Secolo 1sett2024 Festival comunicazione
In occasione del Festival della comunicazione di Camogli, il 15 settembre si svolgerà un dibattito cui parteciperanno Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, e Federico Fubini, vice-direttore del Corriere della sera, insieme al sottoscritto. Per presentarlo mi è stato chiesto questo contributo, pubblicato su due intere pagine del quotidiano ligure Il Secolo XIX (nel link che precede, il pdf).
Non si capisce una barca con cento migranti che galleggia precariamente nel Mediterraneo se si guarda solo ad essa. Per capire di cosa si tratta veramente, bisogna guardare al contempo più da lontano e ancora più vicino: guardare cosa succede in Africa e in Europa, a Lagos o a Bruxelles (dal punto di vista demografico, economico, sociale, politico, ambientale…), da un lato, ed entrare nella testa, nel corpo e nei sogni di qualcuno di quei migranti, e nella vita di chi si ritroverà ad avere a che fare con loro, dall’altro. E, per inciso, questo riguarda tutti coloro che migrano: gli immigrati in Italia come gli emigranti dall’Italia, che pure sono in crescita tumultuosa, nell’inconsapevolezza dei più.
Solo così potremo sperare di capire quel fenomeno che chiamiamo migrazione (spesso aggiungendovi una caratterizzazione enfatica: emergenza, dramma, crisi…): che non ha facili spiegazioni monocausali, ma implica invece un insieme molto ampio di fattori, tra loro interrelati. È dalle loro interconnessioni, infatti, più che dall’approfondimento di ciascuno di essi, che possiamo sperare di capire qualcosa di quanto sta succedendo intorno a noi, compresa quella barca che galleggia precariamente nel Mediterraneo.
Non si capiscono infatti le migrazioni se non le intrecciamo ad altre forme di mobilità: delle informazioni, del denaro, delle merci, e naturalmente delle persone. La “rivoluzione mobiletica” in corso sta accentuando la nostra propensione alla mobilità, anche a prescindere dalle migrazioni vere e proprie: ci muoviamo per studio, interesse, cultura, sport, eventi globali come mostre, expo, campionati, olimpiadi, tournée, per fame di esperienze e per amore, per una mobilità intrinseca al nostro lavoro e non solo per cercarlo, per non parlare del turismo, che da solo rappresenta la principale ‘industria’ globale e il dieci per cento del PIL e dell’occupazione mondiale, oltre che a causa di push factors come guerre e carestie, catastrofi naturali e indotte dall’uomo come quelle climatiche, fino ai pendolarismi urbani, agli esodi agostani, ai week-end fuori porta, alle serate che si salvano dall’essere inconcludenti solo nell’essere itineranti (come in Certe notti che cantava Ligabue, in cui “ci ritroveremo come le star a bere del whisky al Roxy bar”, come nella Vita spericolata di Vasco Rossi), a testimonianza della nostra connaturata irrequietezza. E del fatto che oggi siamo mobili in misura maggiore rispetto ai nostri genitori e ai nostri nonni.
La nostra storia di mobilità, come specie, viene da lontano: dalla preistoria. Da quando i nostri progenitori, i vari homo in cui siamo evoluti – fino all’ultimo, i Sapiens, di cui facciamo parte (qualcuno forse abusivamente) –, hanno abbandonato l’Africa per popolare l’intero globo, facendo del nomadismo una costante della storia umana – la sua fisiologia, non la sua patologia, la norma, non l’eccezione. Se facessimo pari a 24 ore la storia dell’umanità siamo stati nomadi per 23 ore e 54 minuti, secondo più secondo meno: cacciatori e raccoglitori prima, poi pastori, solo recentemente – dalla rivoluzione neolitica, diecimila anni fa – contadini e infine urbanizzati, e negli ultimi secondi di nuovo potentemente mobili, grazie anche all’innovazione tecnologica, che ha reso il viaggiare, per chi può farlo legalmente e liberamente, mai così veloce, economico, sicuro e dunque ripetibile e reversibile).
Ma non si capiscono le migrazioni, in ingresso e in uscita, nemmeno se non le colleghiamo ad altri fenomeni, a cominciare dalla demografia, per continuare con le trasformazioni nel mercato del lavoro e le sue esigenze di manodopera, il livello di istruzione di chi arriva e di chi parte, l’ambiente, e altro ancora. La demografia è il primo e principale fattore correlato, dato che fa dell’Italia il paese più vecchio d’Europa e uno dei più vecchi del mondo (e non abbiamo ancora capito con quali devastanti conseguenze). Un paese che ha più morti che nati (con una differenza in negativo che è pari annualmente alla popolazione di una città come Padova, che evapora senza sostituzione), con più figli che si prendono cura dei genitori che genitori che si prendono cura dei figli, in cui si vendono più pannoloni che pannoloni, in cui il 45% (quasi la metà) delle donne in età fertile non ha figli a fronte di solo un 5% che dichiara di non volerne. Un paese in cui importiamo immigrati con relativamente bassa scolarizzazione (e con sbocchi lavorativi che del resto non la richiedono), ma comunque in numero largamente insufficiente al fabbisogno, ed esportiamo laureati in percentuale doppia rispetto ai giovani autoctoni che rimangono, pur avendo la metà dei laureati rispetto alla media europea. Un paese, come ricorda Federico Fubini citando il recente intervento del governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, in cui nei prossimi 15 anni il numero di persone in età di lavoro si ridurrà di 5,5 milioni, anche ipotizzando un afflusso netto di 170 mila immigrati all’anno: a parità di tutto il resto, questo fossato demografico renderebbe l’economia italiana più piccola del 13% e ridurrebbe il reddito per abitante di circa un decimo.
Un paese, anche, che dispone di nuovi cittadini, figli degli immigrati, in gran parte nati e scolarizzati qui (in numero insufficiente, ma è pur sempre qualcosa) ma si rifiuta di riconoscerli come tali, rimandando loro un’immagine di diversità e di rifiuto che è l’opposto dei processi di integrazione che pure si dichiara di volere, anzi di pretendere. In cui il voler vestire un foulard o pregare in una moschea costituiscono un percorso a ostacoli, stigmatizzato in ogni modo, che fa venire la voglia di scappare anche ai più volonterosi. E infatti molti scappano davvero: tra chi va via c’è anche una parte significativa di onward migrations, le seconde migrazioni di prime e seconde generazioni, spesso proprio dopo aver acquisito quella cittadinanza che facciamo di tutto per negargli, ma che gli apre le porte per paesi europei più lungimiranti e accoglienti.
A fronte di questo scenario, è necessario agire, non solo reagire. L’Europa, non solo l’Italia (anche se l’Italia, in molti indicatori, è messa peggio dei paesi con cui si confronta nel mercato globale come nella vita civile) rischia infatti di crollare sotto il peso delle migrazioni: o meglio, sotto il peso delle sue contraddizioni interne a proposito delle migrazioni.
Riaprire canali di ingresso regolari
La prima e fondamentale proposta. A partire dagli anni ’70, tutti i paesi europei hanno progressivamente chiuso gli accessi regolari agli immigrati. Lo shock petrolifero, la crisi economica, il crescere di pezzi di opinione pubblica e partiti anti-immigrati, hanno spinto i governi a chiudere all’immigrazione regolare, nell’illusione di fermarla. Ma, così facendo, hanno semplicemente aperto all’immigrazione irregolare, e non poteva essere altrimenti.
C’è da stupirsi, infatti, se, non potendo arrivare legalmente, molti ci provano nell’unico modo possibile, ossia illegalmente? È evidente per chi scappa da una guerra o da una persecuzione etnica o religiosa: fuggirebbero anche in zattera, sapendo di correre gravi rischi – tanto le prospettive a casa loro sarebbero peggiori, ammesso che una casa ce l’abbiano ancora. Ma lo fanno anche altri. Producendo così una forte immigrazione irregolare (che, se fosse regolamentata, potrebbe inserirsi molto più facilmente e non creerebbe i problemi che vediamo, anche rispetto alla percezione dell’opinione pubblica). Paradossalmente, dunque, sono proprio i paesi europei, Italia in primo luogo, con la loro legislazione, a produrre migrazioni irregolari che potrebbero invece essere in gran parte regolari e regolate, e definitive laddove potrebbero essere temporanee e reversibili, se ci fosse la possibilità di andare e tornare senza problemi.
