Ma il movimento pacifico è più forte di quello violento (Indignados e black bloc)

Due movimenti si contendono l’opposizione al nuovo disordine mondiale: quel disordine che la crisi finanziaria degli ultimi anni ha mostrato in tutta la sua fragilità intrinseca, ma anche nella sua ferocia nei confronti dei più deboli.
Un movimento è pacifico. Vuole superare questo ‘ordine’ puntando l’indice sui suoi guasti, e sulle sue sanguisughe, su coloro che ci speculano e ingrassano sulle macerie della vita degli altri: raiders finanziari globali, ma anche satrapi locali. E’ questo che lega la primavera araba agli indignados di Wall Street, passando per le piazze spagnole (e chi mai, negli anni scorsi, avrebbe potuto immaginare un tale spettacolare avvicinamento tra sponde e interessi apparentemente opposti!). Sono coloro che occupano le piazze di tutti i paesi, con obiettivi non direttamente politici, mossi più spesso mossi da una spinta etica e da una volontà di riappropriazione collettiva del proprio futuro. Ma che proprio attraverso la mobilitazione collettiva riescono a dare un orizzonte di possibilità e quindi un obiettivo concreto alla mera indignazione, che è una categoria più morale che politica, e spesso più individuale che sociale, ottenendo risultati anche spettacolari: la cacciata dei dittatori mediorientali ne è l’esempio più clamoroso e riuscito, ma sta trovando imitatori e percorsi paralleli in Europa e negli Stati Uniti, obbligando i poteri forti a manifestare un interesse verso questo dissenso che in proprio non avrebbero affatto.
Un movimento è invece violento. E’ fatto più di rivendicazione dell’atto puro di opposizione, del nichilismo della violenza gratuita, che diventa senso puro di esistere in mancanza di altri sensi da dare alla vita, e fine in se stesso. Questo movimento ha due forme: una impolitica, ed è quella che abbiamo visto nelle rivolte ‘consumeriste’ inglesi, in cui lo scopo era appropriarsi di qualche genere di consumo che non si aveva la possibilità di procurarsi in proprio; una invece, politicizzata, è quella dei cosiddetti black bloc. Entrambe queste forme di violenza sembrano molto più ‘interne al sistema’, per motivi diversi. La prima perché il suo scopo è adeguarsi ai miti ma non ai riti del consumismo: si aderisce ai fini proposti (consumare) ma si trovano mezzi non socialmente approvati per raggiungere l’obiettivo (saccheggiare i negozi). La seconda perché ha un obiettivo primitivo e feroce, ma tutto interno alla logica politica tradizionale: i poliziotti e i carabinieri, le auto incendiate, i negozi distrutti, la devastazione pratica e simbolica, senza alcun progetto strategico reale volto a cambiare le cose. Il problema non è rovesciare il sistema, perché si è coscienti dei rapporti di forza: è solo di dargli fastidio – una violenza ‘consumerista’ anche questa, che si consuma nell’atto di svolgersi. Il nemico è per costoro ragione stessa di esistere; e loro sono ragione per scatenare la repressione da parte del potere: funzionali ad esso fino in fondo, dunque (come funzionale al sistema è confermarne i miti, dopo tutto; loro invece ne confermano l’autorità).
E’ per questo che solo il movimento pacifico fa veramente paura. Proprio perché non vuole scardinare l’ordine sociale tanto per farlo, senza proporre alternative, è l’unico in grado di farlo realmente. Non a caso si preoccupa di ricreare un ordine dal basso, e quando occupa le piazze si preoccupa anche di fare pulizia (il contrario di distruggere e bruciare), ma anche di creare motivazione, consenso, cultura, progetti alternativi, e non ultimo piacere di essere insieme, gioia di vivere, un orizzonte in cui sperare, dunque. Proprio per questo, nonostante le sue sconfitte (la dis-occupazione delle piazze occupate), si proietta sulla lunga durata, e può diventare opposizione reale, e proposta non del tutto ingenua di un nuovo ordine mondiale. Il movimento violento invece, come sempre, serve agli scopi del potere, dando ad esso la legittimazione necessaria per tutelarsi, scatenando una repressione che rischia di non distinguere, di non essere mirata ai soli violenti, e dunque non disinteressata.
C’è da sperare che la pubblica opinione sia in grado di distinguere tra i due movimenti: uno sta dalla sua parte, e prova a interpretarne le istanze, l’altro no.
Stefano Allievi
Allievi S. (2011), Ma il movimento pacifico è più forte di quello violento (Indignados e black bloc), in “Il Piccolo”, 17 ottobre 2011, pp. 1-8 (anche “il Mattino”, 18 ottobre)

