Il senso delle feste

Ho passato la notte di Natale al pronto soccorso. Da accompagnatore. Per problemi di una persona a me vicina rivelatisi, per fortuna, non gravi. E ho capito meglio quello che avrei dovuto capire anche stando a casa, ma accade di rado: quale è il senso del Natale, il senso di ogni festa. Ringraziare. Per la nascita, nel caso del Natale: di Qualcuno in particolare, per chi ci crede; e della nostra, dopo tutto. Ma in realtà per tutte le nostre ri-nascite, nel caso di tutte le feste.

Ringraziare che siamo al mondo, tanto per cominciare. Ringraziare che c’è un mondo, di cui siamo parte. Un mondo, anche, che si prende cura di noi, persino non conoscendoci, pur non avendo contezza di chi siamo – a prescindere, per così dire. Un mondo, nel caso di specie, di giovani dottoresse e infermieri indaffarati, un’istituzione e un’organizzazione, che è lì per occuparsi di noi: che mentre gli altri fanno festa in famiglia – tra un vecchio che ha passato il Natale da solo, bevendo troppo vino scadente, e ora si lamenta contro tutti pisciandosi addosso, un ragazzo incidentato senza colpa, un tossico abituale a cui non si riesce nemmeno a trovare, nelle vene, un posto dove introdurre un ago per una volta benefico, un’anziana anonima portata in ambulanza per un male più immaginario che reale, o forse più interiore che fisico, e riportata dopo un paio d’ore a casa con la stessa ambulanza e gli stessi volontari, un senza fissa dimora che approfitta per un poco del caldo della sala d’aspetto – comunque c’è, con le sue difficoltà ma c’è, ti fa gli esami del caso, anche quando non può veramente curarti, si prende cura di te, anche se non ha un legame affettivo con te. Di solito ne parliamo quando c’è un problema, di questo mondo: una lista d’attesa troppo lunga, un caso di malasanità. Ma c’è anche il resto, il quotidiano, per il quale dovremmo ringraziare. Anche chi questo sistema l’ha pensato. La politica buona, mi verrebbe da dire, di cui non parliamo quasi mai, sovrastati come siamo dalla notiziabilità – che ci appassiona più del dovuto – di quella cattiva.

Ringraziare che insieme a questo mondo, a questa istituzione, ce ne sono altre. La tanto bistrattata istruzione, per esempio, fatta anche lei di qualche parassita e di molti protagonisti silenti che cercano di fare il proprio meglio. Non eroi: troppa retorica, troppa enfasi. Ma persone (possiamo dire impiegati dei fini alti della società, burocrati dei valori collettivi, sottoposti di quel che ci tiene insieme?), che ci sono e fanno andare avanti le cose, nonostante tutto, e spesso nonostante noi e nonostante i loro stessi difetti e quelli delle organizzazioni per cui lavorano.

Ringraziare per tutti gli altri testimoni silenziosi dell’essere società, del creare tessuto collettivo, senza secondi o terzi fini, semplicemente facendolo, ognuno nel proprio ruolo, seguendo anche, oltre ai propri egoistici interessi (una parola bella e sottovalutata: inter-esse, esistere fra, stare con, partecipare, fare società senza saperlo), anche un qualche tipo di senso del dovere, forse persino di appartenenza a qualcosa di più alto, largo e numeroso di noi stessi e della nostra ristretta cerchia di relazioni.

Ringraziare, infine, per le feste stesse. Che ci ricordano di fare pausa. E che il senso della vita non sta nel correre di qua e di là, ma precisamente nel fermarsi (o nel sano, ciclico alternarsi tra l’una e l’altra cosa), nell’assaporare gli interstizi della vita come momenti significativi, dirimenti, spesso illuminanti. Godendosela di più, persino nel dolore e nella difficoltà. Perché c’è vita, c’è gente, e c’è mondo. E, di questo, non saremo mai grati abbastanza.

 

Il senso delle feste, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 dicembre 2022, editoriale, p.1

Il sogno del Marocco: immagini di un mondo multipolare

Il sogno del Marocco si è fermato. Non è riuscito a salire sul podio. Ma la sua cavalcata in questo mondiale, di cui si sono già viste (qui: https://stefanoallievi.it/articoli/fifa-2022-in-qatar-il-marocco-e-i-nuovi-equilibri-mondiali/) le implicazioni per l’immagine del mondo arabo, dell’islam e dell’Africa, oltre che degli immigrati, rende visibile un mondo in cui gli equilibri stanno cambiando: multipolare e multiculturale più di quanto percepiamo. Ancora una volta, il calcio mette in luce dei cambiamenti più profondi, che descrivono una società soggetta a trasformazioni tumultuose. Mettiamone in fila alcune.

Intanto, si è giocato in Qatar. Un paese senza una tradizione calcistica, ma ricchissimo, che grazie a una impressionante capacità di lobbying, senza disdegnare un’opera di corruzione di cui cominciano a emergere inquietanti segnali persino ai vertici delle istituzioni europee, si è imposto sul palcoscenico mondiale a colpi di petrodollari, mostrando anche nuovi equilibri globali. Il fatto che gli scandali coinvolgano anche, per altri motivi, il Marocco, conferma in fondo il suo ruolo tra le nazioni che contano, oltre al fatto che, di fronte alla corruzione, tutto il mondo è paese.

La squadra del Marocco ci mostra tuttavia anche altre novità, più sociali che politiche: quasi la prefigurazione di un mondo nuovo. Ben 16 su 26 dei suoi membri sono nati all’estero, moltissimi posseggono due cittadinanze e addirittura hanno giocato, nella loro carriera, in entrambe le rappresentative nazionali, dunque sotto due bandiere diverse, ma per la biografia di questi ragazzi assolutamente complementari, entrambe parte della loro identità. Molti inoltre giocano in squadre europee (dal Chelsea al Paris Saint-Germain, dal Siviglia al Liegi, dall’Angers al Bayern, per finire con Fiorentina, Sampdoria e Bari) o di altri paesi (lo stesso Qatar, o il turco Besiktas). E, se il Marocco non fosse stato presente ai mondiali, avrebbero tifato per la nazionale del paese in cui vivono o in cui sono nati, a testimonianza di una fluidità di appartenenze che una loro visione troppo rigida tende a cancellare.

