Fine vita: modello veneto, modello emiliano

La regione Emilia-Romagna, con una delibera, ha stabilito che chi chiede il suicidio assistito (in cui, lo ricordiamo, è il paziente ad autosomministrarsi il farmaco letale), ha diritto ad ottenerlo entro tempi certi (42 giorni), rispettando determinate condizioni. L’atto recepisce una sentenza della Corte costituzionale del 2019, rimasta finora inapplicata, tanto che l’associazione Luca Coscioni ha raccolto in ogni regione le firme per chiedere l’approvazione di una norma specifica. La sentenza, infatti, dichiara non perseguibile penalmente l’assistenza al suicidio assistito di chi lo chiede; spetta tuttavia alla politica attuarne nella pratica le linee di indirizzo. Ma a livello nazionale – per ignavia, come in molti altri casi – persiste il vuoto legislativo.
Il Veneto aveva scelto la strada dell’approvazione di una legge regionale, ma, nonostante l’appoggio del governatore Zaia, il consiglio regionale l’ha respinta. L’Emilia-Romagna, come si è visto, ha scelto una strada diversa: che è stata criticata sia dall’opposizione di centro-destra che dalla stessa associazione che ha raccolto le firme, che avrebbe preferito una discussione pubblica sul tema.
In termini di metodo non abbiamo una opinione precisa riguardo a quale sia la strada migliore. Visto che il diritto in qualche modo c’è già e si tratta solo di applicarne l’esercizio, evitando l’incongruenza di applicazioni differenziate tra città e città e città e tra ospedale e ospedale, anche all’interno della stessa regione, una discussione pubblica anche locale – in attesa che la faccia il parlamento nazionale – è pleonastica, e una delibera applicativa può benissimo sostituirla: per dirla in sintesi, il meglio (la discussione democratica) rischia di essere nemico del bene, e a volere troppo si rischia di non avere nulla. Anche perché, come si è visto nel caso Veneto, la discussione finisce per non avere nulla a che fare con il caso concreto, e si impaluda nelle nebbie dell’ideologia e di vaghissimi principi mal motivati, ricorrendo a espressioni vuote di contenuto, come un generico diritto alla vita che la norma non mette in alcun modo in questione (semmai, se proprio si pensa sia così, lo fa la sentenza della corte, e su quel piano e a quel livello bisognerebbe discutere). Per spiegare il paradosso in cui siamo, è un po’ come se, una volta approvata una norma sui limiti di velocità, chi non è d’accordo si limitasse a non approvare le delibere applicative: rimarrebbe la norma ma non si avrebbe la sua applicazione. Mentre a chi critica la decisione emiliana da destra, cercando di impedire l’applicazione certa e omogenea del diritto (come è stato fatto anche in Veneto), verrebbe da ricordare che l’unica cosa seria da fare, allora, sarebbe riempire il vuoto legislativo con una norma approvata dal parlamento nazionale: ma è precisamente questa la responsabilità che la politica non vuole assumersi, pur avendocela.
A noi, in un certo senso, l’approccio emiliano, più pragmatico e meno ideologico, ricorda differenze simili in altri ambiti, tra Emilia-Romagna e Veneto. Si pensi all’autonomia. In Veneto un grande squillar di trombe, la celebrazione di un referendum, la pretesa di applicarla a tutte le materie possibili e immaginabili, per principio; in Emilia-Romagna nessun referendum, pochissima retorica, nessun uso elettorale dell’argomento, ma la medesima richiesta, limitata tuttavia ad alcune poche materie in cui si è convinti di poter ragionevolmente far meglio dello stato. E si pensi all’economia: le imprese innovative ci sono dall’una e dall’altra parte, ma in Veneto si dorme ancora sugli allori del non più esistente modello Nordest, ripetendo debolmente la retorica su di esso e una defunta presunzione di essere migliori, mentre in Emilia il pragmatismo e la capacità di costruzione di rapporti con le istituzioni (regione e comuni) e l’università hanno creato un ecosistema il cui effetto è che le imprese crescono di più, fanno più export, producono più occupazione, elaborano più brevetti, offrono salari più elevati, producono meno emigrazione qualificata (anzi, la importano).
Ecco, forse anche nella traduzione dei valori in politica (e la discussione bioetica ne è un ottimo esempio), dovremmo riflettere sul pragmatismo emiliano. Giusto o sbagliato che possa essere, un modello, nella pratica, funziona, producendo un risultato pratico, l’altro no. E forse vale la pena di rifletterci.

in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 20 febbraio 2024, editoriale, p.1

