Ius scholae. Il diritto di avere diritti.
La cittadinanza è “il diritto di avere diritti”, diceva Hannah Arendt. Sapeva di cosa parlava, essendo stata apolide per un decennio. Lo diciamo in altro modo: la cittadinanza fa coincidere le frontiere territoriali con le frontiere dei diritti, semplificando notevolmente la vita. Chi ce l’ha, ha qualcosa in più, di sostanziale, che ne determina lo status e in certa misura i percorsi e gli esiti. Ed è precisamente quello che non capiscono (o capiscono fin troppo bene) coloro i quali, comodamente seduti sulla propria cittadinanza che coincide con il luogo di residenza, la rifiutano ad altri: trasformando il proprio diritto in privilegio. Che altro significa, infatti, far stare in condizioni giuridiche diverse due persone nella medesima situazione?
Prendiamo due minori, uno figlio di italiani, l’altro di immigrati. Nati entrambi in Italia (lo sono anche la stragrande maggioranza dei figli di immigrati). Frequentano lo stesso nido e la stessa scuola, la stessa palestra e spesso anche lo stesso oratorio. Hanno fatto gli stessi studi, nella stessa lingua, con gli stessi riferimenti culturali. Con poche differenze (che però sono anche differenze interne agli autoctoni: e che arricchiscono il panorama e l’offerta culturale, anziché impoverirla, come fa la chiusura ombelicale), ascoltano la stessa musica, vedono gli stessi film, praticano gli stessi sport e tifano per le stesse squadre, leggono gli stessi libri o gli stessi manga, mangiano cose simili e talvolta anche diverse, si vestono nella stessa maniera ma qualche volta un po’ diversa, si innamorano allo stesso modo e magari anche in modo diverso (ancora una volta: arricchendo e allargando le opportunità di tutti, non certo restringendole). Che cosa li differenzia? Precisamente la cittadinanza. E nient’altro. O, almeno, nient’altro di significativo: perché se si parla di colore della pelle o di occhi a mandorla, sono significativi solo per coloro che gli attribuiscono un significato, che non ha niente di oggettivo, e che per le giovani generazioni significa sempre meno).
Chi ce l’ha, la cittadinanza, nemmeno si accorge del vantaggio competitivo che ha: ma fa parte di un club esclusivo, perché esclude altri. E che non è legato a nessun merito (anzi, è la cosa più antimeritocratica che esiste), essendo la nascita del tutto casuale (nessuno sceglie né il luogo né i genitori e la loro origine). Se li sentissimo solo parlare, i figli e le figlie di immigrati che sono nelle classi dei nostri figli, il più delle volte non ne coglieremmo che la medesima inflessione dialettale. Dunque, perché questa differenza?
L’Italia è oggi uno dei paesi europei con la legislazione più restrittiva. Devi diventare maggiorenne. Poi hai un anno di tempo per raccogliere i documenti necessari (per motivi incomprensibili, se non di puro cattivismo burocratico, la finestra di opportunità si chiude col compimento del diciannovesimo anno). Poi lo stato si prende tre anni di tempo per rispondere (proviamo a immaginare se facesse altrettanto per il nostro certificato di residenza), che di fatto spesso diventano di più, senza che sia veramente possibile sollecitare o protestare. E naturalmente la risposta può essere negativa, anche se accade sempre meno. Quale il vantaggio per gli autoctoni? Persino per questioni di sicurezza, evocate così spesso a sproposito: è meglio includere e integrare (chi peraltro già lo è), o coltivare un sentimento di marginalizzazione? Perché restituire un rifiuto, dire all’altro: non sei come me, anche se ti credi uguale? Cosa ci si guadagna?
Quasi un decennio fa, in alcune realtà del nordest, i comuni, in collaborazione con l’Unicef, davano una simbolica cittadinanza onoraria ai bambini che avevano completato un ciclo scolastico, con incontri specifici e una cerimonia formale. L’ha fatto per qualche tempo anche il comune in cui vivo. Che cosa accadeva, andando nelle classi a parlarne? Che i figli di italiani scoprivano in quel momento, e se ne stupivano, che i loro compagni non avessero gli stessi diritti. Che talvolta lo scoprivano allo stesso modo i figli di stranieri. Ed era commovente e al contempo ironico vedere i giornalisti locali chiedere ai bambini “di dove sei?” e sentirsi rispondere, come a una domanda senza senso: “di qui”. Ecco, sono di qui. Fattualmente: perché non anche giuridicamente? Anche la maggioranza della popolazione oggi ne è consapevole, e è a favore dello ius scholae. E tra i giovani il consenso è plebiscitario. Perché non prenderne atto? Chi è contro, lo fa sulla pelle, è il caso di dirlo, di chi ha meno diritti, e non può votare per difenderli. Non è ora di fare un passo avanti?
Il diritto di avere diritti. Noi e lo ius scholae, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, “Corriere di Bologna”, “Corriere dell’Alto Adige”, 21 agosto 2024, editoriale, pp.1-3