Caporalato: le tutele negate (su base etnica)

Non c’è solo Satnam Singh: il bracciante irregolare morto dopo aver perduto un braccio in un incidente sul lavoro, in un’azienda di Latina, perché il suo datore di lavoro l’ha abbandonato a casa, il braccio in una cassetta della frutta, senza chiamare i soccorsi. La sua storia è più clamorosa di altre per l’esito letale, e per la disumanità non solo dell’atto, ma delle giustificazioni cercate da un padrone (questa la parola corretta) recidivo nello sfruttamento di manodopera irregolare. Tuttavia vi sono casi simili anche altrove: non una regola, per fortuna, ma nemmeno un’eccezione così rara. Con maggiore frequenza nel centro-sud, dove ci sono realtà rurali in cui il sistema arcaico di questo tipo di bracciantato assume aspetti strutturati di sfruttamento para-schiavistico, con intere cittadelle stagionalmente abitate da questa umanità invisibile e non riconosciuta come tale; ma con casi non isolati anche nell’agricoltura spesso più ricca del nord, dal Piemonte al Veneto, dall’Emilia all’Alto Adige.

È un intero sistema di produzione che va messo in questione: e riguarda una filiera lunga, che parte sì dai proprietari dei campi e dagli imprenditori agricoli, ma passando attraverso molti intermediari finisce sui prezzi imposti negli scaffali dalla grande distribuzione, e in definitiva sulle nostre tavole.

Non c’è solo un problema di prevenzione e controllo, largamente insufficienti alla bisogna. A monte c’è una modalità di gestione dei flussi migratori, da tutti gli addetti ai lavori (inclusi gli imprenditori) considerata assurda, fatta di click day non controllati e in parte in mano a forme di criminalità organizzata (non si spiega altrimenti come mai oltre la metà delle domande venga fatta in Campania, che ha solo il 6% delle imprese agricole).

C’è un problema di mani mafiose nell’agroalimentare, che sono in grado di imporre un ordine illegale, con la forza quando necessario, anche perché non di rado coincidono con il datore di lavoro stesso. C’è un problema di mafie etniche dedite all’autosfruttamento delle comunità immigrate: sempre più frequentemente gli intermediari appartengono allo stesso gruppo etnico delle vittime, con l’ambiguità che spesso hanno queste figure per chi non ha altre risorse relazionali e conoscitive (a cominciare da un minimo di padronanza della lingua, delle regole di base del vivere civile e del rispetto dei contratti e delle leggi). Queste figure sono al contempo carnefici e malavitosi, ma anche mediatori e protettori, e come tali considerati e rispettati: quando non svolgono addirittura un ruolo fiduciario di legame con le famiglie allargate rimaste nel paese d’origine. Ma c’è anche un problema culturale più generale che ci riguarda tutti. Perché alla fine ci siamo noi: che non vediamo, o facciamo finta di non vedere, o di non sapere.

Ormai ci stiamo abituando ad accettare che nel mercato del lavoro viga un dualismo esplicito e visibile: tra lavori che prevedono tutele e garanzie, e quelli in cui non importa; tra lavori in regola e lavori irregolari, in nero o in grigio; tra lavori in cui si rispettano dei minimi sindacali e salariali, e interi settori dove non si rispettano più; tra lavori svolti da autoctoni e da immigrati, anche – settori in cui è ragionevole aspettarsi che chi ci lavora abbia il colore della pelle diverso dal nostro, e quindi sia normale sia pagato di meno e trattato peggio. Dove il problema sta tutto in quel ‘quindi’. E noi di questo siamo al corrente: e cominciamo a considerarlo accettabile, o comunque pensiamo di non poterci far niente. Per dire: i lavori stagionali in agricoltura sono sempre esistiti. Ma anche ai tempi delle mondine, e in altre forme di raccolta, per quanto precario, un tetto ai lavoratori lo si dava: come è possibile oggi pensare che sia normale che un datore di lavoro possa assumere decine o centinaia di stagionali stranieri, senza avere alcun obbligo rispetto all’alloggio, visto che è ovvio che non hanno una casa? Dove e su chi si scaricherà il problema?

Tutto questo non è nuovo in assoluto: le classi e sottoclassi non sono un’invenzione dell’oggi. Solo che quando a questa differenza si sovrappone anche la diversità etnica (o razziale, come la chiama qualcuno), questo meccanismo si potenzia, e finisce per rendere più larga la frattura tra chi è dentro e chi è fuori il sistema delle tutele, e più ambiguo il nostro ruolo.

 

Caporalato: chi lavora tutelato e chi no, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 7 luglio 2024, editoriale, pp. 1-5