Giovani migranti e violenza di genere. Una riflessione sui fatti di Catania

Lo stupro di Catania è un fatto spregevole: di cui è doveroso parlare, anche perché ci spinge a prendere posizione, a schierarci. Una parte della politica e della pubblica opinione, anche da noi, è già arrivata alle conclusioni: è la “prova” che gli stranieri non si possono integrare, che c’è in corso una guerra di civiltà, per cui vanno respinti. E se provassimo, invece, a cambiare punto di vista e narrazione?
L’evento è noto. Un gruppo di sette ragazzi, quasi tutti minorenni, di origine egiziana, sbarcati sulle nostre coste come MSNA (così il gergo burocratico definisce i minori stranieri non accompagnati) ha sequestrato una ragazzina di tredici anni nei bagni pubblici di un parco di Catania, ha immobilizzato il suo fidanzato anch’esso minorenne, e l’hanno violentata in due, mentre gli altri stavano a guardare. Un atto schifoso, coraggiosamente denunciato dalla vittima, per il quale tutti noi vogliamo che paghino, e duramente, i colpevoli.
L’immigrazione c’entra e non c’entra (anche se viene facile additarla come capro espiatorio autoevidente): pochi mesi fa, sempre in Sicilia, questa volta a Palermo, sette ragazzi italiani hanno sequestrato una ragazza in un cantiere, e l’hanno violentata in sei, mentre uno, che la conosceva, filmava il tutto. Con la stessa logica, avremmo dovuto lanciare una campagna contro, che so, i palermitani. Estremizzando il paradosso, potremmo dire che gli immigrati si sono integrati così bene che hanno copiato da noi. Naturalmente non è così. Semmai entrambi gli episodi ci fanno riflettere, e ce n’è davvero bisogno, sulla maschilità tossica, la violenza di branco, la logica del potere di genere e le sue perversioni, la povertà e la sopraffazione insiti nell’immaginario sessuale maschile, secoli di prevaricazione diffusa e quotidiana sulle donne, un’idea predatoria del sesso e forse dell’affettività, il ruolo della pornografia, e tante altre cose – sgradevoli, orribili – su cui è effettivamente doveroso riflettere. Prendiamo tuttavia per buona la cornice interpretativa per cui l’immigrazione giochi un ruolo. In che modo? In come la percepiamo, innanzitutto: in come facilmente attribuiamo agli altri, senza conoscerli, i difetti che forse condividiamo con loro. Ma anche, è giusto rilevarlo, per l’arretratezza di certi costumi, che abbiamo ben ragione a stigmatizzare, in cui la sopraffazione misogina è spesso ancora più pervasiva e quotidiana, e la differenza di potere più accentuata: che tuttavia non sono monopolio o esclusiva di nessuno, e hanno a che fare più con l’arretratezza economica e lo sviluppo civile che non con il colore della pelle, la religione, o la banale provenienza da altrove. Ugualmente, prendiamo il caso dei MSNA, categoria di cui fanno parte i ragazzi di Catania. Constatiamo che sono invenzione recente: in passato erano quasi inesistenti (c’erano i minori, sì, ma al seguito delle famiglie). Oggi i canali regolari di ingresso per migranti non ci sono praticamente più (li abbiamo chiusi noi), con gli adulti siamo severi e cerchiamo di respingerli, con i minori – ipocritamente ma giustamente – molto meno, per cui da alcuni anni a questa parte il fenomeno è in tumultuosa crescita, e sta diventando una piccola bomba sociale a carico della collettività. Perché noi giustamente li iscriviamo a scuola e li mettiamo in comunità (o, almeno, lo facevamo, quando i numeri erano modesti), ma loro spesso vengono con un obiettivo diverso, di mantenimento della famiglia, e non di rado – salvo i pochi meritoriamente salvati da chi se ne occupa – finiscono per scappare dall’una e dall’altra. Se va bene, per ingrossare le fila del lavoro minorile e irregolare. Se va male, per entrare nel mercato della prostituzione e dello spaccio. Ecco, forse una domanda è lecito farsela: se prima non esistevano e oggi sì, non è che un ruolo ce l’ha il modo in cui gestiamo i flussi migratori? E la soluzione è persistere nella chiusura dei canali regolari, o al contrario rovesciare la logica, aprendoli e controllandoli? Spendere sempre meno, come si sta facendo, in politiche di integrazione, tagliando persino i corsi di conoscenza della lingua e della cultura (in cui ci sta anche una diversa concezione dei rapporti di genere), o al contrario spendere di più? E ancora, mettere i MSNA in centri invivibili (visitate quelli presenti nella vostra città, anche in Veneto), ammucchiati in condizioni igieniche e di sovraffollamento allucinanti, senza iniziative e senza progetto, allo sbando, alla rinfusa, o farsi finalmente carico del fenomeno? Che vuol dire anche, semplicemente, occuparsene, visto che la Sicilia ne ospita oltre un quinto, seguono Lombardia, Emilia-Romagna, Calabria, Campania, Puglia, Lazio, Toscana, Friuli, Piemonte, Liguria, e solo al dodicesimo posto c’è il Veneto, appena prima di Abruzzo, Marche, Basilicata, Molise…

Giovani migranti e violenze, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 7 febbraio 2024, editoriale, p.1-3

