L’islam en Europe devient-il européen?
/in 2010, Articoli / Articles, Articoli di Religione / Religion Articles, Articoli sull'Islam / Islam Articles, Foreign Languages, Islam, Religione / Religion /da StefanoAl-Islâm al-Itâlî. Rihla(t) fî waqâ’i’ al-diyâna al-thâniya
/in 2010, Foreign Languages, Islam, Libri / Books, Libri di Religione / Religion Books, Libri sull'Islam / Islam Books, Religione / Religion /da StefanoI Fratelli Musulmani in Europa. L’influenza e il peso di una minoranza attiva
/in 2010, Islam, Religione / Religion, Saggi / Essays, Saggi di Religione / Religion Essays, Saggi sull'Islam / Islam Essays /da StefanoLeghismo e cattolicesimo popolare
/in 2010, Articoli / Articles, Articoli di Politica / Politics Articles, Articoli di Religione / Religion Articles, Politica / Politics, Religione / Religion /da StefanoLa Lega, nel suo rapporto con il cattolicesimo, si trova a vivere un’ambivalenza profonda. Da un lato il contrasto polemico aperto, quasi una sorta di volontà di rivincita, e persino di concorrenza sui valori: che ricorda da vicino, nelle forme, certo anticlericalismo risorgimentale (anche se ne è lontanissimo nei contenuti, allora di ricostruzione e riconciliazione nazionale, mentre oggi l’enfatizzazione è sulla frattura nazionale). Dall’altro l’aver di fatto ereditato il largo parco elettorale cattolico, assumendolo, inglobandolo ma in larga misura anche riorientandone le pulsioni.
Non c’è dubbio che la Lega si inserisce nel mondo elettorale della ‘balena bianca’, la vecchia DC del nord, lombarda e veneta in particolare. E in apparenza, se ci accontentiamo di guardare i numeri e sovrapporre le carte elettorali, l’ha sostanzialmente sostituita. In realtà le cose sono più complesse. Nel voto alla Lega c’è certamente una componente cattolica, ma spesso quella con pratica e conoscenza più tiepida. Del resto da tempo il voto cattolico, in particolare proprio a seguito del crollo della DC, si è articolato nelle sue manifestazioni. Le ricerche misurano nell’elettorato cattolico a blanda partecipazione un netto orientamento verso il centro-destra, mentre in quello più impegnato e attivo – quantitativamente minoritario – vi è spesso un maggiore orientamento verso il centro-sinistra. Ma la Lega in parte sfugge a questa classificazione: essendo alleata, sì, con il centro-destra, ma non essendo, per i temi forti di cui è portatrice, troppo facilmente collocabile sul continuum destra-sinistra. Parte del voto cattolico di centro-destra d’altronde continua a votare per altri partiti conservatori, anch’essi eredi, in forma e modi diversi, del lascito democristiano: il PDL da un lato, e l’UDC, più riconoscibile come erede della vecchia DC, dall’altro.
Se si enfatizza l’elemento di concorrenza sui valori, non stupisce trovare nella storia della Lega il continuo riaffiorare di un anticlericalismo anche molto forte nei toni. Spesso la chiesa di Roma è stata tratteggiata nel suo essere, per l’appunto, di Roma, e quindi accomunabile nella polemica al più forte dei messaggi leghisti: quello contro “Roma ladrona”. Sarebbe sufficiente sfogliare gli albori di Lombardia autonomista, organo dell’allora neonata Lega Lombarda, per ritrovare le stesse polemiche di oggi, e persino la proposta culturale di far passare il Nord, in toto, al protestantesimo.
E’ quindi apparentemente contraddittorio osservare come la Lega sia anche il partito che per certi aspetti più di tutti insiste retoricamente sull’identità cristiana del Paese, specie se c’è da usarla come arma contro gli immigrati magari musulmani; ma lo è meno se osserviamo come sia anche quello che meno la frequenta e la conosce. Chi scrive ‘Padania cristiana’ a caratteri cubitali sui muri del Nord di solito in parrocchia non si vede o non è attivo. E chi rivendica crocefissi in ogni aula, scolastica e municipale, spesso a casa sua non ce l’ha e non lo prega. La stessa dirigenza storica leghista è lontana anni luce dalla pratica cattolica. Bossi non ha mai fatto mistero della sua felice ignoranza in materia; ministri ed ex-ministri come Calderoli e Castelli preferiscono, a quello cattolico, il matrimonio celtico, che consente tra le altre cose più rapide separazioni; e un dirigente come l’europarlamentare Borghezio, che non perde occasione per ergersi a paladino della cristianità italiana contro l’invasione islamica, l’unica croce con cui ha realmente dimestichezza, fin dal suo passato politico pre-leghista, è quella celtica. L’unico momento di visibilità cattolica all’interno della Lega è stato quando un’oscura e giovanissima militante delle Acli milanesi, avendo inviato al senatur un documento sul voto cattolico in Lombardia, si vide chiamata a fondare la consulta cattolica della Lega, e in pochissimo tempo fu catapultata al vertice della terza carica dello Stato: ci riferiamo alla presidente della Camera, Irene Pivetti, poi finita a percorrere una triste parabola da modesta presentatrice di programmi di intrattenimento sulle tv Mediaset, contenutisticamente assai poco cattolici. Per non parlare delle politiche che si pongono in conflitto diretto con il cuore del messaggio cattolico: e non si tratta solo di quelle sull’immigrazione o sui rom. L’antisolidarismo militante, l’enfasi sulla separazione e sulla divisione dalle aree più povere (l’egoismo dei ricchi), il rifiuto di logiche minime di riconoscimento universale dei diritti, la critica alla difesa della costituzione propugnata dal cattolicesimo democratico, per non parlare della polemica diretta contro quelli che vengono definiti da Bossi “i vescovoni” e contro la Caritas, sulle finanze della Chiesa, su quelle che vengono definite contraddizioni tra il predicare bene e il razzolare male (“che li accolgano in Vaticano, gli immigrati”), la definizione del cardinal Ruini “ruina d’Italia”, secondo una nota battuta bossiana, o le grevi ironie sul ‘perdonismo’ wojtyliano e la sua presunta debolezza (che ha trovato un rispecchiamento e dunque una legittimazione culturale nella polemica fallaciana) – tutto questo nella Lega è regola, non eccezione. Queste polemiche fanno parte della storia culturale della Lega: e ne sono, anzi, una matrice coerentemente reiterata nel tempo.
