La spirale del sottosviluppo. Intervista a Stefano Allievi.

(Intervista a cura di Claudio Paravati)

“La spirale del sottosviluppo” è un titolo impegnativo, per un libro che tratteggia la situazione dell’Italia di oggi. Che cosa intende dire?

Ho cominciato a scrivere il libro quasi due anni fa, ben prima del Covid, e l’ho concluso durante il lockdown. Quello che emergeva, man mano che affrontavo i capitoli di cui si compone il libro – demografia, immigrazione, emigrazione, istruzione e lavoro – è la loro stretta interconnessione: ed è proprio questa che spiega – molto più che l’approfondimento di ogni singolo argomento – il declino italiano. Molte cose le studiavo da anni (i primi tre temi, in particolare); gli altri li ho maggiormente approfonditi in questa occasione. E man mano che li mettevo in correlazione il quadro peggiorava: come se l’uno spingesse l’altro verso il basso. Da qui anche il sottotitolo: “Perché (così) l’Italia non ha futuro”.

Con l’arrivo del Coronavirus, naturalmente, tutti gli indicatori sono peggiorati, e non poteva essere altrimenti. Per questo, pur sapendo di essere in un momento in cui c’era un legittimo bisogno di speranza, d’accordo con l’editore abbiamo mantenuto questo titolo duro: è – volutamente – uno schiaffo dato al lettore, ma a fin di bene. Non per fare del male, ma al contrario per svegliare finalmente alla consapevolezza: un po’ come si fa con le persone svenute, prive di sensi. Perché ho la sensazione – che per me è una certezza, dopo tanti mesi di approfondimento dei fondamentali del nostro paese – che non usciremo dall’emergenza affrontando l’emergenza, ma solo e soltanto affrontando i mali strutturali del sistema Italia, che sono quelli che descrivo nel libro. E che erano presenti già prima del Covid.

In compenso, visto che nel libro sono indicate anche alcune delle ricette necessarie per uscire dalla spirale, e per invertirla, passando da un circolo vizioso ad uno virtuoso, la conferenza-spettacolo che ho tratto dal libro, insieme ai giovani artisti di Fabrica che ne hanno preparato la parte audiovisuale (presentata online durante il lockdown, e che adesso comincia a girare nei teatri e nei festival), ho voluto intitolarla “Ri/partire. L’Italia dopo il Coronavirus”: con un’enfasi sui due significati del termine ripartire – ricominciare, ma anche fare le parti, suddividere, diversamente da come si è fatto fino ad oggi. Perché con il Covid non è solo che stiamo peggio: è che si sono aggravate enormemente le ingiustizie sociali, quelle che chiamo le 3G che dividono il Paese – tra garantiti e non garantiti, tra generi e tra generazioni. E bisogna sanarle.

L’età media della popolazione italiana è sopra i 44 anni; più della media europea (41,6); si pensi che, come dice lei nel libro, quella del mondo è 29,6 e quella africana 19,4. E ancora: nel 1980 – ci dice a p. 11 – in Italia c’erano 17 milioni di under 20, e 10 milioni di over 60; nel 2015 i dati sono rovesciati: abbiamo 10 milioni di under 20, e 17 milioni di over 60. Di fronte a dati come questi, come si fa a immaginare qualsiasi prospettiva futura? Innovazione, nuove tecnologie… ma anche solo, “banalmente”, la forza lavoro che per natura è forte in età giovanile? 

La demografia è uno dei temi fondamentali: per questo sono partito da lì. Siamo il paese più vecchio e messo peggio d’Europa (e tra quelli messi peggio al mondo). I bambini diminuiscono (mai così pochi nati dalla Seconda guerra mondiale), la popolazione attiva cala, aumentano solo gli anziani: i non autosufficienti rischiano di essere un decimo della popolazione tra meno di un decennio. Solo un paio d’anni fa il rapporto tra lavoratori e pensionati era di 3 a 2: sarà di 1 a 1 tra pochi anni. Il gap con il resto d’Europa sta aumentando. Eppure, mentre in altri paesi è oggetto di dibattito – in oggettivo collegamento con le riflessioni sull’immigrazione – da noi non ne parlano né la politica né i media. C’è un silenzio assordante e inquietante, che deriva dall’analfabetismo demografico anche delle classi dirigenti. Mentre dovrebbe essere al centro dell’attenzione, con infuocate discussioni sulle politiche da attuare e i progetti da inventare. Da questo dipende tutto: le politiche sulla famiglia (che non ci sono proprio), quelle sul lavoro, sull’istruzione, la riforma previdenziale, e naturalmente una sana ed equilibrata gestione delle migrazioni. E invece si va avanti senza alcun quadro delle priorità, con provvedimenti spot, nella loro quasi totalità a favore degli anziani: si pensi a Quota 100, tra gli altri. Il motivo c’è, e spiega molte cose: gli anziani sono di più dei giovani, e votano in percentuale maggiore (del resto sono la constituency principale tanto dei partiti che dei sindacati); inoltre hanno una capacità di spesa maggiore, e sono al centro di molti interessi economici, a cominciare da quelli legati alla sanità. I giovani invece hanno un reddito medio che è un quarto in meno di quello che avevano i loro coetanei un quarto di secolo fa, e nessuna speranza di ottenere i benefici di cui godono o godranno i loro genitori e i loro nonni, di cui pagano peraltro il prezzo. Ma nessuno se ne occupa. E infatti hanno ricominciato ad emigrare in numeri sempre più significativi…

Il cortocircuito negativo è complesso, in effetti: non solo più morti che nati, ma anche più emigranti che immigrati.

Sì, è la prima volta nella nostra storia che sono negativi sia il saldo naturale che quello migratorio: più morti che nati, e dal 2018 più emigranti che immigrati. Non è in corso nessuna invasione: un’evasione, semmai. Per dire: l’anno scorso gli emigranti erano stimati in circa 285.000. Sempre nel 2019, gli sbarchi sono stati poco più di 13.000. Con queste cifre davanti, ci rendiamo meglio conto della sproporzione tra l’attenzione dedicata all’uno e all’altro fenomeno.