Italiani all’estero: le implicazioni difficili della cittadinanza facile

La questione delle richieste di cittadinanza dei discendenti di italiani all’estero è emersa da poco, ma ha radici lontane, che vale la pena ricordare.
La legge sulla cittadinanza risale al 1992, e già allora se ne erano messe in evidenza le criticità. Il principio su cui si basa è quello noto come jure sanguinis: chi, nato all’estero, può vantare un antenato italiano, per quanto lontano nel tempo, può ottenere la cittadinanza italiana sulla base di una semplice richiesta documentata. Al contrario, per chi non ha sangue italiano, qualunque cosa possa significare questa espressione (probabilmente nulla, dal punto di vista tanto biologico quanto culturale), e anche se nato, socializzato e istruito in Italia (cosa che sul piano della vicinanza culturale significa parecchio), conquistare la cittadinanza è una corsa a ostacoli: almeno dieci anni di residenza continuativa in Italia per chi ci è arrivato; e per chi ci è nato, invece, il compimento del diciottesimo anno di età con residenza ininterrotta (ed entro il diciannovesimo, chissà perché: come se un diritto potesse scadere – mentre quello dei discendenti da italiani non decade mai, anche se l’emigrazione risale a centocinquant’anni prima…). Poiché lo stato si prende tre anni di tempo per rispondere, e spesso non rispetta le regole che si è dato, significa che un o una giovane nati in Italia possono rischiare di ottenere la cittadinanza a ventidue o ventitré anni, facendo dell’Italia una dei paesi europei in cui è più difficile e complicato ottenerla. Il capolavoro si è compiuto poi con la legge del 2001 sul voto agli emigranti, fortissimamente voluta dall’allora ministro per gli italiani all’estero Mirko Tremaglia, di Alleanza Nazionale, ma votata per ignavia, come la precedente, dai partiti di tutto l’arco costituzionale: anche da chi sapeva che era una follia ideologica senza alcuna vera motivazione pratica. Il paradosso che ne è derivato è che chi in Italia ci è nato, ci vive, ci paga le tasse, ne conosce la lingua, fa molta più fatica ad ottenere la cittadinanza di chi qui non ha alcun legame né alcun interesse: e il primo non vota alle politiche, il secondo sì. Nel concreto, il pronipote di un Veneto emigrato in Brasile nel 1870, di cui nessun discendente è mai più rientrato nemmeno come turista, può ottenere la cittadinanza subito, mentre un brasiliano nato in Italia, che non conosce altro paese che questo, deve aspettare il compimento della maggiore età solo per inoltrare la domanda, a meno che un suo genitore non si sposi con un italiano/a.
C’è poi la questione dei motivi: chi chiede la cittadinanza italiana vivendoci, di solito si sente italiano, questa è la sua lingua, la sua patria, il suo orizzonte di lungo periodo. Chi la chiede dall’estero nella grande maggioranza dei casi vuole solo poter viaggiare più comodo, entrare negli USA senza visto, o ottenere la libera circolazione in tutta l’Unione Europea (cosa sulla quale l’UE potrebbe prima o poi eccepire).
Per anni questa è stata solo un’incongruenza politica, con pochi effetti pratici perché le nostre ambasciate e consolati davano seguito alle domande, per usare un eufemismo, con opportuna lentezza. Oggi che qualche precursore, non ottenendo risposte, è riuscito a vedersi riconosciuto il diritto per via giudiziale, è cominciato l’effetto emulazione (al tribunale di Venezia queste cause costituiscono già i due terzi del contenzioso civile, con i costi e i ritardi per le cause ‘autoctone’ che questo implica). La situazione è quella documentata su queste pagine da numerosi casi veneti: paesi in cui le richieste di cittadinanza dall’estero sono superiori al dieci per cento della popolazione, anagrafi in tilt e minacciate di ricorsi al TAR e risarcimenti, centocinquantamila domande presentate solo in Veneto e solo dal Brasile nell’ultimo anno, pletore di avvocati, consulenti e intermediari che ci campano sopra (c’è sempre business dove lo stato non applica ciò che promette), e il rischio di un effetto valanga con potenziali distorsioni persino della democrazia: con un minimo di organizzazione questi neo-cittadini non residenti potrebbero distorcere il risultato elettorale a loro favore, decidendo sindaci e maggioranze.
Ce ne sarebbe abbastanza per far diventare questa una notizia politica di rilievo nazionale, e pure urgente. Rimane invece, per ora, cronaca locale, derubricata a intoppo burocratico, a problema amministrativo. Come spesso succede, manca il coraggio di affrontare il problema alle radici.

(nella foto: il Comune di Val di Zoldo espone la bandiera brasiliana. L’ente locale ha 2.745 abitanti, di cui 1.720 residenti all’estero, la metà dei quali vive in Brasile: in questo momento ha 551 pratiche pendenti di discendenti di italiani residenti in questo paese)

Finti e veri italiani, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 4 febbraio 2024, editoriale, p.1

Fine vita: il festival dell’ipocrisia che ha sconfitto Zaia

Bisogna dare atto al governatore Zaia di averci messo la faccia, e di avere avuto il coraggio di andare contro la sua stessa maggioranza: primo e unico presidente di regione, fino ad ora, ad averlo fatto. Prima anche, quindi, dei governatori di centro-sinistra.
Forse ha giocato anche il limite ai mandati. A fine corse è possibile assumere posizioni più coraggiose, tanto, non dovendo essere rieletti, non si è obbligati a corteggiare i propri elettori. Peraltro, in questo caso è una scelta vantaggiosa, che pur facendogli perdere qualche sostegno interno, gli consente di conquistare praterie di consenso personale fuori dal suo recinto politico naturale, visto che i sondaggi sono unanimi nel mostrare che la maggioranza degli italiani, e anche la maggioranza dei veneti (che, da un pezzo, non è più la Vandea italiana), è a favore della regolamentazione del suicidio assistito. Ma la sua posizione non è frutto di calcolo: Luca Zaia ha mostrato in questi anni un’encomiabile coerenza sul tema dei diritti civili – si pensi alle sue posizioni sulle tematiche LGBTQ+. Con questa scelta Zaia diventa anche una figura nazionale di riferimento, e rafforza significativamente un ruolo e una traiettoria politica che ha sempre dichiarato di considerare legata strettamente al territorio, proiettandosi volente o nolente su un palcoscenico molto più ampio.
Il voto contrario di ieri sancisce anche la trasformazione definitiva della Lega da partito laico (quale l’aveva voluto Bossi, che si era inventato solo in un secondo tempo una improbabile consulta cattolica affidandola a Irene Pivetti, che peraltro ha smesso di esistere quasi subito) a ultracattolico. Almeno nominalmente, perché poi, alla maniera del rosario di Salvini (anche lui in origine un laicissimo comunista padano) si tratta di un cristianesimo esibito: quanto vissuto e pregato, è materia di valutazione più complessa e opinabile. Ma è tendenza tipica degli identitaristi di oggi – si pensi a quanto avviene oltreoceano – la propensione a pagare alla religione quello che gli inglesi chiamano lip service, che non è propriamente un attestato di coerenza. Dimenticando peraltro che anche i cattolici – lungi dall’essere rappresentati dai gruppuscoli vociferanti di questi giorni, che tuonano e minacciano sfracelli elettorali ma sono composti da poche manciate di militanti – sono divisi sostanzialmente a metà, così come lo sono i laici, su questi temi.
Quanto accaduto ieri è quindi un’occasione persa della politica regionale: anche di opposizione, visto il voto contrario pure di una consigliera del PD, diventata determinante nell’affossare una legge che non è passata, per l’appunto, per un voto. Il consiglio regionale ha mostrato ancora una volta di interessarsi poco di cose che interessano invece molto gli elettori, e di pensarla diversamente da loro: rendendo vacuo domandarsi perché la fiducia nella politica cali e l’astensionismo cresca.
Il voto contrario in definitiva è ascrivibile a ideologia, ipocrisia, e anche qualche evitabile grettezza. Quest’ultima l’ha mostrata chi è ricorso persino all’argomentazione del costo, e del conseguente risparmio che il respingimento della proposta di legge consente: in realtà modestissimo, perché riguarda pochissimi casi, e irrilevante rispetto al bilancio sanitario della regione, oltre che moralmente discutibile. L’ipocrisia, venata da ideologia, l’ha mostrata chi ha argomentato e votato, apparentemente, senza aver letto nemmeno i dispositivi e le sentenze, evocando un vago diritto alla vita (come se il diritto a disporne in casi drammatici e dolorosissimi non lo fosse: lo è invece di più, perché è il diritto a una vita vivibile) o un’ancor più evanescente difesa della famiglia, che la legge non metteva in questione in nessun modo. Facendo finta di non vedere che le cose resteranno esattamente come stanno, con il diritto al suicidio assistito (che non ha nulla a che fare con l’eutanasia), garantito e non punibile: ma che, semplicemente, sarà di più lunga, incerta e difficile applicazione in termini di tempistica, e diverso da ospedale a ospedale, da città a città. Cosa, naturalmente, insensata.

