Regolamentare, non solo regolarizzare

La prevedibilissima ripresa degli sbarchi di migranti pone nuovamente l’attenzione sulla maggiore delle carenze intorno alle politiche migratorie: la loro inesistenza, proprio sul punto più caldo e cruciale – la gestione dei flussi.

Per ora c’è stato un rallentamento della spinta migratoria, dovuto alla pandemia, e alla consapevolezza che la tolleranza nei confronti degli sbarchi irregolari è grandemente diminuita. Ma la pressione rimane, e la tentazione per i trafficanti non è certo calata: anzi, i prezzi della traversata potrebbero salire proprio per questi motivi.

La regolarizzazione faticosamente approvata si è posta il problema di risolvere difficoltà contingenti nel mercato del lavoro, in particolare in agricoltura, per evitare devastanti distruzioni di ricchezza. Si sarebbe dovuta cogliere l’occasione per una regolarizzazione più larga, per ragioni di controllo e gestione della salute pubblica, e per il semplice motivo che non abbiamo alcuna convenienza ad avere centinaia di migliaia di fantasmi che alimentano l’economia irregolare, rischiando di regalare braccia a quella illegale. Non a caso la Spagna ha operato in tal senso già prima della pandemia, il Portogallo durante (e gli altri paesi del centro-nord non hanno percentuali così significative di irregolari, perché non hanno il Mediterraneo di mezzo).

È l’irregolarità in quanto tale che va aggredita, ponendo al contempo le basi perché non si riformi: attraverso un blocco più efficace agli ingressi irregolari, ottenibile solo con la costruzione di meccanismi di ingresso regolari, e la collaborazione dei paesi di partenza – i pattugliamenti non bastano. La quantità di irregolari è infatti una conseguenza diretta dell’abolizione sostanziale degli ingressi regolari: senza una regolamentazione di questi ultimi (che vuol dire che gli stati si riappropriano finalmente della gestione delle politiche migratorie, dopo averle colpevolmente regalate per anni ai trafficanti) è impensabile controllare meglio i primi.

Oggi siamo in crisi e non ce ne rendiamo conto. Ma gli immigrati sono all’80% inquadrati a livello operaio, e prevalgono soprattutto tra colf e badanti, braccianti, manovali in edilizia, operai in manifattura, pulizie e cucina nel turismo, magazzinaggio e scarico merci: settori dove la manodopera italiana, in particolare giovanile, è largamente insufficiente (semmai eccede quella istruita, che infatti ha ripreso le vie dell’emigrazione). E in prospettiva, la demografia ci imporrà le sue leggi (calo e invecchiamento della popolazione, diminuzione della forza lavoro). Questo fenomeno non può essere lasciato a sé stesso. Va gestito con politiche strutturali. Non è più ammissibile che sia ancora percepito come emergenziale, visto che l’immigrazione data dagli anni ’70: mezzo secolo, ormai! Regolarizzare chi c’è sarebbe più utile dell’insistenza solo verbale su un impossibile e costosissimo rimpatrio, mai attuato neanche da chi lo propone. Ma bisogna gestire tutta la filiera, a cominciare dai requisiti per le partenze, e le modalità del viaggio, non limitarsi agli effetti indesiderati degli arrivi: non solo l’ultimo anello, dunque, ma cominciare dal primo. Non basta regolarizzare. Occorre regolamentare, finalmente, le migrazioni.

 

Regolamentare i migranti, in “Repubblica”, 27 maggio 2020, p. 28

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È il momento di regolarizzare gli immigrati