La squadra nazionale del Marocco è una testimonianza anche del ruolo sempre più importante, nel mondo di oggi, delle diaspore. A dispetto di un immaginario europeo ancora schiacciato sul lavoratore marocchino come immigrato di prima generazione, operaio quando non venditore ambulante, magari poco integrato e a stento capace di maneggiare la lingua del paese in cui vive, la diaspora marocchina, come altre, si distende ormai su tre generazioni, è comparativamente ricca e colta, e gioca un ruolo economico e culturale importante: grazie alle rimesse degli emigrati, all’import-export, ai feedback culturali, alla collaborazione scientifica e accademica. L’Université Internationale de Rabat, per esempio, un avveniristico campus ecosostenibile, con cui i sociologi dell’Università di Padova gestiscono Master in arabo e inglese e corsi Erasmus+, è figlia proprio di questa diaspora, e il suo nucleo fondativo è composto da docenti universitari marocchini che prima insegnavano nelle università occidentali, che hanno deciso di dare una mano allo sviluppo del loro paese d’origine, senza per questo rinnegare (anzi, valorizzandoli) i legami con i paesi che li hanno accolti.

Ma l’équipe del Marocco ci mostra anche l’importanza crescente della diversità culturale. Potrà dare fastidio a qualcuno, ma l’immagine del portiere (del Siviglia e del Marocco) Yassine Bounou, che decide di rispondere solo in arabo alla conferenza stampa, pur parlando correntemente inglese, francese e spagnolo (meglio di tanti corrispondenti dei media), ci mostra che il problema della difficoltà di comunicazione – e anche una certa pretesa di essere al centro di tutto – è più nostro che loro. Ma anche Sofiane Boufal che ha celebrato la vittoria col Portogallo danzando in campo con la madre, o Hakym Zayech che dona quel che guadagna dalla nazionale ad organizzazioni caritative, un po’ come i giocatori e i tifosi giapponesi che ripuliscono gli spogliatoi e lo stadio lasciandoli immacolati, ci ricordano che non siamo i monopolisti dei valori del mondo, e che forse varrebbe la pena, ogni tanto, guardarsi intorno, con qualche pregiudizio in meno, consapevoli che tutti abbiamo un contributo da dare allo sviluppo globale.

 

Il sogno del Marocco, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 18 dicembre 2022, editoriale, p.1

FIFA 2022 in Qatar: il Marocco e i nuovi equilibri mondiali

Comunque vada a finire la coppa del mondo del Qatar, la presenza in semifinale del Marocco, prima volta per una squadra africana, rappresenta un cambiamento storico, non rubricabile a un evento solamente sportivo.

È innanzitutto il simbolo del riscatto di un continente. Non a caso l’Africa tifa compatta per il Marocco, come anni fa aveva tifato Camerun, Senegal o Ghana quando erano arrivati ai quarti di finale. È un segno di equilibri mondiali che si modificano, e che peseranno sempre di più in futuro, economicamente, demograficamente (la Nigeria si avvia a superare gli USA come terzo paese più popoloso del mondo…) e anche politicamente.

Più in specifico, è un riscatto anche del mondo arabo, dove pure si gioca il mondiale, anche contro i paesi suoi ex-colonizzatori: nel caso dell’ex-colonizzato Marocco, battendo direttamente la Spagna, che nel territorio marocchino mantiene le enclaves neo-coloniali di Ceuta e Melilla, il Portogallo (proprio a Ceuta ebbero inizio le guerre marocchino-portoghesi, 600 anni fa), e andando ad affrontare la Francia, il colonizzatore più recente, il cui protettorato sul Marocco ha retto fino a settant’anni fa. Questa solidarietà interna al mondo arabo si è vista anche con la bandiera palestinese esibita dalla nazionale marocchina e da molti tifosi, a ricordare una ferita ancora aperta, che in occidente si tende a dimenticare, ma che nel mondo arabo è vivissima. Non stupisce che ovunque, nei paesi arabi, si tifi Marocco.

È un riscatto anche, in certo modo, dell’islam. I giocatori del Marocco hanno pregato sul terreno erboso dei campi di calcio mondiali, in direzione della Mecca, e anche questo fattore gioca un ruolo sullo scacchiere globale, nei paesi musulmani ma anche tra gli emigrati in paesi occidentali, dove l’islam è spesso malvisto, e non solo a causa del terrorismo. Re Mohamed VI appartiene a una dinastia che reclama una discendenza diretta dalla famiglia del Profeta, e questo è parte importante della sua legittimazione, che si sta attuando anche con una accorta politica di finanziamento di luoghi di culto e di formazione religiosa rivolta a imam e predicatori di tutta l’Africa (e della diaspora occidentale), in concorrenza e contrapposizione con l’islam radicale e salafita.

Riscatto, inoltre, del Marocco stesso, che da molto tempo persegue, con sempre maggiore successo, un ruolo di leadership – innanzitutto economica, attraverso oculati investimenti in sviluppo e infrastrutture – per tutta l’Africa, con particolare attenzione a quella subsahariana. Un ruolo da grande potenza regionale, al contempo in dialogo e collaborazione con l’Unione Europea. Quello che noi chiamiamo Marocco, in arabo maghrib, vuol dire occidente, e questa è dopo tutto la sua collocazione geografica, ma anche il ruolo di tramite che si è scelto, come paese in tumultuosa crescita economica, ma anche attore di una transizione politica che lo porta verso una sempre maggiore democratizzazione e libertà sostanziale.

