In un precedente articolo sul Mattino, abbiamo affrontato il tema della socialità giovanile e della politica degli orari della città, prendendo lo spunto dall’arrivo dei vigili alla festa del PD, andati a fare quello che fanno ovunque, su incarico del Comune, allo scadere della mezzanotte: spegnere la musica. Il numero di risposte e di consensi che l’intervento ha avuto, e di discussioni online che ha generato, è stato significativo: come se qualcuno avesse involontariamente dato voce a una tensione che covava sotto la cenere da anni, a una ferita aperta e a un problema irrisolto. Proviamo qui ad approfondire la questione.
La polis – concetto da cui deriva tanto la nostra idea di città quanto la nostra idea di politica – presuppone l’incontro nell’agorà, nella piazza, e la riflessione comune sul suo destino. E’ quindi innanzitutto un luogo di socialità e di discussione. Incidentalmente, parte importante dell’attività e dell’identità della polis erano anche i templi, dove si svolgevano le cerimonie religiose, i gymnasion, dove si coltivava il corpo e lo spirito, e i teatri, con dei veri e propri festival, i Dionysia, che servivano a cementare l’unità culturale della polis e dei cittadini.
La socialità è dunque fondamentale: perché è buona in sé, perché costruisce legami sociali (non a caso si parla di tessuto sociale, fatto di una trama fitta di relazioni), perché è un piacere, e infine perché consente la comunicazione e la discussione sulla res publica, la cosa pubblica. E’ insomma una precondizione della vita stessa della città (se vuole essere viva, naturalmente). Ma per manifestarsi ha bisogno di luoghi e di occasioni, a tutti i livelli. Luoghi polisenso e multifunzione, utilizzabili a più livelli e da popolazioni diverse, come le piazze, i parchi, i cortili; luoghi per il culto e l’adorazione degli dei; luoghi dedicati alle forme moderne di gymnasion e di teatro, di aggregazione e di divertimento; luoghi di consumo e di scambio, come i mercati (e naturalmente i luoghi della produzione e quelli di incontro delle corporazioni di arti e mestieri); luoghi di istruzione e formazione (che la mentalità odierna identifica con la scuola e l’università, ma lo sono anche i teatri e i gymnasion, i luoghi di culto e i mercati); fino ai luoghi di discussione politica, dall’agorà al municipio. E occasioni come le feste private e pubbliche, religiose e laiche, le celebrazioni, gli eventi culturali e sportivi, le fiere e i mercati, e quant’altro.
La città non è fatta solo di muri, è fatta di persone: “Sono le case a fare un borgo, ma sono gli uomini a fare una città”, diceva Rousseau. Bene, chi sono gli uomini e le donne che abitano questa città? I residenti al 31 agosto 2011 sono 214.046, di cui 32.008 stranieri, grazie ai quali si produce anche un tasso di natalità e di nuzialità in aumento (senza di loro sarebbe negativo). Ai residenti bisogna aggiungere gli studenti dell’università, 60.812, di cui solo un terzo circa è padovano, e quindi conteggiato tra i residenti: una buona metà viene da altre zone del Veneto, e in parte passa almeno qualche giorno (e notte) alla settimana a Padova, mentre oltre il dieci per cento viene da altre zone d’Italia e dall’estero, e a Padova spesso ci si è temporaneamente trasferito. A costoro bisogna aggiungere oltre 5.000 studenti post-laurea, in gran numero non padovani, e oltre 2.000 docenti, in parte anch’essi foresti e bisognosi di socialità e di cultura. Poi ci sono le varie ondate di pendolari (per lavoro e studio, al mattino presto; per gli acquisti nella parte centrale della giornata e il sabato; per i consumi culturali e il divertimento la sera, in gran parte giovani), e infine quasi un milione di turisti, per quasi la metà stranieri, che passano almeno qualche giorno da noi. I giovani insomma, sono assai di più di quelli contabilizzati tra i residenti. E le persone con bisogni di socialità più accentuati di quelli legati alla cerchia familiare ancora di più, dato che delle 101.267 famiglie ‘anagrafiche’ censite, ben il 40% (in aumento) sono composte da un solo elemento, e quasi il 27% (pure in aumento) da due, con un incremento delle coppie senza figli, pure esse in aumento, che già oggi rappresentano il 40% delle coppie. Anche se, va ricordato, la popolazione con più di 65 anni è di ben 51.427 unità, e l’età media dei padovani, 45,36 anni, è tre anni più alta della media regionale e nazionale.
