportamentale, di individuo, micro, gli effetti di questa grande trasformazione sono ancora più evidenti. Da un lato le appartenenze tradizionali, diciamo ereditarie, esistono ancora ma sono sempre meno appetibili e accattivanti: una sorta di tradizionalismo debole. Dall’altro si diffondono e sono sempre più pervasive nuove modalità del credere, più esperienziali e spirituali. Come nelle forme di supermercato dei beni religiosi, di religione come fai da te individuale (mi prendo quello che via via mi interessa, un po’ di questo e un po’ di quello, l’oroscopo e le medicine alternative, la credenza nella reincarnazione e l’olismo new age, i tarocchi e l’I Ching, le parabole di Gesù e la meditazione trascendentale, il sufismo e il Dalai Lama…): ma con forme anche consapevoli e non necessariamente superficiali di sincretismo, significative per gli individui. Come nelle modalità di inclusione, di contaminazione cognitiva: mantengo un riferimento in una religione, ma credo e pratico a modo mio, aggiungendo al mio sistema di credenze altri spunti, magari dovuti ad incontri contingenti o di lungo periodo con altre religioni (come nelle amicizie e coppie religiosamente miste, sempre più diffuse). Come nelle scelte di conversione ad altre religioni, spesso impegnative, ma non necessariamente durature, tanto che anche convertirsi e cambiare appartenenza religiosa può diventare una pratica sociale e un modo specifico di essere credente. A margine di tutto ciò troviamo le forme progressive di abbandono della religiosità come contesto significativo, davvero produttore di senso per l’individuo, in favore di altri, non necessariamente legati allo scientismo o alla lettura razionale del mondo: più spesso ad altre pratiche e forme di impegno, e modalità di relazione, sentite come coinvolgenti – dalle pratiche artistiche collettive al consumismo compulsivo, dai rave parties al gaming, da certo pansessualismo al fanatismo politico-religioso, al suprematismo, al razzismo. Questi ultimi, spesso, nella forma di identità reattive sempre più diffuse, effetto dopo tutto della pluralità culturale a sua volta legata alla mobilità di idee e persone: si reagisce alla presenza dell’altro da sé, scagliandosi contro di esso, e trovando in questo una propria ragione d’essere. Un po’ come coloro che riscoprono di essere cristiani da quando ci sono i musulmani, o viceversa i musulmani che in occidente riscoprono confini identitari e forme di appartenenza visibile che nei paesi d’origine non avrebbero avuto ragione di essere sottolineate. Il che significa che lo scontro sociale non è legato alla separatezza e all’alterità, e all’esistenza di solidi confini identitari, come nella lettura huntingtoniana del conflitto come scontro di civiltà, ma semmai, al contrario, agli attraversamenti, alle permeabilità, all’incertezza progressiva dei confini, alla con-vivenza territoriale di diversità culturali.

In fondo, l’abitudine al cambiamento rende le singole scelte di mutamento meno drammatiche, meno rilevanti: un po’ come accade alle relazioni sentimentali. La possibilità di cambiare partner, e il fatto che questo accada sempre più di frequente, rende meno dolorosa le rotture dei legami e sempre possibile la speranza di riannodarne altri. Aggiungiamo che l’enfasi sul conflitto e lo scontro culturale non deve farci dimenticare il molto più frequente e pacifico incontro, e le forme di dialogo e accettazione dell’altro, e della diversità in quanto tale. Anche il dialogo interreligioso è dopo tutto oggi più una prassi di fatto che una teoria dell’incontro. Quasi a prefigurare che sia, in realtà, intrareligioso. Con tutte le implicazioni che questo ha e avrà sulle appartenenze religiose istituzionalizzate tradizionali, le chiese e le religioni storiche.

 

Senza religioni?, in “Confronti”, n. 12, dicembre 2021, p. 37