Come ci ha cambiati l’11 settembre

Domenica, 11 settembre 2011

Per qualche anno, per troppo tempo, il pensiero si è radicalizzato, il linguaggio militarizzato, la ragione impoverita, ridotta a binomi semplicistici quanto fuorvianti: bianco/nero, buoni/cattivi, superiore/inferiore, con Dio o contro Dio (con Dio, naturalmente, privatizzato da tutte le parti in causa). Il pensiero qaedista in questo senso ha vinto, specchiandosi nel bushismo arrogante dell’avventura irakena (costruita sulla menzogna, e che ha prodotto più terrorismo di quanto non ne abbia sconfitto, per non parlare delle decine di migliaia di vittime innocenti, tra le quali contiamo anche i soldati occidentali mandati lì a morire inutilmente): che sono stati paradigmi dominanti, vincenti, fino all’altro ieri. Ma oggi qualcosa è cambiato.

L’11 settembre ha fatto fare un salto di qualità al male nel mondo: quegli innocenti colpiti a mezzo di altri innocenti usati come arma, hanno scolpito l’immaginario occidentale, attraverso quella potente icona mediatica – destinata a marcare ben più di un decennio, e a rimanere nella storia – che sono le immagini incessantemente rivedute degli aerei che si schiantano sulle Twin Towers, della gente che si lancia nel vuoto, delle torri che crollano, del vuoto lasciato nello skyline newyorkese.

In quel momento molti nel mondo, inclusi molti musulmani – tranne una minoranza accecata da furore ideologico – hanno assunto quell’orrore, quel vuoto, come proprio. Tanto che è stato facile raccogliere una alleanza contro il terrorismo islamico che comprendeva anche molti paesi musulmani, almeno fino alla successiva invasione dell’Afghanistan.
Poi, quel capitale di solidarietà e di umana pietas è stato dilapidato, cancellato dall’arroganza, dai toni fondamentalisti, dalla propaganda, dalla mancanza di pietas per gli innocenti di altre latitudini. E, da ambo le parti, per qualche anno hanno avuto mano libera, e sono sembrati vincenti, gli estremisti. In questo la strategia di al-Qaeda ha avuto successo: e il conflitto di civiltà è sembrato improvvisamente un’evidenza.
Per qualche anno, per troppo tempo, il pensiero si è radicalizzato, il linguaggio militarizzato, la ragione impoverita, ridotta a binomi semplicistici quanto fuorvianti: bianco/nero, buoni/cattivi, superiore/inferiore, con Dio o contro Dio (con Dio, naturalmente, privatizzato da tutte le parti in causa). Il pensiero qaedista in questo senso ha vinto, specchiandosi nel bushismo arrogante dell’avventura irakena (costruita sulla menzogna, e che ha prodotto più terrorismo di quanto non ne abbia sconfitto, per non parlare delle decine di migliaia di vittime innocenti, tra le quali contiamo anche i soldati occidentali mandati lì a morire inutilmente): che sono stati paradigmi dominanti, vincenti, fino all’altro ieri.
Un paradigma che nel mondo islamico si è fatto largo attraverso il suo stesso successo, da troppi malinteso come la battaglia tra il buon Robin Hood islamico contro il cattivo sceriffo di Nottingham occidentale (e come questi stupido quanto crudele, come si è riuscito a far credere); e in occidente è stato legittimato in modi diversi. Negli Stati Uniti dal fondamentalismo protestante della destra teocon; e in Europa – in Italia ad esempio – da una specie di fallacismo globale, qualunquistico quanto pervasivo, dagli esiti tuttavia meno catastrofici, contenuti il più delle volte in una violenza diffusa ma soltanto verbale (non che non abbia avuto esiti di invelenimento complessivo della società; ma non ha spinto verso avventure devastanti come quella irakena, che ha sostenuto senza veramente coinvolgervisi in prima persona, o molto limitatamente).
Oggi non è più così. Da un lato le sconfitte di al Qaeda, il suo progressivo isolamento, fino all’uccisione del suo capo carismatico, Bin Laden: oggi al Qaeda vive più che altro sulla forza d’inerzia, sulla disperata volontà di sopravvivenza; non sui successi, sulla capacità di giocare come il gatto con il topo con il potente Occidente, guidando il gioco, come in una certa fase è potuto sembrare. Dall’altro l’elezione di Obama, la politica della mano tesa con l’islam (mantenendo il pugno di ferro solo con il radicalismo violento – quello che si sarebbe dovuto fare fin dall’inizio). E per tutti la stanchezza di una stagione – costosissima culturalmente, economicamente e in sangue umano, che dopo tutto ha lo stesso colore ovunque – che si è trascinata tra roboanti proclami ma senza alcun vero successo, da una parte e dall’altra.
La prova che questa stagione è al suo declino, nonostante le tragiche ricadute che potranno esservi in futuro, ce l’hanno fornita due eventi recenti, molto diversi tra loro. Il primo è stato la primavera araba, che ha mostrato come l’aspirazione a una vita diversa e migliore, e l’uscita dall’immobilismo di grandi masse di musulmani, non fosse più polarizzata dalla falsa alternativa tra il radicalismo islamico da una parte e l’autoritarismo dittatoriale dei satrapi mediorientali, giustificata dall’opposizione all’islam radicale (con il cieco sostegno, fino all’ultimo, dell’Occidente), dall’altro; ma si appoggiasse sulla scommessa democratica, non basata sulla religione e nemmeno sulla violenza.
Il secondo evento è stato la strage di Oslo: che ha mostrato all’Occidente le derive cui possono portare i fantasmi ossessivi, impregnati di superiorità razziale e di presunzione culturale, che ha lasciato crescere nel suo seno in questi anni; dopo Oslo e Utoya, molti hanno aperto gli occhi, e anche chi faceva finta di non vedere ora sa.
Certo, il terrorismo non è ancora sconfitto, e il fanatismo appare ancora capace di sedurre le menti di troppi. Ma abbiamo capito la lezione, e ne stiamo uscendo, da ambo le parti. Per questo possiamo ricordare questo anniversario, e piangerne le vittime, con più autentica partecipazione umana, e meno pesantezza ideologica del passato, di altri anniversari. Il segno che stiamo elaborando il lutto. Da adulti. Non è poco. E non era scontato. Per qualche anno, davvero, avevamo perso la speranza.

Allievi S. (2011), Come ci ha cambiati l’11 settembre, in ResetDOC (Dialogues on civilizations) http://www.resetdoc.org/stories/index/00000000021 (anche in “Il Mattino”, 11 settembre 2011, pp.1-7, “La Nuova Venezia”, “La Tribuna di Treviso”, “Il Piccolo”, con il titolo La stagione della paura al tramonto, “Messaggero Veneto”)

Lo spritz non è un problema di sicurezza

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Allievi S. (2011), Lo spritz non è un problema di sicurezza, in “Corriere della Sera Veneto”, 9 settembre 2011, p. 8, intervista di Davide D’Attino

Referendum per tornare a contare

Che siamo allo sfascio, lo capirebbe anche un bambino. Lo spettacolo indecente e da vietare ai minori di un governo che fa la manovra, poi la disfa ed esulta (“così è più equa”: come se la prima l’avesse fatta qualcun altro), poi la modifica, poi si accorge che i conti non tornano, poi protesta come se fosse l’opposizione, la rifa e la ridisfa, dà l’idea non di una crisi, ma di un grottesco e catastrofico dramma, una tragedia farsesca, purtroppo senza lieto fine. È la fine non solo di questo governo al minimo storico di consenso, e non solo di questa maggioranza – che è assai opinabile che rimarrebbe tale alla prova elettorale, come i sondaggi già dicono – ma di un intero ciclo politico. E della classe politica che lo ha rappresentato e incarnato.