Un capitolo specifico riguarda le polemiche contro la chiesa ambrosiana, considerata la punta di diamante della Chiesa che si presenta o viene presentata, probabilmente a ragione, come nemica e alternativa in termini di valori rispetto a certa cultura leghista: ieri contro il card. Martini e oggi contro il card. Tettamanzi. La curia milanese è stata sempre un obiettivo prediletto: non amata dai leghisti, anche perché essa non ha mai fatto mistero di non amare la Lega, e gli egoismi che rappresenta. Peccato di lesa maestà doppiamente grave, essendo la diocesi ambrosiana anche la culla del leghismo e del suo capo indiscusso. Da qui battaglie politiche che assomigliano molto a tentativi di ingerenza, che a qualcuno hanno fatto ritornare in mente i tempi delle nomine vescovili caldeggiate dall’imperatore di turno: e oggi, non c’è dubbio, nel Nord comanda, sempre più, la Lega.
D’altra parte c’è anche una Lega alla disperata ricerca di benedizioni, se non di benemerenze, ecclesiali. E’ la Lega che difende il crocifisso – seppure considerato simbolo identitario e non religioso, e quindi più facilmente trasformabile in arma contundente – proponendone persino l’apposizione sulla bandiera nazionale, singolarmente proposta dall’ex-ministro Castelli, di cui abbiamo già ricordato le nozze celtiche. Del ministro Zaia che al meeting di Rimini va a proporsi, e a proporre la Lega, come il vero bastione della cristianità e il nuovo interprete dello spirito crociato. Del ministro Calderoli e del gran capo Bossi, in visita al patriarca Scola, primo alto esponente ecclesiale a riceverli per un’ora e mezza di colloqui, forse favoriti dalla comune origine lombarda e dalla strategica collocazione nel Nord. O dell’incontro ancora più autorevole con il cardinal Bagnasco (3 settembre 2009): un quarto d’ora forse più simbolico che di contenuto, e probabilmente, almeno nel breve periodo, più utile alla Lega che alla Conferenza Episcopale. Incontri volti a proporre un improbabile volto conciliante e filo-clericale della Lega, ma anche, probabilmente, a tentare di suggellare un patto di egemonia culturale condivisa e non più concorrenziale su un Nord sempre più saldamente in mani leghiste, e il cui elettorato è in parte significativa cattolico.
Difficile intravedere gli scenari che questi tentativi mettono in luce. Sul lato ecclesiale la Lega si manifesta boccone indigesto. Tanto che lo stesso cardinal Bagnasco, nei mesi successivi all’incontro, non ha mancato di polemizzare duramente con la Lega, sulla questione della moschea genovese come sul caso Tettamanzi; e il cardinal Scola è portatore di una visione del ‘meticciato delle culture’ molto più complessa e problematica, e certamente più ‘alta’, delle semplificazioni leghiste. La Lega di governo al Nord diventerà tuttavia un fatto compiuto sempre più difficile da ignorare, e si può presumere che questo porterà a una normalizzazione progressiva dei rapporti. Anche se si può ipotizzare che resteranno, nel mondo ecclesiale, tanto alla base quanto al vertice, forti sacche di resistenza culturale all’assalto leghista. Ma si sa: anche Mussolini aveva cominciato la sua carriera politica anarco-socialista con infuocati comizi in favore dell’ateismo, intimando a Dio, se esisteva, di incenerirlo all’istante, e ha finito per firmare i Patti Lateranensi. La piroetta leghista dal folklore neo-celtico al bacio dell’anello cardinalizio non sarebbe, dopo tutto, più estrema.
Eppure, nonostante una certa estraneità culturale diffusa tra il sentire leghista e quello cattolico, che si cerca talvolta di mascherare con qualche malcerto riferimento al federalismo di don Sturzo, il voto cattolico si è riversato nel contenitore leghista apparentemente senza soffrire alcuna contraddizione. Anzi, il prodotto piace. Piace perché propone un cattolicesimo di pura etichetta, poco esigente sul piano morale e religioso, riducibile a pochi elementi (identitari, appunto), familiari ma non invasivi, nostalgici ma innocui. E piace anche per l’elemento di critica allo strapotere vaticano, vissuto come lontano ed estraneo, in nome magari del richiamo alle care vecchie parrocchie in cui si parlava dialetto.
Su questo, più che la Lega, è la Chiesa a trovarsi in difficoltà e in contraddizione. La difesa dell’identità, un pilastro della politica culturale leghista, non può non piacere, laddove l’identità è supposta essere cattolica (ma talvolta sarebbe saggio ricordarsi del vecchio adagio popolare che recita: “Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io”). Sulla base di questo presupposto non poco clero, ma soprattutto moltissima base cattolica, si sono fatti felicemente sedurre dalla sirena identitaria leghista, talvolta flirtando con essa laddove sembrava rafforzare una identificazione con la Chiesa che, secondo tutti gli indicatori (pratica religiosa, frequentazione dei sacramenti, aumento di matrimoni civili e divorzi), è in realtà in calo. Ma il problema è che questa identità, fin dalle origini, cattolica non lo è affatto: e non solo per i richiami al folklore celtico e al dio Po. Oggi quei nodi vengono nuovamente al pettine. Ma è probabile che resteranno, come per il passato, ambiguamente sospesi, e irrisolti. Perché il problema vero non è quanto è cattolica la Lega: ma quanto sono cambiati i cattolici, e quanto sono disposti a mettere in mora le loro convinzioni morali, quando agiscono in politica. La crescita della Lega ci dice che lo sono, e molto. In un certo senso è un segno di laicizzazione ulteriore, non solo dell’elettorato, ma della società.
Stefano Allievi
Allievi S. (2010), Leghismo e cattolicesimo popolare, in “Missione Oggi”, n. 10, dicembre 2010, pp. 18-21
Perché non esistono democrazie arabe? Svolta possibile con le élite immigrate
/in 2010, Articoli / Articles, Articoli di Politica / Politics Articles, Articoli sull'Islam / Islam Articles, Islam, Politica / Politics /da StefanoL’intervento di Larry Diamond dà una prima serie di risposte pertinenti a una domanda che tuttavia ha solo una funzione eminentemente retorica, utile più per attirare l’attenzione che per dare il senso di un’interpretazione.
Non ha senso infatti domandarsi se esistono democrazie arabe o democrazie islamiche. Esattamente come non avrebbe senso domandarsi se esistono democrazie slave, centrafricane, e tanto meno hindu o buddhiste. Certamente si può dire che in aree diverse del mondo le modalità di costruzione di modelli e istituzioni democratiche possono avere delle specificità e delle similitudini analizzabili e definibili (le democrazie scandinave, mediterranee, anglosassoni, ad esempio), seppure con variabilità interne significative e talvolta non minori di quelle rilevabili tra democrazie di contesti geopolitici differenti. In questo senso si può dunque parlare anche di democrazie arabe. Ma oltre non si va.