Ci stiamo svuotando, ma purtroppo partono soprattutto giovani e famiglie, quindi l’invecchiamento della popolazione, il suo squilibrio interno, si accresce. In più il tasso di emigrazione è doppio nella popolazione laureata e diplomata, implicando una grossa perdita anche di capitale umano. Con effetti devastanti per l’economia del paese, per l’equilibrio del sistema previdenziale, ma soprattutto per la società, per i suoi orizzonti di riferimento, e anche per i suoi valori guida. Siamo un paese sempre più impaurito, incattivito, chiuso, culturalmente conservatore: normale, se i portatori di speranza, di innovazione e di futuro diminuiscono, o collocano le loro speranze altrove.

Lei parla di fattore “C”, da conoscenza: ma con la cultura dunque si mangia? A p. 120 scrive: «sarà sempre più importante… è il più potente fattore di sviluppo e moltiplicatore di investimenti e guadagni a disposizione di individui e paesi». Davvero è così? Non servono semmai fabbriche, metalli, grandi aziende? 

L’istruzione è una grande questione nazionale, forse il principale dei problemi del paese. Abbiamo in media la metà dei laureati d’Europa, e il doppio degli analfabeti funzionali: il 30%, contro il 15% che è la media europea. Tra l’altro è una questione collegata alla demografia: più si è anziani e più si abbassano i livelli di istruzione. Ma soprattutto, questo paese (e le sue classi dirigenti, in particolare quelle politiche) non ne capiscono la centralità e l’urgenza: del resto, la selezione, e non solo in politica, quasi mai passa attraverso la meritocrazia e la conoscenza. Siamo un paese di leggendaria immobilità sociale (conta di chi sei figlio, non cosa sai o sai fare). Se poi si è fatta carriera – politica, burocratica, ma non di rado anche nell’economia e nell’impresa – perché si è amici di, figli di, fedeli di, o perché si è vinta la lotteria del voto, senza alcuna capacità, e senza avere studiato, mai o quasi mai si ha la consapevolezza di quanto l’istruzione sia invece importante. Conoscenza chiama conoscenza: ma anche la sua mancanza, purtroppo, si riproduce. E un paese che non la cerca, o non la programma, per definizione non la trova. Il che è un problema enorme, in una knowledge economy che, da sola, produce più ricchezza anche per i meno istruiti: per capirci, nelle città e nei paesi dove ci sono molti impieghi nei settori innovativi, che presuppongono alti livelli di formazione, peraltro ben pagati, guadagnano di più anche baristi, commessi o carpentieri. E ogni posto di lavoro nei settori avanzati ne crea cinque nei settori tradizionali, cosa che non succede nella manifattura, dove il moltiplicatore è molto più basso. Se noi non investiamo in questo, perdiamo competitività nei confronti dei nostri partner europei e dei paesi sviluppati. E non a caso, infatti, siamo in coda in quasi tutti gli indicatori economico-sociali dell’UE e dell’OCSE.

Che cosa intende con l’espressione “paradosso di Ventotene”?

È una metafora che uso nel libro, che prendo da un esempio concreto. L’isola che ha ospitato al confino Altiero Spinelli, padre del federalismo europeo, che proprio lì scrisse il suo manifesto europeista, si è trovata all’incrocio di tutte le variabili di cui tratto nel libro: demografia in calo ed emigrazione hanno portato alla necessità di chiudere la scuola per mancanza di bambini, e al rifiuto di evitarla grazie alla ‘importazione’ di poche famiglie e bambini stranieri, per paura di perdere il lavoro. È una forma possibile di “spirale del sottosviluppo” di cui tratto nel libro, che finisce per impoverire gli autoctoni. E proprio per questo è un esempio efficace: perché le cose, come spiego nel libro, non sarebbero diverse se parlassimo di una regione qualsiasi d’Italia o d’Europa. È un esempio chiaro, direi trasparente – proprio perché lo si vede in un contesto piccolo – di come ci facciamo del male da soli (e soprattutto lo facciamo ai nostri figli, alle generazioni che ci seguiranno), nella totale inconsapevolezza e persino innocenza, se non abbiamo contezza delle connessioni tra i problemi che dobbiamo affrontare.

Nel libro in effetti emerge con chiarezza come la spirale del sottosviluppo passi dalla concatenazione tra questi fenomeni: demografia, istruzione, immigrazione, emigrazione, lavoro. Nel capitolo conclusivo sono azzardate delle conclusioni di tipo concreto, operativo. Cosa si può fare per non arrendersi al processo di decrescita che è in atto? 

Innanzitutto prenderne atto: averne consapevolezza, anche nei dettagli, e con dati a supporto. Farne il centro della propria riflessione, direi anche del proprio impegno, civile e politico. C’è bisogno di una riscossa anche morale, e direi di un risveglio – e di un impegno – di tutti, dalle élite (troppo spesso disincantate: tanto, loro, si salvano) in giù. Dobbiamo volerlo, innanzitutto, un paese migliore: e, francamente, non lo darei per scontato. Ci sono troppe persone a cui la situazione va benissimo così, troppi interessi legati all’immobilismo attuale, al non mettere in discussione gli equilibri raggiunti: e non parlo di oscure lobby, ma di banali contrapposizioni assai quotidiane, che ormai spesso dividono, all’interno delle famiglie, gli interessi dei genitori (o dei nonni) da quelli dei figli e ancor più delle figlie. Poi, sui singoli temi, le ricette ci sono, e sono percorribili, senza fare necessariamente la rivoluzione. Nel libro le elenco capitolo per capitolo, e sono cose pragmatiche, fattibili. Quello che manca ancora è la comprensione dell’ampiezza del disastro, della necessità di rivedere le scale di priorità: una visione lucida, se vogliamo. E di lungo periodo, non di breve momento. Per ritornare a quanto dicevo all’inizio, non usciremo dall’emergenza Covid occupandoci di essa e delle sue conseguenze. O affronteremo i mali strutturali del paese riconoscendoli e chiamandoli con il loro nome, o le emergenze si ripeteranno: sempre più spesso, sempre più gravi. Non voglio assumermi la responsabilità di consegnare un paese così, ai miei figli. È il motivo per cui ho scritto il libro e vado in giro a parlarne. Ma è di una riscossa collettiva, trasversale, quello di cui c’è bisogno. Non basta che lo percepiscano gli svantaggiati, che le cose non vanno bene: loro lo sanno già, lo sperimentano sulla propria pelle (anche se spesso se la prendono con le persone e i capri espiatori sbagliati). Bisogna che anche gli avvantaggiati (o i meno svantaggiati), capiscano che se le cose andranno avanti così, sarà peggio per tutti. Anche per le certezze di chi ne ha ancora qualcuna.