Galan e l'arroganza del potere

La modestia e la misura non sono mai state il suo forte. Il suo libro-intervista, all’epoca in cui governava senza rivali la Regione facendo l’assenteista in Giunta, si intitolava umilmente “Il Nordest sono io”. E la sua vanità si titillava nel farsi chiamare “il Doge”, niente meno. Così convinto della sua indispensabilità da volere a tutti i costi correre per un ennesimo mandato come Presidente della Regione, ha dovuto soccombere agli accordi tra Lega e Pdl che l’hanno sacrificato a Zaia. E ha sempre considerato la designazione a ministro della Repubblica con degnazione, quasi fosse una carica indegna di lui, abituato a comandare da solo, mica a collaborare con qualcuno che conta più di lui, fosse anche il suo datore di lavoro di sempre, da prima ancora che entrasse in politica, Berlusconi.
Purtroppo per lui, tuttavia, un gran trascinatore di folle e di voti non deve poi esserlo, se è stato mandato via senza rimpianti, i suoi candidati hanno perso le elezioni, e i parlamentari veneti a lui fedeli si sono già squagliati dal Pdl, alla ricerca di lidi e protezioni più sicure. Ma ancora considera la cosa pubblica cosa sua, come ai bei tempi. E si intestardisce a designare il Presidente della Biennale che piace a lui, solo perché lo vuole lui. Poco importa che non lo voglia il sindaco della città che dopo tutto la Biennale ospita. Poco importa che l’abbia clamorosamente bocciato la Commissione Cultura della Camera dei Deputati. Poco importa che non lo voglia praticamente nessuno, a cominciare da quel mondo della cultura, mobilitatosi contro la nomina, di cui pure la Biennale dovrebbe essere l’interlocutore. Galan dixit. E non gli piace essere smentito. Poco importa, oltretutto, che la designazione non sia propriamente un gran segnale di innovazione e rinnovamento, nel metodo e nel merito: trattandosi di un pubblicitario amico, guarda caso, e di età non proprio fresca (73 anni, anche se vezzosamente sul suo sito personale evita accuratamente ogni accenno all’anno di nascita; ma, si sa, l’appetito vien mangiando, e il designato Giulio Malgara si è del resto occupato con successo di olio d’oliva, cibo per cani e acque minerali).
Qualcuno ha parlato di decisioni da “ultimi giorni di Pompei”: di cui persino le rovine continuano a crollare, peraltro. Ma Pompei è caduta per cause naturali. Qui l’implosione avverrà per insipienza e arroganza insieme. Ma, purtroppo, l’agonia sembra durare ancora a lungo, in un tramonto infinito e insopportabile.
Stefano Allievi
Allievi S. (2011), Galan e l’arroganza del potere, 15 ottobre 2011

Europa: l’islam è franco-tedesco (versione integrale)

I musulmani europei, mettendo insieme Europa occidentale e orientale, sono in totale circa 23.510.500 (i dati sono tratti da S. Allievi, La guerra delle moschee, Marsilio, 2010, dove sono state rielaborate fonti ufficiali e non ufficiali). La loro storia è tuttavia diversa, e con essa il loro radicamento: in Europa occidentale si tratta per lo più di immigrati (anche se con il crescere delle seconde e terze generazioni non più ormai definibili tali); nell’Europa orientale e in qualche altro paese, come una parte dei musulmani di Grecia e di Finlandia, si tratta di persone presenti ormai da secoli (per lo più dai tempi della dominazione ottomana), e quindi di presenze definitivamente autoctone. Le presenze per paese, in ordine decrescente, sono le seguenti: Francia 4.200.000, Germania 3.300.000, Gran Bretagna 2.400.000, Albania 2.200.000, Kosovo 1.800.000, Bosnia 1.500.000, Italia 1.300.000, Bulgaria 1.000.000, Olanda 1.000.000, Spagna 900.000, Macedonia 630.000, Belgio 4-500.000, Svezia 400.000, Svizzera 400.000, Serbia 3-400.000, Austria 300.000, Grecia 2-300.000, Cipro 250.000, Repubblica Ceca 200.000, Danimarca 190.000, Norvegia 120.000, Romania 70.000, Croazia 58.000, Finlandia 40.000, Portogallo 40.000, Irlanda 32.000, Slovenia 31.000, Polonia 30.000, Ungheria 20.000, Slovacchia 11.000, Estonia 10.000, Lettonia 10.000, Lussemburgo 8-10.000, Malta 5.000, Lituania 4.500. Ad essi, per avere un quadro davvero completo della situazione in Europa e dintorni, dovremmo aggiungere i 74.000.000 della Turchia, paese candidato all’ingresso nell’Unione (o almeno gli oltre 6.000.000 della sua parte europea), e i 20-25.000.000 della Russia.
Limitandoci ai principali paesi dell’Europa occidentale (caratterizzati da una presenza islamica frutto di immigrazioni e quindi, almeno in questo, omogenei: Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria, Svizzera, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia), il numero totale dei musulmani è di circa 15.290.000. Le sale di preghiera, in questi paesi, sono oltre 9.000 (per la precisione 9.122), che, rapportate al numero di fedeli potenziali, indica in 1.676 i praticanti potenziali per ogni moschea.
A titolo di comparazione, negli Stati Uniti ci sono circa 6 milioni di musulmani, e 1.643 moschee, il che significa una moschea ogni 3.652 musulmani.
Stefano Allievi
Allievi S. (2011), Europa: l’islam è franco-tedesco (versione integrale), in “Jesus”, n.10, ottobre 2011, pp. 40-43 (in Dossier: Musulmani d’Italia, pp.39-71)

Islam bianco rosso verde (versione integrale)