Che dobbiamo uscire da questa situazione è un dato. Di fronte al malato in grave peggioramento e a un’équipe medica dilettantesca e incapace, la sola possibilità di sopravvivenza del paziente è cambiare medici, e pregare che Dio ce la mandi buona. E il solo modo di farlo è cambiare ceto politico. Come? E’ ovvio, con le elezioni. Che comunque arriveranno: a breve, per implosione della maggioranza, o alla scadenza naturale, nel 2013. Ma sappiamo bene che se si andasse alle elezioni con l’attuale sistema elettorale, mandando in parlamento un nuovo manipolo di servitori obbedienti che non rispondono al popolo ma che tutto devono al capo o al partito e niente al merito e alla capacità (categoria che, a causa del sistema, finisce per includere anche i galantuomini che pure ci sono), o di allegri cambiacasacche interessati solo al potere, nulla cambierebbe davvero. Per cui bisogna cambiare il sistema elettorale.

Tutti lo dicono, anche molti che non lo pensano davvero perché sotto sotto gli viene comodo l’attuale, ma nessuno lo fa. E allora l’unico modo possibile diventa il referendum sulla legge elettorale. Certo, pochi vogliono davvero tornare al vecchio ‘matarellum’. Meglio sarebbe, per meglio selezionare gli eletti, una bella uninominale inglese, o almeno un doppio turno alla francese; o persino, come vogliono altri, un sistema tedesco con sbarramento all’ingresso. Ma comunque uno diverso. Peccato che ogni partito abbia il suo progetto, e che quindi nessuno, matematicamente, possa essere approvato. Ecco allora che la strada referendaria e il ritorno al sistema elettorale precedente diventa, se non altro, la soluzione meno peggio. Non entusiasmante, ma meglio del presente.

Ecco perché è importante che oggi un po’ di esponenti di rilevo del PD si siano finalmente svegliati, e appoggino il referendum (promosso peraltro da alcuni suoi esponenti, insieme a Italia dei Valori, Sinistra ecologia e libertà, e qualche altro), seppure con un tiepido sostegno della segreteria. La popolazione tutta – anche di centrodestra – gliene sarebbe grata, visto che non ne può più del sistema attuale, e sarebbe una straordinaria occasione di capitalizzarne il consenso. Peccato lo si faccia all’ultimo momento, quando il rischio di non raccogliere le firme è alto. Ma meglio tardi che mai.

Alla meglio, il referendum diventa lo stimolo perché i partiti si mettano finalmente d’accordo per una nuova legge elettorale. Alla meno peggio ci salverebbe quanto meno dalla tragedia di riandare a votare con l’attuale legge che il suo stesso estensore, Calderoli, definì ‘porcata’, perché impedisce ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti mediante la preferenza. E’ così difficile capirlo? Purtroppo, per la gran parte del ceto politico sì, ed ecco perché non lo sostiene. Una prova di più che bisogna cambiarlo.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Referendum per tornare a contare, in “Il Mattino”, 9 settembre 2011, pp.1-9 (anche “La Nuova Venezia”, “La Tribuna di Treviso”)

Che cosa sognamo di fare di questa città?

Siamo contenti che la polizia sia andata alla festa del PD: così scoppiano le contraddizioni. Non equivocate: siamo del tutto favorevoli alla festa del Partito Democratico (e a tutto ciò che produce socialità), e del tutto favorevoli alle iniziative musicali dei giovani al suo interno. Ma il PD è anche il partito che esprime l’amministrazione e il sindaco, cioè chi governa. E chi governa, fosse di destra o di sinistra, ha ascoltato troppo, in questi decenni, la Padova dormiente, chiusa in casa, diffidente: anche perché è quella che protesta di più. Senza ascoltare abbastanza l’altra Padova: quella che si incontra, che produce socialità e cultura, e anche, ma non solo, più giovane. Che, pure, vive al suo interno, e produce ricchezza su cui altri guadagnano: si pensi alla folla di studenti su cui campano più maturi commercianti e proprietari di case, e quindi famiglie, ma che hanno il diritto di esistere solo di giorno, poi, mi raccomando, che vadano a letto presto. Ora, queste due città hanno entrambe i loro bisogni e i loro diritti: ma la sensazione di qualunque studente fuori sede, come degli operatori culturali indigeni, per non parlare dei turisti di passaggio, e l’immagine di sé che la città rischia di dare, è quella di ascoltare, primariamente, una sola delle due. Qui basta la telefonata di uno, non sempre a ragione, per impedire la socialità di cento, e far intervenire vigili e polizia: che, se non è ancora mezzanotte, ascoltano, nemmeno misurano se c’è davvero uno sforamento di decibel perché non hanno le attrezzature adatte, e chiedono di abbassare il volume; e, a mezzanotte e un minuto, cominciano a comminare multe, senza deroghe.

Ora, chiariamoci: la vivibilità e il sonno dei cittadini devono essere tutelati. Ma non è ammissibile che una città chiuda sempre e comunque a mezzanotte, come se ci fosse il coprifuoco. Basta andare una volta sola in una qualunque città europea, ancor più se è città universitaria, ma anche in Italia, diciamo a sud del Po (e un po’ più a ovest), per vedere in piena notte, e almeno d’estate, una città viva, gente che si muove (e non solo giovani), e iniziative musicali e artistiche per strada. Qui no.

Ma stiamo attenti. La socialità produce vivibilità, ma pure sicurezza. Le zone più frequentate sono anche più frequentabili: sono i passi che rimbombano nel vuoto dietro di noi a mettere più paura. E soprattutto, l’alternativa è che i giovani (e meno giovani) se ne stiano ben sigillati nelle discoteche, nei pub, nei bowling e nei locali di slot machines, nell’interesse di chi li gestisce. E’ questo che vogliamo? Sicuri, e lo diciamo ai genitori, che questo produca una città e dei giovani migliori?

Allora forse, nell’interesse di tutti, è necessario aprire una franca discussione – magari una vera e propria convention, aperta a tutti – cercando di sentire il polso vero della città, non solo le lobbies che la rappresentano: residenti e commercianti, operatori culturali, associazionismo, studenti, istituzioni e università, parrocchie, organizzatori di sagre, musicisti e teatranti, ma anche giovani e famiglie, e magari qualche esperto che sappia cosa succede altrove, e come risolvono i problemi, che ci sono. E provare a immaginare una città diversa, ripensando i suoi luoghi di socialità e i suoi orari. Nell’interesse e a tutela di tutti: ma tutti davvero. Non è solo questa o quella iniziativa in gioco: c’è in ballo l’idea di città che abbiamo. Ne vogliamo parlare?

Stefano Allievi

Allievi S. (2011),Che cosa sognamo di fare di questa città? , in “Il Mattino”, 6 settembre 2011, p. 19

After Oslo. Europe: the time has come to reflect

Stefano Allievi, University of Padua

Muslim communities all over Europe sighed with relief when they heard that the Norwegian massacre had not been carried out by one of their own. If that had been the case, the price to pay would have been a terrible one. Many non-Muslims also breathed their own sigh at not having to confirm their prejudice against Muslims. This reaction is disquieting in its triviality and automatism. The press in Muslim-majority countries is pointing out these inconsistancies, asking “Why is this not called Christian terrorism?” “Why are we not creating a plot theory?”

The massacres in Oslo and on the island of Utoya, carried out on July 22nd by lone killer Anders Behring Breivik, provide us with food for thought, while we wait for further facts to emerge on the case.