Dunque la prima cosa da fare è quella di riaprire canali regolari di immigrazione, concordati con i paesi d’origine, anche selezionati in base alle esigenze del mercato del lavoro. Esigenze che in Europa ci sono, trattandosi di un continente che perde ogni anno 3 milioni di lavoratori, che vanno in pensione, e non sono sostituiti da nessuno (i loro posti restano dunque vacanti) semplicemente perché chi avrebbe dovuto sostituirli non è mai nato. Mentre il fabbisogno italiano è stimato in 3-400mila lavoratori l’anno: molti di più – non di meno – di quelli che oggi arrivano irregolarmente, via mare o via terra o in qualunque altro modo. Occorre ribadirlo: se non c’è mano d’opera, le imprese vanno altrove – e se non ci sono gli operai, non ci saranno neanche gli impiegati e i dirigenti. C’è quindi anche questo effetto recessivo paradossale e non previsto dietro l’idea del blocco dell’immigrazione per salvaguardare il lavoro degli autoctoni… Meno immigrati, come documentato ampiamente da Bankitalia, vorrà dire meno lavoro per gli autoctoni, non di più.
Una politica di apertura all’ingresso regolare sarebbe anche l’unica vera legittimazione politica – oltre che un’utile moneta di scambio – per una politica della fermezza, da attuare senza tentennamenti, all’immigrazione irregolare. E potrebbe essere promossa con la collaborazione dei paesi di origine e di transito dei migranti, stabilendo degli accordi che sarebbero anche un riconoscimento di pari dignità tra partner (è quello che dice, ma non fa, anche il cosiddetto Piano Mattei). Ciò non significa invece appaltare i costi e l’impopolarità dell’accoglienza – più correttamente del trattenimento – dei migranti ad altri paesi in cambio di denaro, come si è fatto con la Turchia, e si sta tentando di fare con Libia, Tunisia, Albania ed altri. Perché non si può pensare di sigillare tutto il Mediterraneo (Libia inclusa: un buco, peraltro, che è stato aperto dall’Europa), e perché rischia di diventare un’arma di pressione e di ricatto – un’arma di migrazione di massa, come è stato notato – da far scattare con qualche sbarco mirato tutte le volte che si intende alzare la posta.
Una apertura, dicevamo, controllata e selezionata: è da quando ci sono le migrazioni irregolari che il livello di istruzione medio dei migranti è calato drammaticamente, rendendo più difficili e costose le dinamiche di integrazione; riportare le migrazioni sotto il controllo degli stati consentirebbe di ritornare a una situazione più accettabile anche per il mercato del lavoro e per le società europee. Inoltre, questo diminuirebbe l’arrivo di minori stranieri non accompagnati. Nella storia delle migrazioni sono sempre partiti i padri e le madri. Da qualche anno assistiamo a un aumento esponenziale dei minori, ormai quasi tutti tra i 16 e i 18 anni e maschi: segno che è una filiera migratoria in sé, prodotta precisamente dal blocco dell’arrivo regolare degli adulti – anche questa, dunque, paradossalmente, figlia della nostra legislazione di progressiva chiusura all’immigrazione regolare di adulti e al ricongiungimento familiare. Riaprire i canali regolari ridurrebbe a dimensioni molto più contenute anche questa drammatica anomalia.
Parlare alle pubbliche opinioni: un’iniezione di verità
Tale politica sarebbe anche un segnale forte per dare la sensazione, ai cittadini, che lo stato controlla, attraverso i flussi, i confini, non più forzati dai disperati sui barconi o da quelli che ci arrivano via terra. E sappiamo quanto questa sensazione, questa paura, sia stata determinante nel far emergere sentimenti di frustrazione e di rabbia, e quindi di xenofobia (di cui stanno pagando il prezzo anche gli immigrati arrivati negli scorsi decenni e già integrati: il rifiuto degli stranieri non va troppo per il sottile, nel distinguere tra neo-arrivati e altri immigrati, magari di seconda generazione e/o cittadinizzati) e nel cambiare di conseguenza gli equilibri politici dell’Europa, al punto da mettere a rischio la sua stessa esistenza.
Dopodiché, occorre ripensare e riformulare la stessa distinzione attuale tra richiedenti asilo e migranti economici, allargando le maglie dal lato di questi ultimi: dato che anche questa distinzione, come è trattata ora, è figlia della chiusura delle frontiere (e ha portato alla demonizzazione dei migranti economici, che sono invece sempre stati la norma, e lo sono tuttora – e ne abbiamo un enorme bisogno). Per i rifugiati bisogna trarre le opportune lezioni dall’efficacia di misure sperimentali come i corridoi umanitari, che vedono la Comunità di Sant’Egidio e la Chiesa Valdese, tra i promotori: di fronte a tragedie umanitarie, che peraltro i paesi occidentali hanno spesso cooperato a produrre, non si può pensare ad alcuna selezione, ma nemmeno si può aspettare che chi scappa da esse arrivi nei nostri mari e sulle nostre coste; a costo inferiore, con maggiore efficacia e giustizia sociale possiamo andarli a prendere ed aiutarli, come doveroso. Mentre per gli altri tipi di migranti siamo giunti all’assurdo per cui, impedendo le migrazioni regolari, costringiamo gli irregolari che sono migranti economici a dichiararsi richiedenti asilo, anche se in maggioranza non lo sono, perché è semplicemente l’unico modo per restare in Europa. Chiediamo loro, in sostanza, di mentirci, in modo da legarci da soli le mani attivando lunghe, costose e inutili pratiche di riconoscimento che arriveranno nella maggior parte dei casi a smentirli: producendo a loro volta un’ulteriore presenza di immigrati irregolari, data la difficoltà e il costo di implementare politiche di rimpatrio significative – tanto più in mancanza della collaborazione dei paesi di provenienza.
Tanto vale riaprire canali regolari di ingresso per i migranti economici, bloccare o diminuire significativamente gli arrivi irregolari attraverso accordi, e consentire di attivare le pratiche di richiesta di asilo solo per coloro che ragionevolmente hanno qualche titolo per ottenerlo: e per i richiedenti asilo ‘veri’, e solo per questi ultimi, dovrebbe essere garantito un accesso universale, senza condizioni e forme di selezione.
A valle degli arrivi: gestire l’integrazione
Fino a qui abbiamo visto soprattutto cosa accade a monte degli sbarchi, e le possibili soluzioni che si possono porre in atto. Ma anche a valle c’è molto da fare. Innanzitutto occorre uscire, oltre che dall’emergenza, dalla mentalità emergenziale, che continua a farci gestire un fenomeno che in sé è strutturale con soluzioni improvvisate e totalmente prive di strategia. Bisogna passare dall’accoglienza emergenziale all’integrazione strutturata: fatta di agenzie nazionali che si occupano davvero della questione, che indicano criteri minimi di integrazione, che controllano, selezionano, valutano e respingono le associazioni e gli organismi che non lavorano all’altezza degli standard individuati. L’integrazione è fatta di apprendimento rapido e intensivo della lingua, di conoscenza della cultura del paese in cui ci si trova, di formazione professionale (tanto più importante dato il basso livello di istruzione di partenza) e di orientamento al lavoro: presuppone dunque delle linee guida stringenti e l’attivazione delle professionalità necessarie (en passant: si tratta di un mercato del lavoro specializzato che si apre, soprattutto per professionalità autoctone). Se pensata come tale, si tratta di un investimento (come lo è la scuola, per capirci): che in pochi mesi (comunque a molto minor prezzo di un percorso scolastico tradizionale), può creare cittadini e lavoratori integrabili nella società e nel mercato del lavoro. Diversamente, se limitata all’accoglienza e a un generico diritto di permanenza, rischia di essere una spesa improduttiva, che per giunta può produrre in misura significativa dropout e irregolari che possono diventare problematici per la società.
E poi, c’è tutta l’enorme partita dei processi di integrazione, della costruzione di meccanismi di inclusione reale (a cominciare dalla cittadinanza, in particolare a partire dalle cosiddette seconde generazioni), di riconoscimento simbolico delle specificità culturali e religiose compatibili con il quadro normativo europeo. E qui il dibattito sullo ius scholae fa comprendere in maniera disarmante quanto manchi ancora, da parte del ceto politico, la comprensione minimale dei fondamentali dei processi in atto. Manca la conoscenza dei dati di base. Manca la consapevolezza. Figuriamoci se c’è il minimo di volontà politica necessario.