Non si può dire invece che la specificità religiosa caratterizzi un tipo di democrazia. E’ evidente a qualunque osservatore, ad esempio, che in contesto cristiano le forme di democrazia sono diversissime: non solo dalla Scandinavia luterana all’Europa orientale ortodossa all’Italia cattolica. Le differenze sono enormi anche solo all’interno di un medesimo contesto confessionale: si pensi al mondo cattolico, dall’Italia e Spagna mediterranee (peraltro diversissime tra loro nella declinazione democratica della laicità e della separazione Stato-Chiesa, ad esempio) alle Filippine e all’America Latina.
Inoltre non è ipotizzabile alcuna predisposizione o assenza di predisposizione alla democrazia di tipo per così dire ontologico: e lo dimostra una semplice analisi diacronica. Quale osservatore avrebbe mai potuto immaginare che cattolicesimo e democrazia potessero coesistere se si fosse guardato intorno negli Anni ’30, osservando i cattolicissimi regimi del periodo, dal Portogallo di Salazar alla Spagna di Franco, dall’Italia (culla e centro del cattolicesimo) di Mussolini agli ustascia croati? E negli stessi anni erano del resto culturalmente cristiane la Gran Bretagna democratica e la Germania totalitaria hitleriana. E d’altro canto chi potrebbe dire oggi che il cattolicesimo è incompatibile con la democrazia? Tanto può bastare per tagliare la testa al toro di tante dissertazioni essenzialiste sulla compatibilità o meno tra islam e democrazia.
Torniamo quindi alle democrazie arabe. Per cercare di ragionare su altri fattori, non culturali e tanto meno religiosi, che tuttavia sembrano avere parecchio a che fare con la mancanza di democrazia nei Paesi arabi: situazione politica interna, sviluppo economico e geopolitica. Ammesso e non concesso che abbia un senso isolare i Paesi arabi da altri dell’area per trovare loro specificità: Turchia e Iran, uno democratico e l’altro no, non sono arabi, ma condividono con i Paesi arabi l’essere a maggioranza islamica e molte similitudini storiche, politiche, strategiche, e di rapporti con l’Occidente.
Diamond cita come Paesi arabi più vicini a un’idea di democrazia l’Iraq e il Libano. Sul primo è legittimo opinare: il fatto che la presenza di elezioni ragionevolmente pulite e partecipate faccia dell’Iraq un Paese democratico è visione volontarista e giustificazionista (e molto americanocentrica); e portare il Paese ad esempio è certamente un autogol per chi ha a cuore la diffusione della democrazia nell’area: l’Iraq è e rimarrà a lungo, agli occhi degli arabi, niente più che un protettorato americano. Ma è più importante ragionare sui Paesi che democratici non sono.
Cominciamo dalla situazione politica interna. Si tratta per lo più di Paesi fortemente centralizzati, in cui il controllo di poche posizioni dominanti consente il controllo sostanziale del processo politico ed economico. Si tratta inoltre di Paesi altrettanto fortemente corrotti, nei quali il controllo delle istituzioni – dai ministri all’ultimo dei doganieri – produce rendite economiche importanti, e un interesse evidente al mantenimento dello status quo, e in particolare al rifiuto della democrazia e di alcune delle sue fondamentali precondizioni: la libertà di organizzazione e associazione da un lato e la libertà di stampa dall’altro. Questa miscela favorisce il rafforzarsi di una rete particolarmente stretta di controllo delle posizioni dominanti e delle rendite relative in capo a pochi individui riconducibili a legami parentali o di clan, in una forma particolarmente invasiva di familismo amorale. Ciò è particolarmente visibile nelle dinamiche di trasmissione del potere di padre in figlio, che si tratti di monarchie democratiche come in Marocco, di totalitarismi come in Siria o di pseudo-democrazie come in Egitto (anche se questa è una tendenza più generale che riguarda il trasformarsi delle democrazie in cleptocrazie anche in Occidente: citiamo solo – ma non è il solo – l’esempio del clan Bush). Ne consegue che la società civile è fragile e sostanzialmente alla mercé della benevolenza del potere. E che la stessa economia è fortemente indirizzata dall’alto, intrinsecamente parassitaria e inevitabilmente distorta: un modello altrettanto autoritario di quello cinese, guardato non a caso in quest’area con rispetto, ma molto meno efficiente.
In questo quadro il progressivo diffondersi di segnali di apertura istituzionale, di progressiva maggiore incisività del mondo dell’informazione, anche grazie alla diffusione di media transnazionali e panarabi e al rafforzarsi delle risorse del web, nonché l’induzione per via esterna di corpose iniezioni di mercato, costituiscono segnali incoraggianti, e da non sottovalutare nel medio periodo.
C’è però un serio problema di interpretazione, tutto occidentale, di questi segnali. Nel timore generalizzato del contagio islamista si considera infatti come segnale preoccupante (lo fa anche Diamond) il fatto che parti significative di opinione pubblica, più o meno tanti elettori quanti richiedono maggiore democrazia nei propri Paesi, chiedano che la religione abbia un’influenza sulla vita politica e sulle istituzioni e si possa costruire una qualche forma islamicamente corretta di democrazia. Ebbene, non solo le due richieste non sono necessariamente in antitesi tra loro, ma solo una visione superficialmente laica e molto eurocentrica può ragionevolmente aspettarsi qualcosa di diverso. Dopo tutto che nei Paesi arabi vadano al potere democraticamente eletti dei partiti islamisti non è più strano di quanto lo sia il fatto che gli elettori dei Paesi europei abbiano per una lunga stagione, e in parte tuttora, votato per dei partiti democristiani: e l’esempio turco è lì a dimostrarci che non necessariamente questo è un male – al contrario, può essere il modo migliore di traghettare questi Paesi verso una piena democrazia. La stessa preoccupazione sulla potenzialità democratica di partiti religiosi anche radicali, che si ispirano ad esempio ai Fratelli Musulmani – o la presunzione che tali forze siano irrimediabilmente antidemocratiche – si basa più su precomprensioni ideologiche che su analisi empiriche: e uno sguardo recente sui fermenti in questi ambiti ci riserverebbe più di una sorpresa.