At the initial unfolding of the events, many Europeans believed the attack was of Islamic origin. This automatic reaction warrants reflection. As Europol data confirms every year, the attacks carried out and the acts of violence perpetrated by Islamic fanatics in Europe are a tiny percentage of the total attacks, bombs, massacres and murders that occur each year. For example, according to the 2010 report, there were 294 terrorist attacks in Europe (significantly fewer than in 2008 when in turn there were fewer than in 2007), of which 237 were carried out by separatists, 40 by the extreme left, 4 by the extreme right and 2 single issue attacks (linked to a specific local cause), 10 non-specific and only 1 (in Italy) of Islamic origin. In spite of this there were 587 arrests on terrorism charges during that same year, of which 413 were separatists, 29 were extreme left militants, 22 extreme right wing militants and 2 were single issue terrorists, 11 unspecified and 110 Islamists. There were 408 people sentenced for terrorist crimes , of which 268 were separatists, 39 extreme left militants, 1 extreme right militant, 11 unspecified and 89 Islamists [1]. This data can be interpreted in various ways. One could consider the discrepancy between the number of arrests and imprisonments of Islamists and the number of attacks carried out by Islamists, as a sign of effective prevention. This greater vigilance concerning this kind of terrorism has had a real effect, with a number of attacks in various countries prevented in locations where there would have been high numbers of victims, such as airports and other public places. One the other hand, one could see this data as the mark of selective attention and greater nervousness regarding Islamist terrorism, and perhaps an underestimation of other kinds of terrorism, such as from the extreme right.
This data cannot be blamed exclusively on the media, although the media is a phenomenal amplifier and sound box for the European fear of Islamism. These numbers should also make us seriously reflect, not only on the presence of Islam in Europe, but also on what it means to be European, and on our attitude toward Islam and Muslims [2]. Biases against Muslims in Europe can be traced back to a long campaign that precedes 9/11 and that has proved to be very effective and pervasive. The Northern League’s campaign against mosques in Italy began in 2000 [3], and even before that, Islamophobia was constructed by the Front National in France and by other political players in various countries [4]. Therefore, some prejudices are not so much a reaction to Islamic violence in the West, but rather something far more profound and ancient.
We seem unable to abandon this Pavlovian reflex in spite of frequently being proved wrong. In fact the news all too often reports on the risk of Islamic attacks that then never take place during great events, such as the Olympic Games, the G8, the Jubilee, and so on. There are occasional confirmations, but our automatic reaction never results in a debate, reflection or demands for a self-critical analysis. Shouting ‘Islamic wolf’ has enabled successful careers in journalism, the security forces, the judicial sector and, of course, in politics. Private, let alone public, apologies to Muslims for mistakes are very rare. And yet, this phenomenon has damaged the lives of thousands of Muslims, who then become the occasional victims, if not of violence, certainly of rejection, controversy and ordinary daily harassment at school, at work and on the streets.
Muslim communities all over Europe sighed with relief when they heard that the Norwegian massacre had not been carried out by one of their own. If that had been the case, the price to pay would have been a terrible one. Many non-Muslims also breathed their own sigh at not having to confirm their prejudice against Muslims. This reaction is disquieting in its triviality and automatism. The press in Muslim-majority countries is pointing out these inconsistancies, asking “Why is this not called Christian terrorism?” “Why are we not creating a plot theory?” These are questions that should be asked throughout the West as well.
We must also reflect upon Europe’s internal violence, which has been emerging in recent years. Fear of an Islamic danger has produced a crowded web of large and small political parties, groups, websites, newspapers, writers and intellectuals, competing in the easy and productive Islamophobia market at so much per kilo. This is the hornet’s nest in which the Oslo assassin dipped his hands and then drafted his extremely personal opinions and his tragic conclusions. It is no coincidence that many of these references are quoted in his memorial, and it is significant that the xenophobic and islamophobic ravings he published are filled with recurrent themes that are actually widespread among the mainstream media and extremist viewpoints in Europe. These references consist of buzzwords, quotes and even specific linguistic similarities, such as calling Europe ‘Eurabia’, a neologism invented by Bat Ye’or but brought to success by Oriana Fallaci, who was also quoted by Breivik[5].
It is obvious that it would be neither correct nor intelligent to blame on his intellectual references the responsibility and consequences of Breivik’s actions. This, as always, would be a very slippery slope. One cannot, however, ignore that on this subject there have been bad teachers (yes, precisely in the sense used in other times and other political circles for Toni Negri and others) and terrible practitioners. Some of these voices have been provided with disproportionate and uncontested space in the public debate and the media, permitted to use language that other cases would not be allowed[6]. In many political speeches, in too many newspaper articles and even in statements from religious leaders, if one replaced the word ‘Muslim’ with the word ‘Jew’, these same statements would be considered simply unutterable. The rise in xenophobic and Islamophobic political parties all over Europe proves that this is not just a question of style. There are too many misunderstandings, too many shortcuts, too much superficiality and too many mistakes. There is too little internal debate and, of course, a number of unacceptable acts of violence. But the time has come for everyone to seriously reflect on where all this is leading us.
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[1] For those wishing to research the matter personally, the link so little used by journalists and self-appointed experts on Islam, is: http://www.europol.europa.eu/content/publication/te-sat-2010-eu-terrorism-situation-trend-report-671 (see in particular pages 10 and 11 as the in-depth analyses on Islamic terrorism, especially the one mentioned above from page 18 onwards).
[2] See S. Allievi, Le trappole dell’immaginario. Islam e occidente, Forum, 2007.
[3] Italian Islam’s ‘Black September’ was in 2000, when the anti-Muslim kulturkampf became apparent in various circles, such as with the publication and favourable reception and disseminating of an essay by political analyst Giovanni Sartori, entitled Pluralism, multiculturalism and foreigners, filled with inaccuracies, inconsistencies and blunders, but extremely successful. Then there was the pastoral letter from the then Cardinal of Bologna Giacomo Biffi, equally widely broadcast and debated in Catholic circles, resulting in a peculiar Catholic form of Islamophobia until then silent. And of course there was the Northern League’s political campaign, which started with the case involving the mosque in Lodi and that has never ended. On the contrary, it is in constant evolution (on the Italian case see my books Islam italiano, Einaudi, 2003, and I musulmani e la società italiana, Franco Angeli, 2009).
[4] V. Geisser, La nouvelle islamophobie, La Découverte, 2003; M. Massari, Islamofobia. La paura e l’islam, Laterza, 2006; C. Allen, Islamophobia, Ashgate, 2010.
[5] See G. Bosetti, Cattiva maestra. La rabbia di Oriana Fallaci e il suo contagio, Marsilio, 2005, and S. Allievi, Ragioni senza forza, forze senza ragione, Emi, 2004, and also Niente di personale signora Fallaci. Una trilogia alternativa, Aliberti, 2006.
[6] The case involving the Northern League’s MEP Borghezio, is paradigmatic but anything but unique. Only on this one occasion was he good-naturedly suspended by the party for three months for having made the unutterable statement that he agreed totally with the reasons and motivations, albeit not the methods, that inspired the Oslo assassin. The aforementioned Member of the European Parliament is a professional statement-maker on this subject (he effectively does practically nothing else), and is elected on the basis of these reasons. He is hero of the Northern League’s base, celebrated in Pontida, and has never been invited to use more moderate language, let alone more serious arguments.

http://www.resetdoc.org/story/00000021694

Conflitto sociale tra generazioni

La politica contro i giovani

E’ significativo che sia proprio la Lega, il partito che passa per essere quello con il maggior sostegno giovanile, a farsi paladino della battaglia contro l’innalzamento dell’età pensionabile (accettando piuttosto un taglio ulteriore ai già stremati enti locali, in contraddizione lacerante con la sua stessa ragion d’essere, il federalismo). E se le modalità d’azione – tra parolacce, pernacchie e dita medie alzate – possono sembrare giovanilistiche, il contenuto è un furto con scasso ulteriore al futuro e alla speranza dei giovani di questo paese.

E’ la tragica conferma di come la classe politica, vecchia d’età e di metodi, sia anche la rappresentante ufficiale della parte più anziana della società e dei suoi interessi, e solo di essa. E’ evidente che, tra tante cose dolorose da fare in tempi di crisi, quella di innalzare l’età pensionabile (tranne che per i lavori usuranti) e di parificare quella tra uomo e donna, è una di quelle da mettere in cantiere. Per una semplice ragione demografica: in un secolo la speranza di vita si è alzata di quasi trent’anni (e di quasi due anni per gli uomini e 1,3 per le donne solo nell’ultimo decennio, con veloce tendenza all’aumento), e le donne vivono mediamente sei anni più degli uomini. E per un’ovvia ragione di equità: chi manterrà questo esercito di pensionati poveri ma longevi saranno le nuove generazioni più povere di loro, su cui già abbiamo rovesciato l’onere pesantissimo del debito pubblico, e che vivono in un mondo del lavoro molto più duro, precario e concorrenziale dei loro genitori.