In pratica, gli indicatori demografici fanno di Padova una città tendenzialmente anziana; ma quelli sulle presenze, che includono gli studenti, la ringiovaniscono significativamente. Tuttavia Padova – a sentire i diretti interessati – non sembra essere una città per giovani, non ne ha l’immagine. E questo non dipende dalla demografia. Dipende dalle politiche per i giovani. O dalla mancanza delle medesime. E’ da anni, infatti, anzi da decenni, che la popolazione giovanile è scarsamente considerata. E’ da anni che i giovani sono sballottati qui e là. Ed è sconcertante, peraltro, che quando le associazioni sono state convocate per discutere di socialità giovanile – che non è, riduttivamente, solo divertimento, che peraltro non dovrebbe essere una parolaccia nemmeno nel Veneto produttivo – sia stato sull’onda della cosiddetta ‘emergenza spritz’, come se i giovani fossero un problema di ordine pubblico (un’emergenza, addirittura!), e il luogo di discussione sia stato la prefettura anziché il comune.
A mancare non sono solo le occasioni e i luoghi per gli incontri di gruppi affini, per età e interessi. Mancano pure gli spazi di comunicazione, anche solo di vicinanza fisica, tra generazioni. E troppi immaginano la città a compartimenti stagni: le famiglie da una parte, i giovani dall’altra, i bambini dove non ci sono gli anziani, gli italiani dove non ci sono gli stranieri, e così via. Ma questa non è una città e non è civiltà. È una forma blanda e suicida di apartheid, che rende la separazione tra generazioni e tra con-cittadini ancora più grave di quanto già non sia. La risposta allora non è: ognuno da una parte, in modo che nessuno rompa le scatole a nessun altro, ma più spazi comuni, condivisi, in cui anche le generazioni si mischino senza darsi fastidio. Come, grosso modo, accade in ogni parco di ogni città del mondo. Ma come potrebbe accadere con iniziative culturali ad hoc, e proprio nelle piazze della città, che sono il luogo deputato ad ospitarle. Se no l’alternativa secca è tra un divertimento a porte chiuse e a pagamento, e rigorosamente ghettizzato per categorie anche di reddito (e magari anche deviante, comunque troppo alcolico – cose su cui, peraltro, una parte di operatori commerciali guadagna assai bene), da una parte, e dall’altra lo stare tappati in casa per chi altro non si può permettere, e in ogni caso altro non c’è perché altrimenti la cittadinanza protesta. L’abbiamo già detto altrove: una città vissuta, frequentata, è una città migliore e più sicura. Per tutti. E’ nel vuoto, nel silenzio, nell’oscurità, che trova spazio e si manifesta più spesso il lato deviante e maleodorante della società, il degrado. E’ dove la gente, le famiglie, gli anziani, e anche i giovani, non vanno più, che restano i pochi votati al peggio. Non è questo che le famiglie, e gli anziani, dovrebbero volere, anche se hanno tutti i diritti di dormire la notte. E forse, nel loro interesse, dovrebbero avere la pazienza di sopportare un po’ di jazz, di teatro di strada, di animazione ogni tanto, per evitare di avere lo spaccio, gli ubriachi che fanno i loro bisogni sui muri, i tossici, sempre: la socialità buona scaccia quella cattiva – è dove non c’è quella buona che domina, e spadroneggia, quella cattiva. Forse qualcuno potrebbe perfino scoprire che la socialità e la cultura non sono solo per gli altri, per i giovani; e che potrebbe essere un piacere anche per loro.
Quasi ogni città ha le sue belle attività di strada e popolari, e le sue belle deroghe almeno estive agli orari di apertura, di somministrazione di cibo e bevande, di produzione di cultura (e non solo per il capodanno e le vittorie ai mondiali – deroghe queste che la cittadinanza si prende anche senza permesso). Non c’è bisogno di guardare solo all’estero. Basta guardarsi in casa: andare a vedere le esperienze di altre città universitarie, e compararle con la situazione padovana. Analizzarne anche i problemi, certo, e le risposte che ai problemi sono state date: ma non guardare solo a questi, pensando che la socialità sia, in sé, un problema. Perché la socialità non è un problema: è una soluzione. Questo modo di vedere le cose, di pensare alla socialità come un disturbo, e alle sue occasioni come rumore, è di per sé un dato culturale su cui riflettere: e abbiamo la sensazione che sia questo il problema. Come abbiamo potuto ridurci così?
Forse dovremmo ricominciare a capire che la città va pensata insieme ai suoi abitanti, non a prescindere da essi. A Torino, per dire, ma anche altrove, l’assessore all’urbanistica e all’edilizia privata è anche l’assessore alla qualità della vita e all’integrazione dei ‘nuovi cittadini’. Insomma, chi si occupa delle case è chi si occupa anche delle persone che ci abitano dentro, dei loro bisogni, delle loro aspirazioni. E si affida lo sviluppo di strade e muri a chi si occupa di socialità e culture, anche nuove e diverse. Non quindi un presunto ‘tecnico’ – un architetto, un ingegnere, nei piccoli paesi un geometra – ma al contrario un politico esperto in culture (parola che deriva dal latino colere, coltivare, e include anche il culto, e la coltivazione delle relazioni). Una scelta significativa. Perché nei consigli comunali, nelle giunte, l’attività principale non dovrebbe essere quella di occuparsi di varianti urbanistiche, ponti e strade, ma del loro perché, del loro senso, delle loro conseguenze sulla vita delle persone. Non solo in funzione del traffico, della mobilità, della spesa, del consumo: ma in funzione di una vita piena, ricca di senso e non solo di risorse (per alcuni). Altrimenti rischiamo di avere città funzionali – quando va bene – ma vuote, come in quel quadro meraviglioso che è ‘La città ideale’, alla Galleria Nazionale di Urbino: una bellissima visione rinascimentale, proporzionata, perfetta (e già è qualcosa, laddove la parola bellezza non viene quasi mai pronunciata, nella politica cittadina), ma vuota, senza persone, senza umanità.