Stefano Allievi

Stefano Allievi

Sociologo, Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.

5 Agosto 2020

Elezioni regionali e referendum: similitudini e diversità

È curioso notare come in Veneto i sondaggi in previsione delle elezioni regionali e del referendum costituzionale per la diminuzione del numero dei parlamentari abbiano andamenti molto simili.
Zaia è dato come vincente da prima ancora che confermasse la sua terza candidatura, con percentuali sovietiche, variabili tra i tre quarti e i quattro quinti dell’elettorato; i SÌ al referendum ricevono più o meno lo stesso apprezzamento. La notizia vera, per Zaia, sarà la quantità di voti presi dall’opposizione, non il risultato finale, mai stato incerto; lo stesso per il referendum, dove l’attenzione sarà puntata sulla quantità dei NO, più che sull’esito, che appare scontato. Il clima generale infine, in entrambi i casi, è quasi di noia, non essendo previsto alcun vero capovolgimento o colpo di scena: tanto che i presumibili vincenti (Zaia da un lato, molti tra i sostenitori del SÌ dall’altro), non si fanno praticamente vedere, in campagna elettorale, quasi non ne avessero bisogno (in effetti non ce l’hanno), e semmai avessero solo da perdere da un confronto diretto con le argomentazioni delle rispettive opposizioni – e quindi le evitano accuratamente. Del resto, sia Zaia che il SÌ alla diminuzione del numero dei parlamentari (non importa con che criterio: in chiave semplicemente polemica e anti-casta) sono prodotti sul mercato da tempo, e che si vendono bene. Sono i prodotti concorrenti, gli anti-Zaia e il NO, che hanno bisogno di visibilità e di far conoscere le proprie ragioni.
Le similitudini tuttavia finiscono qui.
Per le elezioni regionali, appurato in anticipo chi sarà il vincitore, la notizia sarà semmai quanto (poco) prenderanno gli sfidanti, o quanto ulteriormente perderanno rispetto agli sfidanti precedenti: la vera competizione, quella che può mettere un po’ di sale nella campagna elettorale, e risvegliare un qualche interesse, è tutta interna alla compagine vincitrice, e in particolare tra le liste in appoggio a Zaia presidente e la Lega. Di quanto Zaia batterà la Lega? Con tutto il contorno, probabilmente abusivo, di speculazioni sul futuro ruolo nazionale di Zaia in opposizione a Salvini: roba da addetti ai lavori, che forse non tocca nemmeno il diretto interessato, dato che lo aspetta un altro tranquillo mandato da presidente del Veneto, e nel frattempo, sul piano nazionale, sarà successo di tutto.
Per quanto riguarda il referendum, invece, le cose stanno diversamente. È vero, il risultato appare scontato: anche se bisogna tenere presente che sempre più persone decidono il loro voto nell’ultima settimana, una quota tutt’altro che trascurabile direttamente nel seggio elettorale, e gli indecisi o i non informati sono ancora moltissimi (senza contare gli astenuti: che in Veneto saranno meno solo grazie al traino del voto regionale). Ma mentre chi dichiara di votare Zaia o Lega (e qualsiasi altro partito) è probabile sia conseguente con le sue dichiarazioni, la sensazione è che – almeno nel ceto politico largamente inteso, inclusi i militanti locali – le dichiarazioni ufficiali dei partiti non corrisponderanno affatto ai comportamenti nell’urna, senza contare il fatto che molti elettori i partiti non li ascolteranno proprio – come giusto che sia, trattandosi di un referendum. Stando alle dichiarazioni formali infatti, il SÌ, sulla carta, dovrebbe stravincere, più ancora di Zaia: sono a favore il Movimento 5 Stelle, promotore dell’iniziativa, a destra la Lega e Fratelli d’Italia (Forza Italia appare più divisa), a sinistra il PD (oggi: in passato per tre volte ha votato NO in parlamento); sulla carta, appunto, oltre il 75% degli elettori, ben oltre l’80% contando FI. Sono contrari esplicitamente solo alcuni partiti della sinistra radicale, +Europa e Azione, il partito di Calenda (un’area, in totale, molto al di sotto del 10%), mentre Italia Viva, il partito di Renzi, dovrebbe lasciare libertà di voto. Ma la carta non corrisponde alla carne viva del paese, e nemmeno dei politici stessi: tra i quali molti, anche nei partiti per il SÌ, voteranno NO, sia dichiarando esplicitamente il proprio dissenso, se lo fanno per convinzione, sia non dichiarandolo se si tratta di un più triviale interesse personale. Il più compatto (per il SÌ) è il M5S, compattissimi (per il NO) Azione e +Europa, mentre il più diviso sembra essere il PD, e a seguire FI.
Per il referendum, dunque, la partita si giocherà tra la gente, e soprattutto nella pubblica opinione organizzata: opinion leader a vario titolo, giornali, associazionismo, intellettuali, che si stanno schierando per conto proprio, e che potrebbero riservare qualche significativa sorpresa rispetto a un SÌ plebiscitario, in quanto voto anticasta. Per le elezioni regionali, invece, non ci sarà partita: si misureranno i nuovi equilibri – tutto qui.

Elezioni e referendum. Il vero dato nei numeri di chi perde, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 6 settembre 2020, editoriale, p.1

Come cambiano le nostre libertà

“La libertà non consiste nello scegliere tra il bianco ed il nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta”. Questa frase di autore ignoto l’ho letta intorno ai quattordici anni, in un testo sul pensiero anarchico. E da allora non mi ha più abbandonato.

