Islam in Europa. Tra violenza e pregiudizio: il dialogo possibile
Prima l’uccisione orribile dell’insegnante Samuel Paty, nella regione di Parigi. Poi l’attentato a Vienna, con la sua scia di vittime innocenti. Nel giro di due settimane, lo spettro della violenza di matrice islamica ha ripreso ad agitare un’Europa che credeva di essersela lasciata alle spalle con la sconfitta sul terreno dell’ISIS. Non è così: l’ISIS è stato (ed è ancora) solo una delle forme – la più violenta, la più esplicita, la più organizzata – di un problema più ampio, con cui dobbiamo fare i conti. Devono farli le società europee. E devono farli i musulmani che le abitano.
Cominciamo da questi ultimi. Che, in quanto tali, non sono – e non possono essere considerati – corresponsabili di questi orrori. Come non potevano esserlo i socialisti europei del terrorismo delle BR, i cattolici o i protestanti irlandesi delle bombe dell’IRA e degli orangisti, la popolazione basca di quelle dell’ETA. Ma, come in tutti i casi che abbiamo citato, il terrorismo è stato sconfitto, più che con la repressione, che certo è stata importante, con una grande battaglia culturale interna, condotta dalle persone di quei mondi contrarie invece all’ideologia della violenza, e conclusasi con la loro vittoria. Per limitarci al primo esempio, ma è vero per tutti, il terrore brigatista è stato sconfitto quando – nei mondi limitrofi, di quelli che avevano ideali in parte comuni – si è smesso di dire che si trattava di provocatori o infiltrati al soldo di altri interessi (cioè non erano dei ‘nostri’), poi che non erano ‘veri’ comunisti perché questi non agiscono così, poi che erano compagni che sbagliavano nel metodo ma comunque avevano le loro buone e giustificabili ragioni, poi condannando esplicitamente qualunque ricerca di legittimazione da parte dei violenti, infine isolandoli, denunciandoli e combattendoli come nemici dichiarati, pagando anche il prezzo della marginalizzazione (e in qualche caso della morte – pensiamo a Guido Rossa) per averlo fatto. È su tutti questi terreni che va condotta la battaglia. Ed è quello che sta avvenendo anche nel mondo islamico europeo, dove queste idee circolano tutte, ma per fortuna con percentuali molto diverse di sostegno: e un benefico conflitto interno è già in atto. Bisogna ricordarlo, perché solo la chiarezza di visione e l’onestà dello sguardo dei molti possono aprire delle crepe nell’oscurantismo di alcuni. E farci accorgere delle piccole e grandi collaborazioni a questa violenza. Pensiamo al caso Paty: i genitori che hanno protestato contro l’insegnante senza conoscere il merito, i leader associativi e gli imam in cerca di visibilità che hanno indicato la via della stigmatizzazione personale, chi sui social ha condiviso la gogna, gli indignati in servizio permanente effettivo del vittimismo e dell’islamofobia, chi ha amplificato il nemico per interessi di parte o di nazione (anche dall’estero), fino agli studenti che hanno indicato l’insegnante all’attentatore, e a chi di fronte a tutto questo è stato zitto. In questo senso non si può parlare di attentatore isolato, anche se la responsabilità è solo sua: sarebbe un’offesa alla verità.
Ma poi c’è l’Europa. Che non è innocente anche quando è inconsapevole: e per le stesse ragioni. Pure lei ha le sue colpe rimosse e i pregiudizi inconfessati: non accettando che i musulmani in Europa siano ciò che sono, ovvero come tutti gli altri residenti e cittadini, con gli stessi diritti e doveri e garanzie costituzionali; che non possono dunque essere stigmatizzati in quanto tali, e devono anzi essere arruolati come partner in una battaglia che è comune, di reciproco interesse e basata sui medesimi valori, che vede dalla stessa parte le società europee e la stragrande maggioranza dei musulmani che in esse vivono, e che peraltro pagano per primi il prezzo della reazione al terrore. Questa collaborazione deve essere aperta, esplicita e dichiarata. Perché anche una parte dell’Europa ha mostrato il volto della stigmatizzazione a senso unico, delle campagne d’odio nei confronti dei musulmani, della discriminazione istituzionale, del doppiopesismo, dell’offesa gratuita e generalizzata, dell’esclusione, di un diffuso e inaccettabile pregiudizio anti-islamico (molto meno, va detto, del terrore). E anche qui ci sono molti complici silenzi.
C’è bisogno di fiducia, di collaborazione nel concreto, di gesti coraggiosi – anche pubblici e istituzionali – di apertura reciproca, di dialogo onesto. Solo così si sconfiggerà un nemico che è comune.
Lo spettro del terrorismo che ancora aleggia sull’Europa, in “Confronti”, n. 12, 2020, editoriale, p.7