Sul piano economico Diamond rileva giustamente che molti Paesi arabi vivono di una ricchezza recente e, aggiungiamo, molto mal distribuita. Ma soprattutto per lo più dovuta alle rendite petrolifere e del gas (e guarda caso, dei 23 Paesi che derivano la maggior parte delle loro ricchezze da queste risorse nessuno è democratico, arabo o meno). E, poiché alcuni sono talmente ricchi da non far nemmeno pagare tasse, viene meno il bisogno di una ‘representation’ a fronte di una ‘taxation’ che non c’è, perché si perde motivazione alla medesima. A questo si collega un fenomeno più generale e geograficamente pervasivo di distacco dalla politica proprio delle fette di pubblica opinione che più contano economicamente; anche in Occidente la categoria dei ricchi e ricchissimi o è disinteressata alla politica nazionale (come accade per lo più alla superclasse mobile e cosmopolita che, per parafrasare Lash, ha spesso una ‘visione turistica’ dei fenomeni politici oltre che di quelli concernenti la responsabilità etica legata al territorio) o se ne interessa non per un disegno politico, ma a coronamento, consolidamento e accrescimento del proprio potere personale. Detto questo, anche in economia abbiamo la sensazione che si sottovalutino segnali interessanti di innovazione e permeabilità (e anche di ‘islam di mercato’) che non vanno contro i processi di democratizzazione, ma piuttosto a loro favore.
Infine, la geopolitica. Democrazie cosmetiche come Tunisia ed Egitto, ma anche monarchie illiberali come l’Arabia Saudita, sono in realtà Paesi autoritari: regimi impopolari, che sopravvivono grazie alla repressione e, dove si vota, alla falsificazione plateale dei risultati. Ma sono precisamente i Paesi maggiormente sostenuti dall’Occidente, che si guarda bene dal metterli in discussione, e al contrario li sostiene e li puntella in tutti i modi possibili, considerandoli suoi alleati di fiducia, rinviando il loro inevitabile crollo, e rendendo più probabile il manifestarsi di lacerazioni gravi quando il momento verrà, rischiando di collocarsi dalla parte sbagliata proprio rispetto alla domanda di democrazia in quelle aree. L’Europa in particolare non ne esce bene: ha osteggiato a suo tempo il processo di democratizzazione in Algeria, plaudendo alla sua interruzione tra un turno e l’altro perché non andava nella direzione voluta, assumendosi gravissime responsabilità nella mattanza che ne è seguita. Ha inizialmente osteggiato le tendenze democratiche in Turchia per il medesimo motivo. E continua a sostenere i peggiori nemici della democrazia nel mondo arabo (ultimo, per quel che riguarda l’Italia, la Libia). Difficile immaginare che tanta cecità favorisca la democrazia nell’area. Fortunatamente va in altra direzione la spinta che, sempre dall’Europa, proviene dalle minoranze arabe qui emigrate: che, beneficiarie della democrazia e della cultura dei diritti europea, formate nelle università europee dove se ne studiano radici e benefici, ma anche solo per effetto di mera comparazione, costituiscono una preziosa spinta al mutamento democratico nei rispettivi Paesi d’origine. Con interessanti e pochissimo analizzati effetti di feedback: dall’Europa al mondo arabo attraverso le elites arabe in corso di europeizzazione. Un bacino di innovazione che bisognerebbe imparare ad usare di più e meglio.
Stefano Allievi
Allievi S. (2010), Perché non esistono democrazie arabe? Svolta possibile con le élite immigrate, in “Reset”, n. 122, novembre/dicembre 2010, pp. 60-63
In Italia la famiglia è aiutata soltanto a parole
/in 2010, Articoli / Articles, Articoli di Politica / Politics Articles, Articoli di Società / Society Articles, Politica / Politics, Società / Society /da StefanoIn questo paese la famiglia non è una risorsa, e nemmeno un problema: è una retorica. Ci si fanno family day e conferenze programmatiche: e, concretamente, la si uccide. Non c’è paese dove se ne parli così tanto, e dove si faccia così poco per essa.
E’ il caso allora di ribadire qualche dato fondamentale. Questo paese sta vivendo una transizione demografica epocale, che ne fa quello con la minor natalità al mondo! Possibile che non si capisca che è una priorità politica dalle conseguenze devastanti? L’invecchiamento della popolazione fa sì che le persone che vivono più a lungo chiedano più risorse, di sanità e di cura, e ricevano pensioni sempre più a lungo. Mentre i giovani sanno già oggi che non avranno mai quanto ai loro genitori è stato garantito, e che loro devono mantenere: perché ci saranno sempre più pensionati rispetto ai lavoratori. Un’altra conseguenza del calo demografico, è che, piaccia o meno, occorre più immigrazione per tenere in piedi il sistema. Ma anche l’immigrazione e l’integrazione hanno dei costi sociali, per non parlare delle trasformazioni culturali e di lungo termine che producono: una società che si pone questi problemi dovrebbe fare infinitamente di più per le famiglie e la natalità.
Al di là dei dati economici e demografici, le famiglie sono una rete di relazione, di solidarietà, che rende meno soli, meno alienati, che produce gratis controllo sociale (senza telecamere e pattuglie di polizia), che fornisce gratis modelli educativi (al di là e con più forza della scuola e delle stesse religioni che la difendono), che produce quotidianamente e gratis sostegno ai più deboli (in una società che li ha dimenticati e non se ne occupa), che insegna senza nemmeno accorgersene e perché costretta dalle risorse limitate solidarietà e condivisione (è il significato della parola fraternità, che non a caso si sta dimenticando, in una società di figli unici). E’ una risorsa concreta e un modo di pensare il mondo, quindi, che si va perdendo se non lo si sostiene. E le cui conseguenze sono devastanti per la società nel suo complesso: che diventa più chiusa, più egoista, meno solidale, più impaurita, meno capace di guardare al futuro e quindi di inventare, di creare, di investire energia (non lo si fa, se la società è più vecchia e ha più passato da rimpiangere che futuro da sperare).
Ecco perché bisogna far diventare la famiglia una priorità. Detassando, defiscalizzando famiglie e figli, e investendo in welfare: asili, risorse sociali, assistenza per i più deboli e i non autosufficienti. La destra deve quindi uscire dal predicare bene e razzolare male (il taglio delle risorse ai comuni si sta scaricando interamente sulle famiglie e i soggetti deboli) e dalla retorica familista priva di conseguenze, su cui tanta responsabilità ha anche il mondo cattolico: riconoscendo laicamente che esistono oggi modelli familiari al plurale, che includono famiglie monogenitoriali, separate, divorziate, ricomposte, di fatto – e sostenendoli tutti. La sinistra deve uscire dalla subalternità alle logiche marginali: per cui si sostengono giustamente i diritti di gruppi minoritari (coppie di fatto e omosessuali, ad esempio), ma assurdamente in contrapposizione ai diritti della grande maggioranza di famiglie oggi tragicamente in difficoltà.