Lo so, ci sono frasi assai più famose sulla libertà, e intellettuali di riferimento che ne hanno approfondito i meccanismi, i cui testi non si scrivono sui muri. Ma forse la secchezza di uno slogan da writer ci aiuta a cogliere le dimensioni contraddittorie della libertà nella situazione odierna: intesa come libertà da (dal bisogno, dalle condizioni di fame e sfruttamento: senza le quali ogni altra libertà è più difficile o forse solo virtuale; o dal male, come si recita nel Padre Nostro), come libertà di (la libertà – cioè il potere – di fare delle scelte e perseguire degli obiettivi), ma anche la libertà di sottrarsi alla scelte, di immaginare altri mondi e altre opzioni, o di scegliere di abdicare alla propria libertà per obbedire, servire, annullarsi, tanto magnificata spesso nel mondo religioso (l’adattarsi alla volontà di Dio, comunque e da chicchessia interpretata), utilizzata dai totalitarismi al servizio dello Stato o dell’ideologia, ma anche autonomamente assunta da moltissimi individui, che semplicemente sacrificano spazi significativi di libertà individuale in nome d’altri valori (l’amore, la famiglia, il lavoro, un ideale…), o la conquistano attraverso il servizio liberamente assunto, come nei romanzi di Robert Walser. Senza dimenticare, a proposito di contraddizioni, quanta di quella che crediamo libertà sia invece un asservirsi ad altre schiavitù: come è spesso per la libertà di abbandonarsi a una qualunque dipendenza, o per libertà più ordinarie come quella di lavorare, e persino per la libertà sessuale, quando diventa schiavitù rispetto a una pulsione. La psicanalisi più di altri ci ha fatto vedere i limiti della nostra illusione di libertà.

La modernità ha aumentato a dismisura le possibilità di scelta dell’individuo, la postmodernità le ha estese nelle dimensioni ed estremizzate nelle modalità, internet e il web le hanno trasformate in virtualmente infinite. Dunque se il criterio della libertà fosse quello di poter fare potenzialmente sempre più scelte, e farle individualmente, siamo indubbiamente più liberi di tutte le generazioni precedenti. Il fatto di poterne perseguire, tuttavia, solo un numero molto limitato – risibile, rispetto alle possibilità – trasforma la libertà potenziale in frustrazione reale per ciò che rimane inattuato e inattuabile. E ci ricorda che si può veramente scegliere solo nel novero delle possibilità; o dell’immaginabile altrimenti, per tornare alla frase iniziale.

Di fatto, proprio nella nostra contemporanea condizione di apparente e sempre più estesa libertà potenziale dell’individuo, il credersi liberi si risolve spesso solo nell’essere liberi di crederlo. Tanto più se intendiamo la libertà come una retorica (o un valore con la maiuscola), anziché come una pratica di cui fare buon uso. Mancano gli uomini e le donne interiormente liberi, non la libertà. E mancano i verbi che la declinino in concretezza, non i sostantivi magniloquenti, ormai acquisiti.

Per Rousseau l’uomo nasce libero, ma ovunque è in catene. Per Sartre gli uomini sono liberi, ma la loro maledizione è che non lo sanno. Per noi, che oggi diamo più valore agli aspetti relazionali del vivere, e ci accorgiamo meglio del peso del vincolo ecologico, forse è vero che non siamo davvero liberi come crediamo, nemmeno alla nascita, ma lo siamo più di quanto crediamo e forse vorremmo o sappiamo gestire, e sempre più dovremo abituarci a limiti alla nostra libertà, come quelli che abbiamo per lo più liberamente accettato durante la pandemia: alla mobilità, alle relazioni, persino al diritto a guadagnarci la vita, in nome della salute pubblica, anziché di un ideale astratto. In nome del diritto alla salute, nostro e altrui, abbiamo scoperto che siamo disposti a rinunciarci, a parti della nostra libertà. Forse è l’inizio di una nuova riflessione, popolare prima che intellettuale, nata dalla necessità prima che dal desiderio, su una nuova forma di libertà: la libertà per – sottinteso, la vita. Nostra, altrui e dell’ambiente. Una libertà fatta di vincoli reciproci, liberamente rispettati. Meno io, più noi. Inevitabile, in un mondo globalizzato, interconnesso e plurale.

 