I flussi migratori sono per l’appunto flussi, come tali regolabili e canalizzabili, almeno in buona misura. Sta a noi decidere se lasciare i flussi migratori all’anarchia di un mercato primitivo, e alla volontà dei nuovi schiavisti, o assumerci la responsabilità di affrontare i problemi per provare, finalmente, a risolverli. Governandoli. Gestendoli, finalmente. Nell’interesse nostro e di tutti.
Migranti, alziamo lo sguardo, in “Il Secolo XIX”, 1 settembre 2024, pp. 1-4-5
I cattolici e l’autonomia. Cosa c’entra la fede?
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Religione / Religion Articles, Articoli di Società / Society Articles, Religione / Religion, Società / Society /da AugustaIl carteggio tra il presidente della regione Veneto Zaia e il presidente della conferenza episcopale monsignor Zuppi si presta a qualche considerazione, oltre che sul merito dell’autonomia, sul ruolo della chiesa e dei cattolici in politica. Cominciamo da quest’ultimo punto.
Contano ancora i cattolici nella politica italiana? Molto poco, nel senso dell’orientamento dell’opinione pubblica e del comportamento in cabina elettorale. Un voto cattolico, spostabile secondo gli umori della chiesa, non esiste sostanzialmente più, tanto che non esiste più nemmeno un partito cattolico, come era, fin dal nome, la Democrazia Cristiana. La sua eredità la pretendono in molti, un po’ a sinistra e molto a destra, dove si fa a gara a esibire e dichiarare un cattolicesimo non necessariamente praticato: non diciamo nelle camere da letto e nella formazione delle famiglie (ormai su questo punto lo scollamento è totale e nemmeno più nascosto), ma anche nelle scelte di orientamento valoriale in ambito pubblico. E non ci riferiamo solo a grandi temi sociali, come la solidarietà, il contenimento delle diseguaglianze, l’attenzione ai più poveri (non nominiamo nemmeno gli immigrati), ma anche a indicatori più generici, come evitare la menzogna (che del resto è parte integrante della pratica politica, a qualunque latitudine) o la disonestà (gli ‘atti impuri’ della pubblica amministrazione, per così dire). La chiesa non orienta più il voto anche perché è diminuito di molto il suo pubblico, la sua audience. I cattolici, anche se si ostinano a non accorgersene, o fanno finta, sono una minoranza, nel paese: sempre meno rilevante (i praticanti vanno da un terzo scarso della popolazione nei piccoli paesi a meno di un decimo nelle grandi città, in crollo verticale tra le generazioni più giovani). Ma soprattutto sono divisi al loro interno tanto quanto i non credenti, e il loro voto lo decidono sulla base di considerazioni che maturano altrove che non in parrocchia: nel foro interiore della coscienza (incluso i pregiudizi che ciascuno di noi cova), nel proprio portafoglio, o in vaghe idee in cui ha un ruolo più il telegiornale che la lettura dei vangeli (attività non particolarmente praticata, anche dai praticanti, come dimostrato da molte ricerche).
Quello che è vero in termini analitici non è però vero in ambito pubblico. La chiesa non solo si interroga su moltissimi temi, facendo in questo nient’altro che il suo dovere: ma le sue considerazioni vengono usate nel dibattito pubblico, dalla politica e dai partiti, come pezze d’appoggio per le proprie posizioni. E così è tutto un tirare per la giacchetta, o per la tonaca, tale o talaltra frase del papa, o appunto della conferenza episcopale. Solo che si tratta di una mera strumentalizzazione senza alcun radicamento effettivo. E fa più tristezza che scandalo vedere politici che dell’opinione dei vescovi semplicemente si disinteressano nella normalità della loro vita, usarle eccitati se danno ragione (o sembrano anche solo lontanamente farlo) alle proprie posizioni. Come se questo contasse ancora. E così vediamo le stesse persone (diciamo, per comodità, di sinistra) che aborrono le posizioni della chiesa sull’omosessualità o sull’aborto, incensarla quando si parla di autonomia. E le stesse persone (diciamo, per comodità, di destra) che aborrono le posizioni della chiesa sugli immigrati, incensarla quando si parla di genere, o di difesa di una famiglia tradizionale che non praticano nemmeno loro.
Sull’autonomia siamo alla stessa impasse. La conferenza episcopale prende una posizione dura contro di essa, utile come opinione, ma poco fondabile evangelicamente (basti pensare all’autonomismo e al federalismo quasi militanti di don Sturzo, fondatore del Partito Popolare, che sapeva coniugarsi con una buona dose di meridionalismo). La sinistra esulta e usa l’argomento per sostenere la propria proposta di referendum contro l’autonomia, e i cattolici di sinistra esaltano le dure posizioni, condite di molta retorica, di mons. Savino, vice di Zuppi e vescovo di Cassano all’Jonio (gli stessi cattolici di sinistra, e la stessa sinistra, che bollavano le posizioni di mons. Ruini come ingerenze). Mentre Zaia prende carta e penna e reagisce, spostando il ragionamento dai principi ai contenuti pratici, proponendo un tavolo tecnico. Dimenticando tuttavia che in Veneto l’autonomia è stata usata precisamente come arma retorica per decenni. E, soprattutto, sente il bisogno, pur avendo posizioni sideralmente distanti da quelle ecclesiali su temi come omosessualità o fine vita, quando si tratta di autonomia, di rispondere da presidente e autonomista ma anche ‘da cattolico’. Non si sa mai.
La chiesa tirata per la giacca, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 settembre 2024, editoriale, pp. 1-5
Migrazioni. Costruire una politica, non subirla – Alcune proposte
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaSecolo 1sett2024 Festival comunicazione
In occasione del Festival della comunicazione di Camogli, il 15 settembre si svolgerà un dibattito cui parteciperanno Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, e Federico Fubini, vice-direttore del Corriere della sera, insieme al sottoscritto. Per presentarlo mi è stato chiesto questo contributo, pubblicato su due intere pagine del quotidiano ligure Il Secolo XIX (nel link che precede, il pdf).
Non si capisce una barca con cento migranti che galleggia precariamente nel Mediterraneo se si guarda solo ad essa. Per capire di cosa si tratta veramente, bisogna guardare al contempo più da lontano e ancora più vicino: guardare cosa succede in Africa e in Europa, a Lagos o a Bruxelles (dal punto di vista demografico, economico, sociale, politico, ambientale…), da un lato, ed entrare nella testa, nel corpo e nei sogni di qualcuno di quei migranti, e nella vita di chi si ritroverà ad avere a che fare con loro, dall’altro. E, per inciso, questo riguarda tutti coloro che migrano: gli immigrati in Italia come gli emigranti dall’Italia, che pure sono in crescita tumultuosa, nell’inconsapevolezza dei più.
Solo così potremo sperare di capire quel fenomeno che chiamiamo migrazione (spesso aggiungendovi una caratterizzazione enfatica: emergenza, dramma, crisi…): che non ha facili spiegazioni monocausali, ma implica invece un insieme molto ampio di fattori, tra loro interrelati. È dalle loro interconnessioni, infatti, più che dall’approfondimento di ciascuno di essi, che possiamo sperare di capire qualcosa di quanto sta succedendo intorno a noi, compresa quella barca che galleggia precariamente nel Mediterraneo.
Non si capiscono infatti le migrazioni se non le intrecciamo ad altre forme di mobilità: delle informazioni, del denaro, delle merci, e naturalmente delle persone. La “rivoluzione mobiletica” in corso sta accentuando la nostra propensione alla mobilità, anche a prescindere dalle migrazioni vere e proprie: ci muoviamo per studio, interesse, cultura, sport, eventi globali come mostre, expo, campionati, olimpiadi, tournée, per fame di esperienze e per amore, per una mobilità intrinseca al nostro lavoro e non solo per cercarlo, per non parlare del turismo, che da solo rappresenta la principale ‘industria’ globale e il dieci per cento del PIL e dell’occupazione mondiale, oltre che a causa di push factors come guerre e carestie, catastrofi naturali e indotte dall’uomo come quelle climatiche, fino ai pendolarismi urbani, agli esodi agostani, ai week-end fuori porta, alle serate che si salvano dall’essere inconcludenti solo nell’essere itineranti (come in Certe notti che cantava Ligabue, in cui “ci ritroveremo come le star a bere del whisky al Roxy bar”, come nella Vita spericolata di Vasco Rossi), a testimonianza della nostra connaturata irrequietezza. E del fatto che oggi siamo mobili in misura maggiore rispetto ai nostri genitori e ai nostri nonni.
