Migrazioni. Costruire una politica, non subirla – Alcune proposte
Secolo 1sett2024 Festival comunicazione
In occasione del Festival della comunicazione di Camogli, il 15 settembre si svolgerà un dibattito cui parteciperanno Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, e Federico Fubini, vice-direttore del Corriere della sera, insieme al sottoscritto. Per presentarlo mi è stato chiesto questo contributo, pubblicato su due intere pagine del quotidiano ligure Il Secolo XIX (nel link che precede, il pdf).
Non si capisce una barca con cento migranti che galleggia precariamente nel Mediterraneo se si guarda solo ad essa. Per capire di cosa si tratta veramente, bisogna guardare al contempo più da lontano e ancora più vicino: guardare cosa succede in Africa e in Europa, a Lagos o a Bruxelles (dal punto di vista demografico, economico, sociale, politico, ambientale…), da un lato, ed entrare nella testa, nel corpo e nei sogni di qualcuno di quei migranti, e nella vita di chi si ritroverà ad avere a che fare con loro, dall’altro. E, per inciso, questo riguarda tutti coloro che migrano: gli immigrati in Italia come gli emigranti dall’Italia, che pure sono in crescita tumultuosa, nell’inconsapevolezza dei più.
Solo così potremo sperare di capire quel fenomeno che chiamiamo migrazione (spesso aggiungendovi una caratterizzazione enfatica: emergenza, dramma, crisi…): che non ha facili spiegazioni monocausali, ma implica invece un insieme molto ampio di fattori, tra loro interrelati. È dalle loro interconnessioni, infatti, più che dall’approfondimento di ciascuno di essi, che possiamo sperare di capire qualcosa di quanto sta succedendo intorno a noi, compresa quella barca che galleggia precariamente nel Mediterraneo.
Non si capiscono infatti le migrazioni se non le intrecciamo ad altre forme di mobilità: delle informazioni, del denaro, delle merci, e naturalmente delle persone. La “rivoluzione mobiletica” in corso sta accentuando la nostra propensione alla mobilità, anche a prescindere dalle migrazioni vere e proprie: ci muoviamo per studio, interesse, cultura, sport, eventi globali come mostre, expo, campionati, olimpiadi, tournée, per fame di esperienze e per amore, per una mobilità intrinseca al nostro lavoro e non solo per cercarlo, per non parlare del turismo, che da solo rappresenta la principale ‘industria’ globale e il dieci per cento del PIL e dell’occupazione mondiale, oltre che a causa di push factors come guerre e carestie, catastrofi naturali e indotte dall’uomo come quelle climatiche, fino ai pendolarismi urbani, agli esodi agostani, ai week-end fuori porta, alle serate che si salvano dall’essere inconcludenti solo nell’essere itineranti (come in Certe notti che cantava Ligabue, in cui “ci ritroveremo come le star a bere del whisky al Roxy bar”, come nella Vita spericolata di Vasco Rossi), a testimonianza della nostra connaturata irrequietezza. E del fatto che oggi siamo mobili in misura maggiore rispetto ai nostri genitori e ai nostri nonni.
La nostra storia di mobilità, come specie, viene da lontano: dalla preistoria. Da quando i nostri progenitori, i vari homo in cui siamo evoluti – fino all’ultimo, i Sapiens, di cui facciamo parte (qualcuno forse abusivamente) –, hanno abbandonato l’Africa per popolare l’intero globo, facendo del nomadismo una costante della storia umana – la sua fisiologia, non la sua patologia, la norma, non l’eccezione. Se facessimo pari a 24 ore la storia dell’umanità siamo stati nomadi per 23 ore e 54 minuti, secondo più secondo meno: cacciatori e raccoglitori prima, poi pastori, solo recentemente – dalla rivoluzione neolitica, diecimila anni fa – contadini e infine urbanizzati, e negli ultimi secondi di nuovo potentemente mobili, grazie anche all’innovazione tecnologica, che ha reso il viaggiare, per chi può farlo legalmente e liberamente, mai così veloce, economico, sicuro e dunque ripetibile e reversibile).
