Quarta puntata. La nuova classe dirigente: Non possono essere sempre le stesse facce
La crisi italiana non aspetta: l’intervento chirurgico dovrà essere profondo ed esteso. Pari almeno alla gravità della malattia: alla decomposizione del sistema politico, alla crisi di quello economico, alla senescenza delle istituzioni, al degrado complessivo del sistema paese.
Se è vero che ci troviamo in una sorta di dopoguerra, a ricostruire il Paese dalla sue fondamenta e con le sue macerie, in un clima quasi costituente, dobbiamo innanzitutto essere capaci di trovare le risorse migliori per guidare questo processo, liberando le tante energie inespresse (o compresse) e il desiderio di ricostruzione morale e materiale che nonostante tutto lo attraversa. Ma questo non può farlo una leadership che è già stata condannata dalla storia, e dai suoi risultati. Un problema che è del ceto politico nel suo complesso, non solo di un partito, anche se il disastro economico e la bancarotta civile non sono equamente distribuiti: qualcuno (la coalizione uscente) porta evidentemente una responsabilità maggiore.
Non è immaginabile che a guidare la nuova stagione politica del Paese siano le stesse persone che l’hanno occupato – più che guidato – fino ad ora. Andreste dal medico che ha già sbagliato tante volte nel diagnosticare la vostra malattia, e non ha mai azzeccato la cura? Iscrivereste vostro figlio a una scuola dove l’incompetenza, la superficialità e il pressapochismo sono la norma? Comprereste un’auto da un concessionario che sapete essere un parolaio e un mentitore? Fareste progettare la vostra casa ad architetti dalle parcelle altisonanti, e usi alla percentuale, ma scelti non per capacità e merito, inesperti e per di più arroganti? Vi fidereste di un manager che dice la sua su ogni cosa senza mai chiedere consiglio a chi ne sa di più, incapace di visione, con un orizzonte temporale che non va al di là della prossima chiusura di bilancio (le elezioni), incapace di progettare a lungo termine, di pensare alle prossime generazioni? Ebbene: può, allora, la stessa classe politica che ha portato l’Italia nel baratro, può un ceto politico autocentrato, separato dal resto della società da privilegi che ne hanno fatto una casta, convinto della propria insostituibilità, incapace di lettura della realtà, pretendere di continuare a governare questo Paese? No, evidentemente.
Occorre dunque un ceto politico diverso, attraverso meccanismi nuovi di selezione delle leadership, possibilità di scelta da parte dei cittadini, limiti di mandato per favorire il ricambio, fine dei privilegi che richiamano alla politica i lupi affamati e gli arrivisti senza qualità. Come arrivarci? Con un patto sulle regole. Cambiando sistema elettorale, per cominciare. Consentendo ai cittadini di scegliere, altrimenti non è democrazia. Favorendo la battaglia delle idee e delle persone. Attraverso collegi uninominali, o il doppio turno, o almeno il ritorno delle preferenze.
Ma scegliere tra i peggiori è ancora troppo poco. Occorre favorire l’emergere dei migliori, e la possibilità di conoscerli e di selezionarli. Attraverso forme di partecipazione del corpo elettorale, non solo degli iscritti ai partiti: che sono preziosi ma sono sempre meno (salvo gli usuali miracoli pre-congressuali che chissà come ne decuplicano il numero) e troppo spesso inascoltati, usati solo come megafoni di decisioni calate dall’alto, per promuovere carriere e leadership selezionate in maniera opaca. Le primarie sono un sistema efficiente: perché consentono di svecchiare un ceto dirigente inevitabilmente arroccato sulla propria difesa, favorendo la partecipazione di forze che fanno altrimenti fatica ad emergere. Merito al PD di averle introdotte in Italia con successo, tanto che anche il PDL comincia a pensarci, e altri pensano addirittura di renderle obbligatorie per legge. Non a caso tuttavia molti si adoperano per svuotarle di contenuto, con regolamenti che tendono ad escludere anziché ad includere, o affidando le ‘preselezioni’ alle gerarchie, magari attraverso forme di democrazia interna più o meno controllata.
Un altro mezzo fondamentale è il limite al numero di mandati elettivi nello stesso ruolo: per favorire la mobilità e il ricambio, non solo generazionale, e farla finita con i politici a vita. Le quote di genere possono ulteriormente favorire lo scopo di portare aria e persone nuove, non foss’altro che obbligando una parte dei gerontocrati maschi a farsi da parte.
La fine dei privilegi, dei vitalizi, dei pensionamenti dorati, della distribuzione di prebende attraverso l’occupazione abusiva delle risorse e delle istituzioni pubbliche, gli enti e i consigli di amministrazioni inutili, sono il corollario finale.
Possiamo pensare che chi ha prodotto la situazione attuale voglia davvero cambiarla, e quand’anche lo volesse, lo sappia fare? La risposta è ancora no: per cui dobbiamo cambiare loro. La sfida è cruciale. Si tratta dell’ultimo treno in partenza per la riforma democratica del nostro Paese.
4 – fine
Stefano Allievi
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Allievi S. (2011), Quarta puntata. La nuova classe dirigente: Non possono essere sempre le stesse facce, in “Il Mattino”, 17 novembre 2011, p. 39