Preferire addirittura di tagliare ulteriormente i trasferimenti agli enti locali, che già hanno tagliato tutte le politiche sociali e culturali, e ovviamente in primis quelle rivolte ai giovani, è semplicemente criminale, in un paese che spende (dati Censis) il 60% della sua spesa sociale in pensioni (contro il 45% della media europea, e di paesi con un livello di protezione sociale molto superiore al nostro, come la Francia e la Germania), e solo un’infima parte per iniziative in favore dell’infanzia, dell’adolescenza, dei giovani e delle famiglie.

Naturalmente la Lega non è sola in questa difesa a oltranza dell’età pensionabile. Ha in buona compagnia la Cgil e i sindacati in genere (che non a caso vedono nei pensionati, ormai, la maggioranza dei loro iscritti), ma anche un ampio fronte dell’opposizione di sinistra. Quella parte, almeno, che non ha il coraggio di dire al suo elettorato delle scomode verità.

Giusto non considerare l’età pensionabile un modo “per chiudere il buco del giorno”, come dice Bersani. Inevitabile tuttavia parlarne, in una logica non di semplice riduzione dei costi, come fa attualmente la manovra del governo, ma di sviluppo e di ripresa, che fin qui non si è vista. In questa logica sarebbe normale investire piuttosto in ricerca e sviluppo (una spesa nello stesso tempo a favore dei giovani, della conoscenza e dell’impresa) un 3-4% in più di Pil, come fanno da anni gli altri paesi europei, mentre noi siamo fermi a mezzo punto percentuale (e i privati investono altrettanto poco). Alla lunga ne beneficerebbero anche i futuri pensionati, potendo contare su qualche certezza in più e un paese in ripresa anziché in declino.

Non farlo è la dimostrazione di un durissimo, anche se taciuto, conflitto sociale in atto: non più tra classi, ma tra generazioni.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Conflitto sociale tra generazioni, in “Il Mattino”, 25 agosto 2011, pp. 1-7 (Anche “La Tribuna di Treviso”)

On the road again. Brevi cenni su un universo in rapida mutazione

«Oltre ogni crisi, per un nuovo patto generazionale»: quello proposto per il cinquantesimo Convegno di CEM è un tema difficile, tra l’inquietante e lo spavaldo, o il coraggioso al limite dell’inconsapevolezza. Perché proporre, nel buio della crisi, la luce della ri-costruzione, del nuovo patto, presuppone un ottimismo della volontà di cui è difficile discernere i segni e fondare la ragionevolezza. Nondimeno, questa ricerca è necessaria: esperienzialmente urgente, moralmente inaggirabile. La cifra interpretativa di questo periodo è la transizione: ma verso dove? Cercheremo di decifrarne alcuni segnali, e proporre qualche chiave interpretativa, ricorrendo ad alcune metafore.
La prima è quella delle isole nella corrente, che descrive la nostra condizione umana  globale oggi, come individui e come gruppi. Ne analizzeremo alcune declinazioni, in ambiti molto diversificati, dalla famiglia alle religioni.
La seconda è quella del rapporto tra immigrati digitali e nativi digitali. La applicheremo anche ad altri ambiti, per delineare la portata della rottura generazionale odierna.
La terza è quella delle «seconde generazioni»: che riguarda gli immigrati, ma da cui cercheremo di trarre qualche benefico insegnamento, estendendone il significato.
La quarta la lasciamo in bianco, per ora. È quella che ci porta a capire se siamo davvero «oltre», e in che misura siamo «per». Ma, come lascia capire il titolo, è La strada. Quella dello scrittore Cormac McCarthy. Ma più in generale le strade da percorrere.
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Perchè l'Europa deve tornare a riflettere. Dopo la strage di Oslo

La strage di Oslo e dell’isola di Utoya, compiuta il 22 luglio dal killer solitario Anders Behring Breivik, al di là dell’approfondimento degli elementi di cronaca, pur importanti, e del bisogno di sedimentazione ulteriore, che richiederà tempo per essere ruminata adeguatamente, si presta fin d’ora ad alcune considerazioni.

La prima è d’obbligo. Tutti, all’inizio, avevano pensato ad un attentato di matrice islamica. Questo automatismo fa riflettere. Gli attentati condotti e gli atti di violenza perpetrati da fanatici islamici, in Europa, sono una percentuale infima degli attentati, delle bombe, delle stragi e degli assassinii compiuti, come ci confermano ogni anno i dati dell’Europol. Ad esempio, secondo il rapporto 2010, gli attentati terroristici in Europa sono stati 294 (con un calo netto rispetto al 2008, a sua volta in calo rispetto al 2007), di cui 237 di matrice separatista, 40 di estrema sinistra, 4 di estrema destra, 2 single issued (cioè legati a una causa specifica locale), 10 non specificati, e solo 1 (in Italia) di matrice islamica. Nonostante questo gli arresti per terrorismo sono stati nello stesso anno 587, di cui 413 di separatisti, 29 di militanti di estrema sinistra, 22 di estrema destra, 2 di terroristi single issue, 11 non specificati, e ben 110 di islamisti. Ugualmente le persone in carcere per reati di terrorismo erano 408, di cui 268 separatisti, 39 militanti di estrema sinistra, 1 di estrema destra, 11 non specificati, e 89 islamisti1. I dati si possono leggere in vari modi: considerando la sproporzione tra arrestati e carcerati islamisti rispetto agli attentati avvenuti ad opera di musulmani come un segno di efficace prevenzione (il dato è reale, e frutto della maggiore vigilanza rispetto a questo tipo di terrorismo: diversi attentati in vari paesi sono stati effettivamente sventati, e in luoghi dove potevano produrre molte vittime, come aeroporti e altri luoghi pubblici), ma anche come un segno di attenzione selettiva e di maggiore nervosismo rispetto a questo tipo di terrorismo (e magari di sottovalutazione di altri: col senno di poi, col senno di Oslo potremmo dire, certamente di quello di estrema destra).

Questo meccanismo che non è solo mediatico, anche se i media ne sono un amplificatore e una cassa di risonanza fenomenali, deve farci riflettere seriamente: ma non sulla presenza islamica in Europa – su di noi, Europei di nascita (senza dimenticare che vi sono Europei sia di nascita che di adozione che sono musulmani), e sul nostro atteggiamento nei confronti dell’islam e dei musulmani2. Perché è il frutto di una campagna di lungo periodo, che precede persino l’11 settembre 2001, e che mostra di essere molto efficace e pervasiva. La campagna della Lega contro le moschee, in Italia, comincia nel 20003, e prima ancora è nata l’islamofobia prodotta dal Front National in Francia e da altri attori politici di vari paesi4: questo, tanto per chiarire che non si tratta di una risposta alla violenza islamica nei confronti dell’occidente, ma di qualcosa di più profondo e di più antico. Questo riflesso pavloviano, dal quale sembra non si riesca ad uscire, nonostante le frequenti smentite (con il rischio di un attentato islamico che poi non avviene si aprono regolarmente i telegiornali in occasione di qualsiasi grande evento: olimpiadi, G8, Giubileo o quant’altro) e le occasionali conferme, non produce mai una messa in discussione, una riflessione, una richiesta di approfondimento autocritico, ad esempio all’interno del mondo giornalistico, che questo allarme diffonde, o in quello dei servizi di intelligence, che spesso contribuiscono a produrlo: va detto che il gridare al lupo islamico è mestiere che ha consentito fenomenali e ben retribuite carriere, nel giornalismo, tra le forze di sicurezza, in magistratura, e naturalmente in politica. Meno che mai si ricorda una qualche scusa a posteriori nei confronti dei musulmani, meglio ancora se pubblica. Eppure non si tratta di un meccanismo senza conseguenze e senza danni sulle vite di migliaia di musulmani che poi divengono l’occasionale bersaglio, se non necessariamente di violenze, certamente di rifiuto, di polemica, di ordinario harassing quotidiano, a scuola, nel mondo del lavoro, per strada.