La nostra storia di mobilità, come specie, viene da lontano: dalla preistoria. Da quando i nostri progenitori, i vari homo in cui siamo evoluti – fino all’ultimo, i Sapiens, di cui facciamo parte (qualcuno forse abusivamente) –, hanno abbandonato l’Africa per popolare l’intero globo, facendo del nomadismo una costante della storia umana – la sua fisiologia, non la sua patologia, la norma, non l’eccezione. Se facessimo pari a 24 ore la storia dell’umanità siamo stati nomadi per 23 ore e 54 minuti, secondo più secondo meno: cacciatori e raccoglitori prima, poi pastori, solo recentemente – dalla rivoluzione neolitica, diecimila anni fa – contadini e infine urbanizzati, e negli ultimi secondi di nuovo potentemente mobili, grazie anche all’innovazione tecnologica, che ha reso il viaggiare, per chi può farlo legalmente e liberamente, mai così veloce, economico, sicuro e dunque ripetibile e reversibile).
Ma non si capiscono le migrazioni, in ingresso e in uscita, nemmeno se non le colleghiamo ad altri fenomeni, a cominciare dalla demografia, per continuare con le trasformazioni nel mercato del lavoro e le sue esigenze di manodopera, il livello di istruzione di chi arriva e di chi parte, l’ambiente, e altro ancora. La demografia è il primo e principale fattore correlato, dato che fa dell’Italia il paese più vecchio d’Europa e uno dei più vecchi del mondo (e non abbiamo ancora capito con quali devastanti conseguenze). Un paese che ha più morti che nati (con una differenza in negativo che è pari annualmente alla popolazione di una città come Padova, che evapora senza sostituzione), con più figli che si prendono cura dei genitori che genitori che si prendono cura dei figli, in cui si vendono più pannoloni che pannoloni, in cui il 45% (quasi la metà) delle donne in età fertile non ha figli a fronte di solo un 5% che dichiara di non volerne. Un paese in cui importiamo immigrati con relativamente bassa scolarizzazione (e con sbocchi lavorativi che del resto non la richiedono), ma comunque in numero largamente insufficiente al fabbisogno, ed esportiamo laureati in percentuale doppia rispetto ai giovani autoctoni che rimangono, pur avendo la metà dei laureati rispetto alla media europea. Un paese, come ricorda Federico Fubini citando il recente intervento del governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, in cui nei prossimi 15 anni il numero di persone in età di lavoro si ridurrà di 5,5 milioni, anche ipotizzando un afflusso netto di 170 mila immigrati all’anno: a parità di tutto il resto, questo fossato demografico renderebbe l’economia italiana più piccola del 13% e ridurrebbe il reddito per abitante di circa un decimo.
Un paese, anche, che dispone di nuovi cittadini, figli degli immigrati, in gran parte nati e scolarizzati qui (in numero insufficiente, ma è pur sempre qualcosa) ma si rifiuta di riconoscerli come tali, rimandando loro un’immagine di diversità e di rifiuto che è l’opposto dei processi di integrazione che pure si dichiara di volere, anzi di pretendere. In cui il voler vestire un foulard o pregare in una moschea costituiscono un percorso a ostacoli, stigmatizzato in ogni modo, che fa venire la voglia di scappare anche ai più volonterosi. E infatti molti scappano davvero: tra chi va via c’è anche una parte significativa di onward migrations, le seconde migrazioni di prime e seconde generazioni, spesso proprio dopo aver acquisito quella cittadinanza che facciamo di tutto per negargli, ma che gli apre le porte per paesi europei più lungimiranti e accoglienti.
A fronte di questo scenario, è necessario agire, non solo reagire. L’Europa, non solo l’Italia (anche se l’Italia, in molti indicatori, è messa peggio dei paesi con cui si confronta nel mercato globale come nella vita civile) rischia infatti di crollare sotto il peso delle migrazioni: o meglio, sotto il peso delle sue contraddizioni interne a proposito delle migrazioni.
Riaprire canali di ingresso regolari
La prima e fondamentale proposta. A partire dagli anni ’70, tutti i paesi europei hanno progressivamente chiuso gli accessi regolari agli immigrati. Lo shock petrolifero, la crisi economica, il crescere di pezzi di opinione pubblica e partiti anti-immigrati, hanno spinto i governi a chiudere all’immigrazione regolare, nell’illusione di fermarla. Ma, così facendo, hanno semplicemente aperto all’immigrazione irregolare, e non poteva essere altrimenti.
C’è da stupirsi, infatti, se, non potendo arrivare legalmente, molti ci provano nell’unico modo possibile, ossia illegalmente? È evidente per chi scappa da una guerra o da una persecuzione etnica o religiosa: fuggirebbero anche in zattera, sapendo di correre gravi rischi – tanto le prospettive a casa loro sarebbero peggiori, ammesso che una casa ce l’abbiano ancora. Ma lo fanno anche altri. Producendo così una forte immigrazione irregolare (che, se fosse regolamentata, potrebbe inserirsi molto più facilmente e non creerebbe i problemi che vediamo, anche rispetto alla percezione dell’opinione pubblica). Paradossalmente, dunque, sono proprio i paesi europei, Italia in primo luogo, con la loro legislazione, a produrre migrazioni irregolari che potrebbero invece essere in gran parte regolari e regolate, e definitive laddove potrebbero essere temporanee e reversibili, se ci fosse la possibilità di andare e tornare senza problemi.
Dunque la prima cosa da fare è quella di riaprire canali regolari di immigrazione, concordati con i paesi d’origine, anche selezionati in base alle esigenze del mercato del lavoro. Esigenze che in Europa ci sono, trattandosi di un continente che perde ogni anno 3 milioni di lavoratori, che vanno in pensione, e non sono sostituiti da nessuno (i loro posti restano dunque vacanti) semplicemente perché chi avrebbe dovuto sostituirli non è mai nato. Mentre il fabbisogno italiano è stimato in 3-400mila lavoratori l’anno: molti di più – non di meno – di quelli che oggi arrivano irregolarmente, via mare o via terra o in qualunque altro modo. Occorre ribadirlo: se non c’è mano d’opera, le imprese vanno altrove – e se non ci sono gli operai, non ci saranno neanche gli impiegati e i dirigenti. C’è quindi anche questo effetto recessivo paradossale e non previsto dietro l’idea del blocco dell’immigrazione per salvaguardare il lavoro degli autoctoni… Meno immigrati, come documentato ampiamente da Bankitalia, vorrà dire meno lavoro per gli autoctoni, non di più.
Una politica di apertura all’ingresso regolare sarebbe anche l’unica vera legittimazione politica – oltre che un’utile moneta di scambio – per una politica della fermezza, da attuare senza tentennamenti, all’immigrazione irregolare. E potrebbe essere promossa con la collaborazione dei paesi di origine e di transito dei migranti, stabilendo degli accordi che sarebbero anche un riconoscimento di pari dignità tra partner (è quello che dice, ma non fa, anche il cosiddetto Piano Mattei). Ciò non significa invece appaltare i costi e l’impopolarità dell’accoglienza – più correttamente del trattenimento – dei migranti ad altri paesi in cambio di denaro, come si è fatto con la Turchia, e si sta tentando di fare con Libia, Tunisia, Albania ed altri. Perché non si può pensare di sigillare tutto il Mediterraneo (Libia inclusa: un buco, peraltro, che è stato aperto dall’Europa), e perché rischia di diventare un’arma di pressione e di ricatto – un’arma di migrazione di massa, come è stato notato – da far scattare con qualche sbarco mirato tutte le volte che si intende alzare la posta.
Una apertura, dicevamo, controllata e selezionata: è da quando ci sono le migrazioni irregolari che il livello di istruzione medio dei migranti è calato drammaticamente, rendendo più difficili e costose le dinamiche di integrazione; riportare le migrazioni sotto il controllo degli stati consentirebbe di ritornare a una situazione più accettabile anche per il mercato del lavoro e per le società europee. Inoltre, questo diminuirebbe l’arrivo di minori stranieri non accompagnati. Nella storia delle migrazioni sono sempre partiti i padri e le madri. Da qualche anno assistiamo a un aumento esponenziale dei minori, ormai quasi tutti tra i 16 e i 18 anni e maschi: segno che è una filiera migratoria in sé, prodotta precisamente dal blocco dell’arrivo regolare degli adulti – anche questa, dunque, paradossalmente, figlia della nostra legislazione di progressiva chiusura all’immigrazione regolare di adulti e al ricongiungimento familiare. Riaprire i canali regolari ridurrebbe a dimensioni molto più contenute anche questa drammatica anomalia.