Stefano Allievi
Allievi S. (2010), In Italia la famiglia è aiutata soltanto a parole, in “Il Mattino”, 29 novembre 2010, p. 5 (anche “La Nuova di Venezia”, pp. 1-5, “La Tribuna di Treviso”, pp. 1-5)
Su Saviano Maroni ha ragione
/in 2010, Articoli / Articles, Articoli di Politica / Politics Articles, Politica / Politics /da StefanoLa trasmissione di Fazio e Saviano è un grande e meritato successo. E un bellissimo segnale, che mostra come sempre più italiani siano arcistufi del modello sottoculturale imposto con la nascita dell’era televisiva berlusconiana delle tv commerciali, e dominante oggi anche alla Rai. Un modello fatto di contenuti inesistenti, informazione controllata o ridotta a un inutile e irrilevante cicaleccio, e sostanziale censura non solo a questo o quel personaggio, ma alla cultura, alla riflessione e all’approfondimento in quanto tali.
Detto questo, se il monologo di Saviano sulla ‘ndrangheta era interessante e legittimo, l’accenno a una sorta di legame organico tra ‘ndrangheta e Lega è semplicemente insostenibile. Non c’è dubbio che mafia, camorra e ‘ndrangheta, ovunque, si rapportano con chi detiene il potere e i soldi, e si infiltrano quindi nelle istituzioni, nei partiti e nei luoghi dove si prendono le decisioni che contano. Non c’è alcun dubbio nemmeno che il ministro Maroni sia della Lega, e che le sue azioni e opinioni, in altri ambiti legittimamente discutibili, testimoniano di una azione di contrasto alla criminalità organizzata ferma, determinata ed efficace. La semplice coincidenza delle polemiche con Saviano con l’arresto del boss Iovine è lì a testimoniarlo.
Saviano, nel tirare in ballo la Lega, ha usato un metodo allusivo, e notevolmente strumentale. Non solo: l’intervista successiva con cui, solo perché Maroni ha chiesto a Saviano di ripetere le sue parole guardandolo negli occhi, ha avanzato un incauto e offensivo accostamento con il boss Sandokan che ha usato frase analoga nei suoi confronti, testimonia di questa modalità obliqua, e anche di una dose francamente fastidiosa di vittimismo narcisistico. In questo senso Maroni ha un sacrosanto diritto di replica. Che non dovrebbe essere imposta dalla dirigenza Rai: dovrebbe essere, naturalmente e semplicemente, l’ovvia decisione degli autori del programma di ospitarlo nella prossima puntata. Saviano ha detto molte cose giuste e ha fatto un errore: lo si ammetta, si dia un legittimo diritto di replica, e si chiuda lì. In fondo, sulle mafie, Maroni e Saviano sono dalla stessa parte e fanno lo stesso mestiere: alleati quindi, non nemici.
Un accenno merita invece la squallida strumentalizzazione politica, da ambo le parti, che al caso è seguita. A destra abbiamo infatti una offensiva campagna denigratoria nei confronti di Saviano. A sinistra un aprioristico e molto retorico (pensiamo alle roboanti parole di Di Pietro) schieramento in difesa di Saviano, solo perché ha attaccato la Lega: senza accorgersi che in realtà questa polemica anche politicamente sarà un boomerang, che farà meglio risaltare il merito del lavoro di Maroni in questo ambito.
Basta. Così come siamo arcistufi della tv senza contenuti e senza qualità, siamo arcistufi anche di una politica capace solo di strumentalità e parzialità sempre e comunque, e di ipocrisia dappertutto. Per una volta, si faccia uso di buon senso e di ragionevolezza.
Stefano Allievi
Allievi S. (2010), Su Saviano Maroni ha ragione”, in “Il Mattino”, 19 novembre 2010, pp. 1-4 (anche “La Nuova di Venezia” Mafie, anche Maroni va ascoltato, “La Tribuna di Treviso” Mafie, Maroni ha ragione e “Il Piccolo” Ma stavolta Saviano ha sbagliato)
Musulmani d’Italia, da ospiti a coinquilini
/in 2010, Articoli / Articles, Articoli sull'Islam / Islam Articles, Islam /da StefanoSono un milione e trecentomila, più o meno: il 33% dei quattro milioni di immigrati che vivono in Italia. Vengono, nell’ordine, dall’Albania (440.000), dal Marocco (403.000), dalla Tunisia (100.000), dall’Egitto (75.000), dal Senegal (67.000), dal Bangladesh (66.000), dal Pakistan, (55.000), e poi, via via, in ordine sparso, da Algeria, Bosnia Iran, Nigeria, Turchia, Somalia e… Italia, con un nucleo numericamente contenuto ma assai attivo di convertiti, che giocano un ruolo importante nell’islam organizzato. Una parte di loro appartiene alla seconda generazione, in qualche caso alla terza: espressione che non ha nessun senso, dato che quella che chiamiamo seconda generazione di immigrati è in realtà la prima di neo-residenti. Una parte invece, ancora relativamente pochi, è cittadinizzata, italiana per acquisizione, e sfugge a queste statistiche.
Sono i musulmani del Belpaese: il 33% degli immigrati, e il gruppo religioso più consistente (appena più degli ortodossi, che sono il gruppo cristiano più significativo, con il 28%, degli immigrati, e ben più dei cattolici, che sono il 19%). Essi costituiscono il 2,2% della popolazione italiana, contro una media europea del 4%, con punte del 6,5% in Francia e del 6,1% in Olanda. Ma, naturalmente, solo una parte di essi – come del resto di tutti gli altri immigrati, e della stessa popolazione autoctona – attiva in qualche modo il suo essere religioso: è cioè, in certa misura, praticante.
Come si vede dalla diversificazione etno-nazionale, si tratta di un islam frammentato, diviso: per razza, lingua, tradizione, ma anche per interpretazione della religione (sunniti e sciiti, seguaci delle diverse scuole giuridiche dell’islam), per non parlare delle scelte politiche e di opinione. Una parte di essi, soprattutto appartenenti alle prime generazioni, guarda ancora al paese d’origine: vive, per così dire, voltata all’indietro (dal punto di vista della linguistico, ma anche emotivo, politico, ecc.), anche se in larga misura non ci tornerà più. Una parte invece è decisamente proiettata a integrarsi nel paese in cui ha scelto di vivere: a partire da un segmento significativo delle prime generazioni, e più radicalmente da quelle che seguono, socializzate, alfabetizzate e scolarizzate in Italia, e per le quali questo è il proprio paese.