E’ significativo il sospiro di sollievo tirato da tutte le comunità musulmane in Europa, nello scoprire che non era stato uno dei loro: perché si sapeva già quale tremendo prezzo si sarebbe pagato altrimenti. Ma è significativo anche il sospiro di sollievo di molti non musulmani, nel non dover confermare un pregiudizio che, così come viene comunemente formulato, porta dritto verso lo scontro di civiltà, che in questo caso, più che un fatto o anche solo una possibilità, è semplicemente una profezia che si autorealizza: ancora più inquietante, nella sua banalità e nel suo automatismo, proprio per questo. E’ un qualcosa che la stampa dei paesi musulmani, dopo Oslo, comincia a ricordarci: perché questo non lo chiamate terrorismo cristiano? Perché non ci costruite sopra una teoria del complotto? E non si può dire che l’argomentazione sia del tutto fuorviante.

La seconda riflessione da fare è invece sulla violenza interna all’Europa, che stiamo producendo e che sta emergendo in questi anni. Il timore del pericolo islamico ha prodotto un verminaio assai affollato di partiti, gruppi, siti, giornali, scrittori, intellettuali maggiori e minori, che competono nel facile e produttivo mercato dell’islamofobia un tanto al chilo. E’ il verminaio in cui ha attinto a piene mani l’assassino di Oslo, ricavandone la sua personalissima sintesi e la sua tragica conclusione. Non a caso molti di questi riferimenti li cita nel suo memoriale: ed è significativo che la vulgata xenofoba e islamofoba che ha riprodotto abbia già i suoi temi ricorrenti e alquanto ripetitivi, ma penetranti, diffusi, efficaci. Parole d’ordine, peculiarità interpretative, riferimenti valoriali, e anche precisi richiami linguistici: come il chiamare l’Europa Eurabia, neologismo inventato da Bat Ye’or ma portato al successo da Oriana Fallaci, pure essa, tra gli altri, citata5. E’ chiaro che non sarebbe né corretto né intelligente far ricadere sui suoi riferimenti intellettuali le colpe e le conseguenze delle azioni di Breivik: l’operazione è pericolosa e assai scivolosa sempre. Tuttavia non si può ignorare che esistono sul tema sia dei cattivi maestri (sì, proprio nel senso che si usava, a suo tempo e per altri ambienti politici, per Toni Negri ed altri) sia terribili praticanti e spesso solo praticoni, specie sul terreno politico, a cui tuttavia si concede, nel dibattito pubblico e sui media, uno spazio sproporzionato e senza contraddittorio, e soprattutto un linguaggio che non si concederebbe ad altri né soprattutto nei confronti di altri6. Vale la pena di ricordare che in molti discorsi politici, in troppi articoli di giornale, e persino in non rare esternazioni di responsabili religiosi, se sostituissimo la parola ‘musulmano’ con la parola ‘ebreo’ le stesse frasi verrebbero considerate semplicemente indicibili. La crescita dei partiti xenofobi e islamofobi in tutta Europa è lì a dimostrare che non si tratta solamente di un problema di bon ton. Certo, i musulmani, anche quelli europei, hanno le loro responsabilità nel prodursi di questo clima. Troppe incomprensioni, troppe scorciatoie, troppe leggerezze, troppi errori non meditati, troppo poco dibattito interno, e naturalmente qualche atto di violenza inaccettabile di troppo. Ma è il caso che, tutti, si cominci a riflettere seriamente su dove tutto ciò ci sta portando.

lunedì, 1 agosto 2011

Perché l’Europa deve tornare a riflettere

Stefano Allievi

È significativo il sospiro di sollievo tirato da tutte le comunità musulmane in Europa, nello scoprire che non era stato uno dei loro: perché si sapeva già quale tremendo prezzo si sarebbe pagato altrimenti. Ma è significativo anche il sospiro di sollievo di molti non musulmani, nel non dover confermare un pregiudizio che, così come viene comunemente formulato, porta dritto verso lo scontro di civiltà, che in questo caso, più che un fatto o anche solo una possibilità, è semplicemente una profezia che si autorealizza: ancora più inquietante, nella sua banalità e nel suo automatismo, proprio per questo. È un qualcosa che la stampa dei paesi musulmani, dopo Oslo, comincia a ricordarci: perché questo non lo chiamate terrorismo cristiano? Perché non ci costruite sopra una teoria del complotto? E non si può dire che l’argomentazione sia del tutto fuorviante.

La strage di Oslo e dell’isola di Utoya, compiuta il 22 luglio dal killer solitario Anders Behring Breivik, al di là dell’approfondimento degli elementi di cronaca, pur importanti, e del bisogno di sedimentazione ulteriore, che richiederà tempo per essere ruminata adeguatamente, si presta fin d’ora ad alcune considerazioni.