Riscatto, infine, degli immigrati marocchini in Europa, della cui presenza straniera costituiscono una parte importante (in Italia sono oltre 400mila, terza componente dopo rumeni e albanesi). Non stupisce che sia così. Anche quando l’Italia vinceva contro altri paesi europei in cui erano stati accolti ma anche spesso maltrattati, gli italiani in essi emigrati avevano un motivo in più per gioire. Certo, qua e là c’è stata qualche inaccettabile intemperanza di troppo nel manifestare la propria soddisfazione (anche se, come in Italia, molto inferiore alle intemperanze contro i marocchini). Un surplus di rabbia, o un segnale di malessere, che in paesi come Francia o Belgio è anche una comprensibile protesta contro una integrazione non sempre riuscita, e una marginalizzazione di fatto che questi paesi hanno lasciato crescere nelle loro banlieues, pur in mezzo a evidenti successi di integrazione (a Bruxelles il nome più diffuso, alla nascita, è Muhammad). Ma l’argomento lanciato da qualche politico di destra, come Eric Zemmour, “in Marocco sono scesi nelle piazze pacificamente, in Francia ci sono stati tafferugli” (anche se risibili rispetto alla grande maggioranza di gioia civilmente espressa) rischia di essere scivoloso: più una constatazione di incapacità e impotenza della Francia rispetto al Marocco, dopo tutto. E peraltro le stesse persone, se non ci fosse stato il Marocco a giocare, avrebbero tifato per il paese in cui vivono. Come gli emigranti italiani all’estero quando non gioca l’Italia, dopo tutto.

 

Il riscatto del mondo arabo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 14 dicembre 2022, editoriale, p.1

Pluralità culturale e intolleranza: a proposito del niqab

Una donna del Bangladesh che vive da 13 anni a Mestre è stata prima insultata e poi aggredita perché portava il niqab, un tipo di velo islamico che lascia scoperti soltanto gli occhi. Non è il primo caso e non sarà purtroppo l’ultimo. Ma il fatto illumina alcuni nodi irrisolti, e vale la pena sottolinearne le implicazioni.

Da un lato abbiamo un rapido processo di pluralizzazione della società, che non è effetto della sola immigrazione, e che produce reazioni spesso oltre il limite della tollerabilità sociale. Le nostre città sono piene di persone che si sentono in diritto di decidere per gli altri che cosa è giusto e che cosa è sbagliato: e se una volta magari stigmatizzavano i capelli lunghi, una gonna corta o un bacio dato per strada, oggi se la pigliano con una coppia dello stesso sesso che si tiene per mano, con un capo di vestiario inusuale, o direttamente con il colore della pelle di una persona. Questi atteggiamenti denotano un’arroganza culturale diffusa, e un malfondato senso di superiorità. Come se fosse ancora possibile dire che esiste una sola cultura (quale?), un solo modo lecito di pensarla e di vivere, una sola religione o una sola ‘razza’ accettabile. E le modalità con cui si manifesta questo atteggiamento (il fatto che venga percepito come lecito aggredire qualcuno strappandogli di dosso un simbolo o capo di vestiario, che sia una sciarpa arcobaleno, una kippah o un velo) mostra quanto questa reazione incivile sia difficile da qualificare altrimenti che intollerante e financo francamente razzista (metteremmo mai le mani addosso ad una persona della ‘nostra’ cultura, etnia e religione per lo stesso motivo, a una suora magari?).

Ma un ragionamento va fatto anche sull’altra faccia della medaglia. Ho assistito personalmente e sostenuto (pagandone anche qualche minimo prezzo polemico) le battaglie delle donne musulmane in Italia per il diritto a portare l’hijab (un indumento a cui la definizione di velo fa torto, dato che non nasconde nient’altro che i capelli: come un foulard, a cui di fatto è assimilabile). Ho appoggiato il diritto al riconoscimento (ottenuto più di vent’anni fa) di poter avere la foto con l’hijab, per chi lo richiede, anche sulla carta d’identità (né più né meno come le suore, e per lo stesso motivo). Ho persino scritto un libro in difesa del burkini (il costume da bagno che è una specie di muta da sub incrociata con una casacca, che portano alcune musulmane, e non solo). Ma la questione del niqab, che copre anche il viso, del chador o a maggior ragione del burqa, pone un altro problema. Che non è di sicurezza: a tutt’oggi, in Europa, non si è visto né un attentato né una rapina attuati grazie ad esso. Ma squisitamente culturale, di estraneità reciproca percepita, e per questo più importante.

Certo, c’è anche un problema di legislazione. Da noi c’è il Testo unico di pubblica sicurezza che impedisce di andare in giro con il volto coperto, e vincola almeno a scoprirlo su richiesta di un pubblico ufficiale. Solo che – come leggi simili in tutta Europa – è regolarmente inapplicato, e non solo a carnevale: dalle sciarpe e passamontagna dei freddolosi, fino ai ricchi turisti della penisola araba che sarebbe imbarazzante (e probabilmente anticostituzionale) fermare alla frontiera. Non solo: in questi anni è stata la legge a ordinarci di coprire il volto, imponendoci la mascherina anti-Covid anche per strada. Segno che le sensibilità cambiano, per i motivi più diversi. E tuttavia i volti, da noi, sono culturalmente importanti, e loro copertura non sta sullo stesso piano di un foulard, perché in termini emozionali e comunicativi sono in un certo senso fondamento e garanzia del legame sociale, del rapporto fiduciario che implica.

Aggiungiamo che non è nemmeno un problema realmente religioso. Non c’è alcun riferimento coranico alla copertura dei volti. La sura XXXIII,59 invita solo le donne dei credenti a ricoprirsi dei loro mantelli – “questo sarà più atto a distinguerle dalle altre e a che non vengano offese”. Poi, ognuno fa l’esegesi che vuole, e non tocca a noi decidere per i musulmani. Ma forse non sarebbe inutile un franco dibattito interno alle comunità islamiche sul perché di questa enfasi recente sulla copertura del volto. Il fatto che nel Corano non ce ne sia traccia lascia pensare che le ragioni siano altre e meno nobili, più legate ai rapporti di genere, o a sovrastrutture ideologiche, dato che si sta diffondendo, a partire da ambienti salafiti, anche in paesi dove era prima inesistente (non è il rispetto di una tradizione, dunque, ma precisamente il suo contrario: un’innovazione). Il che meriterebbe una discussione onesta sulle sue ragioni e i suoi torti.