Ma non si capiscono le migrazioni, in ingresso e in uscita, nemmeno se non le colleghiamo ad altri fenomeni, a cominciare dalla demografia, per continuare con le trasformazioni nel mercato del lavoro e le sue esigenze di manodopera, il livello di istruzione di chi arriva e di chi parte, l’ambiente, e altro ancora. La demografia è il primo e principale fattore correlato, dato che fa dell’Italia il paese più vecchio d’Europa e uno dei più vecchi del mondo (e non abbiamo ancora capito con quali devastanti conseguenze). Un paese che ha più morti che nati (con una differenza in negativo che è pari annualmente alla popolazione di una città come Padova, che evapora senza sostituzione), con più figli che si prendono cura dei genitori che genitori che si prendono cura dei figli, in cui si vendono più pannoloni che pannoloni, in cui il 45% (quasi la metà) delle donne in età fertile non ha figli a fronte di solo un 5% che dichiara di non volerne. Un paese in cui importiamo immigrati con relativamente bassa scolarizzazione (e con sbocchi lavorativi che del resto non la richiedono), ma comunque in numero largamente insufficiente al fabbisogno, ed esportiamo laureati in percentuale doppia rispetto ai giovani autoctoni che rimangono, pur avendo la metà dei laureati rispetto alla media europea. Un paese, come ricorda Federico Fubini citando il recente intervento del governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, in cui nei prossimi 15 anni il numero di persone in età di lavoro si ridurrà di 5,5 milioni, anche ipotizzando un afflusso netto di 170 mila immigrati all’anno: a parità di tutto il resto, questo fossato demografico renderebbe l’economia italiana più piccola del 13% e ridurrebbe il reddito per abitante di circa un decimo.
Un paese, anche, che dispone di nuovi cittadini, figli degli immigrati, in gran parte nati e scolarizzati qui (in numero insufficiente, ma è pur sempre qualcosa) ma si rifiuta di riconoscerli come tali, rimandando loro un’immagine di diversità e di rifiuto che è l’opposto dei processi di integrazione che pure si dichiara di volere, anzi di pretendere. In cui il voler vestire un foulard o pregare in una moschea costituiscono un percorso a ostacoli, stigmatizzato in ogni modo, che fa venire la voglia di scappare anche ai più volonterosi. E infatti molti scappano davvero: tra chi va via c’è anche una parte significativa di onward migrations, le seconde migrazioni di prime e seconde generazioni, spesso proprio dopo aver acquisito quella cittadinanza che facciamo di tutto per negargli, ma che gli apre le porte per paesi europei più lungimiranti e accoglienti.
A fronte di questo scenario, è necessario agire, non solo reagire. L’Europa, non solo l’Italia (anche se l’Italia, in molti indicatori, è messa peggio dei paesi con cui si confronta nel mercato globale come nella vita civile) rischia infatti di crollare sotto il peso delle migrazioni: o meglio, sotto il peso delle sue contraddizioni interne a proposito delle migrazioni.
Riaprire canali di ingresso regolari
La prima e fondamentale proposta. A partire dagli anni ’70, tutti i paesi europei hanno progressivamente chiuso gli accessi regolari agli immigrati. Lo shock petrolifero, la crisi economica, il crescere di pezzi di opinione pubblica e partiti anti-immigrati, hanno spinto i governi a chiudere all’immigrazione regolare, nell’illusione di fermarla. Ma, così facendo, hanno semplicemente aperto all’immigrazione irregolare, e non poteva essere altrimenti.
C’è da stupirsi, infatti, se, non potendo arrivare legalmente, molti ci provano nell’unico modo possibile, ossia illegalmente? È evidente per chi scappa da una guerra o da una persecuzione etnica o religiosa: fuggirebbero anche in zattera, sapendo di correre gravi rischi – tanto le prospettive a casa loro sarebbero peggiori, ammesso che una casa ce l’abbiano ancora. Ma lo fanno anche altri. Producendo così una forte immigrazione irregolare (che, se fosse regolamentata, potrebbe inserirsi molto più facilmente e non creerebbe i problemi che vediamo, anche rispetto alla percezione dell’opinione pubblica). Paradossalmente, dunque, sono proprio i paesi europei, Italia in primo luogo, con la loro legislazione, a produrre migrazioni irregolari che potrebbero invece essere in gran parte regolari e regolate, e definitive laddove potrebbero essere temporanee e reversibili, se ci fosse la possibilità di andare e tornare senza problemi.