Si tratta in entrambi i casi di una presenza la cui cifra interpretativa è il cambiamento, non la continuità: perché cambiano le condizioni di vita, ma anche le opinioni e persino le credenze e le teologie, pure esse sottoposte a delle spinte al cambiamento radicali. Basti pensare al fatto che l’islam è per definizione una religione di maggioranza (l’idea stessa di shari’a, di legge religiosa, come è tradizionalmente concepita, non ha alcun senso se la religione non determina le leve del potere e non influenza la legge civile; lo statuto dei dhimmi, cioè la definizione delle altre religioni come ‘protette’, e così via), che si trova a vivere in condizioni di minoranza.
L’islam insomma non è più solo neo-arrivato; è, ormai, co-inquilino. Comincia ad entrare in quella che possiamo considerare la ‘fase due’ della sua presenza in Italia: quella della sedentarizzazione, della stabilizzazione, in parte anche dell’istituzionalizzazione, per quanto ancora ad uno stadio relativamente embrionale.
Tra le specificità di inserimento dell’islam italiano, rispetto a quello di altri paesi europei, possiamo citare almeno i seguenti aspetti:
la diversificazione dei paesi di provenienza, che impedisce di fatto l’identificazione, sia sul piano istituzionale che su quello della percezione, con un solo paese (e dunque non consente di ‘appaltarlo’ agli stati esteri di provenienza, errore che si è fatto invece altrove in Europa, come nel caso turco-tedesco e, in parte, in quello franco-algerino);
la maggior velocità di ingresso e di insediamento, rispetto ad altre realtà europee, in cui i musulmani hanno cominciato ad arrivare già da alcuni decenni; e l’arrivo più recente, in una situazione in cui anche nei paesi d’origine l’islam è centrale nella costruzione dello spazio pubblico, sul piano religioso, politico e culturale (assai più che non negli anni ’70 e primi ’80, ad esempio, nei quali è avvenuto il grosso dell’immigrazione nel centro e nord Europa);
il fatto che la presenza islamica si rende visibile nello spazio pubblico già con la prima generazione, quando l’esperienza è minore e i processi organizzativi sono embrionali, e più frequenti le incomprensioni e i possibili fraintendimenti;
la più diffusa condizione di irregolarità, in parte originaria, dovuta all’ingresso clandestino, ma in parte anche prodotta delle normative vigenti (in particolare la legge nota come Bossi-Fini), e dalle lentezze e disfunzioni dell’apparato burocratico chiamato ad applicarle, che costituisce di per sé un pesante ostacolo all’integrazione;
la scarsità di provenienze da ex-colonie, con un legame preesistente (ad esempio culturale e linguistico) con l’Italia, e una tradizione di conoscenza reciproca;
il ruolo importante giocato dai convertiti nella ‘produzione sociale dell’islam’ (nel mondo associativo), in quella culturale (visibilità mediatica, riviste, siti, editoria, traduzioni), e in quella politica (lobbying in favore dell’intesa e più in generale promozione dell’islam sul piano locale e nazionale), con un più generale ruolo di supplenza delle carenze organizzative dell’islam immigrato;
la maggior dispersione lavorativa e residenziale, che non favorisce il costituirsi di fenomeni di ‘soglia etnica’, e la mancanza o la debolezza relativa, almeno per ora, di interlocutori associativi laici (etnici e culturali) di qualche peso e rappresentatività, che rende ancora più rilevante il ruolo sociale e religioso giocato dal tessuto delle moschee.
Questi fattori comportano un insieme di conseguenze che, prendendo in considerazione i più rilevanti, potremmo sintetizzare con la seguente ‘equazione sociale’:
maggiore dispersione lavorativo/residenziale + minor peso relativo dell’associazionismo etnico/laico + immigrazione da paesi in fase di maggior ‘effervescenza’ islamica = maggior peso dell’aggregazione a carattere cultural/religioso.
Le moschee, insomma, e quanto sta loro intorno, paiono giocare un ruolo più importante, anche perché enfatizzato dalla mancanza o dalla debolezza di altri interlocutori, rispetto a quanto accaduto in altri paesi europei. C’è poco insomma, in mezzo tra il bar e la moschea. Anche se, va ricordato, i luoghi associativi e i poli di aggregazione più o meno identificabili non esauriscono la totalità dei comportamenti, e l’enfasi su di essi può distogliere l’osservatore dalla percezione di quella quota significativa ma silenziosa di individui che effettuano il loro percorso di inserimento ai margini o al di fuori delle rispettive comunità di riferimento, o quelle che noi consideriamo tali.
Le sale di preghiera in Italia sono oltre settecento: un segnale, come si è visto, di forte vivacità. Anche se molte di esse sono precarie, instabili, povere anche strutturalmente. Poche sono invece le moschee vere e proprie, costruite ad hoc: soltanto tre (Roma, Milano, Catania, mentre un paio sono in costruzione e poche altre in fase di progettazione). La visibilità dell’islam è dunque, nonostante la presenza significativa, meno forte che in altri paesi: basti pensare che di moschee costruite come tali ve ne sono quasi 200 in Francia, oltre un centinaio in Gran Bretagna, 100 anche in Olanda, una settantina in Germania (e almeno altrettante in costruzione), molte anche in Belgio, ecc.
Dal punto di vista organizzativo, la situazione è relativamente stabile (l’avevamo già descritta in un articolo di Popoli del 2005). C’è un’organizzazione principale, l’Ucoii (Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia), a cui sono legate molte moschee, soprattutto nate negli anni Settanta e Ottanta, in cui ha esercitato una certa egemonia sull’islam organizzato, ma ora in perdita netta di influenza: per difficoltà interne, e per un ciclo che diremmo fisiologico, ma anche per effetto di una durissima campagna di delegittimazione che, partita dalla stampa, ha coinvolto i governi locali e nazionale. C’è un ruolo importante, come in altri paesi, del Centro islamico culturale d’Italia, ovvero della moschea di Roma: il cui ruolo è tuttavia più simbolico che operativo, dato che non dispone di una vera e propria rete di moschee in qualche modo affiliate. Vi è una organizzazione di convertiti, la Coreis, con sede a Milano, molto attiva in termini di formazione, visibilità, attività culturale, ma con legami inesistenti con il mondo degli immigrati musulmani. Vi sono organizzazioni su base etnica (come quelle dei marocchini, ad esempio), con capacità altalenante di coinvolgimento, a seconda delle personalità dominanti e dei finanziamenti a disposizione, ma con capacità di influenza reale ancora da misurare. Vi sono poi le reti di sostegno etno-religiose (dei muridi senegalesi, dei tablighi pakistani, degli sciiti iraniani, dei turchi, ecc.), che condividono background e lingua, ad esempio. E vi sono soprattutto le organizzazioni su base locale, le moschee di base, non federate con alcuno, non collegate tra loro. Infine, abbiamo le organizzazioni più nuove, nate da esigenze particolari, in particolare delle giovani generazioni (m anche delle donne) di una rappresentanza più orientata al paese di accoglienza che a quello di origine: come i Gmi (Giovani musulmani italiani), che costituiscono un’interessante esperienza associativa ed anche un serbatoio di leadership potenziale e di presenza più integrata e inserita, trattandosi spesso di giovani universitari o di persone appena entrate nel mondo delle professioni.