Il coraggio di Luca, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 18 gennaio 2024, editoriale, p. 1

Chi è contro l’integrazione? Moschee e politica: il caso Monfalcone

La chiusura delle moschee di Monfalcone mostra quante contraddizioni e strumentalizzazioni circondino l’integrazione degli immigrati, e quanto spesso l’ostacolo ad essa siano gli autoctoni, e non i diretti interessati.

Il fatto. La sindaca Cisint, pochi giorni prima di Natale, ha chiuso due centri culturali islamici e interdetto il parcheggio a un terzo. Ottomila musulmani hanno civilmente manifestato contro la chiusura, dietro lo striscione “Siamo tutti monfalconesi. No alle divisioni”, sventolando bandiere italiane e europee; e lei ha indetto uno scambio di auguri in un’altra piazza (con presenze comparativamente modeste: ma bastano i media a fare da eco), accusandoli di provocazione e di guerra di religione, evocando un inesistente attacco al Natale, sostenuta dal ministro Salvini e dal presidente della regione Fedriga.

Qual è il problema vero? Che a Monfalcone, 28mila abitanti, vivono 8mila stranieri, quasi il 30%, la metà dei quali provenienti dal Bangladesh, musulmani. E perché ci sono così tanti musulmani a Monfalcone? Perché lì vivono e lavorano, in buona parte a Fincantieri e nell’indotto della cantieristica. Non dovrebbe stupire che abbiano desiderio – e diritto – a un luogo di culto: anche gli italiani emigrati la prima cosa che costruivano, dopo la propria casa, era la chiesa. Ma invece di aiutarli a costruirsi una moschea dignitosa, si dichiara guerra ai loro luoghi di culto.

Certo, capiamo che è difficile governare questa complessità: peraltro, con un numero di immigrati aumentato fortemente proprio durante il primo mandato della sindaca, a testimonianza del fatto che non basta dire di non volere gli immigrati per vederli sparire. E allora perché chiudere le moschee? Con un argomento usato spesso: cambio di destinazione d’uso, sovraffollamento e sicurezza, e quindi inagibilità. Immaginiamo si usi la stessa solerzia per tutti gli altri cambi di destinazione d’uso, si siano chiuse per eccessivo affollamento le chiese durante le messe di Natale, e si controlli capillarmente sicurezza e norme antincendio di tutte le imprese (a cominciare da Fincantieri), i negozi, le scuole, le polisportive, i circoli culturali e gli oratori della città, per evitare sospetti di attenzione selettiva. Ma anche fosse: come potrebbero le moschee essere costruite alla luce del sole, visto che mai otterrebbero i permessi relativi? Altre regioni, come Veneto e Lombardia, hanno addirittura approvato leggi per impedirle…

Ecco, il problema è qui, ed è culturale, e di scontro tra l’ideologia e il principio di realtà. L’ideologia vorrebbe una Monfalcone ‘pura’ etnicamente (ma che vuol dire in una città in cui i meridionali son venuti a lavorare nei cantieri fin dalla loro apertura, cent’anni fa?). La realtà si scontra con un fabbisogno di manodopera che certo andrebbe gestito meglio, vincolando Fincantieri e le altre imprese a regole e contratti più cogenti (e questo si dovrebbe fare, infatti, non prendersela con l’ultimo anello della catena, il più debole), ma senza la quale la città sarebbe assai più povera, e in drammatico calo demografico: mentre così rischia di trovarsi in vantaggio competitivo rispetto ad altre realtà della regione. E invece no: si tolgono le panchine dalla piazza perché le usano gli immigrati, si pratica un tetto massimo di stranieri nelle scuole, e financo si toglie il cricket dalla festa dello sport monfalconese solo perché praticato dai bengalesi – mettendo i residenti gli uni contro gli altri. Sarà vantaggioso elettoralmente (la sindaca ha ottenuto il secondo mandato con una maggioranza del 72%, anche se i suoi voti sono stati 7500, meno dei manifestanti dell’altro giorno), ma è miope, perché si produce il contrario di quello che si dice di volere, senza metterne le basi: maggiore integrazione, che poi vuol dire maggiore sicurezza e benessere per tutti.

Cosa succederà, andando avanti così? Inevitabilmente, che una parte della città governerà contro l’altra, anziché con. Facile, anche perché l’altra parte, per ora, non ha per lo più la cittadinanza, e non vota. Ma tale scelta rischia di configurarsi come un blando e non dichiarato apartheid, in cui persone diverse per etnia e religione hanno diritti diversi, le cui conseguenze si pagheranno in futuro.