Parlare alle pubbliche opinioni: un’iniezione di verità
Tale politica sarebbe anche un segnale forte per dare la sensazione, ai cittadini, che lo stato controlla, attraverso i flussi, i confini, non più forzati dai disperati sui barconi o da quelli che ci arrivano via terra. E sappiamo quanto questa sensazione, questa paura, sia stata determinante nel far emergere sentimenti di frustrazione e di rabbia, e quindi di xenofobia (di cui stanno pagando il prezzo anche gli immigrati arrivati negli scorsi decenni e già integrati: il rifiuto degli stranieri non va troppo per il sottile, nel distinguere tra neo-arrivati e altri immigrati, magari di seconda generazione e/o cittadinizzati) e nel cambiare di conseguenza gli equilibri politici dell’Europa, al punto da mettere a rischio la sua stessa esistenza.
Dopodiché, occorre ripensare e riformulare la stessa distinzione attuale tra richiedenti asilo e migranti economici, allargando le maglie dal lato di questi ultimi: dato che anche questa distinzione, come è trattata ora, è figlia della chiusura delle frontiere (e ha portato alla demonizzazione dei migranti economici, che sono invece sempre stati la norma, e lo sono tuttora – e ne abbiamo un enorme bisogno). Per i rifugiati bisogna trarre le opportune lezioni dall’efficacia di misure sperimentali come i corridoi umanitari, che vedono la Comunità di Sant’Egidio e la Chiesa Valdese, tra i promotori: di fronte a tragedie umanitarie, che peraltro i paesi occidentali hanno spesso cooperato a produrre, non si può pensare ad alcuna selezione, ma nemmeno si può aspettare che chi scappa da esse arrivi nei nostri mari e sulle nostre coste; a costo inferiore, con maggiore efficacia e giustizia sociale possiamo andarli a prendere ed aiutarli, come doveroso. Mentre per gli altri tipi di migranti siamo giunti all’assurdo per cui, impedendo le migrazioni regolari, costringiamo gli irregolari che sono migranti economici a dichiararsi richiedenti asilo, anche se in maggioranza non lo sono, perché è semplicemente l’unico modo per restare in Europa. Chiediamo loro, in sostanza, di mentirci, in modo da legarci da soli le mani attivando lunghe, costose e inutili pratiche di riconoscimento che arriveranno nella maggior parte dei casi a smentirli: producendo a loro volta un’ulteriore presenza di immigrati irregolari, data la difficoltà e il costo di implementare politiche di rimpatrio significative – tanto più in mancanza della collaborazione dei paesi di provenienza.
Tanto vale riaprire canali regolari di ingresso per i migranti economici, bloccare o diminuire significativamente gli arrivi irregolari attraverso accordi, e consentire di attivare le pratiche di richiesta di asilo solo per coloro che ragionevolmente hanno qualche titolo per ottenerlo: e per i richiedenti asilo ‘veri’, e solo per questi ultimi, dovrebbe essere garantito un accesso universale, senza condizioni e forme di selezione.
A valle degli arrivi: gestire l’integrazione
Fino a qui abbiamo visto soprattutto cosa accade a monte degli sbarchi, e le possibili soluzioni che si possono porre in atto. Ma anche a valle c’è molto da fare. Innanzitutto occorre uscire, oltre che dall’emergenza, dalla mentalità emergenziale, che continua a farci gestire un fenomeno che in sé è strutturale con soluzioni improvvisate e totalmente prive di strategia. Bisogna passare dall’accoglienza emergenziale all’integrazione strutturata: fatta di agenzie nazionali che si occupano davvero della questione, che indicano criteri minimi di integrazione, che controllano, selezionano, valutano e respingono le associazioni e gli organismi che non lavorano all’altezza degli standard individuati. L’integrazione è fatta di apprendimento rapido e intensivo della lingua, di conoscenza della cultura del paese in cui ci si trova, di formazione professionale (tanto più importante dato il basso livello di istruzione di partenza) e di orientamento al lavoro: presuppone dunque delle linee guida stringenti e l’attivazione delle professionalità necessarie (en passant: si tratta di un mercato del lavoro specializzato che si apre, soprattutto per professionalità autoctone). Se pensata come tale, si tratta di un investimento (come lo è la scuola, per capirci): che in pochi mesi (comunque a molto minor prezzo di un percorso scolastico tradizionale), può creare cittadini e lavoratori integrabili nella società e nel mercato del lavoro. Diversamente, se limitata all’accoglienza e a un generico diritto di permanenza, rischia di essere una spesa improduttiva, che per giunta può produrre in misura significativa dropout e irregolari che possono diventare problematici per la società.
E poi, c’è tutta l’enorme partita dei processi di integrazione, della costruzione di meccanismi di inclusione reale (a cominciare dalla cittadinanza, in particolare a partire dalle cosiddette seconde generazioni), di riconoscimento simbolico delle specificità culturali e religiose compatibili con il quadro normativo europeo. E qui il dibattito sullo ius scholae fa comprendere in maniera disarmante quanto manchi ancora, da parte del ceto politico, la comprensione minimale dei fondamentali dei processi in atto. Manca la conoscenza dei dati di base. Manca la consapevolezza. Figuriamoci se c’è il minimo di volontà politica necessario.
I flussi migratori sono per l’appunto flussi, come tali regolabili e canalizzabili, almeno in buona misura. Sta a noi decidere se lasciare i flussi migratori all’anarchia di un mercato primitivo, e alla volontà dei nuovi schiavisti, o assumerci la responsabilità di affrontare i problemi per provare, finalmente, a risolverli. Governandoli. Gestendoli, finalmente. Nell’interesse nostro e di tutti.
Migranti, alziamo lo sguardo, in “Il Secolo XIX”, 1 settembre 2024, pp. 1-4-5
La scuola inutile. Cambiare il calendario scolastico per aiutare il turismo?
/in Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Uncategorized /da AugustaIl solo fatto che a qualcuno possa essere venuto in mente, a fronte del boom del turismo in Veneto e altrove che, a seguito del cambiamento climatico, ne sta facendo allungare la stagione, di posporre l’inizio delle scuole di qualche settimana, ci mostra quanto la scuola stessa continui a essere considerata, da una parte significativa del nostro paese, più come una specie di fastidio che come un’opportunità da cogliere e potenziare. E comunque, sempre, una variabile dipendente anziché uno dei cardini su cui costruire un nuovo modello di paese.
È un po’ come proporre quello che, in scala minore e per motivi assai meno drammatici, è successo ai tempi del Covid: quando la scuola è sempre stata la prima a chiudere e l’ultima a riaprire, essendo considerata meno essenziale di altri servizi. Con le drammatiche conseguenze che le generazioni che sono passate in mezzo a quella temperie ai tempi della loro formazione e istruzione stanno pagando adesso, in termini relazionali e cognitivi, tra bisogno di terapie psicologiche, serissime carenze in termini di contenuti che fanno sentire il loro peso negli anni successivi, e talvolta gravi disturbi della personalità.
Il fatto che la proposta, da alcuni attori economici del comparto turistico-alberghiero in particolare, venga reiterata praticamente ogni anno, dà pure l’idea che ci credono proprio, e sono convinti della bontà dell’idea, quasi fosse una geniale trovata per rendere più produttiva la loro gallina dalle uova d’oro. Peccato che vada contro gli interessi di tutti gli altri, e in particolare delle famiglie (di tutte le famiglie: anche dei loro dipendenti), che non saprebbero cosa fare con i loro figli. E questo anche se si trattasse solo di parcheggiarli: che, come noto, non dovrebbe essere la funzione principale della scuola. Il tutto per andare incontro a una maggiore presenza, per giunta, soprattutto di turisti stranieri.
Rimodulare l’anno scolastico andrebbe anche bene, intendiamoci. Ma semmai andrebbe fatto esattamente nella direzione opposta: meno vacanze, meno lunghe in estate, e piuttosto con periodi più lunghi di vacanza durante il resto dell’anno (come accade peraltro nella maggior parte dei paesi civili con cui ci confrontiamo), e scuola aperte agli studenti – e perché no, alla cittadinanza – per attività sociali, sportive e di recupero anche nelle fasce pomeridiane e durante le vacanze.