I dati
L’Italia conta oggi (dati Istat al 1 gennaio 2011) 4,56 milioni di stranieri: il 7,5% della popolazione totale (naturalmente sono contabilizzati solo gli immigrati in condizione regolare). Di questi, dal punto di vista religioso, la componente principale, nonostante l’aumento di flussi migratori da est e la diminuzione di quelli da sud, è quella islamica: 1.355.000 persone (contro 1.222.000 ortodossi, 701.000 cattolici, 137.000 protestanti, 112.000 induisti, e così via). Tra i paesi di provenienza con la più alta percentuale di musulmani vi sono, prevedibilmente, il Marocco, un po’ meno prevedibilmente l’Albania (con un tasso di pratica e di presenza nell’associazionismo islamico, tuttavia – a cominciare dalle moschee – non proprozionale ai numeri), e poi Tunisia, Bangladesh, Egitto, Senegal, Pakistan, e ancora, in ordine sparso, Algeria, Bosnia, Iran, Nigeria, Turchia, Somalia. Come si vede, una variabilità etnica, nazionale e linguistica assai larga – cui si aggiunge quella legata alla tradizione e all’interpretazione della religione (sunniti e sciiti, seguaci delle diverse scuole giuridiche dell’islam), per non parlare delle scelte politiche o di affiliazione transnazionale.
Il dato sulle migrazioni ci racconta tuttavia solo una parte di realtà: ai musulmani immigrati bisogna aggiungere quelli naturalizzati, cioè che hanno acquisito la cittadinanza italiana, e i convertiti, cioè gli italiani che hanno scelto l’islam. Cifre non stratosferiche (sommando gli uni e gli altri superiamo probabilmente di poco le centomila unità), ma che, per quanto riguarda la giovani generazioni in corso di italianizzazione di fatto, anche se non ancora di diritto, rappresentano una tendenza in aumento. Insomma, a farla breve, diciamo che circa il 2,5% della popolazione italiana (contro una media europea del 4%, con punte del 6,5% in Francia e del 6,1% in Olanda) è musulmano: o, meglio, pensiamo che lo sia. Perché poi, per i musulmani come per tutti, inclusi i cattolici maggioritari e cittadini, le presunzioni di appartenenza non corrispondono né alla pratica religiosa reale né all’identificazione soggettiva. Poiché l’argomento vale tuttavia per tutte le religioni, lasciando quindi le proporzioni inalterate, teniamoci buona questa percentuale e passiamo dai dati ai fatti.
Intanto, va rilevata una rapida trasformazione nella composizione anagrafica e di genere. Non siamo più solo di fronte a una presenza di giovani-adulti (la fascia tra 20 e 35 anni d’età) maschi, come è nella classica immagine della catena migratoria. Ma, sempre più, si tratta di famiglie, con una componente femminile in aumento e tendente all’equilibrio, di seconde generazioni (giovani nati in Italia o arrivatici molto piccoli, e talvolta già figli, a loro volta, di persone nate qui), e, anche, di anziani, la componente forse più trascurata del mondo delle migrazioni: che, in parte, torna tuttavia a vivere la propria pensione al paese d’origine.
Una parte di essi, soprattutto appartenenti alle prime generazioni, guarda ancora al paese d’origine: vive, per così dire, voltata all’indietro (dal punto di vista della linguistico, ma anche emotivo, politico, ecc.), anche se in larga misura non ci tornerà più. Una parte invece è decisamente proiettata a integrarsi nel paese in cui ha scelto di vivere: a partire da un segmento significativo delle prime generazioni, e più radicalmente da quelle che seguono, socializzate, alfabetizzate e scolarizzate in Italia, e per le quali questo è il proprio paese.
Continua a leggere