 

L’alterità culturale del velo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” 10 dicembre 2022, editoriale, p. 1

Quella strana idea di libertà – Su POS e contante

Le discussioni intorno all’innalzamento del limite per pagare in contanti, e ancor più rispetto al diritto di non accettare pagamenti con il POS, ci dicono molto, su chi siamo e chi vogliamo essere.
Sgombriamo il campo dall’aspetto politico-elettorale, che forse è il meno interessante. Certo, le clientele vanno risarcite: la possibilità di rifiutare il POS sotto i 30 euro soddisfaceva in particolare i taxisti (la maggior parte delle corse è al di sotto di quella cifra), e i negozi di prossimità, l’averlo portato a 60 soddisfa anche i ristoratori, i balneari (già graziati dal non dover sopportare una fastidiosa libera concorrenza) e qualche altro, mentre l’innalzamento del tetto al contante, in generale, chi lavora più facilmente in nero. Peraltro, queste misure vanno incontro a delle minoranze nelle categorie citate, e non tengono conto degli onesti che si sono adeguati alla normativa e che il POS lo usano volentieri, perché semplifica la vita e la contabilità di chi non ha alcuna intenzione di evadere, diminuisce il rischio di rapine, ecc. E sgombriamo il campo anche dall’aspetto tecnico: se le commissioni bancarie sono eccessive, ci sono mille modi per intervenire su questo e farle scendere.
No, l’aspetto più interessante è, diremmo, antropologico. Parla della libertà di alcuni, e non di altri: per dire, se il commerciante ha diritto di non accettare pagamenti con il POS, questo equivale a impedire l’esercizio della libertà del cliente di scegliere lui quale mezzo di pagamento usare. Ma la libertà del cliente pare meno rilevante… Tra l’altro, la battaglia diventa ideologica, e quindi fuorviante: tra chi teme, ovviamente a torto, che l’obbligo per le attività economiche di avere un POS impedisca alle persone di usare il contante, piangendo sui destini di poveri anziani incapaci di usare il bancomat (cosa risolvibile con un minimo di alfabetizzazione digitale, e che dà l’idea di quanto questo sia un paese quasi solo per vecchi), e chi giura di rifiutare di entrare in un esercizio dove non lo si accetta, e pretende l’obbligo per gli esercenti di apporre un cartello all’esterno, minacciando di girare solo con banconote da 100 euro anche solo per pagare un caffé. Per forza si finisce alle accuse estremiste: agli uni di essere servi delle banche con un chip nel cervello, agli altri di essere tutti evasori.
Poco importa il merito. Ad esempio che nel mondo sviluppato il contante sia in corso di sparizione, e che – senza andar lontano (a Singapore o in Corea) – in tutto il nord Europa non solo qualsiasi baracchino di street food e persino musicista di strada abbia il POS, ma che addirittura nei musei e in molti uffici pubblici sia possibile “solo” pagare con una carta, facendo risparmiare e semplificando anche la vita delle stesse strutture amministrative coinvolte, a vantaggio di tutti (a noi invece tocca ancora uscire dall’ufficio, pagare in contanti la marca da bollo dal tabaccaio, poi in posta il bollettino, infine tornare in ufficio se non ha chiuso nel frattempo). O che sia davvero dura spiegare ai turisti stranieri la ratio di queste restrizioni all’uso delle carte, alle prossime vacanze (e bisognerà vedere se torneranno, o se non preferiranno andare dove gli si rende la vita più facile).
Inutile anche elencare i vantaggi del denaro elettronico: non dover continuamente far rifornimento al bancomat (che anche quello ha le commissioni, peraltro, cosa che dimentica chi condanna le commissioni delle carte), non rischiare furti e smarrimenti, tenere comoda traccia delle spese. È diventata una battaglia di principio, astratta, quasi del tutto priva di fondamento empirico. Lo dimostra anche la frequente sovrapposizione tra profili anti bancomat e pro contante, e profili no vax e no tutto. Dietro c’è la stessa malsana, malintesa, infantile idea di libertà: non come virtù civica, da contemperare con il bene di tutti, ma come libertà di fare quello che aggrada, in fondo di menefreghismo. Un po’ come la libertà di costruire dove si vuole, anche in zona a rischio: tanto poi arriva la sanatoria, e se succede qualcosa, magari anche il finanziamento per ricostruire nello stesso posto. Ricchi o poveri, a quanto pare, ci sentiamo tutti come il rivoluzionario Guy Fawkes, ma siamo invece tutti Marchesi del Grillo.

 

Una strana idea di libertà, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 1 dicembre 2022, editoriale, p.1