Ricordiamo, en passant, il precedente di Verona. Il sindaco allora leghista Tosi, al primo mandato, aveva un programma fortemente anti-islamico. Ha chiuso la moschea, come promesso: i musulmani hanno fatto ricorso al TAR e l’hanno vinto. L’ha richiusa, hanno rifatto ricorso, e l’hanno rivinto. È finita che nel secondo mandato sindaco e imam si facevano i selfie insieme, e oggi nessuno sano di mente, a Verona, rimetterebbe in questione il diritto costituzionale dei musulmani a riunirsi nel proprio luogo di culto. Magari pensarci prima?

 

Cantieri e moschee chiuse, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 dicembre 2023, editoriale, p. 1-2

Niente Natale dove è nato il Natale: Palestina senza pace

Se c’è un posto nel mondo dove sicuramente non sarà Natale, questo è dove è nato il suo protagonista: Betlemme, la Cisgiordania, la parte di Israele che noi chiamiamo Terra Santa, e la Palestina tutta (qualunque territorio questa espressione racchiuda), a cominciare da Gaza. Un fazzoletto di terra, insanguinato da decenni, che oggi conosce uno dei suoi momenti più alti di violenza e disumanizzazione. Tuttavia, se vogliamo evitare di indulgere in una facile retorica, affettatamente nobile ma di fatto vacua e non veramente partecipe, l’unica cosa decente e intelligente che possiamo fare noi, che il Natale lo passeremo al caldo, tra affetti e regali, è trarne qualche lezione.

La prima è che nessuno è al sicuro: nemmeno noi. La guerra è tornata vicino e dentro i confini dell’Europa, e con essa tornerà (è già tornata) la percezione di insicurezza, le proteste e i conflitti tra fazioni contrapposte, l’ossessione del terrorismo, tra ragionevoli timori e paranoie attentamente costruite.

È l’occasione, per noi, per fare pulizia: a cominciare dalla pulizia del linguaggio, sulla padronanza del quale, e sul modo di usarlo, abbiamo tutta la responsabilità del mondo. Possiamo legittimamente provare una sensazione di impotenza rispetto a scenari geopolitici tanto più grandi di noi. Ma non abbiamo il diritto di provarne quando ne parliamo, e ci ragioniamo sopra – che, già, sono due cose qualitativamente diverse.

Il primo invito allora è a ragionare prima di parlare. Che è un’attività che si fa da soli. Cercandosi fonti di informazione attendibili, e non avendo paura di esprimere opinioni dissonanti da quelle del mainstream mediatico e politico. Cercando di capire che possiamo e dobbiamo distinguere tra le responsabilità dei rispettivi carnefici, ma dobbiamo pure esprimere eguale solidarietà alle vittime innocenti, tutte. La logica da tifo calcistico con la quale spesso affrontiamo il conflitto israelo-palestinese, abbracciando superficialmente le ragioni dell’uno o dell’altro, schierandoci (“senza se e senza ma”, come spesso si chiosa: come se vivessimo e ragionassimo in questo modo in altri ambiti della vita individuale e sociale…), ma senza troppo pensare, è profondamente dissonante rispetto all’approfondimento critico cui siamo chiamati. Fare pulizia, togliere lo sporco da dentro di noi, dai nostri ragionamenti e dalle nostre parole, vuol dire innanzitutto questo: capire, ragionare, e solo poi prendere parte, che non è la stessa cosa che prendere partito – vuol dire innanzitutto entrare in empatia, cioè sentire il dolore (pàthos) altrui, non importa di chi si tratti. Così come sapere da che parte stare non vuol dire stare sempre e necessariamente dalla stessa parte: perché la ricerca della pace, di una soluzione al conflitto, che cerchi diminuire il costo che pagano gli innocenti, vuol dire saper leggere la realtà con gli occhi dell’altro, e cercare un compromesso accettabile, costruirlo pazientemente – con i se e con i ma. Sporcandosi le mani con la fatica delle scelte e delle inevitabili incomprensioni, non tenendole pulite in un’illusione di purezza identitaria, tipica di chi si sente dalla parte giusta. Denunciando quindi, in primo luogo, gli errori e le nefandezze di quelli che sosteniamo, invece di minimizzarle e nasconderle: che è quello che fa la propaganda (bellica per definizione) – che è l’inizio della fine della ricerca della verità, anzi è il suo opposto, il vero sporco che dovremmo ostinatamente cercare di togliere dagli interstizi del nostro ragionare e del nostro agire.

Il passo successivo è naturalmente quello della solidarietà: tanto più vera se la sentiamo, prima ancora di praticarla. Se piangiamo il dolore altrui, anziché usare selettivamente le vittime (rigorosamente solo quelle della parte che sosteniamo) per colpire e accusare la parte avversa. Le vittime meritano di essere aiutate, non strumentalizzate. E quindi è giusto anche valutarne il numero (contano, per noi, anche nella misura in cui le contiamo), e con esso misurare l’immensità della tragedia che si sta consumando, capire chi la subisce in maniera maggiore, chi sta pagando il prezzo più alto.

Gandhi diceva che “il fine sta nei mezzi come l’albero nel seme”. Che non ci sono cause giuste da sostenere se il modo con cui le sosteniamo è quello sbagliato, o è viziato all’origine da una lettura parziale della situazione. Anche perché, temo, le letture acritiche, partigiane, de-umanizzanti, di sostegno a sola una delle parti in causa, ci rimbalzeranno addosso in futuro. Anche in chiave geopolitica. E non potremo dire allora di non avere responsabilità in proposito. La responsabilità delle parole e delle azioni di oggi.