La socialità, le attività culturali (e la musica, il teatro, l’happening, le manifestazioni artistiche, ne sono alcune espressioni), sono movimento, invenzione, un’idea del mondo, la voglia di sperimentarlo e di rappresentarlo: precisamente ciò che riempie la città e le dà senso. Proprio ciò di cui abbiamo bisogno come il pane, o almeno subito dopo il pane. Certo, ci può essere qualche inciampo con altre attività della città. Se ne parli, si trovino soluzioni. Se ci sono idee le si propongano, si condividano con gli operatori culturali. Se non ci sono, con umiltà, si lanci un concorso per riceverle, aperto ai giovani, ai gruppi, all’attivismo di chi, tra mille difficoltà e ostacoli, per l’appunto, si attiva affinché la città sia viva e non morta, piena anche di contenuto e non solo di cose. E’ questo che tentano di fare, bene o male, i giovani che si ritrovano per un evento, foss’anche solo con lo scopo di non stare da soli. Perché non è che non ci siano attività culturali: ci sono. E non è che non ci siano altre modalità di aggregazione: l’associazionismo, per esempio. Ma la socialità, soprattutto giovanile, non è solo questo, e non può ridursi a questo. E si coinvolga l’università, la ricchezza meno utilizzata di Padova: che è piena di talenti e di esperienze che non chiedono altro che di essere utilizzate anche dalla città, e per risolvere i suoi problemi. Sapendo, certo, che per riempire la società di contenuto e le giornate di relazioni, bisogna anche spendere: magari spiegando ai padovani che è un guadagno. Economico, persino. E sapendo che non si tratterebbe che di restituire un briciolo di ciò che i giovani producono (sì, producono) e spendono. Sarebbe utile una ricerca sull’indotto economico prodotto da giovani e studenti su questa città. Ma prima di vederne i risultati siamo già certi che la percentuale di spesa a loro favore è certamente inferiore alla loro percentuale di presenza nel territorio.
A partire da qui, forse, si può cominciare a pensare a una città aperta a tutti davvero, non privatizzata: nemmeno dai giovani, naturalmente. Una città che non escluda nessuno. Ma che accolga anche, attivamente, i suoi abitanti. Tutti i suoi abitanti. Con la consapevolezza che la città è molto più di uno spazio: è un luogo, con una sua vita, una sua memoria e un suo genio – genius loci, appunto. E’ molto più di un insieme di strutture (non solo architettoniche): è un complesso di funzioni, che giocano un ruolo cruciale nei meccanismi della comunicazione tra le persone. E’ molto più di un fatto urbanistico: è un fatto urbano – un aggettivo che definisce una civiltà, un modo di essere e di pensare. Ed è molto più anche di un luogo di potere: è un luogo politico, potenzialmente disponibile ai più diversi apporti – perché la politica vera, la politica sana, va nei due sensi: parla, ma sa ascoltare; agisce, ma prima pensa e coinvolge. E’ infine, soprattutto, un luogo abitato: forse privo in sé di anima ma abitato da persone che ne posseggono una, e che vorrebbero poterla manifestare in tutte le sue ricchezze, non solo nella produzione e nel consumo.
Sui cartelli di ingresso della città di Padova sta una scritta significativa: “Territorio urbano telesorvegliato”. Come se questa fosse la sua caratteristica principale, il dato più rilevante della sua carta d’identità, quello da mostrare a chi varca i confini del suo territorio. E’ un segno culturale forte, e inquietante: che ci parla di tempi bui, oscuri, gretti, richiusi in se stessi. Noi vorremmo ci fosse scritto: “Città aperta”, “Città viva”. Forse proprio i giovani possono aiutarci a ritrovare il significato di queste parole.
Stefano Allievi
Da questo articolo è scaturito un dibattito cospicuo: con una prima risposta dell’assessore Zampieri, l’apertura di una discussione nel blog del direttore del Mattino, Omar Monestier, molti interventi con i relativi commenti on line, spesso assai vivaci. Riportiamo di seguito l’intero dibattito, dai miei primi articoli (per come sono stati pubblicati sul giornale) ai principali interventi pervenuti e pubblicati sul quotidiano o sul sito del Mattino: tutto, insomma, tranne i post di commento ai vari articoli, pure anch’essi assai interessanti.
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