Senza libertà, in “Confronti”, n.9, settembre 2020, rubrica “Il mondo se”, p. 35

Niente è più come prima: 6 mesi fa, il Covid

La minaccia era apparentemente minimale: invisibile ad occhio nudo, ignota nelle sue cause, difficilmente prevedibile nei suoi effetti, e per questo inizialmente presa sottogamba, pur se rapidissima nella sua diffusione. La reazione messa in piedi dalla comunità internazionale è stata disordinata e tardiva ma gigantesca nelle sue dimensioni: mai nulla prima aveva prodotto una mobilitazione tanto ampia, da parte di così tanti e con tale massiccia sostanza di mezzi a disposizione. Si sono potute così disinnescare le conseguenze maggiormente catastrofiche di quella impercepibile minaccia.
Eppure, nonostante la reazione, quel maledetto virus ha cambiato davvero molto, nelle nostre vite e nel nostro immaginario. Con conseguenze di lungo termine sulle nostre persone e sulle nostre società.
Abbiamo (ri-)scoperto di essere fragili e mortali. Non che non lo fossimo: ma cercavamo di nascondercelo, riuscendoci. La lunga marcia verso un avvenire di vita sempre più lunga, sempre più in salute, con sempre più opportunità, circondati da sempre maggiore abbondanza di mezzi, per sempre più persone, ha subìto una brusca frenata. Una società che si credeva amortale, adagiata nel proprio benessere, cullata da illusorie certezze, si è improvvisamente scontrata con la fragilità dei propri fondamentali. Come una casa di legno apparentemente solida ma in realtà minata dai tarli: i problemi strutturali già c’erano, ma non si vedevano. L’arrivo di un ultimo imprevisto e indesiderato inquilino ha fatto crollare muri che si credevano portanti, e il pavimento, cedendo di schianto, ha portato con sé chi era più in basso.
Più o meno, nella società, è andata così. Non a caso il lascito principale del virus è stato un aumento impressionante delle diseguaglianze, che le misure di emergenza hanno solo in parte tamponato: e nemmeno si vede nella sua interezza, perché il peggio deve ancora venire. Per chi è stato schiacciato verso il basso si vedranno soprattutto in questa difficile ripresa autunnale, e ancor più all’inizio dell’anno prossimo, quando saremo vicini al primo anniversario del nostro arrenderci al primato del virus, alla sua incontestabile forza che ha smascherato le nostre debolezze: l’inizio del lockdown. Per chi sta in alto, e per le conseguenze della crisi altrui è schizzato ancora più in alto, invece, si vedono già, o si vedrebbero se non fossero nascoste dagli effetti dell’emergenza che ci coinvolge, e che finisce per pretendere quasi tutta la nostra attenzione. Pensiamo ai grandi quasi-monopolisti, da Amazon alla grande distribuzione, e a tanti settori che si sono trovati all’intersezione dei nostri bisogni – dalle tecnologie della comunicazione alla stessa sanità – così come altri settori si sono trovati improvvisamente ai margini, dalla mobilità delle persone e dal turismo alla cultura.
La società si è divisa più incisivamente che mai attraverso tre crinali fondamentali, che potremmo chiamare le “3G”: tra garantiti e non garantiti, tra generi, e tra generazioni.
I garantiti (rentiers, lavoratori della pubblica amministrazione, pensionati), talvolta senza aver preso alcuna iniziativa, senza alcuna vera capacità di resilienza, hanno potuto occuparsi solo dei problemi della (propria) salute, spesso lavorando meno di prima, e in un certo senso guadagnando addirittura di più, visto che sono diminuite le occasioni di spesa; i non garantiti hanno perso molto o tutto: il lavoro, se dipendenti (per ora poco visibilmente, finché dureranno il divieto di licenziamento e la cassa integrazione), i beni e le attività se commercianti, artigiani, partite Iva, imprenditori che non hanno potuto ricominciare a lavorare, o l’hanno fatto in condizioni drammaticamente peggiorate, perdendo risorse, ordinativi, clientela, opportunità, crediti diventati inesigibili, possibilità di finanziamento.
Le disparità di genere si sono approfondite, anche per la disattenzione quasi totale alle conseguenze sulle famiglie delle decisioni prese (riguardo alla scuola, ai nidi e agli asili, ad esempio, ma anche alla improvvisa drastica riduzione di servizi offerti da parte delle amministrazioni pubbliche di differente livello, dagli istituti di cura agli assistenti sociali). Il grosso del peso ha finito per gravare ulteriormente sulle donne, facendo fare passi indietro enormi al percorso di emancipazione femminile – in un paese che in questo era già messo male – con perdite di lavoro, salario, opportunità di carriera, e tempi dedicati al lavoro di cura enormemente (ri-)dilatatisi.
Le diseguaglianze generazionali, già gravissime prima – in un paese con la natalità più bassa d’Europa, il maggior disequilibrio negativo tra nati e morti, l’età media più elevata, le proiezioni più drammatiche nel rapporto tra popolazione attiva e pensionati (che era di tre a uno prima del Covid, e potrebbe diventare di uno a uno nel giro di un decennio), e una leggendaria immobilità sociale – sono aumentate drammaticamente in pochi mesi. Ad esse si aggiungono i 150 ulteriori miliardi di euro di debito pubblico finora decisi, che graveranno sulle spalle delle prossime generazioni. Di fatto, i meglio garantiti, che sono soprattutto maschi e anziani, hanno fatto scelte (forse all’inizio inconsapevolmente: ora non ne siamo più tanto sicuri, dato che costituiscono il grosso delle classi dirigenti, che sempre si autotutelano, e anche il nerbo delle principali constituency elettorali), che pagheranno soprattutto i non garantiti, le donne e i giovani.
Ecco perché questo momento eccezionale, in qualche modo apocalittico, costituisce anche uno spartiacque, una sfida alle nostre capacità di scelta, e alle nostre inerzie. O diventa riflessione sulle crescenti ingiustizie nelle nostre società (apocalisse significa precisamente questo: svelamento, e al contempo rivelazione), e tentativo di porvi rimedio, o ci ritroveremo a vivere in una società insostenibile e irriconoscibile.
Lo sconfitto principale, ma anche il principale imputato, in Italia è sicuramente lo Stato: non il senso dello Stato, che si è invece sorprendentemente manifestato oltre ogni aspettativa nella disciplina con cui si sono accettate tutte le misure di coercizione, anche le più contraddittorie, balzane e costose per individui e imprese. Ma lo Stato inteso come gestione della cosa pubblica, comprese le sue articolazioni regionali e locali: tanto preda di un’ansia da visibilità, fatta tuttavia più di parole che di azioni, quanto incapace di veramente organizzare, programmare, gestire nel quotidiano le decisioni prese sulla pelle dei cittadini. Un fallimento che si è visto non tanto nella sanità, che in qualche modo ha retto l’emergenza (ma ancora non è in grado di gestire la normalità della prevenzione e delle “3 T”: test, tracciamento e trattamento), ma soprattutto nella scuola, abbandonata a se stessa, e tuttora priva, a sei mesi dalla chiusura e alla vigilia della riapertura, di linee guida, direttive, procedure e piani di emergenza. Eppure si tratta delle funzioni fondamentali dello Stato, che oggi – persino più ancora, agli occhi dei cittadini, del monopolio della forza legittima e dell’esercizio della giustizia (peraltro a livelli miserandi per un paese civile) – ne giustificano l’esistenza (e la legittimità dell’imposizione fiscale) più di qualunque altra, e sono alla base di quello che chiamiamo welfare state: sanità e scuola, appunto, ma anche assistenza sociale (tutela dei più deboli) e previdenza.
Siamo in una crisi drammatica, ma krísis deriva da un verbo che significa distinguere, separare, scegliere, discernere, giudicare. E il bivio di fronte a cui ci troviamo è questo: trovare le tre o quattro priorità intorno a cui ricostruire il patto sociale, la necessaria richiesta di “lacrime e sangue” che ci si prospetta, o avvitarsi in una “spirale del sottosviluppo” (cui ho fatto riferimento in un libro che la descrive – vedi nota) che rischia di portarci ancora più in basso, e ancora più lontano dal novero delle nazioni civili. Per far questo però occorre una visione, una leadership capace di perseguirla, un consenso intorno alle scelte fatte. Più un auspicio che un dato di realtà, per ora. Un obiettivo da perseguire, per elites e classi dirigenti che si assumano la responsabilità di essere davvero tali, e per un popolo che ritrovi la voglia di essere qualcosa di diverso da un insieme di individui. È la nostra responsabilità di oggi. Se vogliamo avere un domani.