Lettere dalla guerra: Betlemme senza Natale, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 24 dicembre 2024, editoriale, p. 1

Perché è ragionevole il limite ai mandati

Luca Zaia gode di tassi di consenso stratosferici: di approvazione trasversale, di immarcescibile e persino crescente popolarità, in fasce assai diverse di popolazione, per età, livello di istruzione, genere, professione.

Non ne diamo un giudizio politico. Non è quello che ci interessa, in questa sede. Lo constatiamo, e basta. È un animale politico di rara abilità e longevità. E vorrà dire qualcosa se il suo consenso personale trascende la sua parte politica, e pesca abbondantemente anche in quella avversaria.

Ma è sufficiente, questo, a giustificare un altro mandato come governatore, e un altro ancora? Vale per lui, come per gli altri governatori, per i sindaci, per gli assessori, e per le altre cariche apicali della politica che prevedono il limite dei due mandati (che poi, nel caso specifico, si tratterebbe del quarto mandato, e non del terzo, visto che governa da prima che entrasse in vigore la norma sui due mandati: è presidente della regione ininterrottamente dal 2010, ed è stato suo vice-presidente dal 2005, se escludiamo una breve parentesi come ministro).

Chi sostiene l’abolizione del limite dei mandati ha un argomento forte: il consenso, la volontà popolare (se pure espressa da un numero sempre minore di elettori: oggi basta la metà più uno dei consensi di meno della metà degli elettori a vincere – e il trend di partecipazione continua a calare, cambiando di molto il significato dell’espressione “volontà popolare”, riducendola di fatto a un suo simulacro). E un altro ancora: perché solo loro? Perché non anche i parlamentari, o i consiglieri comunali, provinciali e regionali? L’obiezione ha senso: seppure chi governa ha un potere molto maggiore di chi si limita a rappresentare. E comunque varrebbe la pena ragionare sul fatto di introdurre il limite anche per gli altri, come alcuni partiti hanno fatto volontariamente. Si dice che così non si formano professionalità politiche adeguate: ma non abbiamo alcuna controprova che, se ci fosse stato maggiore ricambio, le cose sarebbero andate peggio. Mentre abbiamo molti indizi che, con i professionisti della politica, i signori delle tessere, le consorterie permanenti, le rendite di posizione, le ‘ditte’ di vario tipo, le cose siano comunque andate molto male.

Il fatto è che sapere di avere una scadenza, per quanto lontana, obbliga i partiti, e gli stessi leader, a far crescere un ceto politico di ricambio, fresco e innovatore, capace e professionale. Mentre in assenza di limiti le elite tendono ad autoperpetuarsi, e hanno tutto l’interesse non solo a non favorire, ma a ostacolare e impedire attivamente l’emergere di figure politiche concorrenti. Creando un danno enorme: almeno se crediamo che la concorrenza abbia un valore e la meritocrazia un senso, anche al di fuori del mercato e dell’economia.

Piaccia o non piaccia, un monarca, per quanto costituzionale, porta con sé i soliti noti, gli amici e i consiglieri fidati, le cordate e le clientele abituali, i garanti dell’ordine costituito: le proprie corti e i propri cortigiani. Mai figure, come si dice oggi, disruptive, innovative; quasi mai un cambiamento di visione; e mai processi che possano mettere in questioni gli obiettivi raggiunti, o esprimere un giudizio critico sul passato. E questo molto al di là della volontà dei singoli. Del resto, è quello che si è visto in regione anche dopo le ultime elezioni: le continuità, le inerzie (la forza più grande della storia, diceva Tolstoj) hanno prevalso nettamente sulle discontinuità – basta guardare alle nomine e agli assessori. Squadra che vince non si cambia, si dice: il problema è intendersi sul concetto di vittoria – alle elezioni o nella competizione globale? È un aspetto, non secondario, della legge ferrea delle oligarchie di cui parlava uno studioso italiano, Roberto Michels, già all’inizio del secolo scorso. Un leader, inoltre, può pure sembrare eterno e immortale (il potere dà questa illusione), ma invecchia anche lui. E come tutte le persone che invecchiano finisce per vivere più di abitudini che di cambiamenti, per essere più legato al passato, alla nostalgia del buon tempo andato (che peraltro non tornerà mai più: il Nordest è cambiato completamente, dai fasti del suo modello alle difficoltà attuali) che al futuro con i suoi rischi e le sue opportunità, su cui bisogna saper scommettere.

Tra chi punta sulla continuità – che forse è mero continuismo – c’è chi teme il vuoto di potere. Ma il vuoto di potere non esiste. Semmai esiste il potere del vuoto. Che è quello che la politica mostra aspirando a perpetuare sé stessa, anziché aprirsi a un nuovo modo di pensarsi e di pensare la società.

 

Il potere che cambia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 17 dicembre 2023, editoriale, p.1

Il dolore e la presa di coscienza. Di fronte alla morte di Giulia Cecchettin.

Se la misura di un evento è la sua capacità di farci riflettere, l’assassinio di Giulia Cecchettin, la commozione, la riflessione e la mobilitazione che ne sono seguite, e infine la partecipazione corale e sentita ai funerali, hanno indubbiamente avuto un effetto trasformativo.

Certo, la violenza contro le donne e i femminicidi – nonché le culture su cui si fondano e gli squilibri di potere da cui originano – hanno una lunga storia, che purtroppo non finirà ora: ce ne saranno ancora. Ma nella storia sociale e civile, e qualche volta politica, di popoli e nazioni, ogni tanto capitano eventi spartiacque, che costringono tutti a una riflessione e a un esame di coscienza: la morte di Giulia, possiamo dirlo fin da adesso, è stato uno di questi eventi. E nel fatto che lo sia stato ha avuto un ruolo la consapevolezza forte della famiglia, del padre Gino e della sorella Elena, la loro capacità di farla diventare storia pubblica, interrogazione collettiva: grazie a loro questa morte non è stata e non sarà stata invano.