Convivere con l’incertezza, banco di prova per tutti noi

La recessione economica in agguato, la crisi politica apparentemente senza via d’uscita, la disgregazione sociale che si manifesta in mille modi, perfino il baratro etico in cui sembriamo sprofondare, sono altrettanti segni di un qualcosa di più grande, che oscuramente ci minaccia: il ritorno dell’incertezza. Da qui anche l’emergere delle paure, delle fobie dell’altro, del diverso, del nuovo, come manifestazione sociale, come visibilità mediatica, e come strumento politico di ricerca del consenso.
Non tutto sta accadendo realmente a tutti: le difficoltà economiche colpiscono solo una parte del Paese, il vuoto politico è solo transitoriamente tale (e in politica non esiste quasi per legge fisica: la crisi di un potere è allo stesso tempo l‘incubatore di un altro), il sociale ha molte facce e mostra molte forme nuove di aggregazione, e la crisi morale è solo di alcuni, mentre altre parti della società fanno emergere riserve etiche insospettate. Tuttavia, qualcosa è accaduto davvero. L’incertezza, la mancanza di garanzie, l’instabilità, la perdita di scudi protettivi (tutto questo era, culturalmente prima ancora che socialmente, il welfare state), sono tornati nel novero del possibile: sono rientrati prepotentemente nella vita di ciascuno di noi, dopo che per un secolo – questo ha significato il progresso, nelle democrazie occidentali – erano stati progressivamente espulsi dall’orizzonte sociale. Quasi un ritorno alla natura, dopo tutto: è solo da qualche decennio, e solo in una minoranza di nazioni del globo, che si era cominciato a pensare che la vita dovesse essere garantita, protetta, o almeno assicurata, dalla culla alla tomba – in passato, non lo è mai stata.
Il mutamento, il movimento (di denaro, merci, conoscenze, persone), la novità (di mode, prodotti e proposte), l’evoluzione continua (pensiamo alle tecnologie), costituiscono la cifra interpretativa della condizione umana di oggi, e anche un valore sociale. Provate a vendere un prodotto dicendo che è uguale a prima, che è ‘old’ invece che ‘new’; o provate a vendere voi stessi, in un curriculum, dicendo che avete abitato sempre nello stesso posto, e lavorato nella stessa azienda – varrete meno, sul mercato. A essere premiato è il cambiamento – di mode, di look, di prodotti, di occasioni – e la capacità di saper cogliere le opportunità. Tutto questo non è senza conseguenze. Solo che lo misuriamo diversamente. Per quelli di mezza età è una novità e quindi un trauma; per i giovani, è già oggi vita quotidiana, a livello personale e professionale. Noi eravamo garantiti e rischiamo di non esserlo più; loro, non lo sono mai stati. L’idea dell’intermittenza, della non linearità dei percorsi (formazione, lavoro, pensione; figlio, coniuge, genitore), del cambiamento frequente del posto di lavoro e delle reti di relazione, la maggiore mobilità, la diminuzione delle garanzie, per noi sono un problema, per loro sono un dato. Noi siamo immigrati di questa condizione; loro ne sono nativi.
In questo c’è una lezione da trarre: la società, di fronte al cambiamento e all’incertezza, non reagisce in maniera omogenea, è divisa. C’è un conflitto intergenerazionale in corso, e la posta in gioco è la competizione per le risorse, che riscopriamo essere scarse. La diatriba sulle pensioni ne è un esempio e un banco di prova. I garantiti cercano di tenere strette le proprie garanzie; i non garantiti provano almeno ad essere meno appesantiti dalla zavorra che altri impongono loro.
L’incertezza è aggravata dall’immobilismo di una società corporativa e gerontocratica, ostile alla qualità e al merito individuale in nome della garanzia di casta e del familismo amorale, e dall’ingiustizia evidente di una forbice (dei redditi, ma anche dei privilegi, delle rendite di posizione) platealmente in crescita. Insieme, questi fattori mostrano una società drammaticamente bloccata, incapace di reagire agli stimoli del cambiamento. Ed è a causa di questo che l’incertezza – che vista da un’altra prospettiva è chance, opportunità, occasione di crescita e di rinnovamento, qualità ricercata della vita e non condanna dovuta alla rigidezza delle barriere sociali e delle condizioni di partenza, possibilità di costruire il proprio percorso, meritocrazia, sviluppo delle proprie potenzialità – diventa un problema. Di fronte al quale, e a chi lo produce, l’unica possibilità è far saltare i fermi, il tappo, gli equilibri: prendersi le occasioni, combattere per le risorse e per gli spazi – in termini psicoanalitici, uccidere il padre.
Laddove non c’è fluidità, laddove l’accesso è bloccato, l’unica chance di sopravvivenza è il combattimento aperto e la conquista; laddove non c’è collaborazione, e prevalgono gli egoismi, la sola possibilità rimasta è il conflitto, che lascia sul campo vincitori e vinti. In questo senso il caso Italia mostra una patologia che altrove, in altre democrazie più fluide, in altre società non bloccate, non si riscontra. Del resto, se questa è l’unica possibilità di aprire al dinamismo, ben venga. È un conflitto positivo, che non potrà che fare bene a una società che altrimenti non può che decadere, marcire nella propria putrescenza, nell’asfissia da mancanza di orizzonti e di idee nuove. E che si farà: perché il talento – e sapersi muovere, saper trasformare l’incertezza in opportunità, ne è un aspetto fondamentale – non può rimanere immobile. Per ora ha quasi solo la scelta tra la repressione delle proprie potenzialità e l’espatrio. Me è un lusso che non ci possiamo più permettere.
Stefano Allievi
Allievi S. (2011), Convivere con l’incertezza, banco di prova per tutti noi, in “Il Piccolo”, 27 settembre 2011, pp. 1-7 (anche “Messaggero Veneto”);

