Vecchi eserciti e nuovi peace corps: di fronte ai nuovi nemici

Abbiamo ancora bisogno di eserciti per difendere i confini di patrie che i nuovi nemici attraversano senza problemi? Difficile rispondere: perché, l’abbiamo visto, in tempo di crisi la prima reazione – sincera, nella sua direzione dal basso, e ampiamente strumentalizzata, in quella dall’alto – è proprio quella di riscoprire un qualche tipo di patriottismo (l’inno, la bandiera, il ritrovarsi insieme tra sconosciuti sotto un unico nome e identità). Una delle poche idee di comunità cui sappiamo ancora fare riferimento.

Certo, l’idea stessa di patria perde senso, in tempi di globalizzazione, di imprese transnazionali, di rischi condivisi come il climate change – e i virus. I consumi sempre più ci accomunano: musica, cinema, sport, cibo, tecnologia, e tutto ciò che ci veste, dall’auto alle sneakers – compriamo tutti gli stessi prodotti globali. Quello che è ancora diverso, naturalmente, è il livello di quei consumi: la capacità di spesa, anche se identica è magari l’aspirazione. D’altro canto, abbiamo prodotto infinite identità sub-statuali: regionalismi, localismi, cui spesso sentiamo o crediamo di appartenere con maggior forza che non a una patria (che, tuttora, mantiene nel nome un sentore di autoritarismo maschile e padronale che dovrebbe essere meno nelle corde della contemporaneità). Eppure forse abbiamo dato per superato lo stato nazione un po’ troppo presto. Alla fine, sempre lì torniamo. Ed è significativo che ci torniamo nei momenti di difficoltà. Come succede per tutte le cose importanti: la famiglia, i legami primari. Quelli che vanno difesi, quando sono sotto attacco.

Ma è ancora l’esercito che può difendere lo stato? Sì. Forse. E anche no. Quasi tutti i paesi – quelli democratici e sviluppati in particolare – hanno abbandonato l’idea di un servizio militare universale. Tra le eccezioni, per motivi e in modi molto diversi, ci sono Israele e la Svizzera: un paese in guerra fin da prima di nascere, e uno tradizionalmente neutralista.

Altrove invece – quasi ovunque – si è scelta la strada dell’esercito di specialisti, professionalizzati e meglio pagati, ma ancora con una retorica patriottica necessaria a creare senso e legame sociale con il resto della comunità. Ma cresce anche, in parallelo, la tentazione di affidarsi a professionisti, senza neanche bisogno di finzioni patriottarde, specie se occorre fare un lavoro più sporco, meno adatto ai fastidiosi controlli della democrazia. Mercenari, contractors, eserciti privati al soldo di tutte le bandiere, per denaro e, anche, il gusto di usare le armi e praticare impuniti la violenza: non diversi – se non per livello di istituzionalizzazione e collaborazione con i governi – dalle compagnie di body guards e dagli eserciti privati di gang, mafie e narcotrafficanti, non a caso così popolari nell’immaginario cinematografico.

L’esercito, lo vediamo nelle democrazie di oggi, svolge tuttora un ruolo fondamentale e riconosciuto. In caso di catastrofe umanitaria, di calamità naturale, di minaccia anche umana (terrorismo, ad esempio), c’è bisogno di intervento rapido, di capacità di decisione immediata, di mobilitazione efficace su scala nazionale, di catene di comando gerarchicamente forti e non messe in discussione – mentre l’eccesso di democrazia e trasparenza produce sempre anche lentezza, burocratizzazione e controlli – e, sì, anche di armi, di difesa se non di offesa. Dopo tutto, lo vediamo, anche tra i gruppi di civili, quelli che hanno un’uniforme, una gerarchia e un’identità chiara, simil-militarizzata, funzionano meglio: dalla protezione civile alla croce rossa agli scout. Ma tutto questo riguarda il mezzo, non il fine degli eserciti. Che, come ci mostrano proprio questi ultimi esempi, potrebbe cambiare, essere messo in discussione, anche attraverso una grande discussione democratica.

Le nuove guerre saranno ai problemi: globali, appunto. Climate change, pandemie, digital divide, migrazioni, povertà, analfabetismo, diritti (dei lavoratori, delle donne, dell’infanzia). Avranno bisogno di eserciti preparati. Per nuovi patriottismi, basati su nuovi valori. C’è bisogno di – e c’è spazio per – nuovi peace corps globali, capaci di coinvolgere l’impegno dei nuovi cosmopoliti. E delle loro declinazioni locali: forse un nuovo servizio civile, obbligatorio, universale – patriottico, a modo suo.

 

Senza esercito, in Confronti, n. 5, 2020, rubrica “Il mondo se”