Dunque la prima cosa da fare è quella di riaprire canali regolari di immigrazione, concordati con i paesi d’origine, anche selezionati in base alle esigenze del mercato del lavoro. Esigenze che in Europa ci sono, trattandosi di un continente che perde ogni anno 3 milioni di lavoratori, che vanno in pensione, e non sono sostituiti da nessuno (i loro posti restano dunque vacanti) semplicemente perché chi avrebbe dovuto sostituirli non è mai nato. Mentre il fabbisogno italiano è stimato in 3-400mila lavoratori l’anno: molti di più – non di meno – di quelli che oggi arrivano irregolarmente, via mare o via terra o in qualunque altro modo. Occorre ribadirlo: se non c’è mano d’opera, le imprese vanno altrove – e se non ci sono gli operai, non ci saranno neanche gli impiegati e i dirigenti. C’è quindi anche questo effetto recessivo paradossale e non previsto dietro l’idea del blocco dell’immigrazione per salvaguardare il lavoro degli autoctoni… Meno immigrati, come documentato ampiamente da Bankitalia, vorrà dire meno lavoro per gli autoctoni, non di più.
Una politica di apertura all’ingresso regolare sarebbe anche l’unica vera legittimazione politica – oltre che un’utile moneta di scambio – per una politica della fermezza, da attuare senza tentennamenti, all’immigrazione irregolare. E potrebbe essere promossa con la collaborazione dei paesi di origine e di transito dei migranti, stabilendo degli accordi che sarebbero anche un riconoscimento di pari dignità tra partner (è quello che dice, ma non fa, anche il cosiddetto Piano Mattei). Ciò non significa invece appaltare i costi e l’impopolarità dell’accoglienza – più correttamente del trattenimento – dei migranti ad altri paesi in cambio di denaro, come si è fatto con la Turchia, e si sta tentando di fare con Libia, Tunisia, Albania ed altri. Perché non si può pensare di sigillare tutto il Mediterraneo (Libia inclusa: un buco, peraltro, che è stato aperto dall’Europa), e perché rischia di diventare un’arma di pressione e di ricatto – un’arma di migrazione di massa, come è stato notato – da far scattare con qualche sbarco mirato tutte le volte che si intende alzare la posta.
Una apertura, dicevamo, controllata e selezionata: è da quando ci sono le migrazioni irregolari che il livello di istruzione medio dei migranti è calato drammaticamente, rendendo più difficili e costose le dinamiche di integrazione; riportare le migrazioni sotto il controllo degli stati consentirebbe di ritornare a una situazione più accettabile anche per il mercato del lavoro e per le società europee. Inoltre, questo diminuirebbe l’arrivo di minori stranieri non accompagnati. Nella storia delle migrazioni sono sempre partiti i padri e le madri. Da qualche anno assistiamo a un aumento esponenziale dei minori, ormai quasi tutti tra i 16 e i 18 anni e maschi: segno che è una filiera migratoria in sé, prodotta precisamente dal blocco dell’arrivo regolare degli adulti – anche questa, dunque, paradossalmente, figlia della nostra legislazione di progressiva chiusura all’immigrazione regolare di adulti e al ricongiungimento familiare. Riaprire i canali regolari ridurrebbe a dimensioni molto più contenute anche questa drammatica anomalia.
Parlare alle pubbliche opinioni: un’iniezione di verità
Tale politica sarebbe anche un segnale forte per dare la sensazione, ai cittadini, che lo stato controlla, attraverso i flussi, i confini, non più forzati dai disperati sui barconi o da quelli che ci arrivano via terra. E sappiamo quanto questa sensazione, questa paura, sia stata determinante nel far emergere sentimenti di frustrazione e di rabbia, e quindi di xenofobia (di cui stanno pagando il prezzo anche gli immigrati arrivati negli scorsi decenni e già integrati: il rifiuto degli stranieri non va troppo per il sottile, nel distinguere tra neo-arrivati e altri immigrati, magari di seconda generazione e/o cittadinizzati) e nel cambiare di conseguenza gli equilibri politici dell’Europa, al punto da mettere a rischio la sua stessa esistenza.