Il familismo dei politici

A osservare i nostri leader politici, viene fuori un’idea di famiglia che assomiglia assai poco a quella proposta dalla Chiesa e dalla tradizione, ma anche troppo a quella praticata da una parte significativa della società.
Un primo aspetto è quello del familismo politico: bisogna garantire un futuro ai propri figli. Se si ha un’impresa, un negozio, o un laboratorio artigiano, li si inserisce ad aiutare il papà. Se si è architetti, avvocati, medici o notai, c’è già il cinquanta per cento di probabilità che seguano le orme del babbo, con la complicità della corporazione. Se si è in Rai, praticamente tuo figlio e già assunto. E se si è un leader politico, è ancora più semplice. Bossi ha già benedetto il Trota come proprio successore, battezzandolo con l’ampolla del Po, e nel frattempo l’ha messo a far pratica in consiglio regionale in Lombardia; intanto ha cominciato a brigare per sistemare anche il secondo. Di Pietro, leader dei moralizzatori, con meno successo, e a prezzo di una rivolta interna, ha cercato di mettere in lista il proprio figliolo: dopotutto il suo partito si chiama Italia dei valori, e quale valore è più importante in Italia della famiglia? Mentre per il dopo Berlusconi si era parlato di una possibile discesa in campo della figlia Marina. E per carità di patria ci limitiamo qui ai figli, facendo grazia di mogli, fratelli, nipoti (per non parlar di amanti, concubine e igieniste dentali).
Un secondo aspetto è quello delle famiglie atipiche. Tutti lì a riverire vescovi e a osannare la famiglia tradizionale. Poi Casini è cattolico (anche come etichetta politica), divorziato e risposato. Fini non è cattolico, ma ugualmente divorziato e risposato. Vendola è abbastanza cattolico, e gay dichiarato. Bossi e Di Pietro, che abbiamo già incontrato nella precedente categoria, sono uno pro cattolico a parole e anticattolico per vocazione e sensibilità, e l’altro, acattolico, diciamo così: ma anche loro hanno in comune di essere divorziati e risposati. Berlusconi, beh, è presente in tutte le categorie: è cattolico e non cattolico, quando non si prende per Dio in persona e per questo si adora, divorziato e… difficile da riassumere – un militante della patonza, diciamo.
Personalmente, ci fa molto più scandalo il primo aspetto: il familismo amorale di chi sistema i figli per via politica o corporativa, questa sì una patologia della società. Il secondo, il semplice vivere in una famiglia non tradizionale, dopo tutto patologia non è, seguendo un’evoluzione della società, e scandalo nemmeno (di Berlusconi non parliamo, perché fa categoria a sé, e di scandalo ne suscita, ma non certo perché divorziato e ri-separato).
Alla fine si scopre che il più tradizionale di tutti è Bersani: che non è un granché cattolico, ma è normalmente sposato, banalmente con una sola moglie, e non cerca di far fare carriera alle figlie attraverso la politica. Stai a vedere che la famosa diversità etica del PD, più che politica, è familistica… Qualcuno gliel’avrà detto alla Conferenza Episcopale?
Stefano Allievi
25 settembre 2011
Allievi S. (2011), Il familismo dei politici

Città video sorvegliata o città aperta? (versione integrale)