Vent’anni di cambiamenti tecnologici e sociali

Il nostro mondo, il mondo in cui viviamo, è interamente figlio degli ultimi vent’anni. Per accorgersene basta mettere in fila un po’ di date. L’oggetto che usiamo per un maggior numero di ore ogni giorno, e il più indispensabile, lo smartphone, ha giusto un ventennio (il suo modello più iconico, l’iPhone, è del 2007), e dal 2014 il numero di telefoni mobili in circolazione supera quello della popolazione mondiale (nel frattempo arrivata a 8 miliardi). Il principale motore di ricerca del mondo, Google, è del 1997, ma è diventato tale nel 2000, e ha introdotto i suoi servizi più popolari, da Gmail a Google Maps, negli anni successivi. Il principale e più consultato, nonché gratuito, deposito di sapere esistente, Wikipedia, è del 2001. La comunicazione a distanza cambia con Skype nel 2003. Facebook inventa il primo grande social network nel 2004, Twitter è del 2006, Whatsapp del 2009, Instagram e Pinterest vengono lanciate nel 2010. Del 2010 è anche il primo tablet, con iPad. Il più grande negozio del mondo, l’everything store Amazon, è sì fondato nel 1994, ma ha trasformato davvero le nostre vite nell’ultimo ventennio, ed è del resto sbarcato in Italia solo nel 2010. Pensiamo alle piattaforme globali che trasformano produzione e consumo di video, musica e film: YouTube è del 2005, Netflix è del 1997 ma introduce lo streaming dal 2007, Spotify del 2006 ma è lanciata internazionalmente dal 2010. Tripadvisor, che ha cambiato il modo di viaggiare, è diventata operativa nel 2000. Airbnb, una app che da sola ha cambiato la configurazione delle nostre città più di ogni altra cosa, è del 2008. Uber, che ha un impatto simile nel trasporto, è del 2009. Tinder, che trasforma il modo di incontrarsi, è del 2012. Persino la consegna del cibo a domicilio, un’attività antica quanto l’uomo, si trasforma completamente con le prime compagnie di food delivery globali: Deliveroo nel 2013, Glovo nel 2015. Continuiamo, in altri ambiti. Del 2008 è l’invenzione della Blockchain, e la prima criptovaluta (che ne costituisce il principale effetto), il Bitcoin, è del 2009. Il computer quantico, che dovrebbe farci fare un salto interstellare nella rapidità e complessità di calcolo, è del 2019. Con le implicazioni che conseguono. Anche qui basta un elenco casuale di parole spesso nuove, per comprendere l’entità del cambiamento in cui siamo immersi: intelligenza artificiale, 3D, esoscheletri e protesi tecnologiche al corpo, realtà virtuale, riconoscimento facciale, internet delle cose, crowdfunding, cloud, touchscreen, e le rispettive applicazioni, dalla mobilità all’energia, dalla ricerca spaziale alla medicina. La durata media della vita viaggia verso l’indefinitezza (ha già superato abbondantemente i novant’anni per chi nasce quest’anno), allontanando progressivamente la morte – il tutto, naturalmente, solo per le società ricche, e al loro interno per le fasce più ricche di popolazione. Ma pensiamo a fenomeni trasformativi puramente sociali: il riconoscimento dei matrimoni omosessuali (il primo paese a farlo è stato l’Olanda nel 2001) e dell’eutanasia (sempre in Olanda nel 2002), i passi da gigante nella parità di genere a tutti i livelli, le trasformazioni stesse dell’idea di famiglia, la progressiva fluidità di identificazioni – come quelle di genere – una volta percepite come univoche, la separazione dell’idea di fecondazione da quella di corpo e natura.

È cambiato tutto, in poco tempo. E si sono costruite le premesse per cui tutto possa cambiare ancora di più, sempre più rapidamente. Abbiamo persino acquisito una meta-abitudine al cambiamento, che è il contrario di quanto avvenuto fino ad ora, nelle ‘epoche lente’, in cui l’evoluzione anche tecnologica era rallentata e controllabile. Con il risultato che oggi persino la trasmissione di conoscenze e il processo di socializzazione passano sempre meno di generazione in generazione, dai padri ai figli e dalle madri alle figlie, attraverso l’imitazione, e sempre più sono il prodotto del confronto tra pari, o provengono da altre agenzie di socializzazione, esterne ai legami primari e lontane da esse.

Certo, non tutto il mondo cambia allo stesso modo, alla stessa velocità, e con le stesse opportunità (anzi, le diseguaglianze si stanno approfondendo: tra stati, e interne agli stati – di fatto, anche tra individui e imprese). E tutto questo ci coinvolge come utenti e come spettatori, ma solo in minima parte il nostro piccolo pezzo di mondo è parte attiva di questo processo. Nondimeno le conseguenze dei processi globali sono comunque locali, anche in quelle che credevamo le nostre radicate specificità culturali: per dire, il ruolo della chiesa nell’orientare i valori e il comportamento delle persone (di fatto, ormai residuale, o comunque in condominio con molte altre agenzie valoriali), le trasformazioni della famiglia (ormai non più stabile, indefinita nei suoi confini, ridotta in dimensioni al punto che la metà dei nuclei familiari è composta da una persona sola), la presentificazione degli orizzonti (con la perdita del collante sociale e dell’impegno politico, ma anche della propensione al risparmio, che qui era un valore radicato), le traiettorie lavorative, i comportamenti sessuali, la maggiore mobilità, ecc.

Viviamo nell’epoca della scelta, della riflessività radicale, dell’opportunità, anche: tutto può sempre essere diverso da come è, in potenza, sempre meno cose provengono dal passato e dalla tradizione, ogni percorso è autonomamente progettabile, non lineare e reversibile. In questi processi ci siamo immersi, e ci trasformano, anche quando non ne siamo parte attiva. Naturalmente, la sfida vera che abbiamo di fronte è tra il subirli, l’indirizzarli e il produrli. Vale per tutti: famiglia, impresa, sistema dell’istruzione, politica, sociale. E per tutto.

 

Negli ultimi decenni è nato il mondo nuovo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, inserto speciale ‘Corriere del Veneto – 20 anni’, p. 5

L’errore di imporre il dialetto a scuola

Con un tempismo che sembra fatto apposta per mettere in difficoltà i promotori dell’autonomia differenziata, proprio mentre se ne sta finalmente discutendo operativamente, c’è chi ripropone l’insegnamento obbligatorio (non facoltativo, obbligatorio) del dialetto veneto nelle scuole fin dalla materna, la possibilità di sottoscrivere accordi con la Rai, e la sua introduzione nelle “emittenti radiotelevisive locali, anche a tal fine appositamente costituite” (e già ci immaginiamo a quali clientele e sperpero di denaro pubblico apre tutto ciò).

Ora, non solo si tratta di una battaglia di retroguardia, ma è proprio sbagliata nel merito, e controdeduttiva nelle sue conseguenze.