A fronte della grandezza di tutto questo, molte critiche e banalità sentite in questi giorni – su un presunto pensiero unico, sulla (ovvia) inaccettabilità delle generalizzazioni, sul fatto che la violenza in fondo c’è dappertutto e anche da parte delle donne, sulla derubricazione di quanto avvenuto a mero fatto individuale, a peculiarità solo psicologica (che ovviamente c’è) e individuale, sull’inesistenza di quello che si può chiamare patriarcato o in altro modo ma certamente è ben presente nelle nostre società, ecc. – sono totalmente irricevibili, e spesso dettate da semplice desiderio di visibilità, se non da puro gusto polemico, condito da infantilismo del pensiero.

Invece di ragionare in astratto, provo a raccontare quello che ho visto in università: l’università che Giulia (e anche il suo assassino, colui che ha così terribilmente tradito la sua fiducia) aveva frequentato e in cui avrebbe dovuto laurearsi pochi giorni dopo. Il lunedì dopo il fatto molti di noi docenti – maschi e femmine indifferentemente – avevano la voce spezzata, e facevano fatica a fare lezione: e, senza mettersi d’accordo, moltissimi l’hanno fatta su questo, parlandone con ragazze e ragazzi che non aspettavano altro, e avevano voglia e bisogno di dire la loro. La reazione, la partecipazione e la mobilitazione attiva di studentesse e anche studenti è stata spontanea, immediata, corale, sentita, emozionale, spesso legittimamente arrabbiata, per niente ideologica, tutt’altro che moralistica e politicamente schierata. Profonda, seria, autentica e matura, mi viene da dire, nonostante il forte coinvolgimento emotivo, e forse grazie ad esso. E il giorno dei funerali mi ha colpito non tanto la presenza delle ragazze (più scontata, da un certo punto di vista, anche se qualitativamente diversa da quella vista in altre situazioni, più rivendicative e di lotta, come le manifestazioni – più alta, direi), o quella di gruppi misti di ragazze e ragazzi, ma quella di giovani coppie abbracciate che credo non dimenticheranno di esserci state (anche e soprattutto quando litigheranno per questioni legate alle inerzie culturali implicite nei ruoli di genere), e ancora di più i gruppi di ragazzi arrivati insieme, e i tanti studenti, giovani adulti, uomini soli, venuti a testimoniare silenziosamente di fronte a se stessi una presenza sentita come dovuta: di fatto, a fare esame di coscienza, come individui e come collettività maschile, che deve prendersi carico del proprio ruolo e della propria responsabilità, piangendo il dolore, la sofferenza, la violenza subita ordinariamente dall’altra metà del mondo, le loro sorelle, amiche, madri, figlie, compagne, colleghe, partner.

Chi sottovaluta quanto avvenuto, o chi lo svaluta, derubricandolo a reazione di pochi, irridendola come emotiva, una cosa che passa e non lascerà tracce e conseguenze significative, dimentica che le emozioni sono ciò che ci fa letteralmente – come da etimologia – e-movere, cioè agire. E la com-mozione, il piangere insieme il dolore altrui, ne è una delle forme più eminenti ed efficaci.

 

Il nostro pianto collettivo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 dicembre 2023, editoriale, p. 1

Diritti civili: il divorzio tra politica e società

Il 74% degli italiani è favorevole all’eutanasia. Il 72,5% è favorevole alla concessione della cittadinanza ai figli degli immigrati. Il 70,3% è favorevole all’adozione per i single, e il 54,3% anche per le coppie omosessuali. A proposito di mondo LGTBQ+, il 65,6% è a favore anche del matrimonio egualitario tra persone dello stesso sesso. Solo la gestazione per altri è respinta dalla maggioranza degli italiani, essendo sostenuta dal 34,4% della popolazione. Lo attesta il Censis, nell’annuale fotografia scattata con il suo rapporto: uno specchio del paese, non della sua classe dirigente.

In queste cifre c’è infatti tutto lo scollamento (potremmo dire il divorzio, richiamando un altro tema di diritti civili in cui la società aveva mostrato di essere più avanti dei suoi leader) tra la popolazione italiana, e la politica che dovrebbe rappresentarla – ma non lo fa. Una politica che guarda all’indietro, che ha paura di prendere qualsiasi decisione, che rinvia e procrastina, mentre la società guarda più lontano (e altrove) e va avanti, pensa, riflette, evolve, cambia idea, e deciderebbe, se lo potesse.

Tutto questo non è estraneo alle difficoltà civili, sociali, e anche economiche del nostro paese, e al suo persino sorprendente basso livello di soddisfazione (siamo ai livelli più bassi, tra i paesi europei, negli indici di felicità percepita, nonostante i patrimoni Unesco e la dieta mediterranea, e la retorica sparsa a piene meni dalla politica sul paese più bello del mondo: altro elemento di scollamento – forse è bello per i politici, molto meno per gli altri).

Sono i giovani a tirare la volata su tutti questi temi. Ma sono la popolazione meno ascoltata. Perché sono pochi. Perché, precocemente delusi, votano in percentuali inferiori. E perché, quindi, ascoltare le paure degli anziani è più facile e redditizio per la politica (non deve fare nulla: solo dar loro ragione) che non agire, fare, cambiare qualcosa. Ma anche la popolazione più matura dei rappresentati la pensa diversamente dai suoi (molto presunti, sul piano valoriale) rappresentanti.

Incidentalmente, questo scollamento produce sfiducia ulteriore, lo sfilacciarsi del patto sociale, e anche la ragionevole esterofilia che spinge molti, giovani soprattutto, non solo a guardare con invidia ai modelli sociali di altri paesi, ma proprio ad andarsene, come mostra plasticamente la crescente emigrazione, che è ancora più alta tra le categorie più istruite e più aperte al cambiamento, producendo un impoverimento ulteriore, che paghiamo a caro prezzo.

