Immigrati: i dimenticati del Covid (di cui ci converrebbe ricordarci)
Se c’è una cosa che abbiamo imparato dalla pandemia che ha colpito il mondo, è che tutto si tiene. Che nulla è impermeabile, che tutto ha conseguenze su tutto il resto. Ma in maniera non omogenea: non uguali per tutti.
L’impatto sanitario di Covid-19 è ancora al centro dell’attenzione, ma presto lo saranno le sue conseguenze economiche e sociali. Tra di esse, un tema che è transitoriamente sparito dai radar dell’informazione e della discussione pubblica (e della politica), tornerà rapidamente al centro dell’attenzione: quello dell’immigrazione.
Come sempre durante le grandi crisi, in proporzione il prezzo più alto lo pagano gli immigrati (sta accadendo anche agli emigrati italiani all’estero): i primi a essere licenziati, quelli con meno tutele, i più poveri, anche. E i primi a essere indicati come possibile capro espiatorio, quando la crisi morderà più forte. Ma ci sono anche altri fattori in gioco.
Gli arrivi, intanto, sono crollati. Certo, solo un grado significativo di disperazione può spingere ad andare in un paese con una pandemia in corso e in profonda crisi economica. Ma si può prevedere che, con l’aumento della diffusione del coronavirus in Africa, il livello di disperazione salirà anche lì. Con conseguenze non prevedibili. E la necessità dunque di attivare politiche di prevenzione.
C’è poi il problema di quanto può accadere nei luoghi ad alta concentrazione di immigrati, dove finora solo il volontariato si è fatto vivo, ma dove i minori controlli (saranno gli ultimi a cui i comuni faranno i tamponi…) insieme alle condizioni di vita maggiormente disagiate (concentrazione urbana in quartieri più poveri, maggiore densità abitativa), potrebbero creare problemi sanitari che sarebbe opportuno monitorare in anticipo, con i dovuti interventi.
Detto questo, la situazione del mercato del lavoro è in rapido mutamento. Finora gli immigrati facevano in gran parte lavori rifiutati dagli italiani. Con l’impoverimento progressivo delle persone e l’incremento della disoccupazione, le cose in parte – solo in parte – cambieranno. Ma restano interi settori in cui la presenza degli immigrati è indispensabile. E se il turismo o l’edilizia ci metteranno di più a ripartire, di badanti c’è ancora bisogno – anche se le loro condizioni di lavoro peggioreranno – e l’agricoltura ha bisogno di braccia subito, letteralmente domani: quelle autoctone non sono nemmeno lontanamente sufficienti al fabbisogno. In pratica, rischiamo di perdere interi raccolti (dalle fragole e i pomodori oggi alle olive e all’uva, e dunque al vino, domani), e con essi la ricchezza conseguente.
D’altro canto, una parte degli immigrati, di fronte alla prospettiva della disoccupazione, è già rientrata nel paese d’origine: e gli stagionali non sono arrivati. Una ragionevole possibilità sarebbe quella di regolarizzare gli immigrati già presenti sul territorio che ottenessero un contratto di lavoro. E’ la strada che ha seguito il Portogallo. Ma non vediamo in Italia alcun esponente politico che abbia il coraggio di sostenere una regolarizzazione individuale, pur utile, di fronte alla prevedibile opposizione delle forze di opposizione, fortemente contrarie all’immigrazione già prima del coronavirus.
Nei momenti di crisi, al contrario, la storia insegna che è forte la ricerca di un capro espiatorio. Si può solo auspicare che una profonda assunzione di responsabilità eviti l’aumento della conflittualità su base etnica, creando ulteriori divisioni interne, di cui certo il paese non avrebbe bisogno.
Il Covid dei migranti, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 2 aprile 2020, editoriale, p.1