La lingua veneta (chiamiamola pure così, con tutta la dignità che l’espressione comporta: siamo consapevoli che un dialetto è una lingua che ha perso sul piano storico, e una lingua è un dialetto dotato di un esercito) è vivissima. Si tratta della lingua minoritaria più diffusa e più parlata in Italia. La usano tanto i ceti popolari che le classi colte, come in passato plebe e aristocrazia, la si sente parlare dagli operai e dai loro datori di lavoro, fa capolino tra i liberi professionisti e tra gli studenti, e naturalmente in politica. È una forma di riconoscimento, e una cultura, che si tramanda di generazione in generazione, e riesce a trasmettersi perfino agli immigrati e ai loro figli, oltre che a permanere tra i nostri emigranti. A testimonianza del fatto che è una lingua forte, fortissima. Il tutto, senza essere mai stata insegnata a scuola: il che probabilmente significa che non ne ha bisogno. Anche perché – e non è un dettaglio insignificante – permea la cultura orale, che è la vera sorgente della sua forza e ricchezza, ma non è quasi mai utilizzata nello scritto, né ha una vera e diffusa tradizione in proposito: la maggior parte dei veneti che la parlano non la sa scrivere, non sente il bisogno di farlo, e se la scrivesse lo farebbe in forme tanto diverse da risultare non omologabili (per ironia della sorte, fu proprio l’umanista veneziano Pietro Bembo a far propendere per la scelta del toscano di Petrarca e Boccaccio come lingua scritta nazionale). Per inciso: non esiste un dialetto veneto, ma molti, non solo con inflessioni, ma persino con un lessico diverso (e in più ci sono varianti che contengono prestiti dal lombardo o dal ladino). Renderlo obbligatorio, imponendo una forma scritta omogenea e uguale per tutti, significherebbe di fatto operare un falso storico: inventare una lingua che non c’è, irrigidire in uno scritto implausibile un orale che è invece dinamico e in continuo movimento, e persino impoverirlo. Poi, naturalmente, ci sono i piccoli ma costosissimi dettagli pratici dell’operazione. Bisognerebbe, una volta inventato il veneto standard, assumere gli insegnanti, formarli, creare i libri di testo: il tutto, a che pro? Questa ossessione per il dialetto (che sarebbe al contempo, come visto, una sua mortificazione) rischia di trasformarsi in una eterogenesi dei fini: per usare la definizione di fanatismo di George Santayana, “raddoppiare gli sforzi quando si è dimenticato lo scopo”.

C’è un altro dettaglio non insignificante. L’insegnamento del veneto sarebbe una forma di discriminazione (e una inutile fatica in più) per tutti i figli di persone che in regione non lo parlano e non lo vogliono parlare: residenti da altre regioni, immigrati da altri paesi, ma anche i moltissimi veneti che non sentono il bisogno di farne uso (si stima che i parlanti una qualche variante del veneto siano meno della metà della popolazione regionale).

Ragioniamo anche un po’ più largo: questo renderebbe più attrattivo venire in Veneto a vivere e a lavorare? Sarebbe utile, vantaggioso? Forse la cosa migliore sarebbe chiederlo ai veneti, invece di pretendere di parlare a nome loro. Scopriremmo probabilmente che i diretti interessati non sono affatto d’accordo: le famiglie, il mondo della scuola, le categorie professionali, i mass media (tranne quelli che volentieri si adatterebbero a far marchette con i soldi dei contribuenti). Più costi (possiamo dire anche schei invece che denaro, il succo è lo stesso), più burocrazia, più clientelismo: siamo sicuri che è quello che vogliamo? Tutelare l’identità culturale (dal paesaggio alle tradizioni, dall’arte alla cucina, dai centri storici alla lingua) è sacrosanto. Ma non si fa con obblighi antistorici: semmai con politiche culturali che sappiano coinvolgere e invogliare. Come sempre, funziona assai meglio la seduzione che l’imposizione: solo che, per metterla in atto, bisogna essere capaci di esercitarla. Il Veneto come regione, e il veneto come lingua e come cultura, sono forti di loro: non hanno bisogno di stampelle che assomigliano pericolosamente a gabbie. Semmai, avrebbero da guadagnare in apertura e in proiezione verso il mondo (anche portando la cultura veneta, oltre che le sue eccellenze produttive, all’estero), piuttosto che in contemplazione del proprio ombelico.

 

Dialetto a scuola, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 19 ottobre 2022, editoriale, p.1

Immigrazione, sbarchi, accoglienza: le contraddizioni dell’Italia

Sembra di stare in “Ricomincio da capo”, il vecchio film in cui uno sfortunato Bill Murray impersona un metereologo rimasto imprigionato in un loop temporale, che lo fa risvegliare ogni mattina alle sei nello stesso giorno, il giorno della marmotta. Noi invece siamo tornati all’era pre-Covid, nel periodo in cui Salvini era ministro dell’interno, e si faceva la guerra alle ONG e agli immigrati sbarcati in Italia (intorno ai 12mila nel 2019) mentre non ci si accorgeva che nello stesso anno gli emigranti erano saliti a 285mila, e forse il problema più serio era lì. Oggi come allora si usano i migranti raccolti dalle navi umanitarie (una frazione di quelli arrivati in Italia via mare, peraltro, a loro volta una parte del totale, che include anche chi arriva via terra per la rotta balcanica), per lanciare obliqui messaggi all’opinione pubblica interna, dimenticando totalmente i problemi veri, per non parlare dell’interesse dell’Italia.

Cominciamo dai problemi. La principale contraddizione sta nel fatto che i due principali partiti di governo, Lega e Fratelli d’Italia, non vogliono ammettere che esiste una necessità strutturale di forza lavoro immigrata. Si continua a dire che sì, è giusto salvare i profughi, “quelli veri”, ma i migranti economici non servono e non li vogliamo. Ebbene, è il contrario. I primi vanno salvati per motivi umanitari, e impegni liberamente assunti attraverso la firma di convenzioni internazionali: che, se non si è più d’accordo, vanno denunciate, assumendosene la responsabilità. Ma dei secondi abbiamo un enorme bisogno, e senza di loro rischiamo un vero e proprio de-sviluppo, in confronto al quale la crisi attuale sembrerà una passeggiata. Il motivo è semplice: nei prossimi trent’anni la forza lavoro (15-64 anni) scenderà, nello scenario più probabile, di dieci punti, dal 63,8% al 53,3%, passando dai due terzi alla metà della popolazione. Secondo molti le cose starebbero anche peggio: già solo tra il 2022 (oggi) e il 2030, e solo nel Centro-Nord, la quantità di forza lavoro calerà di oltre un milione e 200mila unità, per la semplice ragione che le persone che dovrebbero sostituire chi andrà in pensione non sono mai nate, non esistono, e quindi quelle posizioni resteranno inoccupate. Certo, potrebbero occuparle i nostri figli, se li facessimo: ricordo che negli ultimi due anni la differenza in negativo tra nati e morti ha superato le 400mila persone – una città come Bologna che sparisce ogni anno. Ma anche se prendessimo oggi i provvedimenti migliori del mondo per favorire la natalità (cosa che non si farà perché si preferisce investire, follemente, sull’anticipo dell’età pensionabile, e anche questo governo, come i precedenti, ha altre priorità), gli effetti sul mercato del lavoro si vedrebbero comunque tra vent’anni. Nel frattempo, i posti di lavoro, e la ricchezza che ne consegue, li bruciamo?