Ecco, sarebbe bello, e soprattutto utile, se la politica – anche regionale, anche locale – (e la politica tutta: anche quando era al governo il centro-sinistra, non si sono prodotti passi avanti significativi, o non abbastanza, rispetto, che so, alla cittadinanza per le seconde generazioni nate in Italia o sul matrimonio egualitario) facesse un esame di coscienza sul proprio ruolo, sui danni che su questi temi fa al paese. E si desse una mossa. Magari, chiedendo scusa per il troppo tempo perso fino ad ora.

 

Se politica e società divorziano, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 3 dicembre 2023, editoriale, p.1

Ironie della storia: gli albanesi e noi

Ve li ricordate, gli albanesi? Quelli arrivati con la nave Vlora, ad esempio? Ventimila persone (ventimila!) arrivate con una nave sola, l’8 agosto 1991: il più grande sbarco di immigrati della storia italiana. In gran parte furono rimpatriati con una menzogna, dicendo che li si sarebbe portati altrove, ma sempre in Italia: compensati con un paio di jeans e poco più. Ma negli anni successivi sono continuati ad arrivare.
Oggi sono quasi mezzo milione, quasi un decimo degli immigrati in Italia, e non spaventano più nessuno. Al punto che gli stessi (e gli stessi partiti) che allora e negli anni successivi non li volevano proprio, organizzavano manifestazioni contro di loro e contro gli altri immigrati, raccoglievano voti utilizzandoli come capro espiatorio di mali sociali che stavano altrove, oggi firmano accordi con il loro paese d’origine per aiutarci a gestire proprio l’immigrazione irregolare che loro rappresentavano, appena trent’anni fa. E non è solo la politica ad aver cambiato idea: il che è segno di saggezza, anche se è sospetto che sia accaduto solo quando si è visto che poteva fare comodo. È anche la gente, quella stessa che all’inizio li rifiutava, che li ha poi accolti senza problemi: lavorano e hanno creato moltissime imprese (oltre 50mila, in cui sono assunti pure molti italiani), i matrimoni misti sono tantissimi, qualcuno è stato addirittura eletto dagli italiani per rappresentare i loro interessi e governarli: come la giovane avvocatessa Sindi Manushi, oggi sindaca di Pieve di Cadore (che peraltro è riuscita anche a diventare italiana, seppur mettendoci quasi quindici anni).
Ecco, dovrebbe dirci qualcosa, questa ironia della storia, questa solo apparentemente sorprendente nemesi storica, questa rivincita silenziosa. Perché la loro storia è la storia di tutte le migrazioni: solo che non si ama ricordarla. Né si fa tesoro dell’esperienza. E nemmeno si vuole accettare che accada così anche per gli altri immigrati.
Ma torniamo agli accordi siglati con l’Albania: di fatto uno specchietto per le allodole. Non che non si debbano fare accordi con altri paesi, per governare l’immigrazione: al contrario. Ma con i paesi di provenienza e di transito: e aprendo canali regolari di ingresso, cosa che ancora non si fa, non solo demandando ad essi politiche di contenimento. La ratio di questo accordo invece è la pura esternalizzazione di una funzione: fare là quello che normalmente si fa qua. Ufficialmente con la scusa che sia funzionale. Il problema è che non lo è. Oltre a essere enormemente costoso. È un po’ come se, per risolvere il problema delle liste d’attesa in sanità, aprissimo un ospedale a Tirana, e ci portassimo medici e pazienti italiani. Qui si fa lo stesso. Si prendono degli immigrati da Lampedusa o intercettati in mare, li si portano in Albania, in una base ristrutturata a spese nostre, con un fondo di garanzia per gli acquisti e le spese correnti, si porta personale amministrativo e di polizia dall’Italia (con le indennità e i sovracosti relativi), si esaminano le pratiche – si dice – di tremila persone al mese (ma se è davvero possibile farlo in Albania, perché qua ci mettiamo anche un anno e più?): poi, i richiedenti asilo riconosciuti, li si dovranno riportare in Italia. E quelli non riconosciuti, con tutta probabilità, ce li ritroveremo comunque da noi, perché riproveranno a entrare irregolarmente via mare dall’Albania o via terra lungo la rotta balcanica. Con il risultato di aver speso una cifra assurda per gestire delle pratiche che avremmo potuto gestire con molto meno in Italia. Un risultato, tuttavia, lo si sarà ottenuto, ed è la vera ragione dell’accordo: si potrà dire al proprio elettorato che si è fatto qualcosa per liberarsi di un po’ di immigrati giudicati inutili. E questo proprio mentre le nostre imprese, il nostro turismo, la nostra agricoltura e i nostri servizi, inclusi quelli alla persona, continueranno a lamentare la carenza di immigrati utili.
Se poi l’obiettivo, come si dichiara, è dissuasivo (spaventare gli immigrati, facendo loro balenare il rischio di essere portati altrove, anziché in Italia), è pura illusione che questo possa far diminuire le partenze. Non ci riescono i muri, che producono il solo risultato di aumentare la lunghezza, la durata e la sofferenza del viaggio. Figuriamoci se ci può riuscire una deviazione in più, per persone che hanno alle spalle migliaia di chilometri di viaggio, e di deviazioni ne hanno dovute già fare molte.
Infine, se la logica è esternalizzare, cioè usare i servizi di altri paesi, facendo fare ad altri quello che noi facciamo peggio, avrei una proposta: allarghiamola. Perché non far gestire il welfare alla Svezia, la burocrazia alla Germania, la giustizia alla Francia, la scuola alla Danimarca, le tasse all’Olanda?

Ironie della storia: noi e l’Albania, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 26 novembre 2023, editoriale, p.1