Gli immigrati sono quasi spariti dai radar della comunicazione. Ma ci torneranno presto. Per la loro presenza, per la loro invisibilità, e per la loro assenza.
Cominciamo da quest’ultima. Gli arrivi sono crollati, i rientri nei Paesi d’origine (soprattutto verso l’Est Europa), finché ci si è potuti muovere, sono stati massicci, la sostituzione interna non c’è. Risultato: l’agricoltura è in ginocchio, interi raccolti sono già andati al macero, e rischiano di andarci i prossimi, a cominciare dalla vendemmia e la raccolta delle olive, con la distruzione di ricchezza che possiamo immaginare. Da qui il ragionamento su una regolarizzazione su base individuale di chi è già qui e può dimostrarlo (strada scelta in tempi recenti da Spagna e oggi Portogallo): l’alternativa è continuare a tenerli irregolarmente, senza poterli rimpatriare, e non se ne comprende il vantaggio.
Veniamo all’invisibilità. La regolarizzazione ha anche un significato sul piano della salute pubblica: finora di immigrati contagiati se ne è parlato più che altro per notare la loro assenza, dovuta anche al fatto di essere popolazione più giovane. Ma la realtà è che nessuno controlla, ed è ancora più difficile farlo tra le sacche di marginalità, dove solo il volontariato si è fatto vivo, o anche solo nei quartieri più poveri, a maggiore densità abitativa. Scoppiasse domani il contagio in questi luoghi, di chi sarebbe la responsabilità? E quali le conseguenze? Per gli stessi motivi, occorre dare garanzie all’opinione pubblica sulla chiusura delle frontiere agli irregolari (al contempo garantendo il salvataggio – con la collaborazione europea – di chi rischia il naufragio, su navi quarantena o in hotspot specifici, ma senza garanzia di ammissione, e dove possibile con progetti di rimpatrio assistito).
Infine, la loro presenza. Come sempre durante le grandi crisi, in proporzione il prezzo più alto lo pagano gli immigrati (sta accadendo anche agli emigrati italiani): i primi a essere licenziati, quelli con meno tutele, i più poveri, anche. In Italia è povera una famiglia italiana su venti, ma una straniera su quattro. In tempi di risorse scarse e povertà accresciuta, non si tratta di dare agli immigrati qualcosa in più, ma semplicemente di assicurarsi che arrivino anche a loro le risorse destinate a lavoratori e famiglie bisognose: anche perché loro hanno, in meno, reti sociali e familiari di supporto. Il costo sarebbe un rischio di conflittualità sociale accresciuta.
Possiamo aggiungerci le misure a costo zero. Come quelle legate
all’integrazione e alla cittadinanza delle seconde generazioni. Abbiamo avuto vittime immigrate tra i medici come tra i pazienti, e mobilitazioni e raccolte di fondi tra comunità etniche e religiose minoritarie. Mai come in questo momento abbiamo bisogno di rendere solido il patto sociale, per tutti, e mai come ora occorre mobilitare il patriottismo e il senso di comunità, di tutti.
Il rischio, altrimenti, come insegna la storia, è che si manifesti la
ricerca di un capro espiatorio fin troppo facile, perché preesistente alla crisi. Ma di tutto abbiamo bisogno, in questo momento, fuorché di un aumento della conflittualità su base etnica e della creazione di nuove divisioni interne.

 

È il momento di regolarizzare gli immigrati, “La Stampa”, 18 aprile 2020

Chiudere le famiglie per far riaprire la scuola?

Rimandato a settembre. Ma dovrebbe essere bocciato. Non parliamo di uno studente, ma del governo, che ha deciso che la scuola è il meno importante dei settori: e quindi può ricominciare, con comodo, a settembre.

Ma è troppo facile prendersela con il governo, o con la ministra dell’istruzione. Non si tratta solo di una scelta politica: è un problema culturale. E non solo del governo: del paese. E non di oggi: di sempre. Se di scuola non si parla, o se ne parla poco e male, non è per caso. Questa sottovalutazione viene da lontano. E ne siamo tutti corresponsabili.

Aprire non è facile: non c’è dubbio. Ma bisogna organizzarsi. Affrontando i problemi. Nel caso, con sperimentazioni, anche territoriali, per tentativi ed errori. Abbiamo alcune occasioni per farlo in sicurezza. La prima, è legata alle classi terminali dei vari cicli scolastici: quinta elementare, terza media, maturità. Ragazzi che non si rivedranno più, e che hanno diritto a un finale di ciclo meno brutale, un rito di passaggio, una cerimonia formale, anche solo un saluto a compagni e insegnanti, oltre che ad essere valutati, anche per aiutarli a orientarsi nelle scelte successive. Gli studenti di queste classi sono – come intuibile – un quinto dei bambini delle elementari, un terzo di quelli delle medie, e ancora un quinto (anzi meno, perché c’è la mortalità scolastica, chi si perde per strada negli anni) di quelli delle superiori (senza dimenticare scuole professionali e altri istituti). Essendo le scuole dimensionate per numeri molto superiori – la totalità degli studenti – ci sono tranquillamente gli spazi necessari e sufficienti per garantire i percorsi scolastici di queste classi fin da oggi, senza nemmeno aspettare gli esami, in sicurezza, rispettosi dei dispositivi di distanziamento. Quello che manca, come sempre in questo paese, è l’organizzazione delle cose pratiche, banali: autorizzazione a una diversa distribuzione degli insegnanti e degli orari, consegna ad ogni scuola di mascherine, gel, guanti, modesti investimenti in tecnologie (per collegare in video più classi, ad esempio). Per cui ci si ferma: ma non è ammissibile – una fabbrica non si ferma di fronte a piccole difficoltà organizzative.