Gli imprenditori, di tutti i settori, queste cose le sanno già, visto che non trovano manodopera: non solo nel turismo, come denuncia il ministro leghista Garavaglia, e non solo nell’agricoltura, come ci si accorge a ogni inizio di raccolta stagionale, ma pure nella manifattura. Le sanno anche i politici che rappresentano i territori più produttivi d’Italia, a partire da Lombardia e Veneto, governati dal centro-destra. Il problema è che sono i loro riferimenti nazionali, i loro leader, a continuare a voler insistere sulla criminalizzazione dell’immigrato che arriva irregolarmente in quanto tale, per motivi di bottega elettorale, di messaggi che si vogliono mandare all’opinione pubblica (che tuttavia è probabilmente più avvertita di loro, visto che in tutti i sondaggi la paura dell’immigrazione è scesa notevolmente di livello, rispetto a ben più realistiche paure materiali). Finché non ci sarà una presa di posizione finalmente politica, anche da parte dei territori, in cui si denuncino le politiche nazionali su questi temi, non se ne uscirà. Continuando a fare (e qui veniamo al secondo punto) il male del paese, giocandosi la collaborazione internazionale, più necessaria che mai, in cambio di qualche strizzatina d’occhio in favore di telecamera all’elettorato interno, tanto in Italia come in Francia.

Il solo modo serio di affrontare il tema degli sbarchi di irregolari è la riapertura di canali regolari di ingresso, in collaborazione con l’Unione Europea e tramite accordi (che, se tali, devono essere vantaggiosi per le due parti) con i paesi di provenienza; la gestione europea dei richiedenti asilo, con una revisione (che non può che essere concordata, non imposizione unilaterale) degli accordi di Dublino e sul ricollocamento dei profughi; e l’integrazione di chi è già qui, smettendola di additare l’immigrato come un nemico, dato che queste semine d’odio hanno effetti gravi sul piano sociale, creando conflitti anziché risolverli. Per evitare di occuparsi di questi, che sono problemi seri, e presuppongono riflessione, lavoro e competenze, si preferisce invece continuare a piantare bandierine identitarie, in cui la sceneggiata sulle ONG è parte dello spettacolo. Un giochino che alimenta il clima da tifo calcistico, ma non risolve i problemi: li aggrava. E, come si è visto, indebolisce la collaborazione intraeuropea anziché rafforzarla.

 

Migranti, gli errori italiani, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 13 novembre 2022, editoriale, p.1

Sparano pallini contro l’insegnante, e postano il video. Al di là dell’indignazione

Non è il Far West, e nemmeno gli somiglia. Ma è un episodio utile per riflettere, e lo usiamo a questo scopo. Il caso è quello dei tre ragazzini di prima superiore in un istituto tecnico di Rovigo che, per divertimento, hanno sparato con una pistola ad aria compressa a un’insegnante, ferendola lievemente, e naturalmente immortalando l’impresa in un video. Niente di grave come conseguenze pratiche: nemmeno il bisogno di ricorrere a cure mediche. Ma un rischio potenziale maggiore, e soprattutto significati culturali e conseguenze simboliche che è utile valutare.

Bene ha fatto la scuola – al di là della scontata (ma certo non percepita come particolarmente punitiva) sospensione dei ragazzi coinvolti – a cogliere l’occasione per parlare di educazione civica con tutti gli studenti. Doveroso affrontare con un approfondimento specifico i diretti interessati e le loro famiglie: magari, insieme all’insegnante – è sempre bene guardarsi negli occhi, in certe situazioni. Ma quello che colpisce l’osservatore adulto (che tuttavia tende a generalizzare un po’ troppo) è in qualche modo l’idea di profanazione della sacralità della scuola: ormai persa, e sulla quale dovremmo lungamente interrogarci, per approfondire ragioni culturali, politiche, economiche e corporative di questa perdita di autorevolezza – che, in mancanza di un profondo rinnovamento dei contenuti e della didattica, è irrimediabile. E lo si vede anche nel modo rassegnato con cui i docenti affrontano talvolta le classi e il loro stesso ruolo; nella difficoltà di gestire l’aula, le sue regole, i suoi conflitti interni.

A detta di professori e preside colpisce l’inconsapevolezza – frequente, in questi casi – della gravità di quanto fatto, e l’omertà tra ragazzi: tutti ridono, nessuno “fa la spia”, ovvero risponde alla domanda “chi è stato”. Ma anche questo è un annoso dilemma morale, che passando per i ragazzi della via Pal arriva fino a noi – un difetto degli uomini, non dei tempi. Forse ci sarebbe utile, dopo tutto, ricordare che la maggioranza dei ragazzi “non” fa queste cose, se ne dissocia, usa questi episodi, esattamente come noi, per ragionare sul significato della norma e del suo discostarsene. Come sempre, inevitabilmente, fa più notizia l’albero che cade della foresta che cresce. Ma tali comportamenti non rappresentano la fisiologia, ma, tuttora, la patologia.

Certo, l’arma portata a scuola inquieta. Non è necessariamente indicatore di propensione alla violenza, ma di leggerezza e infantilismo, e di mancata introiezione di alcune regole di base del processo di socializzazione che famiglia e scuola sarebbero chiamate a insegnare, sì. Ed è bene utilizzare l’episodio per ribadirle. Ma se l’obiettivo fosse stato far male, sarebbe bastata una sedia.