Quel prima e dopo il Covid che ha diviso la società in tre, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 22 agosto 2020, p. 1-2-3

Nota: Il libro cui si fa riferimento è La spirale del sottosviluppo. Perché (così) l’Italia non ha futuro, Laterza, 2020

Se lo Stato abbandona la scuola

Dopo il danno subito lo scorso anno scolastico – terminato malamente da casa, con buchi enormi, di cui studenti e famiglie pagheranno le spese negli anni a venire – la scuola avrebbe dovuto essere la priorità numero uno della ripresa. E invece, a meno di un mese dalla riapertura, abbiamo la riconferma della disfatta dello stato. L’istruzione, che è uno dei suoi compiti primari, partirà male, solo per alcuni, con diseguaglianze ulteriormente aggravate.
Tante discussioni superficiali sui banchi monoposto – che peraltro arriveranno in numeri ridotti, solo in alcune scuole, e pure ad anno scolastico già iniziato, costringendo a ripensare la suddivisione degli spazi in corso d’opera – e zero riflessioni sull’essenziale. Si doveva puntare sul “tutti a scuola, a qualunque costo”, e ci ritroviamo con un “alcuni a scuola, altri no”, senza criterio: chi ha trovato gli spazi e le soluzioni bene, chi non ce l’ha fatta, peggio per lui, o per essere precisi, per gli utenti. Si doveva potenziare la didattica a distanza, migliorando e qualificando l’offerta, e facendo in modo che fosse fruibile da tutti, ma anche su quel versante si è fatto poco o nulla.
Ieri, su questo giornale, il direttore dell’Ufficio scolastico padovano dichiarava che per almeno il 40% dei ragazzi degli istituti superiori le lezioni a distanza saranno inevitabili: senza previsioni sul ritorno alla normalità, che si intuisce lontana – non giorni, non settimane, ma mesi, per alcuni forse l’intero anno scolastico. Sarebbe come se un dirigente d’azienda dichiarasse che quasi metà delle linee di produzione non ripartiranno. Senza che l’amministrazione subisca conseguenze, che ricadranno tutte e interamente sulle famiglie e gli studenti. Certo, non è colpa dei singoli dirigenti, o dei singoli presidi, se non hanno trovato spazi e soluzioni alternative: in assenza di linee guida precise, di input percorribili, di finanziamenti, di collaborazioni a livello locale. Ma è ammissibile che sia così, e basta? E che lo accettiamo? Proviamo a vederla da un altro punto di vista. Quanti corsi obbligatori sono stati organizzati per formare i docenti, in questa estate eccezionale di un anno eccezionale, che avrebbe dovuto prevedere decisioni e investimenti eccezionali? A livello nazionale, regionale e locale, tanto per chiarire che nessuno può dichiararsi innocente? La risposta, purtroppo, è zero, o lì vicino. Quanto tempo dei docenti è stato dedicato alla formazione? Solo quello che i docenti stessi, su base volontaria, hanno deciso di dedicarci, facendo da soli, in base alla propria sensibilità e capacità. Quanto denaro è stato investito sulle tecnologie necessarie, nelle scuole? Assai poco: molto al di sotto del minimo sindacale della decenza. Quanto è stato fatto per fare sì che le famiglie possano sfruttare questa opportunità (computer e tablet per chi non ce li ha, formazione per chi ne ha bisogno, connessione per chi non se la può permettere, soluzioni per i genitori che lavorano)? Anche qui, poco o nulla, sulla base delle iniziative di alcuni – magari del volontariato organizzato, o di istituzioni più sensibili – ma senza niente di strutturato, e soprattutto di dimensionalmente adeguato all’entità del problema.
In pochi mesi ci siamo indebitati di oltre 100 ulteriori miliardi di euro. Alle scuole, solo le briciole di tutto questo denaro, e meno ancora in termini di intelligenza, innovazione, progettualità, creatività. Il che dà il segno di quanto veramente ci teniamo. E del perché – non avendo alcuna contezza delle vere priorità del paese – meritiamo di pagare il prezzo del nostro fallimento istituzionale. Anche l’anno prossimo, dovranno pensarci le famiglie (le mogli e le madri soprattutto, sulle quali maggiormente è gravato il costo e la responsabilità dei figli a casa). Chi c’è c’è, chi non c’è si arrangi. Che non è solo una dichiarazione d’impotenza. È Il peggior messaggio educativo che potevamo trasmettere.

La disfatta dello stato, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 19 agosto 2020, editoriale, p.1