In un precedente articolo sul Mattino, abbiamo affrontato il tema della socialità giovanile e della politica degli orari della città, prendendo lo spunto dall’arrivo dei vigili alla festa del PD, andati a fare quello che fanno ovunque, su incarico del Comune, allo scadere della mezzanotte: spegnere la musica. Il numero di risposte e di consensi che l’intervento ha avuto, e di discussioni online che ha generato, è stato significativo: come se qualcuno avesse involontariamente dato voce a una tensione che covava sotto la cenere da anni, a una ferita aperta e a un problema irrisolto. Proviamo qui ad approfondire la questione.
La polis – concetto da cui deriva tanto la nostra idea di città quanto la nostra idea di politica – presuppone l’incontro nell’agorà, nella piazza, e la riflessione comune sul suo destino. E’ quindi innanzitutto un luogo di socialità e di discussione. Incidentalmente, parte importante dell’attività e dell’identità della polis erano anche i templi, dove si svolgevano le cerimonie religiose, i gymnasion, dove si coltivava il corpo e lo spirito, e i teatri, con dei veri e propri festival, i Dionysia, che servivano a cementare l’unità culturale della polis e dei cittadini.
La socialità è dunque fondamentale: perché è buona in sé, perché costruisce legami sociali (non a caso si parla di tessuto sociale, fatto di una trama fitta di relazioni), perché è un piacere, e infine perché consente la comunicazione e la discussione sulla res publica, la cosa pubblica. E’ insomma una precondizione della vita stessa della città (se vuole essere viva, naturalmente). Ma per manifestarsi ha bisogno di luoghi e di occasioni, a tutti i livelli. Luoghi polisenso e multifunzione, utilizzabili a più livelli e da popolazioni diverse, come le piazze, i parchi, i cortili; luoghi per il culto e l’adorazione degli dei; luoghi dedicati alle forme moderne di gymnasion e di teatro, di aggregazione e di divertimento; luoghi di consumo e di scambio, come i mercati (e naturalmente i luoghi della produzione e quelli di incontro delle corporazioni di arti e mestieri); luoghi di istruzione e formazione (che la mentalità odierna identifica con la scuola e l’università, ma lo sono anche i teatri e i gymnasion, i luoghi di culto e i mercati); fino ai luoghi di discussione politica, dall’agorà al municipio. E occasioni come le feste private e pubbliche, religiose e laiche, le celebrazioni, gli eventi culturali e sportivi, le fiere e i mercati, e quant’altro.
La città non è fatta solo di muri, è fatta di persone: “Sono le case a fare un borgo, ma sono gli uomini a fare una città”, diceva Rousseau. Bene, chi sono gli uomini e le donne che abitano questa città? I residenti al 31 agosto 2011 sono 214.046, di cui 32.008 stranieri, grazie ai quali si produce anche un tasso di natalità e di nuzialità in aumento (senza di loro sarebbe negativo). Ai residenti bisogna aggiungere gli studenti dell’università, 60.812, di cui solo un terzo circa è padovano, e quindi conteggiato tra i residenti: una buona metà viene da altre zone del Veneto, e in parte passa almeno qualche giorno (e notte) alla settimana a Padova, mentre oltre il dieci per cento viene da altre zone d’Italia e dall’estero, e a Padova spesso ci si è temporaneamente trasferito. A costoro bisogna aggiungere oltre 5.000 studenti post-laurea, in gran numero non padovani, e oltre 2.000 docenti, in parte anch’essi foresti e bisognosi di socialità e di cultura. Poi ci sono le varie ondate di pendolari (per lavoro e studio, al mattino presto; per gli acquisti nella parte centrale della giornata e il sabato; per i consumi culturali e il divertimento la sera, in gran parte giovani), e infine quasi un milione di turisti, per quasi la metà stranieri, che passano almeno qualche giorno da noi. I giovani insomma, sono assai di più di quelli contabilizzati tra i residenti. E le persone con bisogni di socialità più accentuati di quelli legati alla cerchia familiare ancora di più, dato che delle 101.267 famiglie ‘anagrafiche’ censite, ben il 40% (in aumento) sono composte da un solo elemento, e quasi il 27% (pure in aumento) da due, con un incremento delle coppie senza figli, pure esse in aumento, che già oggi rappresentano il 40% delle coppie. Anche se, va ricordato, la popolazione con più di 65 anni è di ben 51.427 unità, e l’età media dei padovani, 45,36 anni, è tre anni più alta della media regionale e nazionale.
In pratica, gli indicatori demografici fanno di Padova una città tendenzialmente anziana; ma quelli sulle presenze, che includono gli studenti, la ringiovaniscono significativamente. Tuttavia Padova – a sentire i diretti interessati – non sembra essere una città per giovani, non ne ha l’immagine. E questo non dipende dalla demografia. Dipende dalle politiche per i giovani. O dalla mancanza delle medesime. E’ da anni, infatti, anzi da decenni, che la popolazione giovanile è scarsamente considerata. E’ da anni che i giovani sono sballottati qui e là. Ed è sconcertante, peraltro, che quando le associazioni sono state convocate per discutere di socialità giovanile – che non è, riduttivamente, solo divertimento, che peraltro non dovrebbe essere una parolaccia nemmeno nel Veneto produttivo – sia stato sull’onda della cosiddetta ‘emergenza spritz’, come se i giovani fossero un problema di ordine pubblico (un’emergenza, addirittura!), e il luogo di discussione sia stato la prefettura anziché il comune.
A mancare non sono solo le occasioni e i luoghi per gli incontri di gruppi affini, per età e interessi. Mancano pure gli spazi di comunicazione, anche solo di vicinanza fisica, tra generazioni. E troppi immaginano la città a compartimenti stagni: le famiglie da una parte, i giovani dall’altra, i bambini dove non ci sono gli anziani, gli italiani dove non ci sono gli stranieri, e così via. Ma questa non è una città e non è civiltà. È una forma blanda e suicida di apartheid, che rende la separazione tra generazioni e tra con-cittadini ancora più grave di quanto già non sia. La risposta allora non è: ognuno da una parte, in modo che nessuno rompa le scatole a nessun altro, ma più spazi comuni, condivisi, in cui anche le generazioni si mischino senza darsi fastidio. Come, grosso modo, accade in ogni parco di ogni città del mondo. Ma come potrebbe accadere con iniziative culturali ad hoc, e proprio nelle piazze della città, che sono il luogo deputato ad ospitarle. Se no l’alternativa secca è tra un divertimento a porte chiuse e a pagamento, e rigorosamente ghettizzato per categorie anche di reddito (e magari anche deviante, comunque troppo alcolico – cose su cui, peraltro, una parte di operatori commerciali guadagna assai bene), da una parte, e dall’altra lo stare tappati in casa per chi altro non si può permettere, e in ogni caso altro non c’è perché altrimenti la cittadinanza protesta. L’abbiamo già detto altrove: una città vissuta, frequentata, è una città migliore e più sicura. Per tutti. E’ nel vuoto, nel silenzio, nell’oscurità, che trova spazio e si manifesta più spesso il lato deviante e maleodorante della società, il degrado. E’ dove la gente, le famiglie, gli anziani, e anche i giovani, non vanno più, che restano i pochi votati al peggio. Non è questo che le famiglie, e gli anziani, dovrebbero volere, anche se hanno tutti i diritti di dormire la notte. E forse, nel loro interesse, dovrebbero avere la pazienza di sopportare un po’ di jazz, di teatro di strada, di animazione ogni tanto, per evitare di avere lo spaccio, gli ubriachi che fanno i loro bisogni sui muri, i tossici, sempre: la socialità buona scaccia quella cattiva – è dove non c’è quella buona che domina, e spadroneggia, quella cattiva. Forse qualcuno potrebbe perfino scoprire che la socialità e la cultura non sono solo per gli altri, per i giovani; e che potrebbe essere un piacere anche per loro.