La prima è d’obbligo. Tutti, all’inizio, avevano pensato ad un attentato di matrice islamica. Questo automatismo fa riflettere. Gli attentati condotti e gli atti di violenza perpetrati da fanatici islamici, in Europa, sono una percentuale infima degli attentati, delle bombe, delle stragi e degli assassinii compiuti, come ci confermano ogni anno i dati dell’Europol. Ad esempio, secondo il rapporto 2010, gli attentati terroristici in Europa sono stati 294 (con un calo netto rispetto al 2008, a sua volta in calo rispetto al 2007), di cui 237 di matrice separatista, 40 di estrema sinistra, 4 di estrema destra, 2 single issued (cioè legati a una causa specifica locale), 10 non specificati, e solo 1 (in Italia) di matrice islamica. Nonostante questo gli arresti per terrorismo sono stati nello stesso anno 587, di cui 413 di separatisti, 29 di militanti di estrema sinistra, 22 di estrema destra, 2 di terroristi single issue, 11 non specificati, e ben 110 di islamisti. Ugualmente le persone in carcere per reati di terrorismo erano 408, di cui 268 separatisti, 39 militanti di estrema sinistra, 1 di estrema destra, 11 non specificati, e 89 islamisti [1]. I dati si possono leggere in vari modi: considerando la sproporzione tra arrestati e carcerati islamisti rispetto agli attentati avvenuti ad opera di musulmani come un segno di efficace prevenzione (il dato è reale, e frutto della maggiore vigilanza rispetto a questo tipo di terrorismo: diversi attentati in vari paesi sono stati effettivamente sventati, e in luoghi dove potevano produrre molte vittime, come aeroporti e altri luoghi pubblici), ma anche come un segno di attenzione selettiva e di maggiore nervosismo rispetto a questo tipo di terrorismo (e magari di sottovalutazione di altri: col senno di poi, col senno di Oslo potremmo dire, certamente di quello di estrema destra).
Questo meccanismo che non è solo mediatico, anche se i media ne sono un amplificatore e una cassa di risonanza fenomenali, deve farci riflettere seriamente: ma non sulla presenza islamica in Europa – su di noi, Europei di nascita (senza dimenticare che vi sono Europei sia di nascita che di adozione che sono musulmani), e sul nostro atteggiamento nei confronti dell’islam e dei musulmani [2]. Perché è il frutto di una campagna di lungo periodo, che precede persino l’11 settembre 2001, e che mostra di essere molto efficace e pervasiva. La campagna della Lega contro le moschee, in Italia, comincia nel 2000 [3], e prima ancora è nata l’islamofobia prodotta dal Front National in Francia e da altri attori politici di vari paesi [4]: questo, tanto per chiarire che non si tratta di una risposta alla violenza islamica nei confronti dell’occidente, ma di qualcosa di più profondo e di più antico.
Questo riflesso pavloviano, dal quale sembra non si riesca ad uscire, nonostante le frequenti smentite (con il rischio di un attentato islamico che poi non avviene si aprono regolarmente i telegiornali in occasione di qualsiasi grande evento: olimpiadi, G8, Giubileo o quant’altro) e le occasionali conferme, non produce mai una messa in discussione, una riflessione, una richiesta di approfondimento autocritico, ad esempio all’interno del mondo giornalistico, che questo allarme diffonde, o in quello dei servizi di intelligence, che spesso contribuiscono a produrlo: va detto che il gridare al lupo islamico è mestiere che ha consentito fenomenali e ben retribuite carriere, nel giornalismo, tra le forze di sicurezza, in magistratura, e naturalmente in politica. Meno che mai si ricorda una qualche scusa a posteriori nei confronti dei musulmani, meglio ancora se pubblica. Eppure non si tratta di un meccanismo senza conseguenze e senza danni sulle vite di migliaia di musulmani che poi divengono l’occasionale bersaglio, se non necessariamente di violenze, certamente di rifiuto, di polemica, di ordinario harassing quotidiano, a scuola, nel mondo del lavoro, per strada.
È significativo il sospiro di sollievo tirato da tutte le comunità musulmane in Europa, nello scoprire che non era stato uno dei loro: perché si sapeva già quale tremendo prezzo si sarebbe pagato altrimenti. Ma è significativo anche il sospiro di sollievo di molti non musulmani, nel non dover confermare un pregiudizio che, così come viene comunemente formulato, porta dritto verso lo scontro di civiltà, che in questo caso, più che un fatto o anche solo una possibilità, è semplicemente una profezia che si autorealizza: ancora più inquietante, nella sua banalità e nel suo automatismo, proprio per questo. È un qualcosa che la stampa dei paesi musulmani, dopo Oslo, comincia a ricordarci: perché questo non lo chiamate terrorismo cristiano? Perché non ci costruite sopra una teoria del complotto? E non si può dire che l’argomentazione sia del tutto fuorviante.
La seconda riflessione da fare è invece sulla violenza interna all’Europa, che stiamo producendo e che sta emergendo in questi anni. Il timore del pericolo islamico ha prodotto un verminaio assai affollato di partiti, gruppi, siti, giornali, scrittori, intellettuali maggiori e minori, che competono nel facile e produttivo mercato dell’islamofobia un tanto al chilo. È il verminaio in cui ha attinto a piene mani l’assassino di Oslo, ricavandone la sua personalissima sintesi e la sua tragica conclusione. Non a caso molti di questi riferimenti li cita nel suo memoriale: ed è significativo che la vulgata xenofoba e islamofoba che ha riprodotto abbia già i suoi temi ricorrenti e alquanto ripetitivi, ma penetranti, diffusi, efficaci. Parole d’ordine, peculiarità interpretative, riferimenti valoriali, e anche precisi richiami linguistici: come il chiamare l’Europa Eurabia, neologismo inventato da Bat Ye’or ma portato al successo da Oriana Fallaci, pure essa, tra gli altri, citata [5].
È chiaro che non sarebbe né corretto né intelligente far ricadere sui suoi riferimenti intellettuali le colpe e le conseguenze delle azioni di Breivik: l’operazione è pericolosa e assai scivolosa sempre. Tuttavia non si può ignorare che esistono sul tema sia dei cattivi maestri (sì, proprio nel senso che si usava, a suo tempo e per altri ambienti politici, per Toni Negri ed altri) sia terribili praticanti e spesso solo praticoni, specie sul terreno politico, a cui tuttavia si concede, nel dibattito pubblico e sui media, uno spazio sproporzionato e senza contraddittorio, e soprattutto un linguaggio che non si concederebbe ad altri né soprattutto nei confronti di altri [6]. Vale la pena di ricordare che in molti discorsi politici, in troppi articoli di giornale, e persino in non rare esternazioni di responsabili religiosi, se sostituissimo la parola ‘musulmano’ con la parola ‘ebreo’ le stesse frasi verrebbero considerate semplicemente indicibili. La crescita dei partiti xenofobi e islamofobi in tutta Europa è lì a dimostrare che non si tratta solamente di un problema di bon ton. Certo, i musulmani, anche quelli europei, hanno le loro responsabilità nel prodursi di questo clima. Troppe incomprensioni, troppe scorciatoie, troppe leggerezze, troppi errori non meditati, troppo poco dibattito interno, e naturalmente qualche atto di violenza inaccettabile di troppo. Ma è il caso che, tutti, si cominci a riflettere seriamente su dove tutto ciò ci sta portando.
[1]Per chi vuole controllare di persona, il link, assai poco frequentato da giornalisti e sedicenti esperti di islam, è il seguente: https://www.europol.europa.eu/content/publication/te-sat-2010-eu-terrorism-situation-trend-report-671 (si vedano in particolare le pagg. 10-11 e gli approfondimenti sul terrorismo islamico, non a caso quello di cui si parla per primo, da pag. 18 in avanti).
[2]Su cui si veda S. Allievi, Le trappole dell’immaginario. Islam e occidente, Forum, 2007.
[3] Il ‘settembre nero’ dell’islam italiano è quello appunto del 2000, quando il kulturkampf anti-islamico si manifesta in vari ambiti: con la pubblicazione e la favorevole accoglienza e diffusione di un saggio del politologo Giovanni Sartori, intitolato Pluralismo, multiculturalismo e estranei, zeppo di inesattezze, incongruenze e strafalcioni, ma di grande successo; con la lettera pastorale dell’allora cardinale di Bologna Giacomo Biffi, ugualmente diffusa e dibattuta, in ambito cattolico, che ha dato la voce ad una peculiare forma cattolica di islamofobia, fino ad allora silente; e appunto con la campagna politica della Lega, iniziata con il caso della moschea di Lodi e da allora mai conclusa, e anzi in continua evoluzione (sul caso italiano si vedano i miei Islam italiano, Einaudi, 2003, e I musulmani e la società italiana, Franco Angeli, 2009).
[4]V. Geisser, La nouvelle islamophobie, La Découverte, 2003; M. Massari, Islamofobia. La paura e l’islam, Laterza, 2006; C. Allen, Islamophobia, Ashgate, 2010.
[5]Su cui G. Bosetti, Cattiva maestra. La rabbia di Oriana Fallaci e il suo contagio, Marsilio, 2005, e S. Allievi, Ragioni senza forza, forze senza ragione, Emi, 2004, nonché Niente di personale signora Fallaci. Una trilogia alternativa, Aliberti, 2006.
[6]Paradigmatico ma tutt’altro che isolato il caso dell’europarlamentare leghista Borghezio, che solo questa volta è stato bonariamente sospeso per tre mesi dal partito, per aver dichiarato lo sproposito indicibile che, certo, i metodi no, ma le ragioni e del motivazioni del massacratore di Oslo erano del tutto condivisibili. Il parlamentare suddetto è un dichiarazionista professionale sul tema (non fa praticamente altro, del resto), campione di preferenze per questo motivo, eroe della base leghista assai festeggiato a Pontida, e mai in passato invitato a un linguaggio più sobrio, se non ad argomentazioni più serie.

1 Per chi vuole controllare di persona, il link, assai poco frequentato da giornalisti e sedicenti esperti di islam, è il seguente: https://www.europol.europa.eu/content/publication/te-sat-2010-eu-terrorism-situation-trend-report-671 (si vedano in particolare le pagg. 10-11 e gli approfondimenti sul terrorismo islamico, non a caso quello di cui si parla per primo, da pag. 18 in avanti).

2 Su cui si veda S. Allievi, Le trappole dell’immaginario. Islam e occidente, Forum, 2007.

3 Il ‘settembre nero’ dell’islam italiano è quello appunto del 2000, quando il kulturkampf anti-islamico si manifesta in vari ambiti: con la pubblicazione e la favorevole accoglienza e diffusione di un saggio del politologo Giovanni Sartori, intitolato Pluralismo, multiculturalismo e estranei, zeppo di inesattezze, incongruenze e strafalcioni, ma di grande successo; con la lettera pastorale dell’allora cardinale di Bologna Giacomo Biffi, ugualmente diffusa e dibattuta, in ambito cattolico, che ha dato la voce ad una peculiare forma cattolica di islamofobia, fino ad allora silente; e appunto con la campagna politica della Lega, iniziata con il caso della moschea di Lodi e da allora mai conclusa, e anzi in continua evoluzione (sul caso italiano si vedano i miei Islam italiano, Einaudi, 2003, e I musulmani e la società italiana, Franco Angeli, 2009).