Il virus della xenofobia. Covid-19: il vizio di dare la colpa agli stranieri

È il virus stesso ad essere uno straniero: un alieno, anzi proprio la creatura malvagia che viene da fuori per mangiarci dall’interno, come nella saga dei film di Alien. Come tutto ciò che non conosciamo – straniero, estraneo, strano si equivalgono un po’ in tutte le lingue – ci fa paura. E come sempre la paura ci fa rispolverare tutto l’armamentario (anche linguistico) bellicista del nemico da combattere. Se poi si sommano due estraneità (il virus che viene da fuori, lo straniero che viene da altrove), ecco che si crea una specie di chimica delle emozioni che produce un inevitabile risultato: il capro espiatorio. L’equazione è semplice, efficace retoricamente e forse politicamente: peccato che sia falsa.
La stragrande maggioranza di chi è stato contagiato, come ovvio che sia, lo è stato da un autoctono, spesso un familiare, un collega o un amico: altro che nemico esterno. Anche gli stranieri che se lo sono preso, magari portandolo dentro una caserma dove – convivendo a stretto contatto, e non per propria volontà – se lo sono poi passato tra di loro, se lo sono preso fuori: in Italia, per così dire, presumibilmente da italiani, magari al lavoro (come normale che sia: nessuno il virus ce l’ha innato, dunque tutti lo prendiamo da qualche parte, fuori da noi).
Del resto, sono più gli stranieri che siamo andati a infettare a casa loro che quelli che hanno infettato noi. E quando il virus è venuto da fuori, è venuto spesso con stranieri al di sopra di ogni sospetto come imprenditori, turisti e sportivi, non certo ospiti dei centri d’accoglienza, o magari (citiamo dalla cronaca locale) da imprenditori italiani comportatisi incautamente all’estero prima di rientrare. Di cui non si chiede tuttavia l’espulsione, o la chiusura delle case, perché non è possibile, e non ha senso. Tutto ciò, semplicemente perché il virus è un apolide che non conosce frontiere, né differenze etniche o religiose, o di opinioni politiche. Viaggia come capita, distingue certo tra comportamenti cauti e incauti, ma per il resto è questione anche di fortuna, diciamocelo francamente: o di condizioni di vita (certo, una villetta con giardino è meglio delle camerate di una caserma o di un carcere).
Tutto ciò lo capisce anche un bambino. Ma non chi usa il virus per scopi ideologici o elettoralistici. In questo senso, più che accusare gli immigrati dei centri di accoglienza, che vivono nelle caserme in condizioni di promiscuità che non hanno certo scelto, di essere degli untori, incitando alla loro espulsione, ci si dovrebbe forse interrogare, e magari fare un qualche mea culpa, sul fatto di aver impedito per anni l’accoglienza diffusa, dove queste cose non accadono: segno che non è l’essere stranieri la caratteristica problematica, ma il vivere in determinate condizioni.
La situazione è anche il frutto dei mancati controlli. E qui dovrebbe farsi qualche domanda anche chi si è lamentato per anni per il costo eccessivo dell’ospitalità degli immigrati: i famosi 35 euro al giorno, ridotti drasticamente con Salvini ministro dell’interno a poco più di 20, erano in realtà uno dei costi più bassi d’Europa in assoluto. E il problema è proprio quello: con quei soldi si fa, malamente, l’accoglienza, non si fa certo l’integrazione insegnando lingua, cultura e formazione professionale, figuriamoci i controlli sanitari.
Poi, certo, i centri vanno monitorati, controllati, i contratti vanno revocati se mal gestiti. Ma bisogna anche creare le condizioni perché funzionino.
A fronte dello stesso problema si possono fare scelte diverse. Il Portogallo, a inizio crisi Covid, ha voluto una regolarizzazione generalizzata degli immigrati proprio per motivi sanitari, per controllarli meglio. Da noi, onestamente, a chi è mai fregato qualcosa della salute degli immigrati? Si sa che pesano meno sul servizio sanitario perché lo usano meno? Che sono sovrarappresentati nei pronto soccorso perché vanno in ospedale all’ultimo, proprio quando stanno male, e sottorappresentati in tutti gli altri settori? Che l’unico ambito in cui c’è una presenza maggiore è anche quello che ci serve per salvare la nostra tragica demografia (quasi un bimbo su cinque ha almeno un genitore immigrato)? E allora, ben venga il monitoraggio oggi: ma, magari, pensarci prima?
Dopodiché l’atteggiamento giusto non è fare gli incendiari, a colpi di polemiche. Ma dare una mano a risolvere i problemi. È questo che giustifica ruolo, onori ed oneri di chi governa. A livello nazionale, regionale e locale.

Untori e memoria corta
, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 7 agosto 2020, editoriale, p.1

Scuola, università, didattica a distanza: cosa c’è da salvare

Gli esiti degli esami di maturità sono stati vissuti da molti come una specie di regalo agli studenti. L’esame solo orale, la decisione di non bocciare sostanzialmente nessuno, l’aumentato numero di ‘centini’ (gli studenti che hanno ottenuto il massimo dei voti) rischierebbero così di costituire un handicap per il loro futuro universitario.

Il ragionamento in realtà andrebbe meglio circostanziato. È senza dubbio vero che un lockdown mal gestito, sostanzialmente affidato alle sole capacità e disponibilità dei docenti (e delle famiglie), ha lasciato indietro molti: quelli che stavano in scuole o avevano docenti che non si sono attrezzati e non erano capaci di fare didattica a distanza, i moltissimi che non avevano i mezzi materiali (computer personale, banda sufficiente) o culturali (famiglie che sostenevano e aiutavano i figli) per seguire i programmi. Questo è un dramma che lascerà cicatrici pesanti sul prosieguo degli studi di soggetti spesso già deboli, in termini di capitale sociale e culturale.

Ma le cose sono state diverse man mano che saliva l’età degli studenti. Gli impedimenti materiali di alcuni sono rimasti: la capacità di cogliere le opportunità didattiche è tuttavia proporzionale alla maturità degli studenti. Già alle superiori la capacità di seguire le lezioni ha potuto consentire un apprendimento abbastanza efficace, nonostante tutto. Certo, l’esame solo orale di per sé produce mediamente voti più alti: come so anche per esperienza personale, avendo fatto, a seconda del numero di iscritti agli appelli, esami orali o scritti a studenti della medesima materia. Se ho un numero fisso di domande, a cui a ciascuna corrisponde un punteggio, l’errore scritto produce un calo immediato del voto (pensiamo a un test di matematica): nell’orale invece si tende a favorire la capacità di ragionamento dello studente. Certo, dipende dalle materie, ma certamente in quelle umanistiche (talvolta anche in quelle legate alle scienze hard), la valutazione può essere più completa nell’orale: pur nella consapevolezza che c’è sempre, in ogni valutazione, un inevitabile elemento soggettivo (ma c’è anche nell’apparente oggettività dello scritto, o persino di un quiz a risposte chiuse).

Aggiungo tuttavia una riflessione: che, certo, si applica a studenti adulti. Lo scorso semestre, non potendo fare lezione in presenza, ho scelto la cosiddetta modalità asincrona: invece di utilizzare piattaforme come zoom, ho videoregistrato le mie lezioni e le ho caricate sul sito dell’università, per un totale di quasi una cinquantina di video. Bene: quest’anno ho avuto i risultati degli esami migliori di sempre. Sia nella capacità creativa di chi ha scelto (come è possibile nel mio esame) l’elaborazione di un testo, un video o altro, sia in chi ha fatto il tradizionale colloquio orale, seppure a distanza. Un risultato controdeduttivo, anche un po’ sorprendente e che non contribuisce all’amor proprio, per un docente che si reputa bravo e ottiene buone valutazioni dai propri studenti.

Me lo spiego con diversi fattori. Il maggiore tempo a disposizione degli studenti, per quelli che l’hanno saputo usare bene: chiusi in casa, non avevano molto altro da fare. La continuità di attenzione che consente il video rispetto alla lezione in presenza: se, da studente, mi distraggo o voglio fare una pausa, interrompo, mi faccio un caffè e poi ricomincio – in più posso rivedere ciò che mi ha interessato maggiormente o al contrario non ho ben compreso (ho video che sono stati visti di più, e persino discussi con altri, cosa che non si può fare a lezione). Infine, mi sembra, la vicinanza, via schermo, del volto del docente (e dello studente, all’esame) produce una paradossale intimità e familiarità: vero, attraverso uno schermo, ma i nostri volti sono a venti centimetri l’uno dall’altro. Se si riesce a creare contatto, e fiducia, si è insomma paradossalmente vicini, e capaci di trasmettere molto, anche attraverso il linguaggio non verbale. Alla fine di un corso, lo studente finisce per conoscere abbastanza a fondo il docente, e ciò che ha detto: persino più che in presenza.