Ugualmente, andrebbe bene anche una certa capacità di adeguamento del sistema-paese ai cambiamenti in atto, con forme di flessibilità, rapidità decisionale e mutamento organizzativo, che sarebbero certo auspicabili: ma non ci sembra che sia la scuola il primo imputato di lentezza e incapacità. E semmai dovremmo rivolgerci a tante altre amministrazioni, burocrazie e politiche. E anche imprese. Agli operatori del turismo, che vantano (e lucrano su) record di presenze che continuano a crescere (non necessariamente per la loro abilità personale, ma perché nel mondo continua a crescere il numero di persone in grado di pagarsi delle vacanze), magari qualche riflessione comparativa potrebbe essere utile: sui tassi di fidelizzazione dei turisti, che probabilmente dice qualcosa sul servizio ricevuto nel corso della prima visita, o sui tassi di crescita di altre zone comparabili in altri paesi. Ciò che dovrebbe forse far riflettere invece sul bisogno di scuola e formazione, e conseguente professionalità, del comparto nel suo complesso: e sulla necessità di investire su personale ben formato, pagato di più e trattato meglio.
Semmai bisogna investire sulla scuola e l’istruzione nel suo complesso, visto che siamo un paese che investe circa un punto di PIL meno della media degli altri paesi europei, ha tassi di abbandono scolastico elevatissimi, la metà dei laureati della media europea (la metà!), e il doppio esatto di analfabetismo funzionale (il doppio! Il 30% contro il 15% dei nostri partner comunitari). Investendo, magari, anche strutturalmente. In settembre fa più caldo per tutti, e quindi anche per gli studenti. E, peraltro, fa più caldo anche in giugno, e quindi allungare il calendario scolastico in quel periodo non sarebbe una gran trovata. Magari pensare di investire, banalmente, in aria condizionata?
Dopodiché, forse, oltre che ragionare sulle opportunità turistiche del cambiamento climatico e dell’innalzamento delle temperature globali, potrebbe essere utile ragionare sui loro costi. E investire per contrastarli. Uno dei compiti in cui potrebbe essere utile un maggiore investimento sul sapere critico che propone la scuola.
Le richieste del turismo. Come cambiare il calendario, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 1 settembre 2024, editoriale, p.1-5
Ius scholae. Il diritto di avere diritti.
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaLa cittadinanza è “il diritto di avere diritti”, diceva Hannah Arendt. Sapeva di cosa parlava, essendo stata apolide per un decennio. Lo diciamo in altro modo: la cittadinanza fa coincidere le frontiere territoriali con le frontiere dei diritti, semplificando notevolmente la vita. Chi ce l’ha, ha qualcosa in più, di sostanziale, che ne determina lo status e in certa misura i percorsi e gli esiti. Ed è precisamente quello che non capiscono (o capiscono fin troppo bene) coloro i quali, comodamente seduti sulla propria cittadinanza che coincide con il luogo di residenza, la rifiutano ad altri: trasformando il proprio diritto in privilegio. Che altro significa, infatti, far stare in condizioni giuridiche diverse due persone nella medesima situazione?
Prendiamo due minori, uno figlio di italiani, l’altro di immigrati. Nati entrambi in Italia (lo sono anche la stragrande maggioranza dei figli di immigrati). Frequentano lo stesso nido e la stessa scuola, la stessa palestra e spesso anche lo stesso oratorio. Hanno fatto gli stessi studi, nella stessa lingua, con gli stessi riferimenti culturali. Con poche differenze (che però sono anche differenze interne agli autoctoni: e che arricchiscono il panorama e l’offerta culturale, anziché impoverirla, come fa la chiusura ombelicale), ascoltano la stessa musica, vedono gli stessi film, praticano gli stessi sport e tifano per le stesse squadre, leggono gli stessi libri o gli stessi manga, mangiano cose simili e talvolta anche diverse, si vestono nella stessa maniera ma qualche volta un po’ diversa, si innamorano allo stesso modo e magari anche in modo diverso (ancora una volta: arricchendo e allargando le opportunità di tutti, non certo restringendole). Che cosa li differenzia? Precisamente la cittadinanza. E nient’altro. O, almeno, nient’altro di significativo: perché se si parla di colore della pelle o di occhi a mandorla, sono significativi solo per coloro che gli attribuiscono un significato, che non ha niente di oggettivo, e che per le giovani generazioni significa sempre meno).
Chi ce l’ha, la cittadinanza, nemmeno si accorge del vantaggio competitivo che ha: ma fa parte di un club esclusivo, perché esclude altri. E che non è legato a nessun merito (anzi, è la cosa più antimeritocratica che esiste), essendo la nascita del tutto casuale (nessuno sceglie né il luogo né i genitori e la loro origine). Se li sentissimo solo parlare, i figli e le figlie di immigrati che sono nelle classi dei nostri figli, il più delle volte non ne coglieremmo che la medesima inflessione dialettale. Dunque, perché questa differenza?
L’Italia è oggi uno dei paesi europei con la legislazione più restrittiva. Devi diventare maggiorenne. Poi hai un anno di tempo per raccogliere i documenti necessari (per motivi incomprensibili, se non di puro cattivismo burocratico, la finestra di opportunità si chiude col compimento del diciannovesimo anno). Poi lo stato si prende tre anni di tempo per rispondere (proviamo a immaginare se facesse altrettanto per il nostro certificato di residenza), che di fatto spesso diventano di più, senza che sia veramente possibile sollecitare o protestare. E naturalmente la risposta può essere negativa, anche se accade sempre meno. Quale il vantaggio per gli autoctoni? Persino per questioni di sicurezza, evocate così spesso a sproposito: è meglio includere e integrare (chi peraltro già lo è), o coltivare un sentimento di marginalizzazione? Perché restituire un rifiuto, dire all’altro: non sei come me, anche se ti credi uguale? Cosa ci si guadagna?
Quasi un decennio fa, in alcune realtà del nordest, i comuni, in collaborazione con l’Unicef, davano una simbolica cittadinanza onoraria ai bambini che avevano completato un ciclo scolastico, con incontri specifici e una cerimonia formale. L’ha fatto per qualche tempo anche il comune in cui vivo. Che cosa accadeva, andando nelle classi a parlarne? Che i figli di italiani scoprivano in quel momento, e se ne stupivano, che i loro compagni non avessero gli stessi diritti. Che talvolta lo scoprivano allo stesso modo i figli di stranieri. Ed era commovente e al contempo ironico vedere i giornalisti locali chiedere ai bambini “di dove sei?” e sentirsi rispondere, come a una domanda senza senso: “di qui”. Ecco, sono di qui. Fattualmente: perché non anche giuridicamente? Anche la maggioranza della popolazione oggi ne è consapevole, e è a favore dello ius scholae. E tra i giovani il consenso è plebiscitario. Perché non prenderne atto? Chi è contro, lo fa sulla pelle, è il caso di dirlo, di chi ha meno diritti, e non può votare per difenderli. Non è ora di fare un passo avanti?
Il diritto di avere diritti. Noi e lo ius scholae, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, “Corriere di Bologna”, “Corriere dell’Alto Adige”, 21 agosto 2024, editoriale, pp.1-3
Israele e Palestina, due pesi e due misure. Troppi silenzi sulle stragi
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli sull'Islam / Islam Articles, Società / Society /da AugustaLo scorso 7 ottobre una azione terroristica inaudita, pianificata da Hamas, ha portato all’uccisione di 1200 israeliani, tutti civili, tutte vittime innocenti, incolpevoli, inconsapevoli, e al rapimento di 250 ostaggi. Sono passati 300 giorni, da allora. E la risposta israeliana a questo orrendo massacro ha portato fino ad ora all’uccisione di forse 40.000 (quarantamila!) palestinesi, la stragrande maggioranza dei quali civili, vittime innocenti, incolpevoli, inconsapevoli, moltissime dei quali bambini. Una strage sproporzionata, una rappresaglia indiscriminata, violentissima. A cui si aggiunge la crisi umanitaria, certificata anche dalle Nazioni Unite – e spesso intenzionalmente indotta – dovuta ai milioni di sfollati, all’impossibilità di offrire cure mediche, alla difficoltà negli approvvigionamenti di cibo, di acqua, di medicinali, di energia elettrica. A cui vanno aggiunti gli abusi di soldati e coloni illegali nei territori palestinesi, e un avventurismo politico senza exit strategy, che sta allargando il conflitto in Cisgiordania, in Yemen, in Iran, in Libano, con atti mirati che superano di gran lunga la gravità dei danni provocati dai razzi lanciati su Israele dai suoi nemici. Tutto questo riguarda anche noi: occidentali, europei, italiani. Per le sue conseguenze pratiche (tra cui il probabile arrivo di migliaia di nuovi profughi palestinesi alle nostre frontiere) e politiche: il sostegno acritico al governo israeliano ci isola di fronte al resto del mondo, tanto è inguardabile, per occhi appena onesti, questa logica dei due pesi e due misure.