4 V. Geisser, La nouvelle islamophobie, La Découverte, 2003; M. Massari, Islamofobia. La paura e l’islam, Laterza, 2006; C. Allen, Islamophobia, Ashgate, 2010.

5 Su cui G. Bosetti, Cattiva maestra. La rabbia di Oriana Fallaci e il suo contagio, Marsilio, 2005, e S. Allievi, Ragioni senza forza, forze senza ragione, Emi, 2004, nonché Niente di personale signora Fallaci. Una trilogia alternativa, Aliberti, 2006.

6 Paradigmatico ma tutt’altro che isolato il caso dell’europarlamentare leghista Borghezio, che solo questa volta è stato bonariamente sospeso per tre mesi dal partito, per aver dichiarato lo sproposito indicibile che, certo, i metodi no, ma le ragioni e del motivazioni del massacratore di Oslo erano del tutto condivisibili. Il parlamentare suddetto è un dichiarazionista professionale sul tema (non fa praticamente altro, del resto), campione di preferenze per questo motivo, eroe della base leghista assai festeggiato a Pontida, e mai in passato invitato a un linguaggio più sobrio, se non ad argomentazioni più serie.

http://www.resetdoc.org/story/00000021693/translate/Italian

Il caso Penati e i partiti invadenti

Bersani rivendica la diversità politica, non genetica, del PD. E’ un passo avanti rispetto ai tempi in cui il PCI rivendicava quest’ultima. Ma la diversità politica si misura non con le parole, ma con l’azione politica, cioè i fatti. E questa invece è ancora timida. Un fatto sarebbe promuovere la riduzione radicale dei costi della politica: dimezzamento dei parlamentari, riduzione significativa dei consiglieri regionali, e così via a scalare, ma anche riduzione drastica delle rispettive indennità, abolizione dei vitalizi e dei molti benefits nascosti. Si potrebbe fare da subito, a cominciare dai luoghi in cui il PD è forza di governo, e qualcuno ha cominciato a farlo: perché non diventa una battaglia a tutto campo, visibile e aperta? Un altro fatto, meno simbolicamente significativo ma più economicamente e moralmente incisivo, sarebbe l’uscita dalle società partecipate e la denuncia a tappeto dei consigli d’amministrazione abusivi e improduttivi che la politica produce, in enti inutili o francamente dannosi (il costo non è solo gli stipendi doppi e tripli o il gettone, su cui si concentra l’attenzione della pubblica opinione, ma la struttura stessa, la sua improduttività, o peggio la sua produttività sbagliata laddove il mercato potrebbe fare meglio, i suoi costi di gestione, e questo anche al netto della corruzione). La politica dovrebbe uscire dalle migliaia di società che ha prodotto, e dalle istituzioni che ha abusivamente occupato, dalla Rai alle Asl (in cui, in entrambi questi casi come in moltissimi altri, è entrata con la forte pressione e la totale compartecipazione delle forze di sinistra): così come è stata una scelta politica – sciagurata – entrarci, così potrebbe essere una scelta politica – vincente – uscirne, se solo la politica lo volesse davvero. Bisogna uscire dalla mentalità stessa che dà per scontato che le nomine nei consigli di amministrazioni, negli enti, nelle fondazioni, le fanno i partiti, o peggio i capibastone dei medesimi, con criteri di fedeltà (personale, nemmeno di partito) e non di merito, in ogni caso non trasparenti: su questo il PD non fa eccezione, né a livello nazionale né locale – non ricordiamo una sola occasione di discussione pubblica sui meriti o sui curricula dei vari nominati da questo o quel barone di partito anche nel più infimo degli enti.

Invece di sentirsi offesi perché la magistratura indaga e la stampa ci ricama sopra, minacciando querele e class action, ci vorrebbe una grande offensiva riformista, che vada al nodo del problema. E questa ancora non c’è. E’ vero che il PD, unico tra i partiti, si fa certificare il bilancio: ma di fronte alla tragica crisi di legittimità della politica che travolge anche il PD, è davvero troppo poco – una graziosa decorazione su una pietanza comunque immangiabile.

Il caso Penati è solo l’ultimo, ma non è uno qualsiasi, trattandosi del capo della segreteria politica dello stesso Bersani. E se anche fosse provato che non ci sono illegalità, c’è l’avallo a un’ipertrofia della politica, per cui è considerato normale che essa compri (malamente e a caro prezzo) azioni di società autostradali, o faccia triangolazioni con il potere economico (ti cedo una cosa – terreno, immobile, azioni – che tu rivenderai a prezzo più alto, lucrando una rendita che non assomiglia neanche un po’ all’economia di mercato, in cambio di qualcos’altro, incluso magari il coinvolgimento delle imprese a me vicine, esercitando una pressione soft che non è illegale ma è ugualmente una perversione del mercato). Penati non è un Verdini, e il primo si è dimesso dalle cariche istituzionali (ma non dal partito) mentre l’altro non lo farebbe neanche dipinto né nessuno glielo ha chiesto. La diversità è questa. Ma non basta più.

La consapevolezza dell’urgenza del tema sembra tragicamente assente, per una ragione perfino antropologica, che coinvolge anche i dirigenti del PD. Non si può chiedere di abbandonare il metodo dell’occupazione della società e dell’economia da parte della politica alle stesse persone che l’hanno sempre praticata. Il rinnovamento vero dei metodi della politica si fa anche non facendo fare carriera e non candidando più chi quei metodi li ha praticati per storia e tradizione, come se fosse ovvio (e non ci riferiamo alle illegalità, ma all’onninvadenza della politica). Bisogna scegliere uomini e donne che non pensino più che tutto questo è normale. E’ questa la diversità politica che ancora non si vede.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Il caso Penati e i partiti invadenti, in “Il Mattino”, 29 luglio 2011, pp. 1-5 (anche “La nuova Venezia” e la“Tribuna di Treviso”)

Dopo le isterie, le vere moschee da fare

Se c’è qualcosa di cui l’Occidente può essere legittimamente fiero, e che dà senso alla sua storia, è la sua capacità di sancire, proteggere e progressivamente allargare la sfera delle libertà degli individui e degli attori sociali collettivi, dalle imprese ai partiti. All’origine di queste libertà – in Europa e, ancora più fortemente, negli Stati Uniti – vi è la tutela delle libertà religiose, e in particolare la protezione dei diritti delle minoranze, dato che le maggioranze, avendo il potere, si tutelano da sé. Universalismo (il fatto, banale ma che è utile ripetere, che la legge è uguale per tutti) e quindi pari dignità e parità di trattamento, tutela delle minoranze, costruzione di uno spazio laico (che non significa, riduttivamente, neutrale) a tutela di tutti, sono quindi principi cardine dello spazio pubblico occidentale, irrinunciabili, “non negoziabili”, per mutuare la formula oggi di moda presso alcuni attori religiosi.

Tuttavia questo stesso Occidente, e l’Europa continentale in particolare, sembra oggi singolarmente incapace di accettare e rendere pratica quotidiana questi suoi principi fondativi, soprattutto alla luce dell’accentuato pluralismo religioso attualmente disponibile, che precede l’arrivo delle nuove migrazioni, ma che da queste è reso radicalmente più visibile. Non solo la visibilità delle comunità religiose è posta in questione – a proposito dei loro simboli, delle loro pratiche, dei loro codici vestimentari, dei loro edifici di culto – ma persino, in alcuni casi, la legittimità della loro presenza. La questione della visibilità nello spazio pubblico è tuttavia quella dirimente, perché si traduce in pratiche istituzionali di tipo discriminatorio che possono collidere – e di fatto spesso collidono – con i principi fondativi dello Stato e le sue norme, ma anche solo con le regole che sono alla base della civile convivenza.