Il prezzo pagato è già stato enorme: la perdita di socialità, il divario digitale che ha impedito a forse un quinto (un quinto!) degli studenti di frequentare decentemente questi mesi di scuola, buchi conoscitivi che pagheranno nei prossimi anni soprattutto i più deboli, diseguaglianze enormi tra insegnanti e plessi che si sono attivati e altri che non ne sono stati capaci, famiglie capaci di seguire i figli o meno.

Altro problema: visto che la priorità è la produzione, e la produzione riparte, piccolo dettaglio – dove li mettiamo i bambini? E qui possono avere un ruolo anche le regioni, e i comuni (così si evita il gioco del mero scaricabarile istituzionale). Quali servizi alle famiglie? E, nell’impossibilità, quali sussidi? Nidi e materne cosa faranno? Quali finanziamenti aggiuntivi arriveranno alle famiglie? Quale ruolo potranno avere le scuole quest’estate? Potranno fare da centri estivi, anche recuperando un po’ di quel che si è perso in questi mesi in termini di didattica e di supporto allo studio?

Ed è qui che viene fuori anche la responsabilità collettiva, storica e culturale, in cui siamo tutti implicati. Se questo avviene, se abbiamo la metà dei laureati della media dei paesi dell’Ocse, il doppio esatto degli analfabeti funzionali, le ultime posizioni nelle indagini comparative sul livello di preparazione degli studenti (20° su 28 in Europa), è perché investiamo molto meno degli altri in questo settore (investono meno di noi, in percentuale sul PIL, solo Slovacchia, Bulgaria, Romania e Irlanda). Ma se scuola ed educazione sono le cenerentole del bilancio di tutti (stato, regioni, comuni) è perché tanto c’è l’idea – evidente anche dalle scelte del governo – che di bambini e ragazzi se ne occupa la famiglia, considerata il terminale ultimo, lo spazio sicuro e protetto (neanche poi tanto, visto che un quarto dei contagi è avvenuto lì), la grande discarica di tutte le responsabilità e di tutti i disservizi del settore pubblico: scaricati sulle famiglie e quindi – da noi – soprattutto sulle donne, che continuano a pagare un prezzo enorme e inaccettabile per questa sottovalutazione (dovremmo dire rimozione) collettiva. Ed è questa gerarchia di valori e priorità che va ribaltata. Forse dovremmo chiudere le famiglie. Allora si capirebbe che le scuole sono un servizio pubblico essenziale che deve essere obbligatoriamente garantito.

 

Il paese che cancella la scuola, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 30 aprile 2020, editoriale, p.1

Diversamente credenti. La religione al tempo della pandemia

Non sarà solo questa Pasqua, a cambiare: con le chiese aperte ma vuote, i sacerdoti a celebrare online, il popolo di Dio disperso nelle proprie case, ciascuno solo alla sua maniera. Come per tante altre cose, Covid-19 è destinato a segnare una cesura anche nel modo di essere religiosi, e quindi anche nelle istituzioni religiose, che avrà effetti anche in futuro. Continua a leggere

Immigrati: i dimenticati del Covid (di cui ci converrebbe ricordarci)

Se c’è una cosa che abbiamo imparato dalla pandemia che ha colpito il mondo, è che tutto si tiene. Che nulla è impermeabile, che tutto ha conseguenze su tutto il resto. Ma in maniera non omogenea: non uguali per tutti. Continua a leggere