Sulla questione del video e della sua diffusione sui social, siamo nel pieno delle problematiche della contemporaneità: la ricerca dello scherzo, del meccanismo acchiappalike, del quarto d’ora (scarso) di celebrità a buon mercato, dell’ossessione di apparire in quell’altra realtà, quella virtuale, in cui riusciamo a sentirci in qualche modo protetti, anche dalle conseguenze dei nostri gesti (che invece sono amplificate). Ma la decolpevolizzazione che parla di bravata o di scherzo purtroppo la imparano nei loro luoghi di socializzazione abituali, dagli adulti: la famiglia, pronta troppo spesso a difendere i suoi membri a prescindere, ma anche la cultura pubblica (intesa in senso lato: dal tifo calcistico alle aule parlamentari), che spesso derubrica a bravata un insulto razzista o un pestaggio omofobo. E a proposito, colpisce anche la stanca, immediata ma scontata reazione trasversale, quasi un riflesso pavloviano, della politica, non importa il colore: che reagisce tutta col medesimo linguaggio, la stessa aggettivazione drammatizzante, l’ennesimo richiamo a una presunta “emergenza nazionale” (ormai lo è tutto, dunque non lo è più niente), la solidarietà priva di contenuti alla classe insegnante. Mostrando una distanza dal reale che ormai non fa nemmeno più notizia.

 

I pallini non sono il Far West, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 ottobre 2022, editoriale, p.1

Il cosiddetto gender. Di cosa ha paura chi ne ha paura

Le teorie gender non esistono. Non, almeno, nella forma di spauracchio che coloro che le avversano temono. Esiste invece la ricerca di un’identità di genere oggi sempre più fluida: che per i giovani è costitutiva, primaria, ma che vedono in maniera molto diversa rispetto alle generazioni che li hanno preceduti.

È per questo che nelle scuole e nelle università è così importante che se ne parli (lo si fa già, del resto: la differenza è se ad interrogarsi sono anche le istituzioni, come necessario). E che si consentano percorsi di sperimentazione diversi, come gli alias, il cambiare nome e apparenza: perché è davvero un altro mondo quello che ragazzi e ragazze stanno attraversando, anche se noi, generazioni precedenti, non lo capiamo. Per molti di loro è la nuova normalità. Sono cambiati i costumi sessuali, ma anche i sentimenti e il modo di esprimerli, e le forme di espressività. Il semplice fatto che la distanza dal primo rapporto sessuale al momento del matrimonio o semplicemente di una convivenza, di un legame più stabile, sia aumentata così tanto, e si misuri ormai in lustri, nemmeno in anni, ha fatto sì che in mezzo si apra un campo e un periodo di sperimentazione, anche per tentativi ed errori, con un aumento dei partner e del tipo di rapporti: il cambiamento anche culturale che c’è già stato consente ai giovani di sperimentare e sperimentarsi come nessuna generazione precedente ha potuto fare.

Sì, certo, è anche un fenomeno di moda, ed è normale. Come per tutte le cose significative che ci riguardano: ma dietro ci sono domande autentiche, vita vissuta, sofferenze anche (basterebbe ascoltare coloro che si sono trovati in situazione di incertezza identitaria, magari abitando in un piccolo paese, non capiti dalla famiglia, dal contesto che avevano intorno, e solo grazie a internet hanno scoperto che la loro ricerca aveva un nome, che c’erano migliaia di giovani come loro, e questo li ha salvati). Se ne discute, si parla, si sperimenta, si assumono comportamenti diversi, e se ne capisce il costo, la difficoltà, l’impegno. La società complessivamente ci guadagna. Bisogna cominciare a pensare che a essere capaci di vivere l’esperienza dell’altro non ci si perde niente: ci si arricchisce solo, e ce n’è un enorme bisogno. I giovani in questo vogliono davvero essere diversi dalle generazioni che li hanno preceduti, e potranno vivere in un mondo diverso perché lo stanno già costruendo.

Non è lo sfizio di un progressismo ottuso, che viene accusato di non vedere i veri problemi della società, mentre questi sarebbero inutili e irrilevanti. Così come per l’accettazione della pluralità culturale, il multiculturalismo cui viene spesso accoppiato, l’attenzione al genere mostra che per le giovani generazioni, tanto la diversità etnica e razziale, quanto la differenza di genere, è sempre più irrilevante. È proprio un salto generazionale. Come i bambini che fin dal nido hanno come compagni bambini di altra religione, colore della pelle, etnia, e non lo vivono come problema, non si fanno problemi ad accettare queste diversità, almeno fino a quando non si mettono a ripetere pappagallescamente i pregiudizi appresi in famiglia, dai loro genitori, così è per l’identità di genere, e i comportamenti detti devianti, o non conformi. E questo processo, ormai innescato, è irreversibile: tanto vale tenerne conto.

Forse sta accadendo qualcosa di simile all’attenzione per l’ambiente e per la natura: la cecità ottusa non è la loro, è la nostra, che non ci siamo accorti di quanto eravamo parte di un tutto. Ecco, loro si accorgono di essere anche plurali, liquidi, più di quanto noi pretendiamo di essere (senza esserlo davvero), singolari e solidi, quando non tetragoni. In particolare nella fase della vita, sempre più lunga, in cui sono a scuola e all’università: in cui discutono, si fanno domande, si posizionano rispetto alla società, cambiano e la cambiano. Per questo è necessario non solo tenere conto della loro ricerca e della loro espressività, ma anche ascoltarli. Abbiamo qualcosa da imparare pure noi.

Non stupisce che a favore di una discussione aperta sul tema siano in primo luogo gli insegnanti e gli psicologi. I primi perché sono quelli incaricati dalla società di far funzionare il processo di socializzazione, che nelle famiglie funziona sempre meno: trasmettendo valori che si scoprono sempre meno condivisi. E i secondi perché una marea di questi ragazzi li hanno in cura, proprio perché non li ascoltiamo, e non ci rendiamo conto dei cambiamenti che hanno attivato. Così come non stupisce che un pezzo della politica e della società continui ad essere contro a qualunque discussione: proprio perché è lontana da questi mondi, proprio perché non li capisce.

 

I giovani, gli adulti e il gender, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 22 ottobre 2022, editoriale, p.1