Quasi ogni città ha le sue belle attività di strada e popolari, e le sue belle deroghe almeno estive agli orari di apertura, di somministrazione di cibo e bevande, di produzione di cultura (e non solo per il capodanno e le vittorie ai mondiali – deroghe queste che la cittadinanza si prende anche senza permesso). Non c’è bisogno di guardare solo all’estero. Basta guardarsi in casa: andare a vedere le esperienze di altre città universitarie, e compararle con la situazione padovana. Analizzarne anche i problemi, certo, e le risposte che ai problemi sono state date: ma non guardare solo a questi, pensando che la socialità sia, in sé, un problema. Perché la socialità non è un problema: è una soluzione. Questo modo di vedere le cose, di pensare alla socialità come un disturbo, e alle sue occasioni come rumore, è di per sé un dato culturale su cui riflettere: e abbiamo la sensazione che sia questo il problema. Come abbiamo potuto ridurci così?
Forse dovremmo ricominciare a capire che la città va pensata insieme ai suoi abitanti, non a prescindere da essi. A Torino, per dire, ma anche altrove, l’assessore all’urbanistica e all’edilizia privata è anche l’assessore alla qualità della vita e all’integrazione dei ‘nuovi cittadini’. Insomma, chi si occupa delle case è chi si occupa anche delle persone che ci abitano dentro, dei loro bisogni, delle loro aspirazioni. E si affida lo sviluppo di strade e muri a chi si occupa di socialità e culture, anche nuove e diverse. Non quindi un presunto ‘tecnico’ – un architetto, un ingegnere, nei piccoli paesi un geometra – ma al contrario un politico esperto in culture (parola che deriva dal latino colere, coltivare, e include anche il culto, e la coltivazione delle relazioni). Una scelta significativa. Perché nei consigli comunali, nelle giunte, l’attività principale non dovrebbe essere quella di occuparsi di varianti urbanistiche, ponti e strade, ma del loro perché, del loro senso, delle loro conseguenze sulla vita delle persone. Non solo in funzione del traffico, della mobilità, della spesa, del consumo: ma in funzione di una vita piena, ricca di senso e non solo di risorse (per alcuni). Altrimenti rischiamo di avere città funzionali – quando va bene – ma vuote, come in quel quadro meraviglioso che è ‘La città ideale’, alla Galleria Nazionale di Urbino: una bellissima visione rinascimentale, proporzionata, perfetta (e già è qualcosa, laddove la parola bellezza non viene quasi mai pronunciata, nella politica cittadina), ma vuota, senza persone, senza umanità.
La socialità, le attività culturali (e la musica, il teatro, l’happening, le manifestazioni artistiche, ne sono alcune espressioni), sono movimento, invenzione, un’idea del mondo, la voglia di sperimentarlo e di rappresentarlo: precisamente ciò che riempie la città e le dà senso. Proprio ciò di cui abbiamo bisogno come il pane, o almeno subito dopo il pane. Certo, ci può essere qualche inciampo con altre attività della città. Se ne parli, si trovino soluzioni. Se ci sono idee le si propongano, si condividano con gli operatori culturali. Se non ci sono, con umiltà, si lanci un concorso per riceverle, aperto ai giovani, ai gruppi, all’attivismo di chi, tra mille difficoltà e ostacoli, per l’appunto, si attiva affinché la città sia viva e non morta, piena anche di contenuto e non solo di cose. E’ questo che tentano di fare, bene o male, i giovani che si ritrovano per un evento, foss’anche solo con lo scopo di non stare da soli. Perché non è che non ci siano attività culturali: ci sono. E non è che non ci siano altre modalità di aggregazione: l’associazionismo, per esempio. Ma la socialità, soprattutto giovanile, non è solo questo, e non può ridursi a questo. E si coinvolga l’università, la ricchezza meno utilizzata di Padova: che è piena di talenti e di esperienze che non chiedono altro che di essere utilizzate anche dalla città, e per risolvere i suoi problemi. Sapendo, certo, che per riempire la società di contenuto e le giornate di relazioni, bisogna anche spendere: magari spiegando ai padovani che è un guadagno. Economico, persino. E sapendo che non si tratterebbe che di restituire un briciolo di ciò che i giovani producono (sì, producono) e spendono. Sarebbe utile una ricerca sull’indotto economico prodotto da giovani e studenti su questa città. Ma prima di vederne i risultati siamo già certi che la percentuale di spesa a loro favore è certamente inferiore alla loro percentuale di presenza nel territorio.
A partire da qui, forse, si può cominciare a pensare a una città aperta a tutti davvero, non privatizzata: nemmeno dai giovani, naturalmente. Una città che non escluda nessuno. Ma che accolga anche, attivamente, i suoi abitanti. Tutti i suoi abitanti. Con la consapevolezza che la città è molto più di uno spazio: è un luogo, con una sua vita, una sua memoria e un suo genio – genius loci, appunto. E’ molto più di un insieme di strutture (non solo architettoniche): è un complesso di funzioni, che giocano un ruolo cruciale nei meccanismi della comunicazione tra le persone. E’ molto più di un fatto urbanistico: è un fatto urbano – un aggettivo che definisce una civiltà, un modo di essere e di pensare. Ed è molto più anche di un luogo di potere: è un luogo politico, potenzialmente disponibile ai più diversi apporti – perché la politica vera, la politica sana, va nei due sensi: parla, ma sa ascoltare; agisce, ma prima pensa e coinvolge. E’ infine, soprattutto, un luogo abitato: forse privo in sé di anima ma abitato da persone che ne posseggono una, e che vorrebbero poterla manifestare in tutte le sue ricchezze, non solo nella produzione e nel consumo.
Sui cartelli di ingresso della città di Padova sta una scritta significativa: “Territorio urbano telesorvegliato”. Come se questa fosse la sua caratteristica principale, il dato più rilevante della sua carta d’identità, quello da mostrare a chi varca i confini del suo territorio. E’ un segno culturale forte, e inquietante: che ci parla di tempi bui, oscuri, gretti, richiusi in se stessi. Noi vorremmo ci fosse scritto: “Città aperta”, “Città viva”. Forse proprio i giovani possono aiutarci a ritrovare il significato di queste parole.
Stefano Allievi
Da questo articolo è scaturito un dibattito cospicuo: con una prima risposta dell’assessore Zampieri, l’apertura di una discussione nel blog del direttore del Mattino, Omar Monestier, molti interventi con i relativi commenti on line, spesso assai vivaci. Riportiamo di seguito l’intero dibattito, dai miei primi articoli (per come sono stati pubblicati sul giornale) ai principali interventi pervenuti e pubblicati sul quotidiano o sul sito del Mattino: tutto, insomma, tranne i post di commento ai vari articoli, pure anch’essi assai interessanti.
Continua a leggere