Dopodiché, occorre ripensare e riformulare la stessa distinzione attuale tra richiedenti asilo e migranti economici, allargando le maglie dal lato di questi ultimi: dato che anche questa distinzione, come è trattata ora, è figlia della chiusura delle frontiere (e ha portato alla demonizzazione dei migranti economici, che sono invece sempre stati la norma, e lo sono tuttora – e ne abbiamo un enorme bisogno). Per i rifugiati bisogna trarre le opportune lezioni dall’efficacia di misure sperimentali come i corridoi umanitari, che vedono la Comunità di Sant’Egidio e la Chiesa Valdese, tra i promotori: di fronte a tragedie umanitarie, che peraltro i paesi occidentali hanno spesso cooperato a produrre, non si può pensare ad alcuna selezione, ma nemmeno si può aspettare che chi scappa da esse arrivi nei nostri mari e sulle nostre coste; a costo inferiore, con maggiore efficacia e giustizia sociale possiamo andarli a prendere ed aiutarli, come doveroso. Mentre per gli altri tipi di migranti siamo giunti all’assurdo per cui, impedendo le migrazioni regolari, costringiamo gli irregolari che sono migranti economici a dichiararsi richiedenti asilo, anche se in maggioranza non lo sono, perché è semplicemente l’unico modo per restare in Europa. Chiediamo loro, in sostanza, di mentirci, in modo da legarci da soli le mani attivando lunghe, costose e inutili pratiche di riconoscimento che arriveranno nella maggior parte dei casi a smentirli: producendo a loro volta un’ulteriore presenza di immigrati irregolari, data la difficoltà e il costo di implementare politiche di rimpatrio significative – tanto più in mancanza della collaborazione dei paesi di provenienza.
Tanto vale riaprire canali regolari di ingresso per i migranti economici, bloccare o diminuire significativamente gli arrivi irregolari attraverso accordi, e consentire di attivare le pratiche di richiesta di asilo solo per coloro che ragionevolmente hanno qualche titolo per ottenerlo: e per i richiedenti asilo ‘veri’, e solo per questi ultimi, dovrebbe essere garantito un accesso universale, senza condizioni e forme di selezione.
A valle degli arrivi: gestire l’integrazione
Fino a qui abbiamo visto soprattutto cosa accade a monte degli sbarchi, e le possibili soluzioni che si possono porre in atto. Ma anche a valle c’è molto da fare. Innanzitutto occorre uscire, oltre che dall’emergenza, dalla mentalità emergenziale, che continua a farci gestire un fenomeno che in sé è strutturale con soluzioni improvvisate e totalmente prive di strategia. Bisogna passare dall’accoglienza emergenziale all’integrazione strutturata: fatta di agenzie nazionali che si occupano davvero della questione, che indicano criteri minimi di integrazione, che controllano, selezionano, valutano e respingono le associazioni e gli organismi che non lavorano all’altezza degli standard individuati. L’integrazione è fatta di apprendimento rapido e intensivo della lingua, di conoscenza della cultura del paese in cui ci si trova, di formazione professionale (tanto più importante dato il basso livello di istruzione di partenza) e di orientamento al lavoro: presuppone dunque delle linee guida stringenti e l’attivazione delle professionalità necessarie (en passant: si tratta di un mercato del lavoro specializzato che si apre, soprattutto per professionalità autoctone). Se pensata come tale, si tratta di un investimento (come lo è la scuola, per capirci): che in pochi mesi (comunque a molto minor prezzo di un percorso scolastico tradizionale), può creare cittadini e lavoratori integrabili nella società e nel mercato del lavoro. Diversamente, se limitata all’accoglienza e a un generico diritto di permanenza, rischia di essere una spesa improduttiva, che per giunta può produrre in misura significativa dropout e irregolari che possono diventare problematici per la società.
E poi, c’è tutta l’enorme partita dei processi di integrazione, della costruzione di meccanismi di inclusione reale (a cominciare dalla cittadinanza, in particolare a partire dalle cosiddette seconde generazioni), di riconoscimento simbolico delle specificità culturali e religiose compatibili con il quadro normativo europeo. E qui il dibattito sullo ius scholae fa comprendere in maniera disarmante quanto manchi ancora, da parte del ceto politico, la comprensione minimale dei fondamentali dei processi in atto. Manca la conoscenza dei dati di base. Manca la consapevolezza. Figuriamoci se c’è il minimo di volontà politica necessario.
I flussi migratori sono per l’appunto flussi, come tali regolabili e canalizzabili, almeno in buona misura. Sta a noi decidere se lasciare i flussi migratori all’anarchia di un mercato primitivo, e alla volontà dei nuovi schiavisti, o assumerci la responsabilità di affrontare i problemi per provare, finalmente, a risolverli. Governandoli. Gestendoli, finalmente. Nell’interesse nostro e di tutti.
Migranti, alziamo lo sguardo, in “Il Secolo XIX”, 1 settembre 2024, pp. 1-4-5