Non vuole essere, il mio, un panegirico della didattica a distanza. Al contrario, non vedo l’ora di tornare in presenza. Perché si è persa comunque la dimensione della socialità, da cui pure si apprende moltissimo, è parte fondamentale dell’esperienza didattica e maieutica, ed è tanto più importante quanto più scende l’età dello studente. Ma forse è il caso di leggere anche l’esperienza che abbiamo forzosamente dovuto fare con occhi diversi. Abbiamo scoperto anche cose che non ci aspettavamo. E di cui dovremo imparare a tenere conto.

 

Rivalutare la didattica a distanza, in “Corriere della sera – Corriere veneto”, 28 luglio 2020, editoriale, p.1

La nostra estate autarchica. Il futuro del turismo in Italia

Il Covid – evento globale per eccellenza – ha avuto come contraccolpo di rendere di nuovo reale ciò che la globalizzazione aveva tentato di superare e smaterializzare: i confini. E non si tratta di parole d’ordine ideologiche, frutto di un sovranismo di ritorno; ma della ricerca – fisica, corporea – di un qualcosa che possiamo considerare spazio intimo, rassicurante: casa, e i suoi immediati dintorni. Quella che in inglese si chiama non a caso homeland, e che in italiano più che allo spazio tende a riferirsi alle relazioni primarie, domestiche: come nel concetto di patria, e ancora più di madrepatria, che richiama le relazioni fondative di ciascuno di noi.

Siamo stati obbligati a rimanere a casa a lungo, forzosamente: e a riscoprirla, nel bene e nel male. È significativo tuttavia che, adesso che ci possiamo muovere, tendiamo a farlo senza troppi strappi, rimanendo nella casa più ampia rappresentata dagli ambienti familiari, e in primo luogo tra chi parla la nostra lingua, e possiamo quindi riconoscere come affine, di cui ci sembra di poterci fidare.

Non è solo una questione economica: anche se le ragioni di portafoglio pesano, per una parte enorme di italiani (i non garantiti), le cui tasche si sono svuotate più o meno significativamente in questi mesi. Temiamo che non sia nemmeno, principalmente – anche se l’argomento esiste – una questione di solidarietà, di altruismo: voler aiutare chi è rimasto colpito dalla crisi, in un “prima gli italiani”, anche questo, non ideologico, ma di cuore, forse di pancia. È proprio una questione di senso di sicurezza, e di familiarità. L’idea che non vorremmo – se dovesse succedere qualcosa – essere troppo lontani da casa, dai nostri affetti, e anche dal nostro sistema sanitario nazionale, che abbiamo imparato a rivalutare. Qualcuno ha già vissuto questo strappo nel periodo del lockdown: gli altri vogliono evitarselo d’istinto.

E così tornano le vacanze vicino a casa, possibilmente a portata d’automobile, che per gli italiani è sempre stata associata alla sicurezza prima ancora che alla libertà: una piccola casa mobile, uno spazio familiare che fa parte dei ricordi e del vissuto di ciascuno.

Non è una sensazione che vivono solo gli italiani. Tutte le previsioni ci dicono che quella che negli anni scorsi sembrava una spinta alla mobilità inesorabile e perfino nevrotica, che ogni anno infrangeva i record dell’anno precedente su viaggi d’affari, turismo e voli aerei transnazionali, ha subìto una battuta d’arresto che non sarà di breve momento. Anche perché pure la corporate money, che per non poche aziende rappresentava una delle prime poste di bilancio, e che ha dato origine a un pezzo di mercato della mobilità importante e ricco in tutte le città globali, subirà una contrazione significativa, ora che molte imprese hanno capìto che una parte significativa dei contatti personali e delle riunioni di lavoro è sostituibile da un investimento sullo smart working e il lavoro a distanza. Il Covid ci ha costretto a un salto tecnologico da cui non torneremo indietro, anche in questo.

L’Italia, paese a forte vocazione turistica, naturalmente ci perde più di quanto ci possa guadagnare dalle vacanze italiane di un popolo molto vocato all’esterofilia anche in materia di viaggi. Guadagniamo turismo autoctono: ma ne perdiamo molto di più dall’estero. Il settore sarà quindi soggetto a una contrazione. Ma anche a una trasformazione, che potrà essere subìta o guidata. E qui entrerà in gioco la capacità di resilienza degli imprenditori del settore, e loro capacità di investire nei turismi specialistici, capaci di attrarre nuove figure e di allungare la stagione della ricettività.

La botta sarà pesante per il settore, ma anche utile a vederne le debolezze, che erano già presenti e strutturali, ma rese meno visibili dai successi del passato, dovuti spesso più alle trasformazioni globali (banalmente, l’aumento dei turisti e della mobilità mondiale) che a capacità attrattiva propria. Per troppi anni nel Nordest – in particolare in Veneto, prima regione turistica d’Italia – ci si è cullati sui successi (l’aumento annuale delle percentuali di turisti), come se fossero effetto della propria bravura. Il confronto con aree simili – che crescevano più di noi, lasciandoci comparativamente indietro – avrebbe dovuto suggerirci invece che le persone non avevano un irrefrenabile desiderio di venire in Italia perché erano meglio servite, ma solo perché abbiamo cose che altri non hanno: ciò che non è stato merito degli operatori del settore, ma di una storia, di una cultura e di un paesaggio che poco è stato fatto per valorizzare.

Il Covid non ha fatto che mostrare le debolezze strutturali del mondo di prima, aggravandole. Ma non potremo uscire dall’emergenza occupandoci di essa. È alla struttura antecedente e alle sue fragilità che bisogna guardare, sanandole, e ripartire da lì.

 

La nostra estate autarchica e il ritorno dei confini, in “Corriere della sera – Corriere Imprese Nordest”, 20 luglio 2020, editoriale, p.1

Ripartire, ma come? A teatro con Allievi

Corriere del Veneto, 24 luglio 2020, p. 14