Le derive del venetismo deteriore

Vivo in una città veneta. Insegno in un’università veneta (che grazie a Dio ha nel suo motto un riferimento al fatto che la libertà di Padova si rivolge a tutti: Universa universis patavina libertas). Il mio lavoro è cercare di formare degli studenti veneti (e altri: non ho mai chiesto ai miei studenti da dove venissero) allo scopo di costruirsi un futuro migliore. Sono impegnato con mia moglie, che non è veneta, nel lavoro sul territorio veneto: a livello parrocchiale, sociale, politico. Dedico molto del mio tempo alla formazione in ambienti associativi veneti, dove presto il mio tempo e le mie competenze, spesso a titolo gratuito, per dare una mano a costruirci tutti assieme un mondo (incluso un Veneto) più decente in cui vivere. Le persone con cui lavoro sono in buona parte venete, ma né io né loro ci siamo mai chiesti da dove venissimo: soltanto dove vogliamo andare, e cosa vogliamo fare, insieme. Infine, collaboro a un giornale veneto per aiutare a far circolare in Veneto idee possibilmente non solo venete (perché le idee non hanno patria) al fine di migliorare il Veneto che tutti abitiamo.
Ma sono foresto, vengo da una città lontanissima di una regione lontanissima che si chiama Milano, e sfortunatamente non vivo né lavoro continuativamente in Veneto da almeno quindici anni. E quindi, se finissi improvvisamente in miseria, per i buontemponi che hanno presentato in Regione Veneto i progetti di legge del pacchetto “Prima i veneti”, non avrei diritto ad alcun aiuto. Il paradosso è che se invece andassi a vivere a Parigi, Berlino, Londra, Madrid, Amsterdam, Bruxelles, ma anche in un qualunque paesino di queste notoriamente assai arretrate e poco civilizzate nazioni, e in generale in quella che chiamiamo Europa, che non è solo un luogo geografico ma un’idea del mondo e una proposta di civiltà, non subirei alcuna discriminazione di questo tipo. Curiosamente, non ne subirei nemmeno in altri continenti, inclusi molti paesi africani e asiatici con cui i buontemponi di cui sopra si schiferebbero di sentirsi comparare.
Si dirà che anche questo, come molte altre volte, è solo un blaterare per attirarsi il consenso di quelli a cui la precedenza sembra (e di primo acchito lo può anche sembrare) una proposta sensata. Ma poi non se ne farà nulla, perché l’importante è far parlare di sé, ergersi a paladini di una popolazione, e poi dare la colpa, se non si fa nulla, a Roma ladrona, alla Corte Costituzionale, a un’opposizione irresponsabile, e quant’altro: un giochino che è stato fatto spesso, in questi anni. Mi permetto due suggerimenti: per la Lega, e per i suoi irresponsabili compagni in questa deriva identitaria senza costrutto – i buontemponi appunto. Il primo è che si comincia a vedere che il re è nudo, che a tanto blaterare non corrisponde altrettanto fare (perché la legge non lo consente, ma anche perché la Lega stessa è migliore di certe cose che propone), e il dissenso che finalmente comincia a emergere al suo interno ne è una prova. Non si possono raccontare balle troppo spesso, troppo a lungo e a troppe persone: prima o poi qualcuno si accorge che, dietro tanto fumo, manca l’arrosto. Il secondo è che a lisciare sempre il pelo agli istinti peggiori degli individui, si finisce per produrre un elettorato, ma anche una rappresentanza politica, a immagine e somiglianza di quegli istinti. In democrazia, come giusto, i voti si contano, non si pesano: ma se si cerca il voto peggiore si finisce per scoprire che questo elegge i politici peggiori. La Lega, in particolare in Veneto, ha una storia culturale ricca, e la difesa dell’identità, della lingua, delle radici, si può fare in maniera intelligente anziché in maniera becera. Con queste derive la Lega rischia di tradire proprio la sua storia migliore. Che è anche la storia, la testimonianza e la vita dei tantissimi veneti da cui ho imparato le virtù migliori del darsi e dell’aprirsi agli altri senza confini: quelli che incontro tutti i giorni.
Stefano Allievi
16 settembre 2011
Allievi S. (2011), Le derive del venetismo deteriore

Moschee d’Italia. il diritto al luogo di culto, il dibattito sociale e politico

Allievi S. (2011), Prefazione, in M. Bombardieri, Moschee d’Italia. il diritto al luogo di culto, il dibattito sociale e politico, Bologna, EMI, pp. 15-21;

A dieci anni dall’11 settembre. Come siamo cambiati

Clicca sull’immagine per leggere l’articolo

Allievi S. (2011), A dieci anni dall’11 settembre. Come siamo cambiati, in “La Difesa del Popolo”, 11 settembre 2011, n. 35, p. , intervista di Patrizia Parodi I SR e R/I