Ma l’islam non si sviluppa nel vuoto pneumatico, e i processi di integrazione sono determinati in larga misura, oltre che dalle dinamiche interne, dall’ambiente in cui si svolgono. E qui l’analisi si fa complessa. Perché da un lato sono all’opera processi lunghi di integrazione sostanziale, che passano per la scuola, il mondo del lavoro, la vita di quartiere, i legami personali (condivisione di attività: sportive, culturali, ludiche) e le relazioni intime (amicizie – e coppie – miste). Dall’altro si manifestano tendenze profonde nella società che vanno nella direzione opposta: quella del conflitto, della non accoglienza, della mediatizzazione isterica, dell’islamofobia politica (con contorno, a livello locale, di una politica di ordinanze fantasiosa quanto spesso scellerata, xenofoba e in ultima istanza incostituzionale), del mancato rispetto dei diritti individuali e collettivi (su tutto, quello relativo ai luoghi di culto), dell’applicazione selettiva delle leggi (normative di sicurezza e antincendio, che si applicano tuttavia – almeno in certo modo: arrivando alla chiusura immediata delle sedi – solo ai musulmani e a nessun altro), o di quello che possiamo chiamare ‘eccezionalismo’ islamico, ovvero il considerare i musulmani sempre come caso eccezionale, cui non si applica la normativa vigente, e per i quali si chiedono condizioni particolari e specifiche: l’obbligo di usare la lingua italiana nel culto (che non vale per nessun altro, che si tratti di anglicani inglesi, luterani tedeschi, cattolici filippini, pentecostali nigeriani, ebrei, italiani che prediligono il latino), l’ipotesi di costituzione di albi degli imam con autorizzazione preventiva (che non esistono per preti, pastori, rabbini: un’ingerenza negli affari interni delle comunità religiose impensabile se applicata ad altri), o la creazione di organismi di consultazione quanto meno anomali. Su quest’ultimo punto val la pena di spendere qualche parola in più. L’islam italiano non è considerato ancora maturo per un’intesa, alla pari delle altre confessioni religiose minoritarie che non dispongono di un Concordato che regoli i rapporti con lo stato. Non siamo sicuri che sia l’islam a non essere pronto, o lo stato. E forme di eccezionalismo in questo senso – costituzione di organismi rappresentativi ad hoc – sono presenti anche altrove, dalla Francia al Belgio. In Italia ci si era provato con l’istituzione della Consulta per l’islam, voluta dal ministro Pisanu e confermata dal ministro Amato: non rappresentativa, perché composta da rappresentanti nominati e non eletti (come invece avviene nei paesi citati), ma comunque un organismo di musulmani. Oggi si è scelta la strada, promossa dal ministro Maroni, di nominare un Comitato per l’islam, composto da qualche musulmano ‘di fiducia’, lontano comunque da ogni tentativo di rappresentatività reale, e da esperti accademici di islam, coadiuvati da altri non musulmani di più dubbia competenza. Non quindi un organismo rappresentativo, nemmeno come abbozzo, ma nemmeno un mero organismo consultivo, e in ogni caso un segnale di distanza mandato ai musulmani.
Tutto questo accade all’interno di un clima culturale certamente non favorevole al rapporto con l’islam (si pensi alla pervasiva ed efficacissima campagna fallaciana, che con i suoi libri ha di fatto dettato l’agenda alla politica italiana), ma anche a un clima anche politico più generale, che fa sì che per esempio venga considerato progressivamente come normale, dai media e da alcune forze politiche, proporre consultazioni referendarie per consentire di aprire una sala di preghiera in tale o talaltra località, dimenticando che quello dell’esercizio del culto è un diritto costituzionalmente garantito, non una gentile concessione, e che se le maggioranze si arrogano il diritto di decidere sui diritti delle minoranze ci si avvia verso una china che porta dritto alla negazione in radice della democrazia, utilizzando un mezzo, il referendum, che dovrebbe invece esserne l’espressione più piena.
I problemi ci sono, e vanno affrontati, senza pudori politically correct. E nominandoli esplicitamente: dai delitti d’onore ai matrimoni forzati, dai collateralismi rispetto all’antioccidentalismo (e, nei casi peggiori, al radicalismo e al terrorismo) a forme anche gravi di chiusura intracomunitaria, più grave per i soggetti più deboli (donne e minori), fino alla formazione delle leadership. Ma vanno affrontati costruttivamente, e in collaborazione con le comunità. Non in opposizione e come frutto di una demonizzazione generalizzata che rischia di ottenere il risultato opposto a quello che si prefigge.
Stefano Allievi
Stefano Allievi è professore di sociologia all’Università di Padova, e tra i principali esperti italiani della presenza islamica in Europa. Tra i suoi volumi: Il ritorno dell’Islam. I musulmani in Italia (con Felice Dassetto), Edizioni Lavoro, 1993; I nuovi musulmani. I convertiti all’islam. Edizioni Lavoro, 1999; Islam italiano, Einaudi, 2003; Muslims in the Enlarged Europe (con B.Maréchal, F.Dassetto, J.Nielsen), Brill, 2003; Niente di personale signora Fallaci, Aliberti, 2006; Le trappole dell’immaginario: islam e occidente, Forum, 2007; I musulmani e la società italiana, Franco Angeli, 2009; Producing Islamic Knowledge in Western Europe, Routledge, 2010; Moschee d’Europa, Marsilio, 2010 (in uscita).
Allievi S. (2010), Musulmani d’Italia, da ospiti a coinquilini, in “Popoli”, n.11, novembre 2010, pp. 40-43
Assuefatti al peggio. L’Italia del bunga bunga
/in 2010, Articoli / Articles, Articoli di Politica / Politics Articles, Politica / Politics /da StefanoL’imbarazzante sequenza di rivelazioni più o meno piccanti sulla vita privata di Berlusconi si fa sempre più serrata. L’aspetto moralistico è quello su cui maggiormente è focalizzata l’attenzione pubblica, ma ci sembra il meno interessante.