Eppure prevale un assordante silenzio. Anche nel Nordest, dove pure ci sono sia alcune tra le comunità ebraiche più importanti, antiche e colte, sia una cospicua presenza immigrata musulmana. Poche manifestazioni, e lasciate in gestione a pochi militanti delle ali estreme dello schieramento politico, che non hanno coinvolto i partiti principali e l’opinione pubblica. E relativamente poche prese di posizione esplicite interne alla stessa comunità ebraica locale: legata per ovvi motivi allo stato di Israele (e giustamente timorosa del fatto che sia in gioco la sua stessa esistenza, cruciale per tutti gli ebrei del mondo), ma che non dovrebbe esserlo al suo governo, che dovrebbe essere legittimo criticare, come fanno peraltro molti ebrei israeliani dall’interno e in situazione assai più difficile. Comunità che ha ricevuto una doverosissima solidarietà dopo il 7 ottobre, mentre quasi nulla ne ha ricevuto la comunità palestinese, pur presente sul territorio, anche con esponenti conosciuti (tra cui imam, ma anche medici, professionisti, imprenditori).
Il confronto viene spontaneo. Quando ci sono stati attentati terroristici in nome dell’islam in Europa (ma anche a proposito dei crimini dello Stato Islamico in Medio Oriente), si chiedeva ai musulmani da noi, che fattualmente non c’entravano niente, che spesso venivano da paesi che non erano quelli coinvolti nel terrorismo, e addirittura a quella nati qui, e quindi europei di nascita e formazione, di dissociarsi da quei fatti orrendi e abnormi. E molti l’hanno fatto spontaneamente, arrivando a “dirsi Charlie” dopo gli attentati perpetrati a Parigi, a Bruxelles e altrove. Forse sarebbe giusto chiedere alle comunità ebraiche di levare una voce critica, che c’è, anche nei confronti del governo israeliano, per i crimini che sta perpetrando. Sarebbe più credibile anche la loro richiesta di sostegno, in questo modo; e più facile per i non ebrei offrirlo (specularmente, anche i musulmani, se fossero maggiormente capaci di critica esplicita nei confronti di Hamas e delle leadership islamiche, sarebbero più credibili e riceverebbero più sostegno – l’onestà intellettuale paga più della partigianeria, su tutti i fronti). Altrove, dagli Stati Uniti a molti paesi europei, gli ebrei per primi, e le pubbliche opinioni, hanno reagito, platealmente. Da noi prevale una certa timidezza, e la difficoltà, della politica in primo luogo, anche solo a indicare nell’attuale governo di Israele (certo non nello stato di Israele o peggio nel popolo israeliano) uno dei maggiori responsabili di questa strage. Perché le vittime sono arabi? Perché sono musulmani (e qui sbagliamo: molti palestinesi non lo sono)? Ecco, forse la semina anti-islamica di questi anni, dai testi di Oriana Fallaci in avanti, ha giocato un ruolo. Ma non basta a spiegare tutto. Forse dobbiamo solo assumere, tutti noi, il banale coraggio di dire quello che pensiamo ad alta voce, poco importa se a qualcuno non piacerà, e se magari è sbagliato. E cominciare a discutere con tutti gli interlocutori. Perché le amicizie sono vere solo quando si è capaci di una discussione franca: se l’amicizia può reggere a un litigio e sopravvivere a una divergenza di opinioni.
Israele e Palestina. Quei silenzi sulle stragi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” 2 agosto 2024, editoriale, p. 1-5
Carcere: il modello sbagliato
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaQuando scoppiano le carceri, a causa del sovraffollamento e delle condizioni di vita dei detenuti, la risposta che viene data in automatico è: più carceri, più agenti. Ma se il problema fosse nel fatto che la risposta è sbagliata perché la domanda è malposta? Anche perché non si tratta di un evento eccezionale, come viene raccontato: succede tutte le estati, occasionalmente anche in altri periodi dell’anno, mentre i suicidi e gli atti di autolesionismo sono una costante, sia tra i detenuti che tra le guardie (che hanno il più alto tasso di suicidi e di burnout tra tutte le forze di polizia). Il che dovrebbe farci riflettere sulla bontà del modello, che invece viene reiterato senza riflessione alcuna dalla politica: il rimedio a ogni problema sociale è sempre l’inasprimento delle pene e l’invenzione di nuovi reati, più galera (“buttando via la chiave”, come amano dire molti), più repressione. E se questo producesse il male anziché diminuirlo? O si limitasse a nasconderlo inutilmente sotto il tappeto?
A cosa servono davvero le prigioni? In origine erano case di lavoro, di cui si supponeva una funzione educativa, o quanto meno socialmente utile, correttiva (non a caso si chiamavano anche correzionali). In teoria dovrebbero essere dei luoghi dove riflettere sui propri errori: dove scontare una pena, cioè un dolore, ma anche avere occasione di fare penitenza (da cui penitenziario). E più recentemente si è posto l’accento, oltre che sulla sua funzione punitiva e repressiva, e su quella preventiva e di deterrenza, anche su quella rieducativa, riabilitativa (anzi, col passare degli anni, con pietosa menzogna sociale, l’accento è stato sempre più messo sulle ultime, anche se continuavano a prevalere le prime). Ma in Italia continua a prevalere la funzione ‘immobilizzativa’, priva di qualsiasi utilità individuale e di risvolto sociale, un mero parcheggio umano. In queste condizioni, a che cosa serve?
Parliamoci chiaro. Il tasso di recidiva, in Italia, è di oltre due terzi: 2,3 detenuti su 3 tornano a delinquere (mentre tra quelli che imparano un lavoro è molto più ridotto, ma sono pochi). Siamo a oltre il doppio della media europea. Il che significa che il sistema è fallimentare, e non risponde alla sua ragion d’essere: nasce per produrre sicurezza e crea le condizioni per il suo opposto, ovvero nuove minacce alla sicurezza sociale. Se una scuola avesse due terzi di bocciati, un ospedale la stessa percentuale di decessi, o un’azienda di prodotti difettati, diremmo che è un disastro, li smantelleremmo, ragioneremmo sugli obiettivi che vogliamo raggiungere, e ci ingegneremmo per inventare qualcos’altro. Invece con il carcere si fa finta di niente, riproponendo sempre le stesse ricette che non funzionano. Aggiungiamoci gli altri problemi. In Italia quasi un terzo dei detenuti sta scontando una condanna non definitiva (in Europa è circa un quinto), la durata media della detenzione è quasi doppia della media europea, come doppia è la percentuale di persone condannate per reati legati agli stupefacenti, mentre la percentuale di persone in carcere condannate per reati non gravi è tra le più alte d’Europa. Vuol dire che è il sistema che dovrebbe chiudere, buttando via la chiave.
Aggiungiamoci il problema dei costi. Il carcere è costoso, le comunità (e altre pene alternative) costano meno e hanno tassi inferiori di recidiva. Eppure si vogliono costruire nuove carceri anziché nuove comunità, o comunque incentivare altre forme di pena alternativa. Ce n’è abbastanza per dire che il problema non è solo chi è dentro il carcere (che così come stanno le cose, resta un problema irrisolto), ma il carcere in sé, l’idea che lo sottende, che finisce per riprodurre il problema che sarebbe chiamato a risolvere. È su questo che dovremmo cominciare a ragionare. Per convenienza, non solo per umanità.
Carcere, il modello sbagliato, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 26 luglio 2024, editoriale, pp. 1-5
Il vero mondo al contrario. Quando il colore della pelle è ancora un problema.
/in Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles /da AugustaSpesso i piccoli fatterelli quotidiani sono capaci di aprire sprazzi di comprensione della società, illuminandone i lati oscuri, più di tante drammatiche notizie di cronaca, quelle che vanno in prima pagina. Ecco, ci occupiamo oggi di una di queste storie minori.