La questione è generale, e può riguardare occasionalmente tutte le minoranze religiose. Ma di fatto essa si manifesta in particolare a proposito dell’islam, considerato, a torto o a ragione, il caso più estremo o comunque più problematico di diversità religiosa. E questo in diversi ambiti: dalle politiche di genere ai luoghi di culto. Ciò avviene anche per l’esistenza di imprenditori politici della paura, e dell’islamofobia in particolare, che hanno fatto della lotta all’islam, attraverso la lotta ai suoi segni di visibilità, un cardine delle loro politiche e della loro ricerca di consenso.

Le moschee, per citare un esempio significativo, fanno notizia, e fanno – nel senso che producono, soprattutto in chi le avversa – politica, anche prima di esistere. Quasi ogni volta che in qualche città europea (e con frequenza forse più significativa nelle città italiane, o più propriamente in quelle del Nord Italia) si pone il problema di costruire una moschea, partono le discussioni, le riflessioni, le controdeduzioni, ma anche, sempre più spesso, i conflitti. Milano è un caso paradigmatico e per certi versi clamoroso di questo meccanismo. Ancor prima di esistere la moschea è diventata strumento – e strumento considerato strategico, primario – di conflitto elettorale: tra il tentativo abortito di presentare una lista intorno alla figura del responsabile di una delle principali sale di preghiera, Abdel Hamid Shaari, e la sconcertante (ma, alla fine, perdente) strumentalizzazione che Letizia Moratti e la Lega hanno fatto delle posizioni di Giuliano Pisapia, cavalcando spudoratamente paure esagerate ad arte, paventando la creazione del più grande centro islamico d’Europa, cercando di mobilitare i quartieri con messaggi che volevano trasmettere inquietudine (“Milano zingaropoli … con la più grande moschea d’Europa” e “Moschea a Milano. E se fosse nel tuo quartiere?”, dicevano i manifesti della Lega affissi ovunque appena prima del ballottaggio).

Questo, tuttavia, in un Paese dove a fronte delle 764 sale di preghiera musulmane censite, vi sono solo 3 moschee (Catania, Segrate e Roma), di cui solo 2 utilizzate (quella di Catania è proprietà di un privato, nemmeno musulmano), e solo una, quella di Roma, è una vera moschea monumentale, mentre quella di Segrate, alla periferia di Milano, è così piccola e sottodimensionata – poco più che una dichiarazione simbolica di esistenza – che i fedeli pregano da sempre in una sala attigua. Giusto per fare un confronto europeo, oltre a essere in numero più cospicuo le sale di preghiera, le moschee costruite ad hoc sono quasi 200 in Francia, oltre un centinaio in Gran Bretagna, quasi altrettante in Olanda, una settantina in Germania; e anche Paesi con meno musulmani dell’Italia ne hanno comunque di più: 4 in Svizzera, 5 in Austria, 7 in Portogallo e Svezia, 14 in Spagna. Mentre i progetti di costruzione in itinere, a vari livelli di avanzamento, sono quasi 200 in Germania, una sessantina in Francia, una quindicina in Olanda e in Grecia, e solo 6 o 7 in Italia1.

Ecco quindi che il caso di Milano assurge a una indubbia significatività, dato che non c’è praticamente grande città in Europa che non abbia al suo interno una o più moschee, esattamente come ha chiese cattoliche e protestanti, sinagoghe, sale del regno dei testimoni di Geova, templi buddhisti, hindu e sikh, e molto altro ancora, con maggiore o minore visibilità secondo la presenza quantitativa, la forza e la ricchezza delle rispettive comunità.

Il problema non è tanto il se, ma il come. Sul ‘se’ aveva già dato una risposta, a suo tempo, il sindaco Albertini, indicando la costruzione di una moschea come un obiettivo ovvio e del tutto ragionevole; e lo dà soprattutto la logica delle cose. Sul come si può solo discutere sul dove e il quando, in termini di sensatezza dei progetti e con meri tecnicismi urbanistici, essendo urbanistica e comunale la competenza riguardo ai luoghi di culto. In questo senso era solo una forma di illegittimo scaricabarile il tentativo del sindaco Moratti di chiedere un parere al ministro dell’Interno Maroni, al solo scopo di guadagnare tempo continuando a penalizzare le comunità islamiche milanesi, impossibilitate ad avere un luogo di culto degno di questo nome: dove anche la bellezza e la dignità sono una qualificazione fondamentale, che significa integrazione non solo simbolica, e possibilità di espletare meglio i fini propri delle comunità religiose, a tutto vantaggio della società e della città nel suo complesso, che ne guadagna in fiducia, gratitudine e, non ultimo, controllo sociale e sicurezza. Ugualmente relative al ‘se’ sono le discussioni su se sia meglio prevedere una sola grande moschea cittadina o diverse. L’esperienza delle metropoli europee comparabili a Milano ci dice che una cosa non esclude l’altra, e che si deciderà nel confronto tra istituzioni e parti sociali: sapendo che la maggioranza degli attori sociali islamici propende per ora più per la pluralità di luoghi di culto di medie dimensioni che non per un’unica grande ‘moschea cattedrale’, che porrebbe problemi anche di costo, di gestione e di egemonia, stante la peraltro legittima pluralità interna alle comunità islamiche.

L’importante è che si proceda, e in fretta, anche in vista dell’Expo. Sarebbe umiliante di fronte alle decine di migliaia di visitatori musulmani che si prevede arriveranno, dover rispondere che no, purtroppo, un luogo di preghiera per loro la civile Milano, che si vuole capitale morale e metropoli globale, non l’ha nemmeno previsto. Ma sarebbe umiliante e controproducente soprattutto per i vecchi cittadini e i nuovi residenti della città, sapendo che gli uni e gli altri (e di musulmani ce ne sono in entrambe le categorie) hanno il diritto di vedersi riconosciuto un diritto costituzionale che è loro concesso senza condizioni. In questo senso anche le proposte di referendum pro o contro la moschea sono irricevibili. Per la semplice ragione che le maggioranze non hanno il diritto di decidere sui diritti delle minoranze, pena l’affossamento delle fondamenta stesse dell’Occidente.

In termini di principio la questione delle moschee nemmeno dovrebbe sussistere, perché non c’è nulla di più ovvio e naturale che delle comunità religiose, immigrate o meno, desiderino propri luoghi di culto e possano godere degli stessi diritti che le costituzioni europee garantiscono a tutti, maggioranze e minoranze. Si affrontino dunque solo i termini di fatto, con buon senso e ragionevolezza da entrambe le parti: sapendo che alla parte islamica è richiesto un supplemento di intelligenza e capacità comunicativa nel sapersi confrontare con il resto della città, che ha il diritto di sapere e di confrontarsi, oltre all’ovvio rispetto delle normative associative e urbanistiche. Uscendo anche, tutti quanti, dall’idea di considerare normale il rappresentarsi la città come un conflitto di civiltà in sedicesimo, in cui anche il linguaggio scivola spesso oltre i limiti dell’accettabile, se non del lecito (basta sostituire alla parola musulmano la parola ebreo o cristiano, in taluni discorsi politici o articoli di giornale a proposito di moschee, per accorgersene). In questo la Chiesa cattolica cittadina e le confessioni religiose minoritarie, a cominciare da quelle storiche come gli ebrei e i valdesi, hanno svolto un ruolo di guardiani della civiltà giuridica e di salvaguardia dei principi, non solo del buon senso religioso, che non hanno svolto altri. E questo, insieme alla volontà delle istituzioni, è già un buon terreno su cui costruire.

Stefano Allievi

1 Per i dati e una analisi del problema si veda S. Allievi, La guerra delle moschee. L’Europa e la sfida del pluralismo religioso, Venezia, Marsilio, 2010. Per una comparazione dettagliata a livello europeo S. Allievi (a cura di), Mosques in Europe. Why a solution has become a problem, Londra, Alliance Publishing Trust, 2010.

Allievi S. (2011), Dopo le isterie, le vere moschee da fare, in “Reset”, n. 126, luglio-agosto 2011, pp. 44-46