Ai tempi dello scandalo Lewinski, in fondo, a molti era sembrato più squallido lo spettacolo dei persecutori politici di Clinton, i Newt Gingrich e gli altri inquisitori della destra fondamentalista cristiana, che passavano il tempo a rovistare con evidente piacere tra pantaloni sbottonati e tracce di sperma, presentandosi tutti i giorni al Congresso con la Bibbia in mano, che non il comportamento, pur scorretto, dello stesso Bill Clinton, che è rimasto comunque un presidente assai migliore, sul piano della morale pubblica e politica, di quelli, repubblicani, che l’hanno preceduto e seguito, anche se questi forse avevano una morale privata più spendibile.
Oggi, semmai, può essere ironico constatare che il gioco avviene a parti invertite: ad essere sotto attacco è un difensore della famiglia come istituzione, non un liberal miscredente e libertino, fino a ieri difeso a sua volta dagli alti rappresentanti ecclesiastici di cui è stato buon amico e campione politico, godendo del loro ampio ed esplicito sostegno, e che oggi, dopo aver contestualizzato anche le bestemmie del leader, si limitano ad un imbarazzato silenzio. E gli inquisitori sono giudici e giornalisti che non brandiscono certo principi cristiani, e in mano tengono al massimo il testo di qualche intercettazione e le rivelazioni dell’ennesima pedina dei giochini del premier.
Più che sui fatti personali può dunque essere interessante trarre qualche conclusione sugli effetti pubblici della discutibile morale privata su cui si fonda questa vicenda, in ogni caso triste per gli effetti a valanga che avrà sul livello di tensione morale, già scarso, e sulla reputazione internazionale del Paese.
Sul piano del decadimento morale del paese, le conseguenze sono ovvie, anche se questo scandalo ne è solo un esempio tra tanti, non l’origine. Di esso ciò che colpisce è soprattutto l’accettazione e la diffusione dei capricci del capo come norma e come esempio – in altre parole, il servilismo come prassi e modo per fare carriera, riuscendoci. O la ‘velinizzazione’ della politica. Non solo sul piano estetico – più donne e più belle in politica – ma sul piano dei contenuti: fare ciò che dice chi paga, qualunque cosa sia, anche lo scambio più volgare, purchè si salvino le apparenze. In questo senso ci pare che questa morale sia altrettanto bene interpretata tanto dagli uomini che circondano il capo, le cui carriere sono state legate all’unico merito della fedeltà cieca e assoluta e all’asservimento ai suoi voleri, quanto dalle igieniste dentali e le soubrette finite per dubbi meriti a Montecitorio o al Pirellone. Anche se la predisposizione e il voto delle leggi ad personam per difendere Berlusconi dalla magistratura, cedendo senza fiatare il proprio onore e la propria anima, sono forme di prostituzione assai più gravi della cessione del proprio corpo, quale che ne sia la forma, in un letto o anche solo nella forma di carnacea tappezzeria per la valorizzazione estetica delle serate di relax, di una escort che non ha responsabilità pubbliche o di una minorenne col mito della dolce vita. E proporre carriere politiche alle animatrici dei festini del capo – e accettarle, da parte dei maggiorenti del partito (memorabile in questa chiave la frase di un coordinatore del Pdl a un escluso eccellente che si lamentava di non essere ricandidato: “tu c’hai le poppe?”) – è assai più grave che sperarci, da parte delle animatrici in questione.
Sul piano internazionale, le conseguenze sono ovvie. Nonostante alcuni successi diplomatici, la considerazione di cui godono il Paese e il suo leader sono in continua discesa, e forse non siamo ancora giunti al livello più basso. Un fatto che dovrebbe stare a cuore anche alle nostre imprese, così premurose, negli anni scorsi, nel loro sostegno al premier.
Sul piano interno, non è altro che l’ennesimo vortice di una spirale discendente che non accenna ad arrestarsi. E che le continue denunce, in mancanza di un riscossa morale innanzitutto all’interno del Pdl, non riescono a far diventare un circolo virtuoso: quasi ci si fosse assuefatti al peggio.
Il declino sarà dunque inesorabile, anche se forse meno rapido di quanto potremmo immaginare. I sondaggi, è vero, sono in calo: ma il genio politico di Berlusconi, e le sue indubbie capacità, sapranno trovare l’ennesimo coup de théâtre o una qualche altra emergenza da gestire miracolisticamente, per ribaltare tendenze peraltro ondivaghe ed emozionali, legate a fattori occasionali e instabili per definizione. Del resto, metà del paese è con lui, e non pronuncerà alcuna condanna: anche perché non desidererebbe altro che essere al suo posto.
Il controllo assoluto del destino politico dei suoi, e l’assenza completa di democrazia nel partito di cui è leader, fa sì che la sua corte non avrà il coraggio, come non l’ha avuto finora, di contraddirlo. Il bisogno di mantenere il potere da parte di Berlusconi, per continuare a posporre i suoi guai giudiziari, per controllare l’informazione pubblica, e anche, molto umanamente, per darsi l’illusione di controllare lui gli eventi, anziché essere succube di essi, è quasi assoluto. E allora, a meno di fatti imprevedibili, è facile ipotizzare una legislatura umiliante ma non ancora finita, segnata da uno stillicidio di rivelazioni, sempre più infime e tristi – che possiamo immaginare più frequenti man mano che si accelereranno le tappe di un divorzio che non potrà certo rimanere vicenda privata – con un potere sempre solido e tuttavia fortemente indebolito, che lascerà alla fine l’Italia, sempre che regga economicamente, in pietose condizioni politiche e in una devastante situazione della morale pubblica, più bassa ancora rispetto ai tempi di Tangentopoli.
Un paese che avrà ulteriormente perduto il suo rango, depresso economicamente e moralmente, e retrocesso agli occhi della pubblica opinione internazionale. In condizioni più difficili, quindi, e comparativamente peggiori, di quando Berlusconi l’ha preso in mano.
L’era berlusconiana, nata in un tripudio di speranze e ottimismo, finirà male, dunque. Ma dovremo assaporarla fino alla fine. Come accaduto con l’era Bush, del resto. Sperando che capiti anche a noi, alla fine, un Obama di cui non si vedono per ora le tracce. Ma senza avere le risorse che all’America sono venute dall’essere la prima potenza mondiale.
Stefano Allievi
Allievi S. (2010), Assuefatti al peggio. L’Italia del bunga bunga, in “Il Piccolo”, 30 ottobre 2010, pp. 1-2 (anche messaggero veneto)
Stefano Allievi
E’ autore di oltre un centinaio di pubblicazioni in vari paesi e di numerosi articoli e interviste su dibattiti di attualità. Suoi testi sono stati tradotti in varie lingue europee, in arabo e in turco.