La prendiamo per buona, per come è stata riportata anche da questo giornale. Facciamo finta che sia una storia vera, anche se ci piacerebbe che non lo fosse. Ma prendiamo per buono che lo sia, perché è del resto assai verosimile: succede tutti i giorni. Ed è successo anche in un condominio vicino a Piazza dei Signori, a Treviso. Dove una signora si è sentita in diritto di esprimere ad alta voce e in presenza degli interessati (che per fortuna, essendo stranieri, non hanno capito) il suo parere sul fatto che non voleva vedere nel suo stabile “persone così” (nigeriani, neri), ospiti peraltro di un altro condomino. Il quale si è pure visto arrivare una mail e una telefonata di critica, per non dire di minaccia, o di protesta, da parte dell’amministratore di condominio e dell’agenzia immobiliare.
Ecco, la storia di Treviso è una storia emblematica. Il fatto che sia ancora possibile, nel 2024, immaginare che una persona si senta in diritto di protestare e strepitare, in maniera per così dire ovvia e naturale, e trovi l’ovvia e naturale complicità di chi pretende di gestire con le proprie regole un seppur minuscolo potere, perché nella sua casa ci sono anche (transitoriamente: e poco importa che si tratti di artisti africani ospiti della Biennale!) delle persone di colore, dei neri, è una cosa che ci riporta terribilmente indietro. Ma non alla preistoria: dopo tutto i Sapiens si sono mischiati con i Neandertal, e noi portiamo nel nostro DNA i geni di entrambi – e quelle sì, dopo tutto, erano più credibilmente delle specie diverse. Peggio: in un altro mondo. Che dà l’idea di tutta l’arretratezza di un pezzo di Veneto profondo, anche di quello che si crede ricco, perché benestante, magari istruito, e quindi in qualche modo superiore, e con più diritti: anche quello di decidere sui diritti degli altri. Questi comportamenti – certo non generalizzabili, e non lo vogliamo fare: c’è anche l’altro Veneto, e ci piace pensare sia maggioritario – sono infatti trasversali: attraversano le classi sociali, i livelli di istruzione, la distinzione città-campagna, il fatto di essere uomini o donne, credenti o non credenti, di destra o di sinistra.
Quello che stupisce è che questo non stupisca. Che le autorità non si sentano in dovere di mandare un segnale a nome della città: e cominciare a intraprendere un’opera educativa che vada nella direzione opposta. Che i membri del palazzo in cui il fatto è accaduto non si indignino contro chi ha creato il caso. Che i familiari, le amiche, i colleghi, i conoscenti (dal panettiere al parrucchiere, dal barista a chi la serve nel negozio di moda preferito) non stigmatizzino questo comportamento. Che in qualche modo lo stesso astio irriflessivo che queste persone hanno riversato su questi ospiti stranieri non si riversi invece su coloro che ne sono all’origine e lo alimentano. Ecco, manca una reazione altrettanto di pancia: non colpevolizzante, non stigmatizzante (non ha senso, non serve, non è utile: se non a far sentire ‘buoni’ gli altri, e non è detto che lo siano), ma semplicemente educativa, migliorativa del nostro vivere che chiamiamo civile. E ci manca terribilmente un criterio etico per giudicare tutto questo. E lasciarcelo finalmente alle spalle. Anche perché la semina (sotto)culturale, su questi temi, per molti anni, è stata spesso a supporto delle opinioni della signora in questione: e molti ne portano la responsabilità, negli ambiti più disparati. Ma dobbiamo avere il coraggio di dircelo, guardandoci coraggiosamente allo specchio: “il mondo al contrario” contro cui si schierava recentemente un generale trionfalmente eletto alle elezioni europee con una valanga di preferenze, segno della popolarità dei contenuti che veicola, è in realtà questo. Di chi esprime questi contenuti. Non di chi è costretto a subirli.
Il vero mondo al contrario, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 16 luglio 2024, editoriale, p.1
Caporalato: le tutele negate (su base etnica)
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaNon c’è solo Satnam Singh: il bracciante irregolare morto dopo aver perduto un braccio in un incidente sul lavoro, in un’azienda di Latina, perché il suo datore di lavoro l’ha abbandonato a casa, il braccio in una cassetta della frutta, senza chiamare i soccorsi. La sua storia è più clamorosa di altre per l’esito letale, e per la disumanità non solo dell’atto, ma delle giustificazioni cercate da un padrone (questa la parola corretta) recidivo nello sfruttamento di manodopera irregolare. Tuttavia vi sono casi simili anche altrove: non una regola, per fortuna, ma nemmeno un’eccezione così rara. Con maggiore frequenza nel centro-sud, dove ci sono realtà rurali in cui il sistema arcaico di questo tipo di bracciantato assume aspetti strutturati di sfruttamento para-schiavistico, con intere cittadelle stagionalmente abitate da questa umanità invisibile e non riconosciuta come tale; ma con casi non isolati anche nell’agricoltura spesso più ricca del nord, dal Piemonte al Veneto, dall’Emilia all’Alto Adige.
È un intero sistema di produzione che va messo in questione: e riguarda una filiera lunga, che parte sì dai proprietari dei campi e dagli imprenditori agricoli, ma passando attraverso molti intermediari finisce sui prezzi imposti negli scaffali dalla grande distribuzione, e in definitiva sulle nostre tavole.
Non c’è solo un problema di prevenzione e controllo, largamente insufficienti alla bisogna. A monte c’è una modalità di gestione dei flussi migratori, da tutti gli addetti ai lavori (inclusi gli imprenditori) considerata assurda, fatta di click day non controllati e in parte in mano a forme di criminalità organizzata (non si spiega altrimenti come mai oltre la metà delle domande venga fatta in Campania, che ha solo il 6% delle imprese agricole).
C’è un problema di mani mafiose nell’agroalimentare, che sono in grado di imporre un ordine illegale, con la forza quando necessario, anche perché non di rado coincidono con il datore di lavoro stesso. C’è un problema di mafie etniche dedite all’autosfruttamento delle comunità immigrate: sempre più frequentemente gli intermediari appartengono allo stesso gruppo etnico delle vittime, con l’ambiguità che spesso hanno queste figure per chi non ha altre risorse relazionali e conoscitive (a cominciare da un minimo di padronanza della lingua, delle regole di base del vivere civile e del rispetto dei contratti e delle leggi). Queste figure sono al contempo carnefici e malavitosi, ma anche mediatori e protettori, e come tali considerati e rispettati: quando non svolgono addirittura un ruolo fiduciario di legame con le famiglie allargate rimaste nel paese d’origine. Ma c’è anche un problema culturale più generale che ci riguarda tutti. Perché alla fine ci siamo noi: che non vediamo, o facciamo finta di non vedere, o di non sapere.
Ormai ci stiamo abituando ad accettare che nel mercato del lavoro viga un dualismo esplicito e visibile: tra lavori che prevedono tutele e garanzie, e quelli in cui non importa; tra lavori in regola e lavori irregolari, in nero o in grigio; tra lavori in cui si rispettano dei minimi sindacali e salariali, e interi settori dove non si rispettano più; tra lavori svolti da autoctoni e da immigrati, anche – settori in cui è ragionevole aspettarsi che chi ci lavora abbia il colore della pelle diverso dal nostro, e quindi sia normale sia pagato di meno e trattato peggio. Dove il problema sta tutto in quel ‘quindi’. E noi di questo siamo al corrente: e cominciamo a considerarlo accettabile, o comunque pensiamo di non poterci far niente. Per dire: i lavori stagionali in agricoltura sono sempre esistiti. Ma anche ai tempi delle mondine, e in altre forme di raccolta, per quanto precario, un tetto ai lavoratori lo si dava: come è possibile oggi pensare che sia normale che un datore di lavoro possa assumere decine o centinaia di stagionali stranieri, senza avere alcun obbligo rispetto all’alloggio, visto che è ovvio che non hanno una casa? Dove e su chi si scaricherà il problema?
Tutto questo non è nuovo in assoluto: le classi e sottoclassi non sono un’invenzione dell’oggi. Solo che quando a questa differenza si sovrappone anche la diversità etnica (o razziale, come la chiama qualcuno), questo meccanismo si potenzia, e finisce per rendere più larga la frattura tra chi è dentro e chi è fuori il sistema delle tutele, e più ambiguo il nostro ruolo.
Caporalato: chi lavora tutelato e chi no, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 7 luglio 2024, editoriale, pp. 1-5
L’islam en Europe comme phénomène sociologique. Interview 2023, Awacer Tv
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